Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, ottobre 26, 2014

Berlioz: un sabba formato Carné

Hector Berlioz (1803-1869)
La Symphonie fantastique fu il primo dei grandi successi berlioziani. Contiene, in effetti, almeno in nuce, la totalità dei motivi che le opere della maturità svilupperanno.
Già il suo lancio pubblicitario - perché tale esso fu, a tutti gli effetti - venne condotto con la più vigile attenzione. Il 21 maggio 1830, dieci giorni prima della presentazione dell’opera, ne apparve il programma sul "Figaro". L'esecuzione fu poi rinviata, per ragioni organizzative, e poté aver luogo solo il 5 dicembre dello stesso anno: per la cronaca, dato al quale di solito non si presta la benché minima attenzione, non erano trascorsi sette anni dalla prima esecuzione della Nona Sinfonia di Beethoven. Ancora Habeneck dirigeva l'orchestra: secondo la testimonianza dell’autore stesso, l'esecuzione non fu impeccabile, stante il numero limitatissimo di prove - due soltanto - che si erano potute ottenere. Tuttavia, l'insieme permetteva di comprendere il carattere del lavoro. Tre brani, “Un bal”, “Marche au supplice” e “Songe d’une nuit du Sabbat”, ottennero grande successo; la "Scene aux champs”, al contrario, di nuovo rifacendosi a quanto riferito dal compositore medesimo, passò inosservata. Essa peraltro veniva presentata in una versione non corrispondente a quella definitiva: e fu forse quell’insuccesso che indusse Berlioz ad accettare i consigli di Hiller, e a riscriverla completamente. Lo splendido pubblico, corrispondente al tout Paris, comprendeva anche Liszt, che poi doveva, con la sua trascrizione integrale, contribuire largamente alla diffusione dell’opera. (Come detto, fu della versione lisztiana che Schumann si servì per stendere la
sua memorabile analisi). I giudizi critici risultarono assai divergenti; al riguardo, va almeno ricordato l'atteggiamento aprioristico del vecchio Cherubini che, richiesto se non andasse a sentire la nuova opera di Berlioz, rispose: “Non ho bisogno d’andare a imparare quel che non si deve fare, io!". L'avversione fra i due musicisti mai conobbe cedimenti di sorta.
La Fantastique deve indubbiamente il suo successo e i sinceri entusiasmi che suscitò nei giovani all’idea compositiva che la sottende: vale a dire, al programma letterario e alla vistosità della sua attuazione musicale. Bisogna riconoscere che vi è qualcosa di vero nella citata affermazione di Debussy, secondo cui la musica di Berlioz era nata per piacere essenzialmente ai non musicisti. Il programma, dunque“, Nulla poteva accontentare il gusto del romanticismo francese formato 1830 - in ritardo di almeno una generazione su quello tedesco, e di due sullo Sturm und Drang - più della storia immaginata da Berlioz. Un giovane artista in preda allo spleen allora tanto di moda (quello che Chateaubriand definì il “vuoto delle passioni" e lo stesso Berlioz “il male dell’isolamento”), si invaghisce, com’e ovvio perdutamente, di una bellezza piuttosto astratta ed eterea; l’idea fissa lo perseguita durante un ballo, una sosta in campagna e persino quando, avendo ingurgitato una dose d'oppio, naturalmente inferiore alla soglia letale, piomba nel cauchemar più tenebroso, vedendosi condotto al patibolo per aver ucciso l’amata, e poi trascinato in una ridda infernale, in cui quel ricordo si sfigura in un motivo triviale, e si mescola alla parodia satanico-burlesca del Dies irae gregoriano. I paradis artificiels erano di là da venire, ma il club des haschichins aveva i suoi bravi accoliti, e in ogni caso la vituperata canapa era molto alla moda fra i giovani della buona società parigina.
Abbiamo allora un tableau parisien con quasi tre decenni di anticipo: e chi ne cercasse oggi l'immagine visiva, potrebbe rifarsi a vecchie stampe o, più proficuamente, alle immagini cinematografiche de Les enfants du paradis. A suggerire l'accostamento a Marcel Carné è quel qualcosa, in Berlioz, che sa di torbidamente giornalistico, che respira 1’aria viziosa, oltre che il profumo delle metropoli: qualcosa che ai colleghi tedeschi, nelle loro piccole citta medievali, o barocche, sfuggì radicalmente. Se Claudel ha indicato, nelle Fleurs baudelairiane, il gergo cronistico mescolato allo stile elevato di Racine, non sembra eccessivo ritrovare nella musica berlioziana (di questa Fantastique, certamente, ma anche di tanti altri lavori), la facile genialità della celluloide.
In realtà, il musicista stesso ce ne da la chiave, quando osserva che aspre critiche vennero mosse a pretese violazioni che non esistevano. I tentativi di invenzione integrale hanno da subito di fronte a sé procedimenti appresi dalla lettura di testi classici. E non si può ragionevolmente pretendere che lo stile maturo di Berlioz, se mai vi fu, nasca in questa prima sinfonia tutt’intero, adulto quanto Atena nascente.
Con una parsimonia che gli sarà abituale, vengono ripescati precedenti saggi: il largo iniziale è una romanza che il giovanissimo musicista aveva scritto dodici anni prima per il suo primo amore; l’idea fissa, terna principale dell'"allegro agitato e appassionato assai”, proviene da una cantata sconfitta a un concorso per il Prix de Rome, nel 1828: l’Herminie, che doveva illustrare una emblematica situazione tassesca; la "Marche au supplice” è la “Marche des gardes” degli incompiuti Francs-juges.
Ma, riscontrati questi prestiti, si deve ammettere che poco o nulla rimaneva della sentimentalità, e della sincerità diretta, con cui quei lavori, in special mode la romanza, erano stati pensati. L’enfasi è un atteggiamento riflesso, quasi compiaciuto della capacità di autorappresentarsi, Assai più che nelle opere della maturità, qui Berlioz, nella gratificante consapevolezza dei propri atti, si osserva agire. E non si deve essere tratti in inganno dalla veemenza, dal pathos del dettato, tendente all’eroico: esso è agli antipodi di una musica ingenua. La stessa condotta è di continuo dissolta nel gesto estetizzante; il materiale tematico è certo predisposto con cura: è facile notare la parentela intervallare fra i temi. Ma ciò non guida l’inventiva musicale verso un conflitto sonoro interno, come nello sviluppo classico; al contrario, gli dà, con l’insistenza, qualcosa di visionario. L'allucinazione degli ultimi due tempi, o quadri, è presentita fin dal primo (“Réveries, Passions”) con esattezza e sensibilità degne di un sismografo. Il primo e il terzo movimento sono perciò i più difficili, esigono una intuizione del tono generale che, fra l’altro, è difficile avere ad un primo ascolto. Per contro, si impongono da subito “Un
bal”, provvisto di un tema di valzer quasi popolare e di una rapida orchestrazione, e gli ultimi due tempi, ammirevole prova di un sinfonismo brillante del tutto inedito. Nella scena bucolica, paragonata da Schumann al secondo tempo della Pastorale beethoveniana, sono ravvisabili presagi molto evidenti di musiche che avrebbero visto la luce una settantina di anni dopo: dall’annuncio, all’inizio, di una situazione mahleriana (la prima
“Nachnmusik” della Settima Sinfonia al germe debussiano della chiusa (il corno inglese di Nuages).
Si è parlato di “personaggi ritmici”, per quest'opera: ed in effetti essi sono numerosi, ed evidentissimi. Anche più interessanti risultano le consonanze, in questa musica così inficiata di letteratura: con raffigurazioni recenti, della poesia e del romanzo, divenute quasi istantaneamente tipiche, o addirittura paradigmatiche. Le dissolvenze, cui Berlioz sottopone i suoi temi, spegnendoli nel silenzio anche dopo averli sviluppati coerentemente fino alla fine valgono quali precise didascalie, o fungono da illustrazioni sonore a situazioni che erano nella mente di tutti: dalle rèveries del promeneur ginevrino ai deliranti errori del René descritto da Chateaubriand o del Childe Harold byroniano.

Guido Zaccagnini (da "Hector en Italie", Pendragron, 2002)

giovedì, ottobre 09, 2014

Paolo Isotta: "il PCI ha dato il culo per niente”

Paolo Isotta (Napoli, 1950)
Il critico musicale scrive una lettera (d’amore) a Feltri e si toglie i sassolini: “Ma l'errore del PCI nella gestione dell'egemonia culturale sua è stato di aver dato il culo per niente, ovvero fatto da taxi a soggetti che l'impiegavano per i loro fini” - “Pereira servile verso i salotti”...
 
Caro Vittorio, ti scrivo oggi domenica.
Sul Giornale di oggi hai dedicato a me e al mio libro "La virtù dell'elefante" un tale scritto che desidero rendere pubbliche le ragioni della mia gioia. In quarant'anni è la cosa più bella che io abbia ricevuta. Tu sei uno degli amici del cuore di una vita: e fin qui lo sapevamo tu, io e anche gli altri che condividiamo nelle rispettive cerchie. Ma se tu, da amico del cuore, volevi farmi un regalo scrivendo del mio libro, da quel Maestro che sei ti sarebbe bastato fare un ritratto di Paolino come ti veniva nella penna e avresti scritto un gran bell'articolo. 
Qui subentrano allora il tuo amore per me e la tua grandezza che ti fa uno dei migliori scrittori italiani viventi (alla nostra età e vivendo ambedue nec spe nec metu queste cose si dicono senza paura di esser tacciati di piaggeria: infatti stanno nel ritratto che nel libro ti ho dedicato). Tu le seicento pagine le hai lette tutte, e non lette, sviscerate: onde sei pervenuto a scrivere cose nuove e intelligenti frutto di uno sforzo straordinario per comprendere, internarti e darne conto.
Se io sono un genio, a essere geni siamo almeno in due. E ti vorrai rendere interprete verso Alessandro Gnocchi che, da capo-redattore "Cultura del Giornale", ha non meno amorosamente vegliato sul destino del mio libro: e con Alessandro Sallusti che, da direttore, ha sovrainteso al tutto.
Adesso non vorrei sembrare ridicolo se al tuo scritto oso appulcrare verbo: avresti il diritto di dirmi: «Stai a ccuorpo sazzio e ancora vai truvann qualcosa?», ossia: «Ti sei ben ingrassato e ancora non ti basta?». 
Innanzitutto mi ribello quando tu dichiari di essermi inferiore. Va bene se si prende per un'argomentazione retorica per absurdum: ma io invoco il tuo ritrattino da me steso per dimostrare che non è così. Tu sei protetto da Mercurio, io da Giove (nome col quale gli Antichi chiamavano San Gennaro): nel nostro rispettivo ambito ci equivaliamo. Poi mi ribello per le cose che dici sulla mia produzione di critico musicale di quarant'anni fa. 
Io lo spiego chiaramente: ero un ragazzino presuntuoso e bluffatore ed è incredibile che nessuno sia stato capace, allora, di dire, come al poker, «Vedo»: sarei stato espulso dal tavolino da giuoco. Il fatto è che io potevo parer bravo per chi riusciva a discernere, nella fuffa che producevo, potenzialità che poi, forse e solo forse, si sarebbero in futuro ostese: per dono divino ostese si sono, ma non da moltissimo tempo. 
Così la persecuzione che subii nel 1979 quando Franco Di Bella mi assunse al Corriere della Sera è stata un'altra astuzia di San Gennaro per giovarmi. Se allora io avessi effettivamente incominciato a fare il critico musicale del Corriere, mi sarei bruciato; sebbene a contrastarmi vi fossero nullità. Tu hai voluto ricordare un Duilio Courir, uno sventurato oggi scomparso ad apparente difesa del quale si ordirono le assemblee e le raccolte di firme «della Cultura italiana» contro di me. Costui non è mai stato un mio nemico: non ne aveva la statura: era lì solo in quanto garante d'interessi precisi d'un preciso gruppetto di potere al quale obbediva.
E allora mi permetterai di dire come io narro la persecuzione del 1979. Tu la attribuisci al Comitato di redazione e al Partito comunista. Il comitato di redazione era un mero strumento; il Partito comunista in quanto tale non ce l'aveva con me, ce l'aveva un gruppo che di esso si serviva.
Infatti coi comunisti veri, i nostalgici di Stalin, io in vita mia non ho mai avuto difficoltà o inimicizie. Ero amico di Paolo Spriano, di Lucio Colletti (prima e dopo), di Antonello Trombadori, di Luigi Corbani (idem). Adesso sono amico di Gianni Cervetti, straordinario uomo di cultura (colla c minuscola: ché tu e io colla C maiuscola intendiamo l'uso dell'istruzione a fini di oppressione del prossimo), di Luciano Canfora e di Antonio Bassolino. Secondo me l'errore del Partito comunista nella gestione dell'egemonia culturale sua è stato di aver dato il culo per niente, ovvero fatto da taxi a soggetti ed ambienti che l'impiegavano per i loro fini.
Chi ce l'aveva con me erano soprattutto i Salotti milanesi che gestivano la situazione per conto di Abbado (Claudio), Luigi Nono e Maurizio Pollini. Così si spiega che l'ufficio stampa della Scala, retto da un Carlo Mezzadri, all'insaputa o nell'impotenza del povero Carlo Badini, allora soprintendente, fosse uno dei centri di raccolta delle firme contro di me; e la signora Pollini girasse per Milano novella spigolatrice.
Esistono situazioni archeologiche le quali vengono poi ereditate anche quando siano venute meno le stesse loro causae vivendi, ragioni d'essere; e così, trentacinque anni dopo, la Scala di Lissner s'è rifatta interprete di costoro facendomi una persecuzione che mi ha giovato incredibilmente. Vorrai forse credere che Lissner e il suo successore Pereira abbiano qualcosa da fare col Pd (il nome col quale oggi si chiama il Pci)? C'è solo da dire che da Berlinguer, Ingrao e Amendola siamo passati a Pisapia e Dario Franceschini, sventurati privi di coraggio e d'intelligenza che in ordine alla Scala hanno sbagliato tutto, me compreso. Da grandi uomini a nani, ecco il destino.
Abuso della tua pazienza per fare un'osservazione relativa all'attuale soprintendente Pereira. Se costui fosse intelligente, dichiarerebbe: «Non sono d'accordo con quello che scrive Isotta e men che meno sugli attacchi che rivolge alla mia persona; ma la Scala è un teatro pubblico e il critico del Corriere della Sera è il più gradito degli ospiti». Ma costui non lo fa: perché il servilismo verso i Salotti produce anche lo Zelo, che fa perdere le battaglie già vinte. Le fece perdere a Pompeo Magno, figuriamoci Pereira…

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mercoledì, ottobre 08, 2014

Monteverdi: il "Sesto Libro de' Madrigali" (1614)

Pietro da Cortona
"L'età dell'argento"
Il Sesto Libro de'Madrigali: il madrigale ‘concertato' e il ‘Lamento d' Arianna'
 
Pubblicato a Venezia nel 1614 dall'editore Ricciardo Amadino, a nove anni di distanza dal precedente Quinto Libro, Il Sesto Libro de'Madrigali prosegue l'evoluzione espressiva che Monteverdi dedica al madrigale, principale forma musicale dell'epoca, avvalendosi della facoltà di utilizzare qualsiasi mezzo vocale, qualsiasi risorsa tradizionale o inventata, per trasfigurare in musica il testo poetico. In questi nove anni di silenzio e di riflessione sulla forma del madrigale, Claudio Monteverdi compone, pubblica e rappresenta alcune delle opere più famose nella storia della musica: L'Orfeo (1607), L'Arianna (1608), il Ballo delle Ingrate (1608), il Vespro della Beata Vergine (1610).
In questo Sesto Libro, Monteverdi sembra voler concedere al madrigale “ a cappella ” un'ultima attenzione prima di fuggire definitivamente verso i lidi più fantasiosi di quello stile “ concertato ” (già introdotto negl'ultimi sei madrigali del Quinto Libro) che caratterizzerà tutti i libri successivi. Dimenticato l'utilizzo delle sinfonie strumentali ed i vasti organici a più cori del libro precedente, qui l'autore ci offre una pubblicazione in cui il madrigale antico (quello in cui tutte le cinque voci si muovono senza troppi silenzi, legate le une alle altre per sostenersi vicendevolmente nell'armonia da loro stesse generata) ha la maggiore attenzione. Due lunghi cicli di madrigali sono infatti “ a cappella ” e questi due ampi affreschi sonori sono proprio gli evidenti protagonisti di questo libro. Il tema dell'addio, della separazione è il soggetto tematico del Libro : ma, oltre al definitivo abbandono narrato (quello vissuto dai personaggi), Monteverdi sembra offrirci anche un doloroso commiato, un ultimo, definitivo, sofferente e sublime tributo a quel modo di comporre che fu fonte di tante precedenti opere d'arte. Se il madrigale non rinuncerà al suo nome e nemmeno alla sua forma (che si manterrà sempre fedele all'assioma d'essere “forma non forma”, musica generata solo dalla suggestione del testo poetico), questo libro darà definitivamente l'addio a ciò che l'aveva caratterizzato fino a quel momento: infatti, d'ora in poi, le voci vivranno d'ampi spazi d'espressione individuale, solistici, sostenuti non più dall'armonia vocale ma dall'ausilio dello o degli strumenti. Non tragga in inganno la presenza del basso continuo per poterli concertare nel clavacembano ed altri stromenti: come abbiamo già acquisito nei precedenti libri, anche i madrigali “a cappella” potevano avere il sostegno strumentale (sia basso seguente che basso continuo) e sappiamo che la pubblicazione della linea strumentale era solo a comodità dello strumentista che anziché ricavarsi la parte dalla voce più grave, aveva una sua linea già espressamente dedicata. Nello stile antico, a differenza rispetto al successivo stile concertato, lo strumentista dovrà ancora pienamente assecondare le voci, assolute protagoniste dell'armonia e della musica, senza abbandonarsi a quell'autonomia che lo renderà sempre più figura di spicco del nuovo stile compositivo.
La compresenza e il conflitto fra due mondi, simbolo di passaggio fra il mondo arcaico e quello moderno (o come alcuni studiosi affermano, fra la cosiddetta Musica Antica e quella Moderna) sono presenti anche in una pubblicazione di pochi anni anteriore: il Vespro della Beata Vergine (1610), costruito nel nuovo stile concertato con grande fantasia e genialità, inizia proprio con la Missa da cappella fatta sopra il mottetto “In illo tempore”, a simbolo della capacità dell'autore di scrivere ancora (e rigorosamente) in questo modo antico.
La contrapposizione fra stile antico e nuovo non è il solo soggetto delle discussioni in questi anni: l'opera, la commedia in musica, era nata nel frattempo e aveva avuto un successo senza precedenti. In questa nuova “invenzione” la gioia o il dolore d'un personaggio non sono più cantati coralmente: essi vivono sulla scena grazie all'arte d'un solo cantante che, proprio in quell'istante, fa ri-vivere i fatti narrati e i sentimenti provati. Assistere ad una Favola in musica, quali erano l' Orfeo o l' Arianna, non significava più ascoltare la cronaca delle azioni o delle situazioni umane mediate dalla voce d'un gruppo di persone che la raccontavano in polifonia, ma significava vedere la situazione e il personaggio effettivamente impersonato da un solo cantante, il quale (in quel momento e per momentanea finzione teatrale) viveva tangibilmente quelle situazioni. Grazie ad un maggior coinvolgimento dei sensi (oltre all'udito si stimolava la vista, grazie all'arte di scenografie sempre più reali, insieme a luci, costumi, trucco) il pubblico viveva in prima persona il dramma del protagonista, identificandosi e palpitando sempre più con lui nella sala.
Comprendere realmente la portata di questo passaggio storico può rivelarsi complesso per noi che siamo avvezzi ad assistere alle finzioni teatrali dei media come televisione e cinema, ma all'epoca fu una esperienza realmente emozionante e fortemente innovatrice: nella prefazione alla sua Dafne, Marco da Gagliano comparando l' Arianna di Monteverdi al teatro greco antico, scrive che si può con verità affermare che si rinnovasse il pregio dell'antica musica perciò che visibilmente mosse tutto il teatro a lacrime ; Aquilino Coppini racconta che durante la rappresentazione Monteverdi ha potuto trarre a viva forza dagli occhi del famoso teatro e di chiunque poscia l'ha sentita, a mille a mille pietose lagrime ; l'ambasciatore di Venezia scrive la favola d'Arianna et Teseo, che nel suo lamento in musica (...) fece piangere molti la sua disgrazia (tutte queste testimonianze non vi ricordano un odierno pubblico che esce dal cinema visibilmente commosso?). Un po' arditamente, per comprendere i due modi di comporre, antico e moderno, e afferrare la portata di questa nuova forma d'arte, l'opera, possiamo paragonare il madrigale “ a cappella ” alla lettura di un libro, mentre l'opera alla visione su grande schermo. Questi due mondi d'espressione artistica assolutamente distinti, entrambi emozionanti, vivono e fanno vivere le loro suggestioni in modi e situazioni completamente divergenti: mentre la lettura ci offre l'emozionante viaggio nella creatività e nella soggettività del lettore proprio perché l'evento è narrato (indugiando sia sull'introspezione che su sottili particolari), la visione di un film ci porta ad immedesimarsi subito nei protagonisti, nei loro scenari e situazioni, vivendo noi stessi le loro emozioni durante la proiezione.
Se la cultura ha subìto una delle sue più rilevanti perdite, smarrendo la partitura completa dell' Arianna, la storia ha voluto ricompensarci salvando il celeberrimo Lamento d'Arianna, proposto da Monteverdi in due distinti modi, antico e moderno, probabilmente per farci comprendere che si può raggiungere vertici espressivi sia con un metodo compositivo legato alla narrazione che a quello della rappresentazione (una terza versione sacra ci sarà inserito nella sua Selva morale e spirituale (1640) come Pianto della Madonna sopra il Lamento d'Arianna ).
Non è però propriamente un caso se si salvò solo il Lamento : definito dallo stesso autore come la più essenzial parte dell'opera, divenne talmente famoso che non è stata casa la quale, avendo cembali o tiorbe in casa, non avesse il lamento di quella (scrive il fiorentino Severo Bovini attorno al 1640) e Giovan Battista Doni nel suo Trattato (1635) parla del Lamento dell'istessa Arianna che è forse la più bella composizione che sia stata fatta a' tempi nostri in questo genere. Subito dopo la rappresentazione del 1608, circolavano in Italia molte copie manoscritte (alcune le custodiamo ancora nelle biblioteche di Firenze e Modena ) feconde di varianti musicali e testuali: il successo e forse il desiderio di cristallizzare una versione ufficiale, indussero Monteverdi a pubblicare (1623) una versione solistica (anzi sarebbero due le pubblicazioni, edite nello stesso anno, ma una ci rimane incompleta del continuo) ben nove anni dopo la rappresentazione e dopo aver egli stesso aver scritto una versione a cinque voci, nel Sesto Libro (1614), in quello stile “ a cappella ” che proprio l'avvento canto solistico e dell'opera stava portando alla morte.
La scelta di pubblicare in due CD il Sesto Libro di Madrigali insieme al Lamento d'Arianna, ipotizziamo possa offrire all'ascoltatore la possibilità di confronto fra la concezione antica e quella moderna o, come diremmo oggi, fra la “lettura d'un libro” e la sua “realizzazione cinematografica”. Si potrà preferire la versione polifonica, più ricca d'armonie e di raffinati particolari, oppure si apprezzerà la scena cinematografica della vera Arianna che piange realmente davanti a noi. Secondo il mito (e del superstite libretto che Ottavio Rinuccini scrive per Monteverdi), Teseo arriva a Creta con i giovani ateniesi scelti quale tributo sacrificale umano al mostro Minotauro che il re dell'isola, Minosse, teneva rinchiuso in un labirinto ma per il quale impone ad Atene tale sacrificio. Arianna, figlia del re, innamorata di Teseo, lo aiuta a superare il labirinto grazie ad un lungo filo che gli permette di ritrovare l'uscita dopo aver ucciso il mostro, ottenendone in cambio la promessa di nozze una volta giunti insieme ad Atene. Arianna però, lungo la navigazione, nell'isola di Nasso, viene abbandonata da Teseo che salpa lasciandola sola nel sonno. Al risveglio capisce d'esser stata tradita e decide d'uccidersi, ma come per Orfeo anche in quest'opera la conclusione è gioiosa: l'arrivo della flotta di Bacco inviato da Amore, blocca il suo gesto e li conduce a nozze. Per le evidenti analogie di situazione scenica e d'emotività, si rivelerà proficuo confrontare il Lamento d'Arianna con quel Lamento d'Olimpia (rimasto manoscritto) che abbiamo scelto d'inserire come appendice al Primo Libro di Madrigali insieme all'esecuzione completa dei manoscritti profani.
Un sottile filo lega i due ampi cicli del Sesto Libro : la Sestina, Lacrime d'amante al sepolcro dell'amata è anch'esso un lamento di pastore che sia morta la sua ninfa (…) in morte della Signora Romanina. Il filo non è però solo tematico ma anche storico: poco tempo prima della rappresentazione dell'Arianna si ammala e muore di vaiolo, a diciott'anni, la cantante Caterina Martinelli (soprannominata la Romanina, per la città di provenienza), colei che doveva essere Arianna. Il duca di Mantova Vincenzo Gonzaga, che sicuramente aveva un debole per lei, aveva disposto (cinque anni prima) che fosse affidata alle cure musicali di Monteverdi (e in casa sua): questo fatto illustra l'etica ambiguità non solamente della condotta principesca, sì anche della condizione servile. Il madrigale in genere era implicato con episodi e incidenti di vita, era allusivo, celebrativo, commemorativo (Claudio Gallico: Monteverdi, 1979). La Sestina è un canto doloroso, intimamente sofferente e sentito che muove alla commozione anche senza alcuna traccia scenica: Monteverdi esprime tutta la sua sublime arte compositiva nella maniera antica “ a cappella ”, trasfigurata dall'emotività e dall'espressività di cui fu maestro. Probabilmente Monteverdi non adempiva solo il volere del Duca di Mantova (identificato nel testo poetico di Scipione Agnelli come il pastore Glauco), ma anche dedicava un ultimo caldo abbraccio alla moglie defunta nel 1607 dopo un anno di sofferenze: una fredda lastra di marmo è il cielo di quel seno che nido fu d'amor e che ora dura tomba e un freddo sasso opprime. “Corinna, ahi, Corinna” implorano quinto e cantus (alternandosi e straziando il cuore dell'ascoltatore mentre le tre voci incalzano alzandosi di tono, per poi gettarsi nella disperazione di Ahi tomba, ahi morte! resa con arditi cromatismi e salti discendenti fino all'esaurirsi delle voci e della musica. Mai lacerazione e dolore sono stati espressi musicalmente con tanta forza.
Ohimè il bel viso e Zefiro torna sono due sonetti tratti dal Canzoniere di Francesco Petrarca, uno dei più illustri poeti italiani del Trecento. Appare strano che accanto a tanti poeti contemporanei Monteverdi abbia scelto due testi creati attorno al 1350. Il primo si accosta tematicamente al ciclo doloroso di madrigali antecedenti (è il primo componimento che Petrarca dedica all'amata Laura dopo averne appreso la morte) e ricorda sia il brano precedente per l'uso di quel ohimè affidato alle due voci superiori, sia Ohimè, se tanto amate del Quarto Libro. Il secondo invece sembra apparentemente discotarsi dal Lamento: giustamente nominata, analizzata e studiata come una delle più felici e geniali composizioni di Monteverdi, Zefiro torna riprende il tema del contrasto fra natura gioiosa, in rigoglioso fermento, e lo stato d'animo triste ed afflitto del protagonista, vittima delle pene d'amore, rese da Monteverdi con arditissime dissonanze nel finale (si confronti, poi, il somigliante testo di Ottavio Rinuccini Zefiro torna contenuto nel Nono Libro).
Per una perfetta simmetria di pubblicazione del Libro in due parti (ben studiata dall'autore), sia dopo il ciclo di madrigali dedicati ad Arianna che a quelli dedicati alla Romanina (e ai loro rispettivi sonetti petrarcheschi), seguono i madrigali concertati, palesemente inconsueti e stravaganti rispetto ai precedenti e facilmente individuabili per l'emergere d'una voce dal gruppo corale per lunghi momenti solistici. Qui, sia l'esecutore vocale e che quello strumentale, non dovranno più attenersi a quell'intima concordanza interpretativa dell'insieme corale ma saranno stimolati a mostrare le doti espressive e di virtuoso. Il tema della separazione è presente anche in questi madrigali. A dio, Florida bella è un magnifico dialogo amoroso crudelmente troncato dalla natura che, risvegliandosi, condanna inesorabilmente la separazione dei protagonisti. Assistiamo alla realizzazione teatrale (non è ancora una vera trasposizione cinematografica come avverrà nell'opera) d'una situazione “narrata” già descritta all'inizio del Secondo Libro: però, qui, i due amanti sono interpretati solisticamente da Cantus e Tenor, mentre all'insieme delle voci (un aulico riferimento al coro greco) non rimane che commentare quale narratore che supplisce alla mancanza delle determinazioni visive proprie di un'ipotetica realizzazione spettacolare (P. Fabbri: Monteverdi, 1985). Ampia scena teatrale solistica è affidata al Tenor in Misero Alceo, mentre il coro ci stupisce manieristicamente per il geniale madrigalismo sulle parole un sol cor, diviso. Conclude il libro un madrigale d'eccezione a sette voci (unico brano in cui prevede un terzo Cantus addizionale), che preannuncia le future innovazioni linguistiche monteverdiane: dialogo concreto fra due attori, due pastori, anticipa i duetti e il Ballo del Settimo Libro mentre la polifonia predice il linguaggio guerriero caratterizzante l'Ottavo Libro.
Come avvenuto in appendice al primo CD di questa pubblicazione completa dei madrigali, anche qui offriamo agli appassionati una piccola opera omnia comprendente tutti quei brani monteverdiani che furono pubblicati a stampa in raccolte di autori vari, alcuni dei quali mai incisi. Si tratta di brani concepiti in varie epoche che furono richiesti al compositore per amicizia (nel 1593 quando non era ancora famoso), espressamente commissionati da un nobile di Treviso che si dilettava di poesia e aspirava alla notorietà, o anche raccolti dall'editore veneziano Alessandro Vincenti che in seguito gli pubblicò il ponderoso Ottavo Libro e il postumo Nono libro (proprio in quest'ultimo, ritroveremo lo stesso testo Perchè se m'odiavi in una nuova versione a tre voci. Sono brani molto diversi che documentano il percorso innovativo attuato da Monteverdi in un fecondo momento storico d'evoluzione linguistica.
Il Sesto è un libro dedicato all'espressività, alla potenzialità da parte della Musica di muovere gli affetti, di suscitare sentimenti e passioni nell'ascoltatore e per la prima volta in Monteverdi, i madrigali si ampliano di dimensione e di durata, mentre (quasi a compensazione) si riduce il numero dei brani rispetto ai precedenti libri. Sebbene notiamo, con rammarico, che il mondo esecutivo odierno sia affascinato più dalla velocità e dalla scioltezza piuttosto che dall'espressività, controcorrente (fedeli alle nostre convinzioni), persistiamo nella scelta di tempi “lenti” che, secondo noi, più adeguatamente dispiegano le numerose raffinatezze armoniche ( gli artefiziosi sentimenti come li descriveva Adriano Banchieri, 1609) contenute in queste musiche. Questo, però, senza rinunciare al contrasto agogico e sempre al servizio d'una primaria comprensione ed esplicazione del testo poetico che già nel 1609 Aquilino Coppini aveva individuato come precipuo elemento del linguaggio monteverdiano: qui sunt a Monteverdio, longiora intervalla et quasi percussiones inter canendum requirunt. Insistendo tantisper, indulgendo tarditati, aliquando etiam festinandum. Ipse moderator eris. In iis mira sane vis commovendorum affectuum (quelli che sono di Monteverdi richiedono nell'esecuzione, più ampli respiri e battute che non siano regolari, a volte incalzando o abbandonandosi a rallentamenti, talora anche affrettando. Tu stesso stabilirai il tempo. In questi, si trova una capacità assolutamente mirabile di suscitare commozione).
Se Monteverdi stesso scrisse che il presto con il bene insieme non conviene (1617), per quanto possibile, crediamo sia efficace ricreare e riproporre nella musica quel clima di vita in cui le andature erano molto più allentate e distese rispetto alle attuali e dove la ricerca del particolare era considerata fondamentale nell'opera d'arte. Riteniamo dunque innovativo che, alla scorrevolezza esecutiva e alla rigida scansione dei tempi, si possa rispondere con la forza passionale, impulsiva ed emotiva che abbiamo tentato d'imprimere a queste immagini monteverdiane. Sempre Coppini, nel 1608, definendo l'espressività di Monteverdi, scrive che la sua musica è regolata dalla naturale espressione della voce umana nel movere gli affetti, influendo con soavissima maniera negli orecchi e per quelli facendosi degli animi, piacevolissima tiranna. Seguendo i documenti del recente studio di Paola Besutti ( Repertorio degli strumenti musicali in corte a Mantova in Gonzaga, 2002) che riporta sia l'acquisto da parte del Duca di un organo nel 1605, che una lettera del 1611 in cui Monteverdi stesso cita l'accompagnamento di madrigali nel organo di legno il quale è soavissimo (da solo o insieme al chitarrone), per la prima volta introduciamo anche questo strumento d'accompagnamento.
Ribadiamo ancora la nostra predilezione esecutiva con sole voci maschili, quale scelta filologica d'un timbro vocale storico, consueto per l'epoca, da ascoltare in alternativa ad organici misti: se Arianna fu interpretata da Virginia Ramponi, sappiamo anche che il duca di Mantova stesso richiese ai Medici di Firenze il controtenore Antonio Brandi e il castrato Gualberto Magli che nella prima rappresentazione dell' Orfeo interpretò la Musica, Proserpina e Speranza, accanto a padre Girolamo Bacchini “ quel pretino che fece Euridice”.
Marco Longhini
(note al cd Naxos 8.555312-13)