Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, aprile 24, 2009

Bill Bruford: drummer

E’ un onore per RockLine.it poter intervistare il celebre Bill Bruford, primo batterista degli Yes (1968-1972 / 1991-1992), militante nei King Crimson (1973-1984 / 1994-1996) e fondatore del progetto Jazz Earthworks, nonché autore di diversi progetti personali. Bill si racconta nelle dieci domande che concede, descrivendo la sua esperienza come musicista, le emozioni provate a comporre capolavori come Close To The Edge e le soddisfazioni di una carriera invidiabile pressoché da qualsiasi batterista odierno…

Ciao Bill. E’ un grande piacere per me poter condurre questa intervista con te: possiamo iniziarla parlando della tua prima esperienza da musicista. Sei stato il primo batterista degli Yes (1969) e componesti, insieme agli altri membri, capolavori del Progressive Rock come The Yes Album, Fragile e Close to the Edge. Come descriveresti la tua esperienza con gli Yes? Cambiò le tue attitudini musicali in qualche modo?
Beh, gli Yes furono la mia prima band...E’ un po’ come per la mia prima ragazza, sarò sempre un po’ innamorato di lei. Fummo la prima generazione di musicisti ad amare tutta la musica, ed alcuni di noi potevano addirittura suonarla tutta. Io pensavo che gli Yes stessero per diventare un gruppo Jazz - mi puoi sentire swingare con determinazione sul primo disco della band: mostra quello che intendevo. Quando mi accorsi che il gruppo non stava andando in quella direzione, cambiai prospettiva. Nessun segreto. Ad ogni modo il Jazz nei tardi anni Sessanta era stato considerato di sinistra e stava godendosi la sua fase “squeaky-bump-free-jazz”. In altre parole era come se avesse preso una spiacevole malattia e Hendrix ed i Vanilla Fudge erano molto più interessanti degli Spontaneus Music Ensemble. C’era un periodo in cui suonare tutta la musica non era un’opzione di carriera, poiché le persone ti etichettavano come Jazz o Electric Folk. Si rimaneva bloccati in quelle catalogazioni, ci si trovava coinvolti, e si finiva o a trascorrere con profitto il proprio tempo con persone interessanti, o lo si sprecava con persone stupide. Mi importava solo marginalmente con quale strumento suonassero, e non mi preoccupavo per niente del genere che pensavano di stare suonando. Non lo fa nessun musicista degno di essere considerato tale. Ho imparato molto negli Yes, ma sono probabilmente stato insofferente ed arrogante. Specialmente dopo che Buddy Rich disse alla stampa che io avevo buone mani, e io condussi un’intervista con lui al Dorchester Hotel.
Dopodiché hai preso parte al progetto King Crimson, quando sei stato invitato da Robert Fripp. Le tue abilità tecniche si svilupparono più velocemente e più facilmente in questo periodo? Ad oggi, se tu dovessi fare un paragone tra il Bill Bruford degli Yes e quello dei King Crimson, quale sceglieresti?
Naturalmente, il secondo che hai detto, visto che tutti i musicisti sperano di migliorare quando passano attraverso nuove e differenti esperienze musicali. Sia agli Yes che ai King Crimson penso di aver portato alcune idee che erano al tempo fuori dalla sfera d’interesse della musica Rock: tempi dispari, libera improvvisazione, strumenti inusuali, e più tardi perfino percussioni elettroniche. Queste innovazioni furono assorbite con entusiasmo dai Crimson. Fu un periodo fantastico con i King Crimson, e in nel corso di quei venticinque anni abbiamo fatto dei dischi davvero eccitanti. La gente non è mai andata a molti concerti dei King Crimson, dato che non ce ne furono molti a cui andare, ma ogni spettatore ricorda il concerto a cui andò - era il più eccitante lavoro di batteria nel Rock, poiché non sapevi mai cosa stesse per accadere! Dovevi essere pronto a cambiare, i King Crimson furono un vero veicolo per il cambiamento. Alla fine del periodo che passi nel gruppo, di certo non sarai più la stessa persona, con la stessa attitudine nel fare musica, di quella che eri quando ci entrasti. I King Crimson furono un gruppo importante, la cui influenza andò molto al di sopra ed oltre le sue vendite. Al momento non sto suonando con i King Crimson per due ragioni: primo, perché non penso di poter aggiungere altro e, secondo, perché ho molto altro da fare. Inoltre Pat Mastelotto mi sostituisce bene durante i loro concerti. Considero la mia esperienza come membro della band per venticinque anni (anche se non consecutivi) come stimolante, innovativa ed esasperante in ugual misura, e non cambierei un solo momento di essa. Ho imparato molto sulla musica e sul mio ruolo, negli anni, e sono stato abbastanza fortunato da partecipare a concerti che né il pubblico né i musicisti dimenticheranno facilmente. Ad un certo punto, attorno alla fine del millennio, divenne chiaro per me che avevo raggiunto tutto ciò che potevo raggiungere con il grande Re Cremisi. Mi sono interessato a ritornare a parlare la lingua del Jazz, non come turista, ma come un membro impegnato a pieno ritmo, e la seconda versione degli EarthWorks ha preso avvio nel 1998. Fare progressi con un gruppo richiede dimenticare gli altri. E come Robert Fripp è solito dire, la porta sarà sempre aperta, ma penso che nel 1998 circa ho attraversato uno spartiacque invisibile che ha significato che non posso sedermi nuovamente di fronte a grandi amplificatori per lunghe ore in una sala prove. Per spostarsi su un altro piano diventa infine essenziale che si abbandoni la sponda che si occupa. Penso di aver abbandonato quella sponda. Ho certamente irritato troppi musicisti di Progressive Rock suonando Jazz sul palcoscenico, quindi forse dovrei fare, o avrei dovuto fare, gli album che avrei realizzato trent’anni fa, se avessi saputo come. Ciò significa che non si sa mai nulla riguardo ai King Crimson. Bisogna aspettarsi l’inaspettato. Lavorare in due batteristi è paradossalmente sia molto limitante che molto liberatorio: limitante nel senso che se sei d’accordo a suonare in quel modo, devi suonare in quel modo, e liberatorio perché se uno dei due fornisce il semplice, l’altro può offrire il complesso. Ho suonato con altri batteristi come Jamie Muir nei King Crimson, Phil Collins nei Genesis, Alan White negli Yes e ancora Pat Mastelotto nei King Crimson. Pat ed io abbiamo optato per due grandi settori, a volte contemporaneamente. Il primo era il materiale metrico, tempi nei tempi, meccanismi nei meccanismi, come l’effetto di una pulsazione più lenta con una pulsazione più veloce che gli scorre all’interno. La band con due cuori…Questi sviluppi nella modulazione metrica, nella sovrapposizione e nell’illusione, ben dimostrate da Billy Kilson con Dave Holland o da Trilok Gurtu o Gavin Harrison, certamente forniranno la prossima ampia serie di sfide per noi batteristi. Il secondo settore era timbrico, confrontando e mettendo in contrasto l’elettronico all’acustico, il legno al metallo, il lento al veloce. Questo materiale ovviamente non ha solo a che fare con i due batteristi. Funziona bene anche con il bassista, sempre che sia di spirito indipendente!
Gli Yes divennero uno dei gruppi Progressive Rock più importanti del mondo anche grazie al tuo contributo; quando tu li lasciasti non riuscirono a replicare i capolavori del passato...Tu hai spesso detto che la ragione principale per cui abbandonasti il progetto era il fatto che le prove con il bassista Chris Squire erano spesso rimandate. Non eri abbastanza soddisfatto dal successo che il gruppo stava raggiungendo oppure non ti andava a genio la scena Rock?
Le prove non erano rimandate: Chris Squire era sempre, continuamente, in ritardo. Grossa differenza. Io non odiavo assolutamente -e non odio- la scena Rock, e quando capii che gli Yes stavano diventando un grande gruppo, la cosa mi fece provare una grande soddisfazione. Ma a quel punto mi sentii come se avessi già completato il mio lavoro: tutto ciò che mi potevo aspettare era una ripetizione senza fine, per tutto il mondo, di quella musica. Penso che quello che mi guidi sia il desiderio di contribuire, non importa quanto modestamente, a questa cosa che chiamiamo “suonare la batteria”, fino al più ampio significato di arte percussiva. Mi piacerebbe sentirmi, se non è troppo arrogante, come qualcuno che ha richiamato l’attenzione su alcune delle possibilità di come noi batteristi ci possiamo occupare del nostro strumento. Mi piacerebbe sentirmi come uno che ha contribuito al fatto che un batterista nel 2010 suoni diversamente da uno del 1970. Non penso sia possibile trovare qualcosa di davvero nuovo nella batteria -se fosse nuovo, non ce ne accorgeremmo- ma è possibile mescolare gli ingredienti in modo che il risultato suoni fresco e interessante. Negli anni Settanta ero molto giovane e naif. Ho fatto il tipico “viaggio” dell’artista, da uno stato di giovinezza in cui ero sicuro di conoscere tutto, fino a uno stato di maturità in cui so di non sapere nulla. Ora lavoro maggiormente come un “agevolatore”, ovvero qualcuno che possa dare a dei giovani talenti come ad esempio il sassofonista Tim Garland o Gwilym Simcock (il pianista attuale degli EarthWorks) una piattaforma internazionale, e che può crescere e imparare con loro. Non avrei fatto questo “viaggio” se fossi rimasto sempre con lo stesso gruppo di musicisti – non importa quanto fossero bravi.
Ti sei sempre pentito di aver preso parte alla reunion degli Yes nel ‘91-’92. Dissi addirittura che fu il peggior disco su cui tu abbia mai suonato. Cosa ti persuase a suonare nuovamente con la tua vecchia band?
C’è un po’ di confusione. Il progetto ABWH (Anderson, Bruford, Wakeman, Howe, NdR) del 1989 aveva qualcosa di interessante in sé, e se fosse stato lasciato da solo senza interferenze esterne, ci sarebbe stata la possibilità di diventare un gruppo capace di creare del materiale fresco. Tuttavia, la label e il manager decisero che gli Yes europei (Anderson, Bruford, Wakeman, Howe) avrebbero dovuto unirsi agli Yes californiani (White, Rabin, Kaye, Squire) per il disco successivo (Union).Quindi, le tracce “europee” furono mandate negli Stati Uniti per l’aggiunta e la modifica di alcune tracce, in origine abbastanza accettabili. A quel punto, la cosa perse completamente ogni significato e direzione e fu terminata da dei programmatori informatici. La cosa non mi piacque. Fu l’ultima volta in cui ebbi qualcosa a che fare con gli Yes.
Oltre alla tua Jazz band, gli EarthWorks e altre collaborazioni, sei ancora in contatto con alcuni dei musicisti della scena Progressive Rock degli anni ’70 con cui suonasti? Potremo vederti suonare nuovamente con alcuni di loro in futuro?
Conosco bene Steve Howe, ed altri a livello di conoscenti, ma non ci incontriamo spesso... e, no, non suonerò più con loro.
E come vanno le cose con il progetto Gordian Knot? Come descriveresti la tua collaborazione sia con Sean Malone che con gli altri esperti musicisti delle scene Rock e Metal coinvolti in quel progetto?
Sean Malone è un musicista molto brillante e dall’alto tasso tecnico. M’è piaciuto prendere parte al suo album nei Gordian Knot, ma non abbiamo ulteriormente ampliato la nostra relazione. Sono davvero stupito dall’energia dei musicisti Rock e Metal, specialmente dei batteristi, ma bastano cinque minuti perché la meraviglia si dissolva, dopodiché mi stanco. Per me, ascoltare quella musica è come essere colpito ripetutamente alla testa con una calza ripiena di cemento...
Dopo aver lasciato i King Crimson per la seconda volta, ti sei dedicato al jazz e alla tua carriera solista: cosa rappresenta il jazz per te? Lo preferisci al Progressive Rock? Questi due generi rappresentano due diversi capitoli della tua vita… penso quindi sia una scelta difficile, anche se è sempre stato il jazz la tua vera passione…
Dato che ho suonato jazz a tempo pieno per 20 anni, quale pensi sarà la risposta? Ma l’argomento deve essere avvicinato con precauzione. Le seguenti osservazioni hanno a che fare con qualcosa chiamato “jazz” e qualcosa chiamato “rock” nei termini più ampi, del resto ci saranno subito delle eccezioni, ma in generale la distinzione ha principalmente a che fare col modo in cui un musicista vede la propria funzione, e il modo in cui la musica scaturisce da tutto ciò. In parole povere, il musicista rock si preoccupa di creare un prodotto, il musicista jazz crea un processo. Il musicista rock compone musica che pensa possa piacere al pubblico, o che lo si può convincere a farlo. Il jazzista è coinvolto vita natural durante in un processo che il pubblico è caldamente invitato ad osservare. Se a loro il processo piace, ottimo; altrimenti, bene, il processo continuerà in quel modo e in qualunque caso, non per ottusa ostinazione, bensì perché non potrà fare altrimenti. Deve essere così, se no non dormirebbe di notte. È un uomo di più o meno forti principi. Il musicista rock è coinvolto in un gioco più pericoloso. Ha bisogno dell’approvazione del pubblico per non vanificare i propri sforzi. Senza questo apprezzamento, riflesso dal mercato (forti vendite, classifiche…), la sua musica è del tutto priva di significato. Non ha valore in sé e per sé. Il jazzista è più al sicuro, se non sul terreno economico, almeno su quello psicologico, perché il processo che sta attuando può / dovrebbe / di solito ha valore per lui personalmente, senza preoccuparsi dell’approvazione esterna. Non si chiede cosa voglia il pubblico, un attitudine che troverebbe paterna. Se non ci azzecca, nessuno sarà felice, né l’artista, né l’ascoltatore. Il Progressive Rock, nella sua espressione migliore, fu un prodotto del suo tempo e dell’ambiente che gli ha dato i natali – l’Inghilterra circa tra il 1968 e il 1974. Allora ha avuto rilevanza e uno scopo. Ma questo fu quasi 40 anni fa. Non ha nessuna rilevanza per me ora.
Torniamo al tuo passato: poi brevemente descriverci la tua evoluzione musicale come batterista? Quando e perché hai cominciato? Dove hai preso le tue prime lezioni? Cosa ha significato per te suonare la batteria?
Sono cresciuto col Jazz dai 12 anni, guardando tutte le più grandi star americane del jazz nelle prime serata della TV inglese. Ho preso poche lezioni, per lo più ho imparato tutto andando avanti con l’esperienza. Sono cresciuto suonando swing con un piatto piuttosto che cosa fossero i motori a otto cilindri, ma quando divenni un professionista nel 1968, tutti i bravi batteristi britannici si fondavano nell’eccitante nuova scena rock. Charlie Watts suonava con i Rolling Stones, Ginger Baker con i Cream e Mitch Mitchel faceva la sua interpretazione di Elvin con Jimi Hendrix. Ho pensato per un momento che sarei stato una via di mezzo tra Max Roach, Joe Morello e Art Blakey, e tutto questo l’ho fatto negli Yes. Ho cercato la mia strada di ritorno al jazz da allora, prima di tutto un varietà elettrico con la mia band Bruford, poi un duo d’improvvisazione con Patrick Moraz, e alla fine gli Earthworks, dove ho ora un gruppo di grandi musicisti ai massimi livelli. Sto crescendo in sicurezza soprattutto grazie a tutto ciò , e mi dispiace che da qualche parte lungo la strada le mie varie compagnie di registrazione si siano dimenticate di dire al pubblico italiano che ora suono jazz! Per me suonare la batteria è un modo per contribuire alla scena musicale che mi stimola moltissimo. Ne sono veramente appassionato. Le mie stesse orecchie mi spingono attraverso l’intimità, la trasparenza, l’immediatezza e l’onestà del jazz acustico e improvvisato. La differenza tra rock e jazz è oggi un’idea piuttosto fuori moda; una distinzione più efficace è quella tra musica basata su una performance e basata sul computer. La prima è un paradigma o un modello di una cooperazione sociale di alto livello, al seconda un modello di una cooperazione con un computer ad alto livello. Fa la tua scelta. Vedo l’inesorabile avanzata della musica composta col computer, che ognuno può fare nella propria camera da letto, gettando nel dimenticatoio i musicisti reattivi, che possiedono la capacità di improvvisare di contare sulle proprie forze. Queste persone diventeranno sempre più rare (poiché ci vuole un’intera vita per imparare a suonare uno strumento, e oggi non molti ne hanno al pazienza), e quindi sempre più preziose.
Le tue produzioni sono molte e varie, quindi credo sarai abbastanza occupato nel futuro. Cosa stai componendo al momento? Continuerai la tua carriera solista? E quando potremo ascoltare il nuovo disco degli Earthworks?
Sto dedicando molto tempo anche alle mie due bambine, la Summerfold Records e la Winterfold Records. La Winterfold si occupa di quello che tu chiameresti “Prog” con chitarre elettriche, la Summerfold si occupa di Jazz col sassofono. Tra tutte due ho già, incredibilmente, qualcosa come dodici titoli, con altri tre in programma sulla tabella di marcia. Prossimamente ci sarà lo strabiliante DVD del programma della BBC “Rock Goes to College”, con Allan Holdsworth (chitarra), Annette Peacock (voce), Dave Stewart (tastiere) e Jeff Berlin (basso), il gruppo che avevo alla fine degli anni ’70. Gli Earthworks saranno in Polonia, in Scandinavia e negli Stati Uniti per il resto dell’anno, e mi congiungerò a coda di rondine per qualche apparizione clinica nel nord-est degli Stati Uniti e in Canada fino a Dicembre. Poi Glasgow, in Scozia, il 16 dicembre!

intervista di Edoardo Baldini, 22 agosto 2006 (www.rockline.it)

sabato, aprile 18, 2009

Spoleto 1984: Requiem senza tragedia

Spoleto. La cronaca è quella di sempre. Migliaia di spettatori assiepati sulla piazza del Duomo, come sempre; platea fitta di seggiole di legno, come sempre, stipate più di sempre, in spazi sempre più esigui; le rondini di sempre con in più, inedito per noi, un coro di più loquaci ma anche meno nottambule cornacchie (solo l'amore di Francesco e della Protezione Animali può assolvere quelle sgradevoli bestie). L'amplificazione inacidisce l'esecuzione come sempre: e se un soprano non legge ma canta a memoria guardando il direttore, ecco che l'asse dell'amplificazione si inclina, e il soprano si perde dietro il bronzeo timbro del mezzosoprano, perfettamente allineata con il suo spartito e col microfono. Orchestra di sempre ma, si direbbe, dimidiata: otto violoncelli e sei contrabbassi sono un po' pochi per un'esecuzione all'aperto, pur amplificata. E dire che hanno preso le ottime trombe di S.Cecilia e della Rai per un'esecuzione stereofonica del "Tuba mirum"; non potevano prendere anche qualche altro arco? E, come sempre, il Requiem di Verdi, pagina bellissima, come si sa, e indubbiamente utile, grandiosa e sublime com'è, a concludere una manifestazione di densità 165 (tanti sono gli spettacoli che si sono succeduti nel 27 Festival). Dunque, la Messa di Requiem. Le varianti di quest'anno sono il direttore, Donato Renzetti, il soprano Marion Vernette Moore il mezzosoprano Klara Takacs e il basso Kolos Kovacs, il tenore Antonio Savastano essendo una vecchia recluta spoletina. Che dire di Renzetti? Quello che abbiamo detto sempre: bravo, qualche volta bravissimo, preciso, capace di momenti assai belli (come la chiusa dell'Offertorio, l'Agnus Dei) ma non di darci un Requiem veramente tragico. E non sappiamo come possa esser visto altrimenti. Tragedia di vivi, non di defunti; tragedia di dover, vivendo, prefigurarsi la morte. Ed è una morte, questa di Verdi, non fisica; è la morte del pensiero, delle idee, il contrario esatto di "Sempre libera degg'io" ("Cuncta stricte discussurus"). Bisogna avere idee per urlare alla morte delle idee: Renzetti non urla perchè le sue idee appartengono alla fisica, non alla metafisica. E' un sano pragmatista, può affacciarsi sull'orlo di un burrone e non avere una scarica di adrenalina, può non domandarsi "cosa succederebbe se...", le ghiandole surrenali perfettamente tranquille. Questo non gli impedisce di darci momenti di grande tensione lirica e una dimostrazione di indubbia abilità di concertatore. Difficoltà deve averne avute molte: basta ascoltare i violoncelli all'inizio dell'Offertorio e, subito dopo, i violini per capire che avrà dovuto faticare molto per realizzare un'esecuzione così complessivamente pulita. Neppure i cantanti si allontanano dalla solidità della terra. Sembra che al solo mezzosoprano, Takacs e, in parte al basso Kovacs, dispiaccia di prevedere la fine di ogni possibile pensiero. Savastano è un tenore di resa sicura, anche se oggi, a furia di spingere, non riesce più a cantare sul fiato; ma dovrebbe convincersi che "ne perenni cremer igne" non vuol dire "nel perenne gelato di crema dell'igne". Così il soprano Moore, dotata di voce bellissima e di intonazione immacolata, dovrebbe realizzare che "Tremens factus sum ego et timeo" vuol dire qualche cosa di più che "Tramance fuctous soom ago at teamaho". Quali tremori, quali timori avrà mai questa pacifica e solare cantante che peraltro osa cantare a memoria e senza suggeritore? Ad onta di alcune soluzioni non adamantine, il mezzosoprano Takacs ci è sembrato il temperamento più adatto all'opera verdiana (e i tempi non erano mai abbastanza lenti per lei: con qualche buona ragione). Il basso Kovacs copriva bene il suo ruolo. E così si può dire del coro diretto da Joseph Flummerfelt e da Ferenc Sapszon (riuniva infatti il Westminster Choir e il Coro della Radio Televisione Ungherese). Alla fine tutti contenti o abbastanza contenti. Giancarlo Menotti applaudiva dalla sua finestra, Christian Badea applaudiva dalla sua, le migliaia di spettatori applaudivano lungo la scalinata, ma non molto a lungo. Alcuni dovevano correre a mettersi in coda ai ristoranti spoletini (tutti lì in piedi a guardare con odio quegli infami che ordinano anche la frutta). E così si chiude anche il 27° Festival dei Due Mondi. L'anno prossimo sarà il Festival dei Tre Mondi. Cambiera qualcosa? Ci sarà un direttore artistico? Il Festival più noto del mondo ha bisogno di nuova linfa, è sempre più vecchio. Mentre avrebbe tutti i numeri per tornare a vivere come nei primi due decenni.

Michelangelo Zurletti ("Repubblica, 17 luglio 1984)

sabato, aprile 11, 2009

Buscaroli rilegge Beethoven

Vent'anni dopo «Bach», Piero Buscaroli rilegge ora la vita e le opere del grande musicista tedesco. Con l' intenzione di correggere «due secoli di falsi». Povero Beethoven, genio tradito dai critici «Voglio restituirlo alla storia e al suo patriottismo, salvarlo dalla nuvola letale dello spirito dell'epoca». Anticipiamo un brano tratto dal libro «Beethoven» di Piero Buscaroli (Rizzoli, pagine 1.359, euro 45) che sarà in libreria da mercoledì 21 aprile.

Tutt'altro che la festa del 1927, il doppio centenario della nascita correva melenso nel 1970 tra le sfilate dei concerti interrotte dalle scariche d'insulti sparate dalla nuova cultura germanica. Solo contributo di qualche peso rimase De Last Decade, 1817-1827, di Martin Cooper. Nella recensione del «New York Times» un tale Donald Henahan paragonò l'opera di Beethoven nel suo insieme a un logoro repertorio di devozioni: «neppure gli ultimi lavori trascendentali, le Sonate per pianoforte, i Quartetti, la Missa Solemnis, appaiono più quel supremo fortilizio ch'erano stati per pochi adepti della metafisica musicale. Grazie all'implacabile girare del fonografo e alla radio sua vorace alleata, Beethoven è sbattuto nelle nostre orecchie notte e giorno, la musica che avevamo creduto inesauribile ci appare logora come un vecchio talismano. Grattati via i significati emotivi, le esecuzioni degli specialisti ci piovono addosso condite da salse d'analisi e sentenze, registrate o al vivo, dei chiosatori dei programmi e dei filosofi d'incisione. Un giro dopo l'altro, Beethoven si avvita nella sua tomba a 33 rivoluzioni e 1/3 al minuto. Sempre più difficile è udire le ultime opere, solo un esperto viaggiatore negli stili musicali può immaginarle quali suonarono ai contemporanei. Il Beethoven extramusicale sta morendo. Prima che passi molto tempo, resterà di lui solo la musica. Accade a lui quel che già è accaduto a Monteverdi e Orlando di Lasso. Tutto ciò, naturalmente, può non essere un male...». Il libro che presento nacque quale malinconico dovere d'una battaglia di retroguardia: del gigante dovevano restare album, cassette, odiosi cumuli di compact. E invece, nei vent'anni che seguirono quel misero centenario, si scatenò imprevisto un paradosso a tal punto immane, che la sua enormità non è ancor ben misurata da quanto avanza della cultura europea. Bastò che un Solgenitsin abbassasse il piccone, e si produsse il crollo, per esaurimento e putrefazione, dell'intera cultura entro cui l'immagine di Beethoven era cresciuta deviata, falsificata. Tutta l'Europa delle idee e delle arti diventava un solo cantiere del revisionismo. Nella storia delle biografie («Vi è solo biografia!» ammonì Nietzsche) cominciai con Sebastian Bach. E intanto Beethoven figlio della Révolution mutava i connotati, via via che la Révolution finiva nelle pattumiere. Per cominciare la galleria dei falsi: Beethoven non fu mai illuminista; non fu mai giacobino; non fu mai amico dei francesi, cui portò, da quando li vide invasori della Germania, forsennato odio. Il rifiuto che preparavo contro la sentenzina americana e globalista sulla fine del Beethoven extramusicale divenne la non sperata occasione di restituire il gigante alla sua verità, all'autentica immagine, da due secoli lordata e confusa. Quando mi parve d'aver consolidato d'una muraglia di ristampe la nuova immagine di Bach, intrapresi la revisione di Beethoven quasi dovere naturale. Come aggredissi falsificazioni e sciatterie, il lettore trova fin dai primi passi di questo libro . Maturato e cresciuto lungo un trentennio nel tanfo agonico, epigonale dell'ultima squallida critica, americana e europea, unisce il primitivo proposito, salvare Beethoven dalla nuvola letale dello spirito dell'epoca, con la radiosa opportunità di rivedere, ossia correggere, ossia cancellare due secoli di falsi. Dopo il Bach del 1985 e La morte di Mozart del 1996, schiero questo libro come terzo e maggiore sforzo nella revisione storica della musica condotta attraverso le biografie. Quanto tempo ancora la scombinata musicologia ufficiale potrà fingere che non esistano, non so e non m'interessa. Sanno i lettori. Che l'invocata, e poi proclamata, scomparsa delle biografie totali produca l'avvento del primo Beethoven veritiero, è uno degli arciparadossi fabbricati dal destino burlone per premiare i solitari che, nell'urto vertiginoso di passati irrisolti e futuri impenetrabili, spiegano indomite vele contro venti e tempeste. Senz'averlo voluto, mi son trovato a scrivere un'altra «nuova immagine», cui auguro ugual favore del Bach che continua a ristamparsi dopo diciannove anni. Se alla «nuova immagine» di Bach toccano ancora distinzioni come quella che mi regalò il «Treffpunkt Kultur» della televisione austriaca che, or sono tre anni, intimò alla bravissima Pia de Simony di ridurre, in un documentario registrato a Bologna nel mio studio, il ruolo concesso a quel Buscaroli inviso ai bonzi luterani della Gesellschaft lipsiense, il lettore può immaginare qual furore prenderà retori e chiacchieroni nell'apprendere che l'autore aveva battezzato Sinfonie allemande quella che per noi è la Nona Sinfonia, ed era una risposta di tedesco al Congresso che lasciava intatta la Francia, rovina della civiltà d'Europa, e divisa la Germania che aveva vinto il distruttore. Il giorno che nei Quaderni di conversazione, la cui edizione è completa dal 2001, lessi che il 25 Gennaio 1824, a Caroline Unger che gli chiedeva quando si sarebbe eseguita la Nona Sinfonia, di cui doveva cantare la parte del contralto, Beethoven parlò di Anfechtungen, opposizioni, e la ragazza insorse sdegnata gridando «Opposizioni? Ma chi si permette?» (v. pagg. 1.169 segg), collegai il contrasto, ai biografi ignoto, alla Sinfonie allemande. Compresi che solo la lettura critica, nell'ingrato originale tedesco, dell'ignota fonte diventata primaria, una lettura diplomatica e perfin paleografica, avrebbe permesso di riscrivere questa vita in un definitivo gesto revisionista. Le preziose novità rimaste occulte nei Quaderni diventavano secondarie rispetto all'imponente evidenza che il contrasto nasceva da quell'allemande, sopravvissuto solo per la tenacia di Gustav Nottebohm. Il lettore riporterà facilmente a galla la rete sommersa e potrà misurare perché la «nuova immagine» sia riuscita con Beethoven tanto più faticosa che con Bach. E per la sua posizione, nonostante ogni apparenza, centrale nella società di corte; e per il ruolo, enormemente cresciuto, della storia universale nelle storie personali. E per il trono dominante che nel frattempo la musica aveva occupato sull'assemblea delle «arti sorelle». «La politica è il destino dei moderni», scrisse Napoleone. Se ne è accorto questo autore quando ha intrapreso la riscrittura politica del giovane Beethoven scoprendo che era tutto cancellato e calpestato in una infame devastazione: il patriota tedesco ridotto a balbettante insignificanza, i canti guerrieri scritti per i volontari, cancellati oppure omessi dagli elenchi, nascosti dalle biblioteche che li possedevano. Ha dovuto contendere a unghiate la figura del giovane alla turba giacobina che l'aveva imprigionato; restituire peso e coerenza al costante fierissimo sentimento anti-francese, ridotto a bizzarria d'incostante ingrato. Nessuno aveva voluto misurare quanto fosse concreto e sensato, seppur ristretto ormai a un'esile striscia, il margine di indipendenza che restava tra la bestiale violenza rivoluzionaria diventata invasione, e la nauseante grettezza delle monarchie che, costrette ad allearsi nonostante si odiassero tra loro, le si opposero con meritati disastri. Lasciando a parte i soliti Goethe e Schiller, che a nulla servono su questo terreno, ho radunato i Seume e Louis Ferdinand, il giovanissimo Körner e Varnhagen von Ense, trattati con badiale fastidio dai biografi mestieranti, per far compagnia a Beethoven in quell'itinerario di speranze assassinate, sentimenti traditi e catastrofi spirituali che prelude allo sdegnato isolamento dell'ultimo decennio. Nessuno degli storici di Beethoven aveva tentato di interpretare con amore e onestà quel tumulto di fresca ingenuissima gioia, che nel lurido nido di vermi dell'infame Congresso, modello mai superato della pace con frode, pochi mesi bastarono a trasformare in delusione, tradimento e pianto. La Germania, le cui forze, quando si unirono, vinsero finalmente il tiranno, si trovò restituita alla confusione e divisione che l'avevano lacerata, dai «trattati» di Münster e Osnabrück in poi. I suoi principi si univano sol per tenerla divisa e, con la complicità d'inglesi e perfino americani, più impotente e sola che la sconfitta Francia. Se un giorno del 1824, a Baden dov'era entrato in un caffè in compagnia di Carl Czerny, gli bastò leggere in un giornale che Walter Scott scriveva una Vita di Napoleone per gridare: «Napoleone! Non lo potevo soffrire, ma ora la penso tutto diverso!», non era lo scatto di bizza incoerente che ripetono certi biografi senza onore e senza sapere, ma il tratto finale di un'ira e di uno sdegno: l'ultimo distacco da quella monarchia infame che tre anni dopo lo ricompenserà disertando i suoi funerali. Senza che nessuno, tra imperatori arciduchi e ministri, immaginasse di lasciarlo a capo di una folla, quale mai s'era vista per la dipartita d'uno di loro: venti o trentamila, quanti in quella Vienna torpida e avvilita si sentivano ancora «i rappresentanti del popolo tedesco», come li chiamò Franz Grillparzer nel suo discorso. Devi aggiungere, infine, il mutato ruolo reciproco, la rifondata gerarchia delle diverse arti e l'assunzione della musica, proprio per l'opera e la figura di Beethoven, a quel vertice dominante cui, secondo Walter Pater, le altre arti furono costrette da allora a guardare con invidia. Su questo cammino, l'ascesa del mio nuovo restaurato Beethoven sarà ancora più aspra. Dovrà vedersela con una musicografia senile e suicida. Ai divieti innalzati dai Dahlhaus si mescolano ora le lodi e invocazioni al grottesco tentativo abortito di Adorno, di salvare dalla morte, che per tutte e due era fatale, musica e filosofia, con una unione e fusione: puerile, più che innaturale. Da compiersi, infine, nel nome di Beethoven, per cui nulla significava la filosofia, la meno artistica, la meno attraente tra le occupazioni possibili. Ma non voglio trasformare questa Notizia nell'indispensabile antefatto personale, che il lettore troverà nei primi due capitoli. Sua funzione è introdurre argomenti pratici, cominciando con le avversità cui la mia restituzione di Beethoven dovrà confrontarsi. Delle quali la più minacciosa, come al solito, è quell'abitudine, contesta di paura e pigrizia, che si trova comodo chiamare tradizione. È il rifiuto di abbandonare i cementi calcinati e le tavole marcite della Maginot del falso, in cui continuano a rotolarsi gl'intendenti e i cosiddetti interpreti. Quei tali di cui dicevo dianzi, che ancora non avendo misurato e assimilato la potenza dell'anticiclone che si scatenò una ventina d'anni fa, ancora non hanno capito ch'è tempo di spedire in soffitta il mascherone per richiamare Beethoven all'autenticità che mai poté rivelare: nella sua «unica Opera», per cominciare proprio col suo manifesto ideale, politico, sentimentale. Il personaggio Ludwig van Beethoven (Bonn, 1770-Vienna, 1827) ebbe tra i suoi maestri Haydn e Salieri. Nella sua produzione si possono distinguere tre periodi Al primo (fino al 1806 circa) appartengono sonate per pianoforte (la «Patetica», l'«Appassionata») e le prime cinque «Sinfonie». Del secondo periodo (1806-1815) fanno parte la sesta, settima e ottava «Sinfonia» e i «Quartetti» op.74 e 95 L'ultimo periodo (1816-1827) comprende la nona «Sinfonia», la «Missa Solemnis», le «Bagatelle» op. 126 e 33, le ultime cinque «Sonate».

Piero Buscaroli (Corriere della Sera, 16 aprile 2004)

sabato, aprile 04, 2009

il Theremin: uno strumento originale

Creazione del fisico russo da cui prende il nome, il Theremin nasce nel 1920 ed è il primo strumento elettronico della storia.

Sulla rivista Americana Electronics Now del febbraio 1996 (nel frattempo integrata con la famosa Popular Mechanics e diventata ora Poptronic) veniva descritto un originalissimo strumento che si poteva suonare con le mani e senza toccare alcun tasto, pulsante, levetta o altro: il Theremin. Il theremin è il più antico strumento musicale elettronico conosciuto. È stato inventato dal fisico russo Leon Theremin nel 1920. Questo strumento è composto fondamentalmente da due antenne poste sopra e a lato di un contenitore nel quale è alloggiata tutta l’elettronica. Il controllo avviene allontanando e avvicinando le mani alle antenne, mediante quella superiore (posizionata verticalmente) si controlla l’altezza del suono, quella laterale (posta orizzontalmente) permette di regolarne l’ampiezza. Il suono può variare tra quello di un violino a quello vocale. Lo strumento è considerato molto difficile da suonare proprio perché lo si suona senza toccarlo. Il theremin è stato utilizzato soprattutto nelle colonne sonore dei film, in particolare Io ti salverò di Alfred Hitchcock e Ultimatum alla Terra. Altri esempi noti sono la sigla iniziale della serie originale di Star Trek e quella dei cartoni animati di Scooby Doo.
Principio di funzionamento. Il Theremin è uno strumento musicale elettronico che genera suoni monotonici. I segnali elettrici prodotti da oscillatori a frequenze radio (nella gamma degli 800 Khz) sono in grado di produrre suoni udibili. Questo effetto lo si ottiene sfruttando il principio dell’Eterodina che stabilisce come due diverse frequenze, battendo fra loro, producono tra le altre, una terza frequenza risultante dalla differenza delle due e che, se entra nel campo dell’udibile, si può quindi percepire. La frequenza del segnale udibile varia in relazione ai valori delle frequenze battenti e può anche essere modificata agendo su uno degli oscillatori elettronici. Il meccanismo con cui si può variare la frequenza potrebbe essere, ad esempio, una antenna collegata ad un ramo dell’oscillatore per cui, agendo su quest’ultima avvicinando o allontanando un corpo qualsiasi, si varia la capacità e quindi la frequenza dell’oscillatore stesso.
La magia del Theremin. Come già accennato l’inventore fu un russo, Lev Thermen, il quale trasferitosi nel 1920 a New York con il nome di Leon Theremin, iniziò ad usare e diffondere tale strumento battezzandolo con il proprio nome: Theremin, appunto. Le prime magiche esibizioni in orchestre importanti avvenne qualche anno dopo raggiungendo l’apice con il maestro Leopold Stokowski. Visto il successo, la Rca produttrice dell’apparecchio, rigorosamente a valvole in quei tempi, pensò che lo strumento potesse trovare collocazione in ogni famiglia benestante e iniziò una produzione di massa. Purtroppo l’idea si dimostrò un fallimento data la scarsa diffusione, all’epoca, dell’amplificazione e la estrema difficoltà d’uso. Oggi la sua applicazione è molto limitata ed il Theremin trova impiego laddove sono richiesti effetti sonori particolari; viene costruito usando moderne tecnologie a transistors, ma il principio dell’Eterodina è rimasto intatto. Lo strumento viene tarato in modo che la mano vicina all’antenna dell’intensità azzeri completamente il volume. Questo fa sì che per suonare una nota sia necessario avvicinare la mano sinistra all’antenna dell’intensità e regolare l’altezza dell’esecuzione con la mano destra in modo che, sviluppando l’abilità necessaria, diventi possibile effettuare un fraseggio musicale completo, staccati, appoggiati, crescendo, vibrato ecc. Negli strumenti più evoluti fabbricati nel corso degli anni sono presenti delle regolazioni che permettono di variare la sensibilità delle antenne in modo da permettere di ottenere una dinamica più o meno estesa nonché di variare l’estensione dello strumento. Sono inoltre presenti delle regolazioni che variano le forme delle onde generatrici consentendo quindi di variare anche notevolmente il timbro dello strumento.
La costruzione. Per pura curiosità il sottoscritto si è procurato un Kit per l’assemblaggio dello strumento (attualmente acquistabile sull’ormai omnicomprensivo ebay). La costruzione non è troppo complicata, anche se è necessario avere un minimo di conoscenze tecniche/teoriche di elettronica. Nel caso dovesse non funzionare infatti, chi non sa cosa è un oscillatore, un’eterodina e non ha un oscilloscopio, finisce per buttare tutto nel cestino.
Come si suona. È la parte più difficile, anche se si può in parte semplificare con la lettura di un buon manuale, reperibile con una certa difficoltà in commercio. Poiché si possono ottenere tutte le frequenze (da pochi Hz sino all’inudibile), individuare tra queste le frequenze della scala musicale con precisione e soprattutto stabilmente richiede un intenso allenamento e un collaudato orecchio musicale. Infatti è la posizione della mano rispetto l’antenna verticale a determinare l’esatta tonalità. Pochi millimetri o frazioni di millimetro in più o in meno, generano frequenze diverse. Molto facile è invece ottenere un suono vibrato muovendo velocemente le dita della mano prossima all’antenna verticale. L’antenna orizzontale agisce, analogamente a quella verticale, su di un altro oscillatore e la frequenza di battimento che se ne ricava viene usata per generare un segnale continuo, ma variabile in ampiezza, il quale agisce su di un amplificatore il cui guadagno è controllato da questa tensione (Vca, voltage controlled amplifier). Quindi avvicinando la mano aumenta il volume, allontanandola del tutto il volume va a zero. Da questa descrizione si intuisce che in condizioni normali (cioè con le mani lontano dalle antenne) non ci saranno suoni generati ed il volume dell’apparecchio e al minimo.
Gli effetti. Vale la pena sentirlo suonare. Non ci sono termini linguistici che possano dare un’idea della qualità del suono prodotto. È veramente simile alla voce umana. Se suonato da un musicista esperto riesce a produrre sonorità straordinarie, struggenti, "esoteriche", "metafisiche". Sono le prime parole che vengono in mente in grado di evocare timbriche oggettivamente strane. Non va sottovalutato l’impegno psicofisico dello strumentista. L’uso del Theremin necessita di fortissima concentrazione ed un controllo psicofisico assoluto. Lo spostamento anche solo di qualche millimetro nella posizione della mani (e quindi anche del braccio, avambraccio, polso, dita, posizione del corpo e postura) produce note diverse. Forse si potrebbe affermare, senza azzardare troppo, che l’apprendimento nell’utilizzo di questo strumento è un ottimo metodo di formazione psicosomatica, utile per qualunque musicista.

di Roberto Bondavalli ("Musicalmente", Anno 3, Numero 4, Gennaio 2008)