Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, aprile 24, 2009

Bill Bruford: drummer

E’ un onore per RockLine.it poter intervistare il celebre Bill Bruford, primo batterista degli Yes (1968-1972 / 1991-1992), militante nei King Crimson (1973-1984 / 1994-1996) e fondatore del progetto Jazz Earthworks, nonché autore di diversi progetti personali. Bill si racconta nelle dieci domande che concede, descrivendo la sua esperienza come musicista, le emozioni provate a comporre capolavori come Close To The Edge e le soddisfazioni di una carriera invidiabile pressoché da qualsiasi batterista odierno…

Ciao Bill. E’ un grande piacere per me poter condurre questa intervista con te: possiamo iniziarla parlando della tua prima esperienza da musicista. Sei stato il primo batterista degli Yes (1969) e componesti, insieme agli altri membri, capolavori del Progressive Rock come The Yes Album, Fragile e Close to the Edge. Come descriveresti la tua esperienza con gli Yes? Cambiò le tue attitudini musicali in qualche modo?
Beh, gli Yes furono la mia prima band...E’ un po’ come per la mia prima ragazza, sarò sempre un po’ innamorato di lei. Fummo la prima generazione di musicisti ad amare tutta la musica, ed alcuni di noi potevano addirittura suonarla tutta. Io pensavo che gli Yes stessero per diventare un gruppo Jazz - mi puoi sentire swingare con determinazione sul primo disco della band: mostra quello che intendevo. Quando mi accorsi che il gruppo non stava andando in quella direzione, cambiai prospettiva. Nessun segreto. Ad ogni modo il Jazz nei tardi anni Sessanta era stato considerato di sinistra e stava godendosi la sua fase “squeaky-bump-free-jazz”. In altre parole era come se avesse preso una spiacevole malattia e Hendrix ed i Vanilla Fudge erano molto più interessanti degli Spontaneus Music Ensemble. C’era un periodo in cui suonare tutta la musica non era un’opzione di carriera, poiché le persone ti etichettavano come Jazz o Electric Folk. Si rimaneva bloccati in quelle catalogazioni, ci si trovava coinvolti, e si finiva o a trascorrere con profitto il proprio tempo con persone interessanti, o lo si sprecava con persone stupide. Mi importava solo marginalmente con quale strumento suonassero, e non mi preoccupavo per niente del genere che pensavano di stare suonando. Non lo fa nessun musicista degno di essere considerato tale. Ho imparato molto negli Yes, ma sono probabilmente stato insofferente ed arrogante. Specialmente dopo che Buddy Rich disse alla stampa che io avevo buone mani, e io condussi un’intervista con lui al Dorchester Hotel.
Dopodiché hai preso parte al progetto King Crimson, quando sei stato invitato da Robert Fripp. Le tue abilità tecniche si svilupparono più velocemente e più facilmente in questo periodo? Ad oggi, se tu dovessi fare un paragone tra il Bill Bruford degli Yes e quello dei King Crimson, quale sceglieresti?
Naturalmente, il secondo che hai detto, visto che tutti i musicisti sperano di migliorare quando passano attraverso nuove e differenti esperienze musicali. Sia agli Yes che ai King Crimson penso di aver portato alcune idee che erano al tempo fuori dalla sfera d’interesse della musica Rock: tempi dispari, libera improvvisazione, strumenti inusuali, e più tardi perfino percussioni elettroniche. Queste innovazioni furono assorbite con entusiasmo dai Crimson. Fu un periodo fantastico con i King Crimson, e in nel corso di quei venticinque anni abbiamo fatto dei dischi davvero eccitanti. La gente non è mai andata a molti concerti dei King Crimson, dato che non ce ne furono molti a cui andare, ma ogni spettatore ricorda il concerto a cui andò - era il più eccitante lavoro di batteria nel Rock, poiché non sapevi mai cosa stesse per accadere! Dovevi essere pronto a cambiare, i King Crimson furono un vero veicolo per il cambiamento. Alla fine del periodo che passi nel gruppo, di certo non sarai più la stessa persona, con la stessa attitudine nel fare musica, di quella che eri quando ci entrasti. I King Crimson furono un gruppo importante, la cui influenza andò molto al di sopra ed oltre le sue vendite. Al momento non sto suonando con i King Crimson per due ragioni: primo, perché non penso di poter aggiungere altro e, secondo, perché ho molto altro da fare. Inoltre Pat Mastelotto mi sostituisce bene durante i loro concerti. Considero la mia esperienza come membro della band per venticinque anni (anche se non consecutivi) come stimolante, innovativa ed esasperante in ugual misura, e non cambierei un solo momento di essa. Ho imparato molto sulla musica e sul mio ruolo, negli anni, e sono stato abbastanza fortunato da partecipare a concerti che né il pubblico né i musicisti dimenticheranno facilmente. Ad un certo punto, attorno alla fine del millennio, divenne chiaro per me che avevo raggiunto tutto ciò che potevo raggiungere con il grande Re Cremisi. Mi sono interessato a ritornare a parlare la lingua del Jazz, non come turista, ma come un membro impegnato a pieno ritmo, e la seconda versione degli EarthWorks ha preso avvio nel 1998. Fare progressi con un gruppo richiede dimenticare gli altri. E come Robert Fripp è solito dire, la porta sarà sempre aperta, ma penso che nel 1998 circa ho attraversato uno spartiacque invisibile che ha significato che non posso sedermi nuovamente di fronte a grandi amplificatori per lunghe ore in una sala prove. Per spostarsi su un altro piano diventa infine essenziale che si abbandoni la sponda che si occupa. Penso di aver abbandonato quella sponda. Ho certamente irritato troppi musicisti di Progressive Rock suonando Jazz sul palcoscenico, quindi forse dovrei fare, o avrei dovuto fare, gli album che avrei realizzato trent’anni fa, se avessi saputo come. Ciò significa che non si sa mai nulla riguardo ai King Crimson. Bisogna aspettarsi l’inaspettato. Lavorare in due batteristi è paradossalmente sia molto limitante che molto liberatorio: limitante nel senso che se sei d’accordo a suonare in quel modo, devi suonare in quel modo, e liberatorio perché se uno dei due fornisce il semplice, l’altro può offrire il complesso. Ho suonato con altri batteristi come Jamie Muir nei King Crimson, Phil Collins nei Genesis, Alan White negli Yes e ancora Pat Mastelotto nei King Crimson. Pat ed io abbiamo optato per due grandi settori, a volte contemporaneamente. Il primo era il materiale metrico, tempi nei tempi, meccanismi nei meccanismi, come l’effetto di una pulsazione più lenta con una pulsazione più veloce che gli scorre all’interno. La band con due cuori…Questi sviluppi nella modulazione metrica, nella sovrapposizione e nell’illusione, ben dimostrate da Billy Kilson con Dave Holland o da Trilok Gurtu o Gavin Harrison, certamente forniranno la prossima ampia serie di sfide per noi batteristi. Il secondo settore era timbrico, confrontando e mettendo in contrasto l’elettronico all’acustico, il legno al metallo, il lento al veloce. Questo materiale ovviamente non ha solo a che fare con i due batteristi. Funziona bene anche con il bassista, sempre che sia di spirito indipendente!
Gli Yes divennero uno dei gruppi Progressive Rock più importanti del mondo anche grazie al tuo contributo; quando tu li lasciasti non riuscirono a replicare i capolavori del passato...Tu hai spesso detto che la ragione principale per cui abbandonasti il progetto era il fatto che le prove con il bassista Chris Squire erano spesso rimandate. Non eri abbastanza soddisfatto dal successo che il gruppo stava raggiungendo oppure non ti andava a genio la scena Rock?
Le prove non erano rimandate: Chris Squire era sempre, continuamente, in ritardo. Grossa differenza. Io non odiavo assolutamente -e non odio- la scena Rock, e quando capii che gli Yes stavano diventando un grande gruppo, la cosa mi fece provare una grande soddisfazione. Ma a quel punto mi sentii come se avessi già completato il mio lavoro: tutto ciò che mi potevo aspettare era una ripetizione senza fine, per tutto il mondo, di quella musica. Penso che quello che mi guidi sia il desiderio di contribuire, non importa quanto modestamente, a questa cosa che chiamiamo “suonare la batteria”, fino al più ampio significato di arte percussiva. Mi piacerebbe sentirmi, se non è troppo arrogante, come qualcuno che ha richiamato l’attenzione su alcune delle possibilità di come noi batteristi ci possiamo occupare del nostro strumento. Mi piacerebbe sentirmi come uno che ha contribuito al fatto che un batterista nel 2010 suoni diversamente da uno del 1970. Non penso sia possibile trovare qualcosa di davvero nuovo nella batteria -se fosse nuovo, non ce ne accorgeremmo- ma è possibile mescolare gli ingredienti in modo che il risultato suoni fresco e interessante. Negli anni Settanta ero molto giovane e naif. Ho fatto il tipico “viaggio” dell’artista, da uno stato di giovinezza in cui ero sicuro di conoscere tutto, fino a uno stato di maturità in cui so di non sapere nulla. Ora lavoro maggiormente come un “agevolatore”, ovvero qualcuno che possa dare a dei giovani talenti come ad esempio il sassofonista Tim Garland o Gwilym Simcock (il pianista attuale degli EarthWorks) una piattaforma internazionale, e che può crescere e imparare con loro. Non avrei fatto questo “viaggio” se fossi rimasto sempre con lo stesso gruppo di musicisti – non importa quanto fossero bravi.
Ti sei sempre pentito di aver preso parte alla reunion degli Yes nel ‘91-’92. Dissi addirittura che fu il peggior disco su cui tu abbia mai suonato. Cosa ti persuase a suonare nuovamente con la tua vecchia band?
C’è un po’ di confusione. Il progetto ABWH (Anderson, Bruford, Wakeman, Howe, NdR) del 1989 aveva qualcosa di interessante in sé, e se fosse stato lasciato da solo senza interferenze esterne, ci sarebbe stata la possibilità di diventare un gruppo capace di creare del materiale fresco. Tuttavia, la label e il manager decisero che gli Yes europei (Anderson, Bruford, Wakeman, Howe) avrebbero dovuto unirsi agli Yes californiani (White, Rabin, Kaye, Squire) per il disco successivo (Union).Quindi, le tracce “europee” furono mandate negli Stati Uniti per l’aggiunta e la modifica di alcune tracce, in origine abbastanza accettabili. A quel punto, la cosa perse completamente ogni significato e direzione e fu terminata da dei programmatori informatici. La cosa non mi piacque. Fu l’ultima volta in cui ebbi qualcosa a che fare con gli Yes.
Oltre alla tua Jazz band, gli EarthWorks e altre collaborazioni, sei ancora in contatto con alcuni dei musicisti della scena Progressive Rock degli anni ’70 con cui suonasti? Potremo vederti suonare nuovamente con alcuni di loro in futuro?
Conosco bene Steve Howe, ed altri a livello di conoscenti, ma non ci incontriamo spesso... e, no, non suonerò più con loro.
E come vanno le cose con il progetto Gordian Knot? Come descriveresti la tua collaborazione sia con Sean Malone che con gli altri esperti musicisti delle scene Rock e Metal coinvolti in quel progetto?
Sean Malone è un musicista molto brillante e dall’alto tasso tecnico. M’è piaciuto prendere parte al suo album nei Gordian Knot, ma non abbiamo ulteriormente ampliato la nostra relazione. Sono davvero stupito dall’energia dei musicisti Rock e Metal, specialmente dei batteristi, ma bastano cinque minuti perché la meraviglia si dissolva, dopodiché mi stanco. Per me, ascoltare quella musica è come essere colpito ripetutamente alla testa con una calza ripiena di cemento...
Dopo aver lasciato i King Crimson per la seconda volta, ti sei dedicato al jazz e alla tua carriera solista: cosa rappresenta il jazz per te? Lo preferisci al Progressive Rock? Questi due generi rappresentano due diversi capitoli della tua vita… penso quindi sia una scelta difficile, anche se è sempre stato il jazz la tua vera passione…
Dato che ho suonato jazz a tempo pieno per 20 anni, quale pensi sarà la risposta? Ma l’argomento deve essere avvicinato con precauzione. Le seguenti osservazioni hanno a che fare con qualcosa chiamato “jazz” e qualcosa chiamato “rock” nei termini più ampi, del resto ci saranno subito delle eccezioni, ma in generale la distinzione ha principalmente a che fare col modo in cui un musicista vede la propria funzione, e il modo in cui la musica scaturisce da tutto ciò. In parole povere, il musicista rock si preoccupa di creare un prodotto, il musicista jazz crea un processo. Il musicista rock compone musica che pensa possa piacere al pubblico, o che lo si può convincere a farlo. Il jazzista è coinvolto vita natural durante in un processo che il pubblico è caldamente invitato ad osservare. Se a loro il processo piace, ottimo; altrimenti, bene, il processo continuerà in quel modo e in qualunque caso, non per ottusa ostinazione, bensì perché non potrà fare altrimenti. Deve essere così, se no non dormirebbe di notte. È un uomo di più o meno forti principi. Il musicista rock è coinvolto in un gioco più pericoloso. Ha bisogno dell’approvazione del pubblico per non vanificare i propri sforzi. Senza questo apprezzamento, riflesso dal mercato (forti vendite, classifiche…), la sua musica è del tutto priva di significato. Non ha valore in sé e per sé. Il jazzista è più al sicuro, se non sul terreno economico, almeno su quello psicologico, perché il processo che sta attuando può / dovrebbe / di solito ha valore per lui personalmente, senza preoccuparsi dell’approvazione esterna. Non si chiede cosa voglia il pubblico, un attitudine che troverebbe paterna. Se non ci azzecca, nessuno sarà felice, né l’artista, né l’ascoltatore. Il Progressive Rock, nella sua espressione migliore, fu un prodotto del suo tempo e dell’ambiente che gli ha dato i natali – l’Inghilterra circa tra il 1968 e il 1974. Allora ha avuto rilevanza e uno scopo. Ma questo fu quasi 40 anni fa. Non ha nessuna rilevanza per me ora.
Torniamo al tuo passato: poi brevemente descriverci la tua evoluzione musicale come batterista? Quando e perché hai cominciato? Dove hai preso le tue prime lezioni? Cosa ha significato per te suonare la batteria?
Sono cresciuto col Jazz dai 12 anni, guardando tutte le più grandi star americane del jazz nelle prime serata della TV inglese. Ho preso poche lezioni, per lo più ho imparato tutto andando avanti con l’esperienza. Sono cresciuto suonando swing con un piatto piuttosto che cosa fossero i motori a otto cilindri, ma quando divenni un professionista nel 1968, tutti i bravi batteristi britannici si fondavano nell’eccitante nuova scena rock. Charlie Watts suonava con i Rolling Stones, Ginger Baker con i Cream e Mitch Mitchel faceva la sua interpretazione di Elvin con Jimi Hendrix. Ho pensato per un momento che sarei stato una via di mezzo tra Max Roach, Joe Morello e Art Blakey, e tutto questo l’ho fatto negli Yes. Ho cercato la mia strada di ritorno al jazz da allora, prima di tutto un varietà elettrico con la mia band Bruford, poi un duo d’improvvisazione con Patrick Moraz, e alla fine gli Earthworks, dove ho ora un gruppo di grandi musicisti ai massimi livelli. Sto crescendo in sicurezza soprattutto grazie a tutto ciò , e mi dispiace che da qualche parte lungo la strada le mie varie compagnie di registrazione si siano dimenticate di dire al pubblico italiano che ora suono jazz! Per me suonare la batteria è un modo per contribuire alla scena musicale che mi stimola moltissimo. Ne sono veramente appassionato. Le mie stesse orecchie mi spingono attraverso l’intimità, la trasparenza, l’immediatezza e l’onestà del jazz acustico e improvvisato. La differenza tra rock e jazz è oggi un’idea piuttosto fuori moda; una distinzione più efficace è quella tra musica basata su una performance e basata sul computer. La prima è un paradigma o un modello di una cooperazione sociale di alto livello, al seconda un modello di una cooperazione con un computer ad alto livello. Fa la tua scelta. Vedo l’inesorabile avanzata della musica composta col computer, che ognuno può fare nella propria camera da letto, gettando nel dimenticatoio i musicisti reattivi, che possiedono la capacità di improvvisare di contare sulle proprie forze. Queste persone diventeranno sempre più rare (poiché ci vuole un’intera vita per imparare a suonare uno strumento, e oggi non molti ne hanno al pazienza), e quindi sempre più preziose.
Le tue produzioni sono molte e varie, quindi credo sarai abbastanza occupato nel futuro. Cosa stai componendo al momento? Continuerai la tua carriera solista? E quando potremo ascoltare il nuovo disco degli Earthworks?
Sto dedicando molto tempo anche alle mie due bambine, la Summerfold Records e la Winterfold Records. La Winterfold si occupa di quello che tu chiameresti “Prog” con chitarre elettriche, la Summerfold si occupa di Jazz col sassofono. Tra tutte due ho già, incredibilmente, qualcosa come dodici titoli, con altri tre in programma sulla tabella di marcia. Prossimamente ci sarà lo strabiliante DVD del programma della BBC “Rock Goes to College”, con Allan Holdsworth (chitarra), Annette Peacock (voce), Dave Stewart (tastiere) e Jeff Berlin (basso), il gruppo che avevo alla fine degli anni ’70. Gli Earthworks saranno in Polonia, in Scandinavia e negli Stati Uniti per il resto dell’anno, e mi congiungerò a coda di rondine per qualche apparizione clinica nel nord-est degli Stati Uniti e in Canada fino a Dicembre. Poi Glasgow, in Scozia, il 16 dicembre!

intervista di Edoardo Baldini, 22 agosto 2006 (www.rockline.it)

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