Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, febbraio 27, 2006

Johann Schobert: Six Sonates pour le Clavecin op. XIV

"(...) ha scritto quindici collezioni
(...) di Sonate che non smetterò mai di suonare.
Nel suonarle, sentimenti dolorosi trafiggono la mia anima. "
Cornelia Goethe (1767)


Intorno alla metà del XVIII secolo nuovi fermenti musicali attraversarvano l'Europa. I suoni di una "nuova musica", luminosa, galante, leggera, antitetica alle ampollosità del Barocco, si diffondevano per le città e le corti di mezza Europa, affermandosi come il nuovo modo di fare musica.
Parigi fu probabilmente il più importante tra i centri di questa "nuova musica". Qui il mecenatismo di alcuni nobili aveva permesso giù alla fine degli anni '30 la creazione di alcune orchestre private che cominciarono o proporre al pubblico parigino, inizialmente in modo quasi clandestino, una programmazione alternativa rispetto alle proposte ufficiali dell'Opéra, delle due Comédies (Fronçoise e Italienne) e dei Concert Spirituel, istituzioni pubbliche prestigiose ma assai poco ricettive delle emergenti novità musicali dell'epoca. E' interessante notare come questi nuovi circoli privati fossero "i soli luoghi a Parigi dove, con vent'anni di anticipo, si ascolta senza arrossire della musica strumentale"(B.Brévan, Les changements de la vie musicale parisienne de 1774 à 1799, Presses Universitaires de France, 1980), con riferimento al fatto che l'Opèra, le Comédies ed il Concert Spirituel imponevano di fatto al pubblico parigino l'ascolto di musica quasi esclusivamente vocale, siano esse opere, mottetti, contate o voudevilles.
La febbrile attività di queste orchestre (presso il marchese de la Pouplinière si tenevano fino o tre grand concerts al giorno), unita alla disponibilità finanziaria dei loro patroni ed al successo crescente di pubblico, sempre più interessato alle novità che vi si potevano ascoltare, le rese ben presto protagoniste del rinnovomento della musica orchestrale in Europa ed uno dei motori delle avanguordie musicali dell'epoca. La loro copacità di attrazione presso i musicisti francesi e stranieri (soprattutto tedeschi) resero presto Parigi una
tappa irrinunciabile per ogni artista dell'epoca. Basti citare Jan Stamic, che lavorò presso de la Pouplinière tra il 1754 ed il 1755, o lo stesso Wolfgang Amadeus Mozart, più volte a Parigi negli anni '60, che nel 1764 vi pubblicò le sue Sonate per cembolo e violino op. I.
E fu proprio a Parigi che Johann Schobert intraprese la suo carriera di cembalista e compositore.
Tedesco, nato in Slesia (Breslavia?) poco prima del 1740, Johann Schobert arrivò a Parigi nel 1760 in qualità di clavicembalista dell'orchestra privata del Principe Louis Fronçois de Bourbon-Conti. Virtuoso di clavicembalo, Schobert scrisse esclusivamente musica per tastiera, esplorondo le forme della sonata solistica, della musica da camera e del concerto con orchestra. Nonostante il suo legame con il Principe Conti, Schobert come alyti suoi contemporanei, non appartiene più al mondo chiuso delle corti. Egli pubblica tutto la sua musica (spesso a proprie spese), si esibisce nei salotti parigini, ha un discreto numero di allievi privati, comprende che ormai il successo professionale di un musicista si misura anche dal livello di popolarità raggiunto. Proprio in quegli anni si sta infatti facendo largo (soprattutto a Parigi e Londra) una nuova figura, quella del musicista libero professionista, non più legato a filo doppio ad un principe o ad una corte, ma libero di proporre ad un pubblico più ampio i frutti del proprio lavoro e, soprattutto, libero di trovare fonti alternative di reddito: la stessa strada che avrebbero seguito di lì a poco, con alterna fortuna, Johann Christian Boch e Wolfgang Amadeus Mozart.
Per meglio sostenere la sua immagine presso il pubblico parigino (o meglio, presso gli acquirenti delle sue musiche), Schobert annunciò quindi nel 1764, denotando una certo predisposizione agli affari, che "il va donner ou public, par souscription, douze sonotes de clavecin de sa composition. On en delivrera, une tous le mois" ("darà al pubblico, previa sottoscrizione, dodici sonate per clavicembalo. Ne fornirà una al mese"). Così nascono anche le Six Sonates pour le Clavecin dédiées a Modame de la Valette op.XIV, pubblicate chez l'auteur a Parigi nel 1766, che prevedono tra l'altro una parte del violino ad libitum, aggiunta a posteriori per esigenze editoriali.
Compositore di natura profondamente eclettico, Schobert introduce un tipo di scrittura nuovo, agila, virtuosa, sintetizzando in uno stile assai peculiare i tratti dei sonatismi viennese e veneziano (a partire dal 1756 l'editore parigino Venier comincia a pubblicare le opere di Alberti e Galuppi), le novità orchestrali di Mannheim (valga per tutti l'incipit della Sonata n.2, sicuramente figlia degli ascolti parigini delle sinfonie di Jan Stamic) e addirittura il genere empfindsam in voga nella Germania del nord. Schobert non abbandono tuttavia completamente la tradizione francese: la ricchissima tavolozza di abbellimenti utilizzato, l'introduzione di Polonaises e Minuetti, l'uso delle petit reprises riconducono immediatamente ad un altro mondo, lontano da quella "nuova musica" cui Schobert appartiene spiritualmente.
Se il linguaggio di Schobert è dunque in qualche modo "di transizione", i contenuti della sua musica sono assolutamente nuovi, veri precorritori delle future inquietudini romantiche. Sentimenti quali il dolore, la tristezza, la solitudine, la malinconia, la disperazione fanno la loro comparsa senza più essere mediati dalla retorica del barocco, ma in modo diretto, attraverso il cosciente utilizzo di nuovi strumenti espressivi: le galanterie sono ridotte al minimo e in ogni modo sempre funzionali ad un discorso musicale di grande profondità, i contrasti espressivi sono acuiti dalle giustapposizioni improvvise dei modi maggiori e minori (ad esempio nel Minuetto della Sonota n.5), il modo minore assume il ruolo di vero protagonista (le Sonate n.3 e n.4 e diversi singoli movimenti dalle altre sonate sono in minore). Non mancano naturalmente momenti di grande allegrezza (il Presto della Sonata n.2), di vera e propria gioia (il Minuetto della Sonota n.6), di gioco (la Badinage della Sonata n.6), di struggente bellezza (l'Andante della Sonata n.2) e di serenità (è il clima delle Sonate n.7 e n.5), ma in generale ci troviamo di fronte ad una musica "anti-illuminista" per eccellenza, assai interiorizzata ed in ogni caso "lontano da canoni di chiarezza e ragione", come fa notare intelligentemente G. Pestelli (L'Età di Mozart e di Beethoven, EDT, 1991). Cosi, in questo clima di diffusa instabilità spirituale, possono facilmente monifestarsi moti di violenta disperazione (il Presto della Sonato n.4), dichiarazioni di rabbiosa impotenza (come il Trio del Minuetto della Sonata n.2), curiosi sbalzi di umore (l'Andonte della Sonata n.6), riflessioni malinconiche (l'Andonte della Sonato n.4), momenti di immensa solitudine (si ascolti il Minuetto Grazioso della Sonato n.3), che donano a queste composizioni un'intensità espressiva che non trova riscontro in nessuno dei suoi contemporanei.
L'improvvisa morte di Schobert e di quasi tutta la suo famiglia (descritta da Melchior Grimm in uno particolareggiata cronaca dell'epoca), avvenuto nell'agosto 1767 per avvelenamento da funghi ed in seguito ad una leggerezza tale da far balenare l'ombra di un tragico suicidio collettivo, interruppe la sua brillante carriera ma, soprattutto, privò il panorama musicale dell'epoca di uno dei suoi più innovativi e geniali rappresentanti. Schobert lasciò una suo eredità artistica: inviso a Leopold Mozart ("è tremendamente falso"), probabilmente per invidia verso un virtuoso di clavicembalo che rischiava di oscurare la bravura dei suoi figli nelle tournée europee, fu invece oggetto di ammirazione da parte di Wolfgang Amadeus fanciullo, che conobbe attraverso le opere di Schobert forse per la prima volta le sfumoture più intime e segrete della musica.

Mario Martinoli (note al CD "Johann Schobert: Six Sonates pour le Clavecin op.IX" - Stradivarius STR 33460 - 1996)

sabato, febbraio 25, 2006

Maurice Ravel: il suono

Incominciamo dal suono. Da udire attentamente dovunque, nelle sue composizioni, per sentirne le sottili novità. I timbri, gli strumenti di provenienze diverse immessi nell'orchestra "classica": ciascuno ha la sua forza evocatrice, con i suoi connotati anche ritmici di partenza, il jazz entra restando jazz a modo suo, gli echi d'Oriente sono nel respiro di accostamenti timbrici inconsueti all'Occidente: non citazioni, ma nemmeno colonizzazione dei timbri "altri" che la musica "classica" debba assimilare. Fatti evidenti, notati mille volte. Non i piú interessanti.
Notati sempre anche i rumori, certa presenza di provenienze acustiche di sapore non strumentale, ma come protesa nell'esperienza fuori dal concerto, Citata spesso, negli studi su Ravel, la sua paginetta di racconto: "5 luglio 1905, sul Reno. Dopo una giornata su un fiume molto largo tra due rive disperatamente piatte senza carattere, si scopre una città di camini, di duomi che sputano fiamme e razzi diventati rossicci o blu. E' Hann, una fonderia gigantesca nella quale lavorano giorno e notte 24.000 operai. Come dirvi l'impressione di questi castelli di ghisa, di queste cattedrali incandescenti, della meravigliosa sinfonia delle cinture di cuoio, dei fischietti, dei formidabili colpi di martello che ti avvolgono? Dappertutto un cielo rosso, scuro e ardente... Come tutto ciò è musicale!". Significativa emozione; interessante; ma non ancora un fatto radicalmente innovatore.
Innovatore, anzi profetico, alla radice dell'esperienza non soltanto musicale d'oggi, è invece - sembra a me, decidete voi - il lavoro di moltiplicazione della percezione acustica e psicologica dei suoni e degli stessi linguaggi. Ravel fa musica partendo cioè non dalla proposta d'un germe musicale all'ascoltatore che deve seguirne lo sviluppo, ma dalla condizione propria del nostro tempo di ascoltatori immersi in innumerevoli suoni, rumori, parole, sovrapposti, dalla nostra capacità di seguirli completamente. Provare ad ascoltare il suo teatro musicale. Sarebbe necessario in teatro, ma si esegue poco, in Italia: è molto difficile da eseguire e per ora sembra ancora - ma sarà vero? - marginale agli interessi del consueto pubblico dell'opera. Necessaria comunque una registrazione stereofonica, spazio (o la fantasia per immaginarla, per i più geniali).
Prendere L'heure espagnole: del 1907, "scandalosa" farsa dove una bella moglie d'orologiaio, poco fornito salvo che d'orologi, cerca di consolarsi in sua assenza: il tempo è poco, i suoi visitatori son vivaci solo a parole, fino a che arriva un mulattiere poco capace di conversazione ma capacissimo di quello che la signora va cercando; per così dire, lieto fine. Canone conclusivo dei personaggi: "Un finanziere / ed un poeta / un buffo sposo / una civetta / che vari facendo / grandi discorsi / con versi lunghi con versi corti / e un po' di Spagna che li accompagna... / L'amore che deduce / e cerca il più efficace... Boccaccio ci può dare il suo parere: giunge il momento per il mulattiere".
Trama senza spessore, e parodia disinvolta dell'opera, di Wagner e degli altri. Ma tanto lineare e nitida è la farsa "nonchalante", tanto è denso, misterioso, l'insieme della percezione sonora. Udire attentamente il preludio. Al cupo e greve progredire d'un disegno di fiati che dipingono l'atmosfera della bottega dell'orologiaio, si sovrappongono rigorose spericolatezze di linguaggi totalmente differenti: campane e trombe e percussioni degli orologi ineccanici e dei loro carillons. Come fosse casuale circostanza, sovrapposti mondi sonori completamente differentì. Cifra costante oggi delle città e ormai anche delle campagne, la sovrapposizione. Cifra teorizzata da John Cage anche nell'ascolto della musica, non separarla dai rumori e suoni attorno. Cifra assunta pienamente da Luciano Berio, che ne fa una ragione poetica, un modo di comporre (potrebbe esserne un manifesto l'impressionante Sinfonia, del 1968).
Questa attenzione ad ascoltare insieme i percorsi indipendenti è da volgere anche alla musica di Ravel che la chiede con minore evidenza: per restare nell'Heure, provare ad ascoltare il lamento della insoddisfatta Conception, l'orologiaia: "Oh la pitoyablé aventure! ... / Et ces gens-là se disent Espagnols! ... / Dans le pays de donà Sol, / A deux pas de l'Estremadure!...". Per dirla in termini tecnici, oltre ad un variegato accompagnamento in sei ottavi degli archi, mentre clarinetto e clarinetto basso fanno macchia, ha un disegno di fagotto, che viene poi parodizzato grezzamente ma con la stessa nota ripetuta in un frammento brevissimo di corno, che passa alla tromba con sordina, ai tromboni con sordina, alla tromba senza sordina, e finisce in un crescendo e accelerando su una breve frase cromatica discendente dei flauti insieme agli archi, mentre anche il sarrusofono (una specie di oboe basso d'origine bandistica) emette la sua notona. Non c'è istante in cui non sentiamo una qualità sonora che ci circonda e ci si insinua, che è solamente di Ravel e che procede per associazioni acustiche, sensazioni fisiche, firniniscenze.
Intuizione assoluta, questa? A me sembra che sia assai grande invenzione scrivere sapendo che la percezione moltiplicata dei mondi sonori s'associa alla moltiplicata coscienza e percezione della complessità psicologica; inventare avendo capito la differenza fra l'unità del gesto o della scelta senza contraddizioni e l'unità della persona. Obbligati a sentire e decifrare insieme linguaggi e mondi differenti, diventiamo noi i depositari, con Ravel, d'un senso ultimo della storia, che non sta nella sequenza dei fatti, ma in come Ravel e noi li udiamo svolgersi. Non c'è che da ascoltare bene l'altra opera, breve anche questa, in un atto, L'enfant et les sortilèges. E un testo di Colette, il sogno d'un bambino: le cose e gli animali attorno a lui, che li maltratta, si ribellano, si muovono, ingigantiscono, lo accusano, lo perdonano soltanto quando, nel giardino illuminato dalla luna, egli con gesto spontaneo medica la zampa ferita a uno scoiattolo caduto. Anche qui, la struttura è semplice: una specie di passerella di personaggi, incorniciata dalle venute della mamma, di oggetti ed animali; al centro l'incantamento per la principessa, quella della favola, che teneramente, amorosamente lo emoziona (ed è lo smarrimento della fanciullezza alle prime scoperte del fascino dell'altro sesso... ed è il mito della fantasia che cerca un'immagine, come nella famosa fatina di Pinocchio... ma più ancora è soltanto se stessa, col suo contrappunto tranquillo col flauto, e con lo struggimento che lascia); prima della fine, la battaglia degli animali contro il bambino e il corale degli animali convinti che il bambino è buono: che lo alzano verso la luna, lo riportano dalla mamma. E anche qui è complesso il mondo sonoro, con innumerevoli personaggi ed innumerevoli strumenti (da quelli classici, a quelli della musica leggera del tempo, a una grattugia); più ancora che nel teatro precedente è svincolata dalla tradizione l'armonia, come perpetuamente divagante (alla maniera dei Valses nobles et sentimentales) o esoticizzante (come Laideronnette in Ma mère l'Oye) e poi tuffata nella musica ballabile e jazz compiacendosi e inebriandosi... Nell'elenco dei procedimenti armonici, c'è una denunciata bitonalità, cioè sovrapposizione di brani eseguiti da diversi strumenti in tonalità diverse. E un elenco di abili procedimenti si può compilare per il contrappunto, nella sua raccolta semplicità. E più che i procedimenti interessa la qualità delle idee: la bellezza d'una melodia lontana dalle seduzioni dell'eloquenza ma non da quella del lirismo più interiore e commosso, la forza di agglomerati timbrici e armonici che continuamente ci portano a vivere con stupefazione e senza disagio in questo mondo di sortilegi. Ma, in più, il continuo ammiccamento, la continua parodia dei linguaggi, viene a creare una realtà molto più autonoma che non il riferimento ad altre. Se cioè la musica dice la partecipazione al tempo in cui Debussy aveva aperto la strada dell'impressionismo musicale, Schoenberg da Ravel ammiratissimo aveva creato le più prorompenti realtà autonome, linguistiche, e Stravinsky era l'esempio della possibilità di esser se stesso inventando o assumendo linguaggi nuovi; e se il tema teatrale dice la partecipazione al mondo dove Maeterlinck aveva offerto nelle favole il senso misterioso delle cose (e la principessa è la sua, col suo Oiseau bleu ... ) e dove Proust invitava alla realtà nata nell'intimo dei ricordi e fatta di null'altro che di sortilegi della memoria; la musica più il tema, cioè l'opera, sembra soprattutto procedere come costruendosi man mano le sue ragioni. Qualcosa di non troppo lontano da quello che trent'anni dopo Roland Barthes vedeva nel primo Adamov, se al concetto di «derisione» sostituiamo quello di «parodia»: «da una parte la derisione del linguaggio è evidente, e, dall'altra, tale derisione non cessa per questo di essere creatrice, producendo esseri perfettamente viventi, dotati di uno spessore di tempo che può anche accompagnarli per tutta un'esistenza fino alla morte».

di Lorenzo Arruga (Musica Viva, Anno XI n.7, luglio 1987)

giovedì, febbraio 23, 2006

La IX di Mahler diretta da Karajan

E' doveroso premettere che da un'ottica strettamente, volutamente limitata ad uno squisito ambito musicale questa versione di Karajan non riesce (ma d'altronde non vuole) a cancellare, a spazzare via in un sol colpo, a far dimenticare tutti i precedenti, molteplici anche se parziali, massimi momenti esecutivi scaturiti dalla bacchetta dei numerosi altri protagonisti mahleriani - in primo luogo ricordiamo Walter e Mitropoulos, ma poi anche Klemperer, Solti, Tennstedt, Giulini. Ed infatti in termini di capillare, radiografica analisi comparata, il distacco tra Karajan e gli altri direttori non è qui così netto, così vistoso come nel caso della quinta sinfonia. Ma, come ho già premesso in apertura, in questa sede a noi interessa solo misurare, identificare la portata, la profondità, l'intensità globale della concezione poetica con cui Karajan si è posto innanzi ed ha realizzato tale sterminata, antiretorica confessione dell'uomo di Kaliste.
Alla luce della sola quinta sinfonia, Pugliese affermava che «Karajan fissa, anzi ferma nel tempo il mondo poetico mahleriano ... ignorando completamente il "Futuro" di Mahler, e comunque attraendolo, per assorbirlo interamente, nell'orbita di quel "passato" al quale appartiene l'intera (sua) personalità artistica ... ».
Tale acuto giudizio, pur non perdendo il suo valore, appare però oggi, alla presenza di questa Nona, troppo limitativo. Karajan infatti, pur mantenendo il cosmo mahleriano sempre immerso e fissato in una dimensione costantemente rivolta ad un «passato» rimpianto, rimembrato, sospirato - e che è poi carattere precipuo e fondamentale della poetica artistica di Mahler - in questa sinfonia riesce con forza irresistibile a delineare il momento preciso della rottura, vero collasso psicobiologico, in cui l'ideale, il credo romantico che fino ad allora aveva guidato, o meglio sostenuto, l'animo di Mahler, si sgretola e crolla implacabilmente sotto i colpi sempre più violenti di una ormai chiara, razionale «cognitio mortis». Alban Berg in una sua famosa lettera definiva il primo movimento come un'immensa «celestiale» contrastante confessione di «amore per la vita e di certezza della morte». Karajan individua perfettamente tale situazione dello spirito traducendola nella resa musicale in un Andante ancora determinatamente pregno, intriso di senso del «passato», ancora dubbioso, incerto, insicuro di quanto di lì a poco sarà per essere rivelato. Al contrario di Levine, che fin dalle prime battute poneva invece il movimento in una certezza che in realtà dovrebbe essere ancora solo futuribile, Karajan fotografa un Mahler che, benché conscio della vera realtà delle cose, ancora esita, indugia, volge lo sguardo indietro, magari alla pia illusione dei Der Abschied dal Das Lied von der Erde. In questa dimensione gli isolati, incombenti annunci di morte, quali ad esempio il passaggio in fortissimo «con la massima forza» dove, parafrasando Berg, la morte da intuizione diventa drammatica certezza, risuonano in Karajan di una durezza e di una intensità fin ora mai ascoltate. E questo contrasto scaturisce e si evidenzia con tale determinazione proprio a causa di quella perdurante nostalgia dei passato. Elemento che in questa interpretazione mai viene programmaticamente abbandonato: quasi a ricordare, a sottolineare e qui la profondità dell'analisi del maestro salisburghese è davvero acutissima - che la Nona sinfonia non rappresenta una posizione poetica staticamente già accertata e definita, ma è essa stessa la risultanza di un continuo divenire interiore. Se è vero - ed io lo credo che, come ha scritto Marc Vignal, l'Adagio finale si pone come amplificazione dell'ultima parte dell'Andante comodo, è altrettanto vero che tale passaggio sarebbe inconcepibile, se non inspiegabile, senza la presenza dei due movimenti centrali: essi spiegano due diversi aspetti della medesima meditazione. Nel Laendler, così sardonico, goffo, trasandato, il ricordo dei momenti passati è più che esplicitamente dichiarato e si muta durante lo sviluppo in doloroso, angoscioso rimpianto. Tennstedt per quanto riguardava la scelta ritmica e l'accentuazione dell'incedere aveva operato una scelta felicissima; Klemperer per contro appariva troppo signorile e distaccato. Quello che però mancava realmente ai due era una concezione della pagina intesa in stretta relazione-opposizione alle drammatiche ammissioni del precedente Andante; con Karajan invece la nostalgia del passato diviene materiale, tangibile, di una tensione quasi struggente. Come se si trattasse di un estremo sguardo rivolto ad un mondo perduto prima dell'ultima finale capitolazione. Il Rondò-Burleske è pagina nervosa, virtuosistica, a tratti indemoniata. Come ho già avuto occasione di dire quasi mai si è riusciti ad ascoltarla eseguita correttamente per intero: la difficoltà tecnica, l'asperità della scrittura la rendono brano di assai difficoltosa esecuzione. Karajan però, forse solo come Solti e Mitropoulos, seppur in diversi aspetti, è riuscito a districarsi e a dipanare il fittissimo tessuto strumentale conferendo al brano una vitalità esasperata, un lacerante cinismo, un parossistico divertissement, rispetto a cui magnificentemente si evidenzia e si staglia il contrasto con il successivo Adagio. Qui ora si è innanzi veramente al momento magico dell'intera interpretazione di Karajan. Tutti i più inquietanti interrogativi vengono risolti di fronte alla luce di una cognizione, di una conoscenza della verità più definitiva ed assoluta. L'arte è qui davvero atto infinito di conoscenza pura. Alla presenza di una tale grandezza e vastità di realizzazione la nostra parola si fa inutile. Lo sconvolgimento abissale dei valori più sacri e necessari allo spirito dell'uomo, svelato nella pagina mahleriana, trova nella versione di Karajan una risoluzione abbacinante, stupenda, di terribile bellezza. Ormai non c'è più struggente compianto: al suo posto semplice, eterna constatazione. Ma il raggiungere simile, seppur crudele, vetta della conoscenza è momento di altrettanto intensissimo fascino. Ed anche sotto questo aspetto Karajan non è certo da meno di un Walter o di un Bernstein: la sua versione permette di gustare appieno tale, seppur quasi necrofilo data la paurosa intensità, accadimento poetico.
 
di Francesco M.Marcucci ("Banchetto Musicale", Anno III n.14, giugno 1981)

martedì, febbraio 21, 2006

Glenn Gould: Die Kunst der Fuge

"UNA FOCA ADDOMESTICATA CHE SUONA 'GOD SAVE THE QUEEN' SU UNA SERIE DI TROMBE D'AUTOMOBILE..."

L'Arte della fuga, Contrapunctus XIV, una "Fuga a 3 Soggetti" - vale a dire una fuga tripla - in re minore, in metro alla breve. Gould la suona, come sempre, profondamente curvato sopra la tastiera. Inizia con la mano sinistra; la destra, simile a quella di un direttore d'orchestra, sembra vibrare nell'aria accompagnando con ampi gesti, allargati al massimo, ogni nota eseguita dalla sinistra. La sua testa si china ancor più profondamente, sembra quasi ch'egli guardi nel vuoto sotto l'ascella sinistra...
"Bach ha scritto fughe per tutta la vita. Non vi era un'occupazione che fosse più consona al suo temperamento, e non esiste un altro genere musicale che permetta di valutare in maniera più esatta lo sviluppo della sua arte." Quanto è stato detto per il compositore ha altrettanta valdità per l'interprete: in certo senso l'intera vita di Gouid si potrebbe definire come una specie di Arte della fuga, come una ricerca dell'ideale polifonico. L'unica musica che lo interessasse era infatti quella contrappuntistica; e, viceversa, egli nutriva una profonda avversione per qualsiasi forma di musica il cui impulso iniziale non nasce da idee lineari" - anche nei casi in cui le opere derivavano nientemeno che dalla penna di Johann Sebastian Bach, come il Concerto italiano, BVVV 971 oppure la Fantasia cromatica e fuga in re minore, BWV 903.
Per quanto riguarda l'Arte della fuga, questo opus summum del pensiero polifonico affiorò per la prima volta nel repertorio del canadese il 16 aprile 1956, nel programma di un recital pianistico tenuto a Toronto, ch'egli iniziò con i contrappunti II, IV e VII. Nell'arco di tempo che si estende fino al suo "Concert Drop-Out" sono documentabili circa una dozzina di recital in cui Goud ha eseguito una selezione di contrappunti (solitamente tre o quattro) dall'Arte della fuga: ad esempio il 7 maggio 1956 a New York, il 12 maggio 1957 a Mosca e il 7 giugno 1957 a Vienna; ed anche in occasione delle sue ultime due apparizioni in pubblico, precisamente il 29 marzo 1964 a Chicago e il 10 aprile 1964 a Los Angeles. A quel periodo risale anche la produzione discografica dei contrappunti I - IX, realizzata da Gould per la CBS tra il 31 gennaio e il 4 febbraio 1962. Le registrazioni, diversamente da quasi tutte le altre effettuate fino a quei momento, non ebbero luogo nel leggendario studio newyorkese della 30th Street, bensì a Toronto, per l'esattezza nella "All Saints' Angilcan Church", dove la ditta Casavant Frères poco tempo prima aveva installato un grande organo neobarocco a quattro manuali con 66 registri. Tuttavia i cinque giorni riservati alla produzione risultarono insufficienti, ragion per cui venne programmata un'altra sessione in data 21 febbraio, questa volta con l'organo della "Chapel of the Theological College" di New York.
Indipendentemente dalla questione se l'idea di registrare l'Arte della fuga con l'organo fosse merito di Gouid o della CBS, il progetto non era poi tanto spropositato come potrebbe sembrare in prima analisi. Da un lato Gould aveva alle spalle un regolare studio organistico (assolto con Frederick C. Silvester presso il conservatorio di Toronto) e inoltre aveva sempre richiamato l'attenzione sui fatto che "l'organo ha esercitato un'influenza decisiva non soltanto sui miei gusti più tardi nella scelta del repertorio, ma credo anche sull'aspetto fisiologico del mio modo di suonare". D'altro canto la tessitura quasi astratta di questa musica, che non sembra concepita per uno strumento specifico, è perfettamente "rappresentabile" con l'organo, come lo è col pianoforte o con qualsiasi altro strumento addirittura con l'infausto "harpsipiano", con il quale Gouid aveva eseguito il contrappunto IV per un concerto televisivo nell'ambito della serie CBC "Sunday Music" il 25 gennaio 1962 (quindi pochi giorni prima della prima sessione nella "All Saints' Church").
Va sottolineato comunque che Gould non era affatto disposto a scendere a compromessi, che in realtà sarebbero stati indispensabili tenendo conto delle particolari condizioni della registrazione con l'organo. "Le confiderò un segreto", confessò nel 1977 nelle sue conversazioni con Jonathan Cott, "per quanto riguarda il mio disco organistico, [è stato] fatto letteralmente senza ch'io mi sia mai esercitato una sola volta allo strumento. Mi sono preparato esclusivamente al pianoforte [...] ed ho impostato i registri all'ultimo momento". In quell'occasione Gould non impiegò l'edizione organistica dell'Arte della fuga, e preferì affidarsi all'edizione "Peters" (trascritta su due pentagrammi da Carl Czerny), in cui aveva rudimentalmente schizzato il decorso della parte per pedale. Effettivamente, in almeno tre fughe - i contrappunti III, IV e V - Gould suona semplicemente manualiter, ed anche negli altri sei contrappunti l'impiego del pedale è ridotto a un minimo assoluto. A questo si aggiungono gli altri aspetti, seppure coerenti, dell'impostazione di Gouid, quali l'esecuzione non legato (diametralmente opposta all'essenza dell'organo) e l'altrettanto poco organistica "estetica di registrazione", con il rumore dell'aria che risultava (volutamente) udibilissimo: "I microfoni erano posizionati così vicino ai somieri dell'organo, che le canne potevano veramente 'parlare', come si suoi dire, ed ogni tanto anche fischiare come gli asmatici."
La condanna della critica non poteva essere più unanime. Persino critici ben disposti (come ad esempio il suo collega di studi John Beckwith) scrissero peste e corna dell'incisione: "L'impostazione di Gould sembra assolutamente antimusicale, e mi ricorda lo spettacolo di una foca addomesticata che suona 'God save the Queen' su una serie di trombe d'automobile." Anche se per anni nella corrispondenza tra il pianista e la casa discografica "Columbia" riemerge ogni tanto dalle tenebre come un fantasma il progetto di una seconda registrazione, dedicata ai cinque contrappunti rimanenti, l'incisione organistica pubblicata come "Volume I" fu destinata a condurre una vita solitaria; un "Volume II' non si sarebbe mai visto. Anche altri progetti organistici (ad esempio un'incisione delle sei sonate di Mendelssohn) non si materializzarono, se non altro per motivi di salute, come spiegò Gould nel gennaio 1965 al reverendo William Glenesk: "Temo tuttavia che i giorni delle mie esecuzioni all'organo siano conclusi. Come Lei saprà, qualche anno fa ho inciso la prima metà dell'Arte della fuga [...] e le conseguenze di questa sessione di registrazione sono state piuttosto spiacevoli: ho avuto enormi difficoltà con la sindrome della spalla (che non mi dà mai completamente pace), e pertanto l'intera esperienza mi è costata un po' cara per quel che riguarda la mia esecuzione al pianoforte. Il motivo è abbastanza semplice - l'intero rapporto tattile con l'organo è totalmente diverso rispetto al pianoforte, e pertanto tutte le forze relative vanno ripartite in conseguenza. Quanto invidio le persone che sono capaci di cambiare avanti e indietro da uno strumento all'altro, adattandosi con un minimo di sforzo - io temo invece di non riuscire a cambiar sella così facilmente. A prescindere quindi dal completamento della mia incisione dell'Arte della fuga prevista in data successiva (quando potrò permettermi di rinunciare a suonare il pianoforte per qualche settimana), sono deciso, in un futuro pronosticabile, a non eseguire più concerti per organo."
Detto questo, Gould tornò pur sempre due volte nello studio per registrare l'Arte della fuga di Bach - ma come pianista: il 23 novembre 1967 eseguì in un recital per la CBC i contrappunti IX, XI e XIII, e agli inizi del 1981 Bruno Monsaingeon poté convincerlo a concludere una puntata della trilogia filmata "Glenn Gould plays Bach" con il monumentale contrappunto XIV, che Bach ha lasciato in forma frammentaria. La sera della registrazione Gould convocò il regista e gli confessò che la fuga gli poneva dei grattacapi: "E' la cosa più difficile che abbia mai affrontato. E'... - in qualche modo bisogna renderla scorrevole ma come si fa? Ne ho diverse versioni - una che suonerebbe un po' come una pavana, un'altra come una giga, tutte completamente diverse per quanto riguarda tempi, fraseggi, articolazioni e così via."
Nella battuta 239 la musica s'interrompe con il re3, una croma. Come fulminato da una scossa elettrica, Gould solleva improvvisamente il braccio - la scena è stata immortalata dalla cinepresa con un fermo immagine e lo mantiene sospeso in aria, come se d'ora in poi dovesse rimanere fermo per tutti i tempi: "Nella musica non vi è mai stato nulla di più bello di questa fuga." Coloro che hanno avuto l'occasione di assistere a un'esecuzione gouldiana dell'ultimo contrappunto, rimasto incompiuto, dell'Arte della fuga di Bach, non potranno mai dimenticare qest'immagine.

Michael Stegernann (cd sony smk 52 595) trad. Claudio Perselli, 1997

domenica, febbraio 19, 2006

Reggio Emilia, Festival del Quartetto

Festival del Quartetto pare una contraddizione di termini, un ossimoro classico. Come conciliare l'idea spettacolare, da emporio sonoro, sensazionalistica, spesso più eccentrica che autenticamente motivata culturalmente, d'un festival, con l'inclinazione aristocratica, vagamente solipsistica e selettiva del repertorio del quartetto? E poi, che bisogno c'era d'un festival? Seppure onorato dall'interessamento artistico di Salvatore Accardo, che negli ultimi tempi dedica sempre più (troppo?) tempo alle consulenze e all'organizzazione.
La letteratura per quattro archi - considerata sia dal punto di vista esecutivo che dal modo di assaporarla - è una sorta di prolungamento storico-stilistico del madrigale cinquecentesco o della lirica vocale da camera del Seicento. Musica cameristica per antonomasia, ovvero musica che dà piacere soprattutto a chi la fa. Musica che non vuole spettatori, tant'è privata nella sua configurazione strumentale e grafica. La storia del consumo in musica - prima dell'era nostra della riproducibilità casalinga - ci insegna infatti che la progressiva prostituzione pubblica venne avviata dal melodramma, quindi toccò il sinfonismo e concertismo: soltanto poco più d'un secolo fa si imposero il recital solistico (accanto alle residue esibizioni degli autori-interpreti) e le prime stagioni a pagamento in cui c'era spazio anche per la musica da camera non agìta in prima persona. Per quel che riguarda lo specifico quartettistico, basterebbe ricordare che soltanto in questo secolo la pratica concertistica ha favorito la costituzione di formazioni stabili: prima del Quartetto Busch o del Quartetto Italiano (lo stesso vale per il classico trio), i gruppi quand'anche eccellenti erano occasionali e precari, segno che lo sfruttamento del repertorio quartettistico, quindi la familiarità d'ascolto nei non-praticanti, era ancora minima. Oggi qualcosa è cambiato: e se un Festival del Quartetto forse può sembrare un lusso, rimane però un bel segnale di maturazione del pubblico (ma non possiamo fare a meno di ricordare che il nuovissimo Dizionario della musica e dei musicisti Utet, nella sezione biografie che cita, con criteri di difficile comprensione, innumerevoli esecutori di oggi, non elenca nemmeno un Quartetto). Un pubblico che si sperdeva un po' tra gli stucchi dorati del Teatro Valli, ma che ha esaurito gli appuntamenti decentrati, i quali hanno unito interesse musicale per i programmi e i giovani complessi portati in passerella alla curiosità per le originali sedi: per il Quartetto di Fiesole, ultimo prodotto eccellente della bottega di Piero Farulli, la Chiesa di San Giorgio a Rio Saliceto pareva perfino troppo piccola. Ma un pubblico che negli intervalli disquisiva delle interpretazioni appena ascoltate e dell'edizione critica di lavori programmati, con competenza impressionante e soprattutto con una passione rara.
Del resto, che il repertorio quartettistico non intimorisca più l'aveva dimostrato l'integrale beethoveniana regalata dal Piccolo Teatro di Milano qualche mese prima (protagonista il Quartetto Melos) e quella annunciata per il prossimo anno dalla Società del Quartetto alla Scala, affidata al Quartetto di Tokyo. Anche a Reggio Emilia spiccava nel programma l'integrale dei Quartetti di Beethoven, accanto alla proposta completa di quelli di Schumann e di Brahms. Il Festival, giunto alla seconda edizione, è una sorta di integrazione spirituale della vocazione quartettistica di Reggio Emilia, già espressa dal "Concorso Borciani ". L'edizione 1992, avviata dal Quartetto Borodin e conclusa dal Quartetto Stauffer, ha dato spazio anche alla prima esecuzione assoluta di Un segno nello spazio di Marco Stroppa, pezzo d'obbligo alla futura edizione del Concorso, e ha battezzato una nuova coreografia di Mauro Bigonzetti (scene e costumi di Claudio Parmeggiani), Pitture per archi, creata per l'Aterballetto sulla beethoveniana Grande Fuga op.133.
Noi abbiamo ascoltato le due esibizioni contigue dell'americano Quartetto Emerson, cui sono toccati i quattro capolavori dell'estrema stagione compositiva beethoveniana: l'op.131, l'op.132 e l'op.130 come ultimo movimento. Esecuzione di non comune efficienza strumentale, ma poco interessante. Il "democratico" Quartetto Emerson, famoso per l'avvicendamento al primo leggio dei due violinisti - ma Eugene Drucker non possiede l'autorevolezza di Philip Setzer - ha una visione squisitamente astratta della scrittura d'autore. Che è metafisica ma non esangue, anzi vive d'una specie di fosforescenza irresistibile svelata dal ricchissimo repertorio di soluzioni timbriche e dinamiche, nonché dal ricorso disarmante a sottili raccomandazioni poetico-espressive come di parole delicate quali sentimento e tenerezza. Che in esecuzione non si sono avvertite mai.

Angelo Foletto (Musica Viva, Anno XVI n.8/9, agosto/settembre 1992)

venerdì, febbraio 17, 2006

Reinhard Goebel: l'esecuzione dell'"Arte della Fuga"

L'esecuzione dell'Arte della fuga come opera completa non era prevista da Bach, né era concepibile nell'ambito della prassi concertistica del suo periodo. Lo stesso vale per tutte le opere che il compositore ha riunito in gruppi di sei, dodici o anche in cicli più ampi. Infatti, l'usanza di raccogliere opere di simile fattura in un volume manoscritto o in un'edizione a stampa era nata da considerazioni di carattere pratico, e non va quindi intesa come riferimento ad un'affinità fra le composizioni e con ciò alla possibilità di un'esecuzione in forma ciclica.
In seguito alla tradizione delle "edizioni complete" del diciannovesimo secolo, si impose nel ventesimo quella della "incisione completa" e della "esecuzione di tutte le opere". Ma mentre altri cicli e raccolte di opere bachiane possono essere integrati con facilità nella prassi concertistica di oggi, le esecuzioni dell'Arte della fuga rappresentano ancora un fenomeno piuttosto raro. Nei Concerti brandeburghesi, nelle Sonate e partite per violino solista, nelle Suites per violoncello e persino nel Musikalisches Opfer (fra le sue composizioni quella che più si avvicina all'Arte della fuga) ci troviamo davanti a un certo numero di componenti eterogenee, che differiscono fra loro per la struttura dei movimento, il tempo, la tonalità, il metro, l'organico e il numero di voci. Al contrario, l'Arte della fuga è costituita da 22 movimenti in re minore quasi tutti in ritmo binario, concepiti in maniera polifonica e basati su un unico tema.
Non si tratta qui di cercare di definire l'Arte della fuga come l'ultima composizione per complessso strumentale di Bach, ma è certo che nelle esecuzioni con strumenti a tasto vengono a mancare alcune sfumature come la dinamica e il colore.
Indubbiamente bisogna essere molto cauti con uno "schiarimento" acustico: alcune combinazioni strumentali erano assolutamente estranee alla prassi dei diciottesimo secolo, e alcuni strumenti non si prestano per l'esecuzione di musica polifonica.
E' interessante, tuttavia, paragonare l'Arte della fuga ad altre raccolte di composizioni simili, come ad esempio il Kunstbuch di Theile oppure gli Artifici musicali di Vitali. Se si getta uno sguardo alla Vienna degli anni Ottanta del Settecento e in particolare agli adattamenti mozartiani - non soltanto dell'Arte della fuga ma soprattutto delle fughe per pianoforte K.401 (375e) e K.426, la nascita e l'arrangiamento delle quali hanno una storia piuttosto complicata - ci si accorgerà che l'opera incompiuta di Bach non appare affatto unica nel suo genere per quanto riguarda le difficoltà che presenta. L'uso di comporre fughe senza specificare gli strumenti per la loro esecuzione ha alle spalle una lunga tradizione che alla fine - come nel caso delle due fughe mozartiane conduce alla composizione di fughe la cui esecuzione risulta sempre inadeguata se non addirittura impossibile, qualunque sia la scelta dello strumento o del complesso strumentale.
Sin dal 1600 la fuga per archi, accanto a quella per pianoforte, aveva occupato un posto fisso nel campo della musica strumentale, e veniva curata in pari misura in Inghilterra, in Francia, in Italia e in Germania. Esistono numerose opere simili come composizioni indipendenti (con titoli come Fantasia, Ricercare, Capriccio, Fuga), oppure senza titolo e facenti parte di una sonata, sia per complessi di quattro viole da gamba sia per il moderno complesso d'archi e per complessi misti, come ad esempio le composizioni di Valentin Hausmann, Caspar Kerll, Reincken, Buxtehude, G.E. Vitali, G. Legrenzi, Corelli, Torelli e Johann Theile. Nella tradizione tedesca e in quella italiana esiste un vasto repertorio di musica polifonica per strumenti ad arco.
Dalla metà del diciassettesimo secolo in poi la famiglia dei violino ha avuto soltanto tre intonazionl (non tre formati), come violino, viola e violoncello (in si bemolle come relitto della vecchia tecnica di costruzione e in do nella variante moderna), in modo che la questione dello strumento da impiegare per la seconda voce rimane sempre controversa. Mentre in Italia venne scelto molto presto il secondo violino come soluzione definitiva, in Germania fu mantenuta per lungo tempo la prima viola per la parte di contralto, accanto a una seconda viola (probabilmente di dimensioni più grandi) per la parte di tenore. Di conseguenza, per i Contrapuncti 1 e 5, più "all'antica", e per l'incompiuta fuga finale abbiamo scelto questo organico, adatto anche per l'estensione delle voci nelle composizioni.
Per i Contrapuncti 4 e 6 viene aggiunta alla quarta voce un continuo di clavicembalo, che in parte suona una versione "accorciata" del basso e va inteso semplicemente come rinforzo del suono.
In relazione alla discussione sull'opera come composizione per complesso strumentale, Gustav Leonhardt pone la seguente domanda nella nota introduttiva per la sua incisione dell'Arte della fuga: "Perché improvvisamente devono apparire addirittura due clavicembali per l'esecuzione di un brano?" (s'intende nelle varianti "a 2 Clav." del Contrapunctus 13 in forma diretta e all'inverso). Anche nella nostra incisione questa versione (intitolata "Fuga") che conclude la prima edizione viene suonata su due strumenti anche se, come è ben noto, l'indicazione "a 2 Clav." significa "per due manuali". Ma contemporaneamente appare evidente che in questo caso si rende indispensabile la partecipazione di un secondo suonatore, poiché il pezzo non è realizzabile con un solo strumento nemmeno nella sua forma originale (appunto Contrapunctus 13). Per via delle numerose differenze (di notazione, metro, numero delle voci) fra la forma originale dei Contrapunctus 13 e la variante (Fuga "a 2 Clav") dobbiamo presumere che quest'ultima sia stata inserita "per errore" nella prima edizione, e che rispecchi soltanto una prassi di esecuzione curata nella famiglia Bach e già presente nelle composizioni dei francesi André Raison e François Couperin: l'esecuzione su uno strumento a tre e a quattro mani.
Nella presente incisione tuttavia - contrariamente alle nostre cognizioni - abbiamo scelto la versione già collaudata per due clavicembali per la "Fuga", mantenendo questa combinazione anche per altri brani dell'opera che non recano indicazioni precise. Accanto ai Contrapuncti 10 e 12, vengono impiegati due clavicembali per i Canones "alla Ottava" e "alla Decima" - con ciascun interprete che suona con una mano sola. Le piccole "irregolarità" che nascono neil'esecuzione da parte di due suonatori e le sonorità diverse dei due clavicembali conferiscono una vita propria a ciascuna delle due voci canoniche.

Reinhard Goebel (Traduzione: Claudio Perselli)

mercoledì, febbraio 15, 2006

Georg Solti: addio a una grande bacchetta!

L'ultimo sorriso di sir Georg Solti.
Nato a Budapest nel 1912, alla guida di alcune delle più prestigiose orchestre d'Occidente seppe conquistare e spronare cantanti e musicisti con sapienza da uomo di teatro.


Sisifo l'aveva incatenata, con un furbo stratagemma. Fu un disastro: nessuno andava più all'altro mondo, essendo il morire, senza di Lei, una procedura illegale. A un certo punto, la situazione divenne insostenibile: il pianeta era iperaffollato, i bambini erano costretti a crescere addossati a indistruttibili vegliardi, l'aria era irrespirabile e ormai salivano, contro il figlio di Eolo, la riprovazione e il rancore. Soltanto i dirigenti di alcune chiese integralistiche si congratulavano con l'empio tragressore, lodevole, secondo loro, per avere favorito una sana esplosione demografica. Zeus obbligò Sisifo a liberare la Morte dalle catene, cioè, letteralmente, a "scatenarla". In verità, scatenata la commare secca, non fu proprio subito un'ecatombe: la Morte, rimasta a lungo inattiva grazie alla ribalderia di Sisifo, si era arrugginita, e nei quattro o cinquemila anni trascorsi dai tempi di Sisifo a quelli di Maastricht non fece altro, in sostanza, che sbattere gli occhi (si fa per dire) e scuotersi dal torpore, liquidando, ma così en passant, qualche passante, cioè pochi miliardi di persone defunte da allora a oggi.
Al principio della scorsa settimana, la Morte ha raggiunto finalmente, come si dice, un regime ottimale di operatività: ha cominciato a fare sul serio. Quella appena trascorsa e' stata, infatti, una settimana dagli esiti eccezionali: si è aperta con Lady D, ha lavorato accuratamente nella zona di Medea in Algeria, ha pianificato obiettivi importanti fra le suore di origine albanese residenti a Calcutta, si è arricchita di brillanti risultati nella zona di confine tra Israele e Libano e nell'ambiente delle anziane e scippabili pensionate napoletane, non senza pianificare altre new entries nelle aree turistiche intorno alla Majella. A conclusione della settimana, la commare secca è ritornata a un ambiente ormai collaudatissimo e da Lei piu' volte visitato in questi ultimi tempi, anzi, tanto visitato da far nascere chiacchiere, mormorazioni e sospetti di favoritismo: l'ambiente dei direttori d'orchestra, e, in genere, dei musicisti.
Così in pieno weekend la commare (detta anche "la Siora Betina" a Venezia e Engelchen dalla vecchia comunità tedesca di Praga) ha preso in esame la pratica Solti. Già: sir George (o Georg, o Gyorgy) Solti è stato trovato morto nella sua casa di Cap d'Antibes la mattina di sabato 6 settembre, sicchè la pratica dev'essere stata protocollata nella notte tra il 5 e il 6 o forse nelle ultime ore del 5. Di questo apolide di lusso, magiaro-austro-germano-britannico, si può raccontare la vita in due parole, e con ciò dire poco o nulla di connotativo. Nato a Budapest il 21 ottobre 1912, allievo dei leggendari Dohnanyi e Kodaly, Solti fu direttore all'Opera della capitale ungherese dal 1930 al 1939: rara precocità, di cui molto si è favoleggiato e di cui lo stesso Sir George amava parlare con fresco compiacimento. Una volta lo ascoltai mentre narrava di sè diciottenne già direttore a Budapest, e mi accorsi, guardando il brillio una volta tanto non demoniaco dei suoi occhi, che la sua qualità più autenticamente simpatica era il periodico pulsare d'ingenuità infantile; quella qualità , non altre verso le quali provavo, lo confesso, poca simpatia.
Nel 1939, Solti dovette emigrare in Svizzera. Dopo la guerra, diresse enti prestigiosi senza mai prestarsi alle sciocche contrapposizioni del tipo Abbado-Muti o Furtwangler-Karajan. Governò l'Opera di Francoforte sul Meno e la Los Angeles Philharmonic Orchestra, il Covent Garden e la Chicago Symphony Orchestra, l'Orchestre de Paris e la London Philharmonic Orchestra. Nel 1972 ebbe la cittadinanza britannica. Nel 1983, centenario della morte di Wagner, a lui fu affidata l'esecuzione dell'intero Ring a Bayreuth.
Ma si può raccontare Solti anche in modo diverso, e partire da ciò che è stato per decenni l'enigmatico luogo di nascita di ogni rapporto di frequentazione con Solti da parte di chiunque: dal suo sorriso. Si è detto, in questi due giorni, che quel sorriso conquistava immediatamente, che era franco e simpatico, aperto, spirante saggezza di vecchio e benefico Maestro. A me, quel sorriso è sempre apparso maligno e persino crudele, ma era la crudeltà che egli esercitava su di sè e sulle proprie illusioni. La disillusione che spirava da quell'uomo benestante, sano e fortunato nella vita (fortunatissimo con le donne, e da ultrasettantenne) era palese, e da essa si sviluppava la caratteristica più spiccata di Solti: l'essere egli, soprattutto, uomo di teatro, di spettacolo. Di una partitura era l'aspetto "scenico" che egli meglio decifrava; era buona salute, non però ottusamente soddisfatta, che si riversava all'esterno. Là dove il rapporto tra suoni e referenti era più fortemente simbolico (così nelle partiture sinfoniche) egli riusciva meno felicemente, pur se la qualità era sempre preziosa. Ricordo una prova di registrazione al Wiener Konzerthaus nel giugno 1990, con i Wiener Philharmoniker e Kiri te Kanawa: Strauss, Vier Letzte Lieder. Gli orchestrali e la cantante, al principio, non sarebbero potuti essere più stanchi e svogliati. Solti li trasformò in angeli squillanti e lugubri non con le buone maniere, non con gli urli maleducati alla Toscanini, bensì con sorridenti e velenosissime frecciate; e come risplendeva perfido e sapiente, allora, il suo famoso sorriso!
La sua vocazione a essere uomo di teatro rende strana la sua decisione di quattro anni fa: di non dirigere più opere, ma soltanto concerti. Potrebbe essere stata una manovra sottile e spavalda di autonegazione: un po' come il fingersi un capitano di ventura (i travestimenti con Stetson a larga falda, sciarpona, mantello tenebroso), o come il funereo e dongiovannesco calarsi in fretta di notte da una finestra per evitare, lui ultrasettantenne, il giovane marito di una giovane e bella signora. Sulla veridicità dell'episodio c'è chi giura, e noi lo crediamo vero, poichè ciò spiegherebbe anche il suo modo di restituire il suono a una partitura, di far cantare splendidamente una svogliata Kanawa, di sorridere in quel modo un po' sinistro la cui indecifrabilità nasconde il segreto dello spirito nel cui nome Solti fu musicista.

di Quirino Principe (Il Sole 24 Ore, 7/9/1997)

lunedì, febbraio 13, 2006

Glenn Gould: i Quartetti

"UN'ESECUZIONE MUSICALE NON E' UNA CONTESA, MA UNA STORIA D'AMORE"

"Durante l'adolescenza ero piuttosto restio all'idea di una carriera concertistica", spiegò Gould nel gennaio 1962 in un'intervista con Bernard Asbell, "Mi consideravo una sorta di uomo musicale dei Rinascimento, abile in tante cose. Di certo volevo diventare compositore. E lo desidero ancora oggi. L'esibizione nell'arena non esercitava su di me alcun fascino. [ ... ] Un'esecuzione musicale non è una contesa, ma una storia d'amore."
L'idea fissa di abbandonare definitivamente non solo la carriera pianistica ma il pianoforte tout court, e dedicarsi esclusivamente alla composizione, si protende come un filo conduttore attraverso le sue interviste ed affermazioni degli anni Cinquanta e Sessanta. D'altro canto egli sapeva bene di non avere - fino a quel momento - un gran che da esibire come prova concreta della sua vocazione compositiva: un brano corale intitolato Our Gifts, composto nel 1943 all'età di undici anni per una festa della Croce Rossa, quattro pezzi per pianoforte (come musica di scena per una rappresentazione studentesca della Twelfth Night [Notte dell'Epifanial di Shakespeare, 1948/49) e una cadenza per il Primo concerto per pianoforte di Beethoven. I lavori successivi, come il frammento di una sonata per pianoforte, una Sonata in tre movimenti per fagotto e pianoforte e i Five Short Piano Pieces [Sony Classical SK 471841, erano certo più autorevoli e di indole più seria, ma appartenevano alla fase dodecafonica trascorsa tra i 18 e i 22 anni, le cui opere Gould aveva citazione originale - "messo in naftalina". "Durante i miei ventinove anni di vita, ho scritto una sola opera di grandi dimensioni e che mi piaccia: il mio Quartetto per archi. [...] Non è un auspicio particolarmente promettente in campo compositivo. Credo di dover coltivare certi aspetti della tecnica di composizione, soprattutto l'orchestrazione. Forse farei bene a sforzarmi di essere un po' più produttivo. Comunque, ancora non sono arrivato al punto di sentirmi infelice per aver scritto una sola opera completa."
Gould aveva lavorato al suo Quartetto per due anni e mezzo, dall'aprile 1953 all'ottobre 1955, "in un periodo in cui in tutti i miei programmi concertistici e nelle conversazioni mi ero presentato come prode paladino della musica seriale e dei suoi principali esponenti. Emerge così una domanda inattesa, ma del tutto comprensibile: come conciliare il mio dichiarato entusiasmo per i movimenti d'avanguardia dell'epoca con un'opera che sarebbe stata perfettamente adatta per un'accademia degli inizi dei secolo, e che non presentava sfide alle leggi di gravità tonali più audaci di quelle che avevano posto le opere di Wagner, Bruckner, o Richard Strauss? [...] Ebbene, in verità la risposta è semplicissima. Al contrario di tanti studenti, i miei entusiasmi raramente si basavano su idiosincrasie. La mia grande ammirazione per la musica di Schönberg, ad esempio, non implicava affatto il rifiuto dei romantici viennesi della generazione precedente." Dobbiamo dargli atto che il suo Quartetto si presenta come monumentale movimento in forma-sonata in fa minore della durata di una buona mezz'ora, il cui idioma musicale (partendo dal motivo di quattro note do - re bemolle - sol - la bemolle) si riallaccia a quello dei tardi quartetti beethoveniani e ricorda in maniera strepitosa Strauss e Mahler, il giovanile Sestetto per archi Verklärte Nacht, op.4 di Schönberg e il Quintetto per archi in fa maggiore di Anton Bruckner, opera di cui era venuto a conoscenza poco prima di comporre il Quartetto. (A detta sua, Gould avrebbe scelto la tonalità di fa minore perché credeva di scorgervi profonde affinità col proprio carattere: il fa minore rappresentava per lui, così la sua spiegazione piuttosto enigmatica, "un qualcosa di obliquo - a metà tra complessità e stabilità, tra fermezza di carattere e lascivia, tra il grigio e le tinte intense".)
Ultimata l'opera verso il concludersi dei 1955, Gould l'aveva subito inviata al violista Otto Joachim, che doveva eseguirne la première con il suo Quartetto di Montreal. "Il quartetto si trova in mano Sua da quasi due mesi. Finora non mi è giunta notizia che abbiate cominciato a lavorarvi", si lamenta tra il serio e l'ironico - in una lettera all'inizio dei 1956. "Ho atteso con esemplare pazienza, cosa che normalmente non appartiene ai tratti essenziali del mio temperamento. E negli ultimi mesi vi ho fatto un sacco di pubblicità gratuita. Della vostra esecuzione (?) ho parlato in numerose interviste durante i miei viaggi - naturalmente motivato dal massimo altruismo. Ma anche l'aspetto benigno e caritatevole della mia natura è sceso al livello piu abissale. E l'ira gouldiana, per lungo tempo trattenuta con amichevole pazienza, ora comincia a dare sintomi di grave infiammazione (contro la quale gli antibiotici sono dei tutto inefficaci). [...] Il quartetto fra l'altro dovrebbe essere eseguito con certezza (direi almeno del 96%) nella prossima stagione, in un concerto di musica contemporanea nella Town Hall di New York. Rida pure dell'aggettivo 'contemporanea'!! Per tornare in chiave seria, sono certo che si renderà conto del problema. [...] Mi resta soltanto da pregarLa di rispondermi al più presto possibile. Suo, pronto a ulteriori accessi di febbre e a culmini estatici, Richard Strauss."
Un'esecuzione newyorkese non si materializzò, ma alla fine spettò comunque al Montreal String Quartet (con Hyman Bress, Mildred Goodman, Otto e Walter Joachim) il compito di tenere a battesimo l'opus 1 di Gould: la prima ebbe luogo a Montreal il 25 maggio 1956. Sei settimane dopo il 9 luglio fu presentato in un concerto nell'ambito dei festival canadese di Stratford, accanto alla Sonata per pianoforte di Alban Berg (altro "opus 1"), alla Terza sonata di Ernst Krenek e all'Ode to Napoleon Buonaparte, op. 41 di Schönberg. Nell'una e nell'altra occasione la critica si mostrò complessivamente positiva e ben disposta; Gould poté rallegrarsi con pieno diritto dei suo primo successo in veste di compositore, e inviò la partitura (pubblicata dalla piccola casa editrice newyorkese Barger & Barclay) a tutti gli amici e conoscenti immaginabili. Anche il Quartetto Symphonia (formato da quattro membri della Cleveland Orchestra) lo mise in repertorio, ne eseguì la prima statunitense e nel marzo 1960 lo incise per la CBS. "Malgrado l'atmosfera di eleganza sbiadita e l'idioma dolceamaro fin-de-siècle, nell'insieme il mio quartetto ha ottenuto recensioni meravigliose", riferì Gould in una lettera a Silvia Kind. "Vi sono state alcune critiche 'alla moda', che hanno sottolineato l'inopportunità di far rivivere lo spirito di Richard Strauss nell'epoca di Stockhausen (è poi veramente la sua epoca?), ma fortunatamente le voci 'progressiste' sono state in minoranza ed hanno contribuito a suscitare una controversia sana e ragionevole." D'altronde Gould sapeva benissimo che il successo di questo opus 1 in fondo non aveva alcun significato: "E' l'Opus 2 che conta!"

Certo un "opus 2" non ci sarebbe mai stato - o comunque non una partitura che Gould ritenesse degna di un numero d'opera. Di fatto, almeno dal punto di vista cronologico, So You vvant to Write a Fugue? avrebbe avuto ogni diritto di fare ingresso come "op.2" nel catalogo delle sue opere. L'occasione per questo tour-de-force di humour gouldiano venne fornita da un programma televisivo da lui realizzato il 25 gennaio 1963 per la radioitelevisione canadese CBC: "The Anatomy of Fugue". Gould era ben consapevole che il suo concetto, di illustrare la forma in certo senso tramite la forma stessa e di articolare l'intera trasmissione come una specie di fuga, sarebbe rimasto inafferrabile per la maggioranza del pubblico: "Qualche volta ho la sensazione che non abbiano capito niente di quello che ho detto, ma che si sentano elevati". Ciononostante, rimase fedele al concetto originale. Dopo due madrigali contrappuntistici di Orlando di Lasso e Luca Marenzio, la Fuga in do minore, K. 546 di Mozart, due fughe dal Clavicembalo ben temperato di Bach e le fughe dalle sonate di Beethoven e Hindemith, come culmine finale del programma fu eseguita So You vvant vvant to Write a Fugue?: una fuga su come scrivere una fuga, con testo originale di Gould, adattata per quattro voci di canto e quartetto d'archi.
Il successo di questo brano d'occasione, scurrile e nel contempo geniale, fu tale che nel dicembre 1963 la CBS decise di inciderla - inizialmente senza nemmeno sapere quando e in quale contesto l'avrebbe pubblicata. Ufficialmente apparve soltanto nel 1980 (nel Silver Jubilee Album di Gould), ma era già stata distribuita nell'aprile 1964 come omaggio insieme a un numero della rivista "HiFi/Stereo Review". In realtà si tratta di uno spot pubblicitario cantato, di cinque minuti e quattordici secondi", commentò Gould, "uno spot non sponsorizzato, vogliamo sottolinearlo subito, e per molti versi anche fuori dei comune, poiché raccomanda alla leggera un prodotto che normalmente non viene offerto. Il prodotto pubblicizzato è uno dei mezzi creativi più durevoli della storia dei pensiero formale, e una delle pratiche più venerabili dell'uomo musicale. Il mezzo in questione si chiama fuga, e il procedimento è la scrittura fughistica. [...] La composizione assume la forma di una fuga che spiega come si scrivono le fughe - [...] un dialogo musicale tra quattro cantanti, assistiti, e in certi momenti contraddetti, dai commenti di un quartetto d'archi, [...] con citazioni irriverenti di Bach e Wagner." Se il compositore Gould avesse perseverato lungo questo cammino, si sarebbe certamente iscritto negli annali della storia musicale come uno dei sommi maestri di questo secolo, accanto al da lui tanto ammirato e venerato P.D.Q. Bach ...

VUOI DUNQUE SCRIVERE UNA FUGA?

Vuoi dunque scrivere una fuga?
Se hai voglia di scrivere una fuga,
se hai il coraggio di scrivere una fuga,
fai pure e scrivi una fuga che possiamo cantare!

Non prestar fede a quello che t'abbiamo detto,
non badare a quello che t'abbiamo detto,
dimentica tutto quello che t'abbiamo detto,
e tutta la teoria che hai letto.
Perché l'unico modo per scrivere una fuga,
è di tuffarsi dentro e scriverla.
Dimentica quindi le regole e scrivi una fuga,
prova, si, prova a scrivere una fuga.

Ignora quindi le regole e provaci,
e vedrai che divertimento,
vedrai quanta gioia ti recherà,
un piacere che certo ti soddisferà.
E allora perché non tentare?
Ti accorgerai che Giovanni Sebastiano
dev'esser stato un tipo assai piacente.

Ma non fare mai il furbo solo per il gusto di fare il furbo,
poiché un canone inverso è una pericolosa diversione,
e un po' di aumentazione è una grave tentazione,
mentre uno stretto con diminuzione è un'ovvia soluzione.
Ma non fare mai il furbo solo per il gusto di fare i furbo,
soltanto per darti delle arie!

C'è d'aver paura, non è vero?
E quando avrai finito di scriverla,
Penso che vi troverai tanta gioia (almeno lo spero)...
Bene, nulla di perso e nulla di guadagnato, come dicono...
Ma lo stesso, è piuttosto difficile incominciare.
Proviamoci.

Subito?
Scriveremo subito una fuga!

Michael Stegemann (1997, cd sony SMK 52679)

sabato, febbraio 11, 2006

Il canto è lavoro?

Anch'io, come tanti altri, sono un sopravvissuto dai campi di concentramento, dove ho avuto la sfortuna di soggiornare per ben tre anni.
Sono note le condizioni disumane alle quali i prigionieri erano sottoposti; non mi soffermerò quindi su dei particolari di "vita" di questi luoghi. Piuttosto, vorrei sottolineare la colossale importanza che avevano le scarpe per la nostra sopravvivenza. Finché, durante i controlli, le scarpe apparivano ancora in buono stato, il prigioniero veniva considerato abile per il massacrante lavoro e quindi risparmiato. Finite le scarpe, finiva con esse anche la speranza di rimanere ancora un po' in vita, giacché gli aguzzini non ne distribuivano mai un secondo paio.
Per questa ragione, stavamo molto attenti allo stato delle nostre calzature alle quali dedicavamo cure che non avevamo nemmeno per noi stessi.
C'era fra di noi un ragazzo che, improvvisatosi calzolaio, per qualche mozzicone di sigaretta o per un po' di brodaglia avanzata faceva dei miracoli con toppe, stracci o pezzi di gomma, trovati chissà dove. Il ragazzo, piuttosto taciturno, non si rifiutava mai di venirci in aiuto lavorando nella baracca fino a tarda notte a lume di candela e noi l'avevamo soprannominato "Salvatore".
Da allora sono passati tanti anni. Ogni tanto il mio pensiero andava con tenerezza alla figura di questo angelo, al quale forse molti di noi devono la vita.
Non molto tempo fa, passeggiando per una strada di Gerusalemme, fui fermato da un vecchietto, grigio e dimesso. Lo guardai e riconobbi in lui il "nostro" Salvatore.
"Cosa fai nella vita?" gli chiesi.
"Faccio sempre il calzolaio, ma ora non rattoppo più zoccoli e scarponi, bensì riparo scarpe di lusso", disse con orgoglio "E tu, Raffaele, cosa fai? Cosa lavori?".
"lo... canto", proferii timidamente.
"Va bene, ho capito canti ... Anch'io quando lavoro, canto. Ma che lavoro fai?".
Forse aveva ragione Salvatore: Il canto è lavoro?

dai "Ricordi Teatrali" di Raffaele Ariè

giovedì, febbraio 09, 2006

Quartetto Italiano da ascoltare in eterno

Molti continuano a domandarsi: perché non c'è più il Quartetto Italiano? Perché ciò che ha valore assoluto non ha vita perenne? Domande che urtano contro il senso della realtà. Tutto finisce, dal momento che tutto ha un inizio, osserveranno i bis-bis-bisnipoti di monsieur de La Palice. Noi preferiamo credere a un importuno, Friedrich Nietzsche, che, per fortuna dell'Occidente, non aveva senso della realtà né un briciolo di buon senso. Il Quartetto Italiano ci ha dato gioia, e continua a darcene quando ascoltiamo le sue registrazioni, felicemente conservate. Ma "ogni gioia vuole eternità, profonda eternità", è scritto in una delle ultime pagine di Also sprach Zarathustra. Perdura ciò che è sopravvissuto al tempo. Il tempo non ha distrutto la fama, anzi, l'ha esaltata. Si smentisce così la luttuosa sequenza dei Trionfi petrarcheschi, che pure all'eternità approdano ritrovando in essa la forma indelebile di ciò che è stato temporaneamente. In fondo, la cancellazione era illusoria.
Inopportuno sfiorare temi filosofici quando si parla di persone il cui intelletto è così fortemente legato alla materia bella e affinata? No, poiché la vera grandezza impone al pensiero la massima attenzione. Nell'esperienza musicale del Novecento, l'insuperabile gruppo di strumentisti è per ogni musicista il più arduo termine di confronto, l'esempio per eccellenza, e non vorremmo ripetere l'abusatissima parola, "un mito", né parlare di "icona della musica da camera". Se restituiamo al fluire del tempo una dimensione ragionevole e non nevrotica, l'era del Quartetto Italiano è terminata appena l'altro ieri: vent'anni fa. É durata trentacinque anni, dalla fine della Seconda guerra mondiale all'inizio degli Ottanta. Ma in piena guerra, nel 1942 (oggi pare incredibile che in quei durissimi frangenti e in quella depressione dello spirito si potesse pensare alla musica, essere musicisti, far progetti di musica), quattro giovani si erano incontrati ai corsi estivi dell'Accademia Chigiana e, suonando insieme il Quartetto di Debussy al saggio finale, avevano sognato di costituire, in tempi migliori, una formazione quartettistica stabile. Il kairós venne nell'agosto 1945, quando il Quartetto Italiano nacque e iniziò il proprio lavoro, divenuto per noi un bene di tale qualità da indurci a considerarlo una di quelle realtà che giustificano con la propria esistenza storica il nostro Paese, così come la Scuola di Musica di Fiesole, fondata da uno dei "quattro cavalieri dell'arco", Piero Farulli, è una delle realizzazioni italiane che giustificano con la propria eccellenza didattica e artistica l'esistenza di una cultura italiana in atto. I quattro erano Paolo Borciani, morto per insensatezza del destino nel 1985 a sessantadue anni (era nato a Reggio Emilia alla fine del 1922), Elisa Pegreffi, rispettivamente primo e secondo violino, Lionello Forzanti viola (presto sostituito: con Piero Farulli il Quartetto raggiunse la sua formazione storica), Franco Rossi violoncello. Guido Alberto Borciani, fratello di Paolo, musicista e instancabile animatore musicale, narra in un libro bilingue, italiano e inglese, la storia della meravigliosa avventura artistica e intellettuale che fu coronata da un riconoscimento d'eccezione: una registrazione del Quartetto Italiano nella "cavatina" dall'op.130 di Beethoven fu collocata dalla Nasa fra le testimonianze della specie umana che la sonda Voyager 2 sta portando ai confini del cosmo.
Guido Alberto Borciani, "Il Quartetto Italiano. Una vita in musica", prefazione di Duilio Courir, Aliberti, Reggio Emilia 2002, pagg.158, € 14,90.

di Quirino Principe (Il Sole 24 Ore, 11/08/2002)

martedì, febbraio 07, 2006

Trevor Pinnock e un'attrazione fatale: il clavicembalo

Che sia solo una pura coincidenza?
L'anno scorso, di questi tempi, Andras Schiff, interrogato sulle proprie radici musicali, con sguardo nostalgico tornava a Budapest, alla bella casa dove ogni giorno di festa diventava pretesto per ritrovarsi insieme, e fare musica. Soprattutto i bambini: "Cantavamo diceva Schiff lentamente, quasi assaporando ancora quel piacere lontano - ah, i bambini quando cantano...".
Coincidenza? Nell'incontro con Trevor Pinnock, appena sfiorato il tasto dei ricordi, la prima fotografia che è venuta tra le mani era l'immagine di Trevor bambino, cantore presso la Cattedrale di Canterbury: "La scuola di coro è il miglior training per accostarsi alla musica - l'anima concreta, il pragmatismo ìnglese di Pinnock esce immediatamente; ma è subito temperato dalla poesia Cantare era allora per me una ragione di vita".

Uno nasce a Canterbury, e di necessità finisce nel coro della Cattedrale: è andata così Maestro?
"Non propriamente: è vero che la mia prima esperienza musicale è stata il coro dei bambini, ed è stata una palestra meravigliosa: non si può immaginare il piacere che si prova a sette-otto anni, quando si può già produrre musica in modo professionale. Cantavamo per tutte le funzioni della cattedrale, quindi avevamo un repertorio ben determinato di canti da chiesa; ma facevamo anche tanto Bach: ricordo l'emozione dell'incontro con la Passione secondo Matteo. Però, se devo ritornare con la memoria al mio primo, vero, forte impatto con la musica, allora l'immagine non è quella di Canterbury, con le ore di studio in quelle aule chiuse (la scuola è sempre stata un grosso problema per me: non trovavo la ragione di stare fermi in una stanza; comunque sono sopravvissuto), dunque niente Canterbury, ma una spiaggia di fronte al mare. Ero molto piccolo, passava una brass-band: il mare dietro, la banda davanti, questa sovrapposizione di suoni, di ritmi... Ero incantato. Ricordo la fatica dei miei genitori per portarmi via".
E' una sorpresa scoprire questo suo animo ribelle alla scuola, alla disciplina: eppure il curriculum del giovane Trevor Pinnock sembra quello del più diligente allievo-modello: prima le regole del coro dei bambini, poi le borse di studio al Royal College di Londra...
"Calma, calma. Precisiamo. Al Royal College ho avuto un sacco di problemi: intanto io volevo solo studiare il clavicembalo, e loro - che veramente oggi posso dire guardavano alla musica con il paraocchi - fecero di tutto per convincermi che solo con quello strumento non avrei avuto un futuro. Alla fine mi costrinsero alla resa, cioè a diplomarmi anche in organo, con il ricatto della restituzione della borsa di studio, che mi ero guadagnata con i risultati sul clavicembalo".
Ma cos'era questa fissazione del clavicembalo?
"Era - è - un'attrazione. A molti sembra uno strumento meccanico, senza anima: ecco, lì stava la sfida eccitante: immettergli vita, estrarre dal clavicembalo la musica".
Mai la tentazione di un bell'affondo sul pianoforte?
"Sì, per divertimento. Ma ci sono pianisti migliori! Non ho mai avvertito il senso della limitazione legata ad uno strumento: io credo che sia possibile fare musica senza pregiudizi con qualsiasi oggetto che la musica del passato ci ha consegnato. E' questo, in fondo, il nostro job: cercare la musica, che va al di là della stretta filologia. Non mi sento un oggetto da museo. Se mi chiedete di indicare l'epoca in cui vorrei vivere, scelgo il presente".
Perché allora questa predilezione per i timbri antichi?
"Io trovo bella anche la musica fatta su strumenti moderni. Però so che una pagina del passato lì, in qualche modo, non è a posto: è il tempo che separa lo strumento moderno dalla musica antica. Sapevo, allora, agli inizi degli anni Settanta, che bisognava trovare a new road, una strada nuova, che forse poteva essere anche pericolosa (e, in effetti, ci furono anche risultati deludenti, all'inizio), ma si doveva proseguire, per scoprire insieme i segreti di strumenti e partiture del nostro passato. E adesso c'è la grande gioia di suonare; la coscienza di poter usare lo strumento senza inibizioni, perché è proprio la musica antica, su strumenti antichi, che non pone limiti".
Eravate dei pionieri, in quegli anni, a Londra?
"Avevamo alle spalle la grande esperienza della Academy of Saint-Martin-in-the-Fields di Neville Marriner e Gardiner aveva da qualche anno fondato il suo coro. Era il 1973: mi sembrò naturale ampliare l'esperienza del trio, con il flauto e il violoncello, che portavo avanti da tempo e funzionava molto bene, estendendo l'organico a quello di una piccola orchestra. Sulle orme di Marriner, anche l'English Concert ebbe a Londra una sede stabile in una ex-chiesa, a navata unica, una costruzione molto bella, esemplare acusticamente e dalla capienza di ottocento persone".
Ma insomma avete da subito vissuto bene, voi, con strumenti e musica antica, oppure c'è stato dissenso nei vostri confronti?
"Eravamo visti assolutamente come rivoluzionari, avevamo contro gli stessi musicisti, che disapprovavano questo modo di fare musica diverso rispetto all'uso comune. Il mondo della musica è conservatore per natura: noi lo sconvolgevamo. Ora siamo più integrati. Abbiamo molti incontri con i migliori interpreti: ricordo le discussioni con Kremer, con la Argerich, Zimerman... Parliamo, ci confrontiamo, magari giusto per il tempo di un aperitivo insieme, nella hall di un albergo in giro per il mondo. Ma sono confronti che ben chiariscono la caduta di certe barriere".
L'English Concert, Trevor Pinnock, voi vi sentite depositari dei segreti dell'interpretazione di un certo repertorio?
"Onestamente devo dire che non ho idea se il nostro suono coincida con quello del passato: come suonava questa musica antica rimane un mistero. Però possiamo cercare di capire, di leggere queste partiture, di interrogare gli strumenti che la tradizione ci ha consegnato, di indagarne le accordature, l'uso. Quello che a me interessa è sottolineare lo spirito di questa musica, e credo che possa avere un forte effetto sulla vita degli uomini l'essere esposti alle arti a questi alti livelli. Comunque non mi sento un maestro, perché non credo all'educazione intesa in questi termini, di uno che parla e gli altri ascoltano. Educazione è mettersi con i pugni alle tempie, e cercare individualmente di capire".
Ma lei è anche direttore, quindi in un certo senso sta nel posto di uno che detta dall'alto.
"Io governo la musica. Diventare direttore non era la mia prima ambizione. E poi, se dirigo, mi piace anche molto la musica del ventesimo secolo".
Governare la musica. In effetti il suogesto come quello di Harnoncourt, di Gardiner, di Brüggen - non ha nulla, o almeno ha ben poco, da spartire con la tradizione del podio. Qual è il vostro segreto per far tornare ugualmente i conti con le orchestre?
"Il mio segreto? E' lo stesso di quando affronto la musica antica. Tento di immergermi nella musica, la interrogo, non mi metto mai sopra di lei. Così anche alle orchestre non chiedo di seguire me, perché direttore, ma di fare quello che la musica vuole. E' un po' un cambiamento di prospettiva. Ma i musicisti fanno meglio, si sentono creativi, ciascuno con la propria personalità. E la musica salta fuori, fresh and living.
Fresh, new, living: questi termini saltano continuamente fuori, parlando con lei. Però adesso lei abbandona i suoi dell'English Concert e se ne va a Ottawa, a dirigere stabilmente questa orchestra, di cui peraltro da noi si sa ben poco...
"Innanzitutto io non lascio l'English Concert. Ho solo scelto di svolgere con maggiore continuità un lavoro che già faccio da tempo con l'Orchestra di Ottawa. Sono stato direttore ospite da loro negli ultimi sette anni, ma non mi piace la carica di direttore ospite; non mi piace nemmeno saltare da un'orchestra all'altra; diventa uno show del direttore, più che un reale rapporto che fa crescere e maturare le orchestre Perché cì vuole un lungo tempo di collaborazione per creare l'intesa giusta tra direttore e orchestra. lo ho comunque una massima: devo essere io a credere nei miei musicisti, più di quanto loro credano in me. Da questo rapporto di fiducia nasce la musica nuova. Guardate, ad esempio, il gruppo di Count Basie: erano musicisti assolutamente normali, non migliori di altri, eppure c'era un'atmosfera diversa tra di loro, e crearono un nuovo modo di suonare".
Ha in progetto di plasmare il suono di questa Orchestra di Ottawa, dandole caratteristiche timbriche perfettamente individuabili, così come è successo per l'English Concert?
"Non so: il suono delle orchestre resta sempre un mistero. Certo, questi di Ottawa usano strumenti moderni, non so se arriveranno alla fine ad assomigliare all'English Concert, e non parlo solo di timbri... Intendo anche il modo di lavorare insieme, di studiare... Di certo l'Orchestra di Ottawa ha tre caratteristiche: la flessibilità, il virtuosismo e un suono molto caldo".
Si suonerà - come è tradizione - anche molta musica contemporanea a Ottawa?
"Certo. L'Orchestra ha un composer in residence, che è Linda Bouchard. Confesso che le prime volte che mi hanno messo di fronte alle sue partiture mi sembrava cinese. Poi è successa una cosa strana: guardando e riguardando tutti i giorni quelle musiche, improvvisamente mi sono sembrate diverse. Riuscivo a capirle. Avevano dei significati. E' stato come studiare un pezzo di Bach".
Lei dunque non crede che sia importante specializzarsi nell'esecuzione di un determinato repertorio?
"Credo che sia naturale che un musicista scelga, nel repertorio sconfinato che abbiamo di fronte. E che anche la specializzazione sia per certi versi un bene. Ma siamo uomini del ventesimo secolo, non oggetti da museo. A me piace suonare la musica scritta nel mio tempo. E comunque non faccio mai un problema di date con la musica: io non ho affatto il senso della storia, non mi interessa indagare date e numeri. Per me l'importante è riconoscere in un pezzo di carta il senso della musica, il miracolo di ritrovarla, ogni volta, fresh and living".
E dunque mai cambierà l'English Concert?
"No, non cambierà. Anche a dispetto delle grandi evoluzioni del mondo di oggi. Noi crediamo in questo modo di suonare. Non ci sono motivi per lasciarlo. E poi c'è ancora talmente tanta musica da suonare: da Purcell a Mozart abbiamo un repertorio sconfinato. E' una tremenda ricchezza. Abbiamo il dovere di salvaguardarla".

Carla Moreni (Musica Viva, Anno XVII n.2, febbraio 1993)

domenica, febbraio 05, 2006

Incontro con Shlomo Mintz

Lei si era presentato giovanissimo con un disco di Capricci di Paganini strepitoso; di recente è tornato a suonarli dal vivo in tournée, anche alla Scala. Cosa è cambiato?
"L'esperienza, per riuscire a suonare tutte le note. E' sempre un progetto molto difficile. Oggi guardo tutto questo un po' diversamente: non vorrei sembrare arrogante, ma se penso alla paura che mi faceva allora, ecco, devo dire che adesso non mi sembra così difficile. Si va avanti, si prende qualcosa, si accumula esperienza. In tournée non li avevo mai fatti prima; c'era un po' di tempo e non avevo il pìanista disponibile, così mi sono ricordato dei Capricci di dieci anni fa e mi son detto: perché no?".
Come ci si sente nel camerino di un teatro prima di suonarli in pubblico?
"Abbiamo tutti paura, i miei colleghi lo sanno bene. In qualche punto, sono diciamo, fatalista, sei lì e devi suonare meglio che puoi, con la coscienza di esserti preparato col massimo scrupolo. Non è che una madre quando è incinta può dire: non voglio il bambino, perché ho paura che faccia troppo male. Per noi è lo stesso; non è che ci si abitua, ma con l'esperienza si supera anche questo. Vale per tutti, io non sono un'eccezione".
Lei ha un suono di rara bellezza, tra i violinisti di oggi. Ha un'idea circa l'origine di questo talento?
"Il mio segreto è di girare con l'accordatore di Horowitz! Scherzi a parte, la ringrazio del complimento, ma non saprei rispondere con esattezza. E' una dote che mi porto dentro, come se fosse una bella voce. Devi sentire il suono all'interno prima di lasciar andare il braccio, ma non dico niente di nuovo... Sono anche un po' robusto, e questo aiuta, poi ci sono, come è naturale, i dettagli tecnici. E' una questione di fondo, in effetti, devi amare la musica e avere la forza di avere un sogno davanti, allora nasce tutto, compreso il suono".
Lei ha appena inciso 25 Concerti di Vivaldi...
"Se non mi sbaglio, sono quello che ne ha incisi di più, e ne devo ancora registrare cinquanta".
... come mai adesso tanti violinisti si interessano a questo autore?
"Le assicuro che non ci siamo messi a tavolino per decidere di eseguire Vivaldi. Per l'esperienza che ne ho io, posso dire che sono concerti di estrema difficoltà; secondo me Vivaldi era a conoscenza di tutti i mezzi tecnici di Paganini, e li ha usati nello scrivere le parti solistiche. Si dice negli Stati Uniti, dietro a Stravinsky, che Vivaldi suona sempre uguale: non è davvero così. Il punto è che ogni artista deve impiegare del tempo per trovare una sua interpretazione; Vivaldi è come Haydn, possono passare 50 battute prima di incappare in un'indicazione di dinamica. E' quello che sta in mezzo quindi che diventa importante; è una libertà molto interessante per un'interprete. Volevo anche un modo di suonare dell'orchestra che fosse molto diverso da gruppi classici di questo repertorio, come i Solisti Veneti; un Vivaldi per oggi, non troppo legato alla precisione storica, che secondo me non possiamo nemmeno conoscere. Il Vivaldi 'giusto' non è mai esistito, così come all'epoca non c'era nemmeno il diapason uniforme. Per me è stato un lavoro di ricostruzione, con un certo rispetto dello stile barocco naturalmente, ma nell'ambito delle mie idee. So di non poter suonare un Vivaldi molto raffinato, e di sicuro un veneziano è molto più educato di me a questa musica, ma credo di avere il diritto di cercare un'idea moderna. Ritengo che Vivaldi sia di dominio pubblico, e non solo dei filologi. E' uno dei progetti più interessanti che ho realizzato negli ultimi dieci anni. Spero di riuscire a registrarli tutti; è molto difficile, ma tenterò".
Passiamo alla direzione d'orchestra. Intende smettere di fare il violinista?
"No, assolutamente no, però questa nuova attività è molto interessante e credo di fare dei passi avanti, come confermano anche le buone critiche ricevute. Non cerco di essere l'uno o l'altro, piuttosto di essere un musicista, che significa poter fare tutto, anche suonare il violoncello magari. Dico sul serio, mi sono messo a studiarlo, anche se i miei amici mi dicono che sono veramente matto. Sì, sono matto, ma non si può fermare la curiosità di un musicista. Come direttore, mi sto costruendo un repertorio, con calma e studio. Per le opere o le sinfonie di Bruckner c'è tempo, per adesso voglio dimostrare di non avere complessi sul podio e di essere in grado di starci. Al momento tutte le strade sono aperte.
Il mezzo del cammin di nostra vita per Dante era circa la sua età, 35 anni; cosa pensa di aver raggiunto?
"Non mi preoccupo troppo su dove sono adesso o dove sarò tra cinque anni. Penso che la vita è relativa, però corta; non dico niente di nuovo se affermo che siamo di passaggio. Avere la fortuna, come molti prima di me, di una vita creativa, è da considerare un regalo di Dio; questo è già tantissimo per me".
Con la musica, adesso ha le idee più chiare di prima?
"Non so se siano chiare in maniera assoluta, anche questo è relativo. Noi interpreti viviamo in una sorta di stratosfera, e cerchiamo di muoverci in avanti, che è poi il problema dell'arte. Hai gli stessi colori, ma cerchi di realizzare qualcosa di diverso. Per me la musica è questo, ed è un po' come la droga. Non voglio fare un paragone, però si vive in un mondo chiuso".
Per lei è stato un problema?
"Personalmente lo è stato, perché la vita personale soffre molto a causa di questo, e non credo di aver bisogno di soffrire. Ogni persona fa i suoi sbagli, e se non si commettono, non si sa come imparare. Si rischia di vivere coi piedi per aria, e non è giusto; è importante essere coscienti di vivere qui e adesso. La musica a volte ti fa sentire bene anche se internamente non sei felice, come se vivessi nel mondo dei sogni; non dovrebbe essere assolutamente così. Durante la guerra del Golfo mi trovavo in un ospedale israeliano, e non sapevo se sarei morto per la malattia o per i gas chimici; questo fa pensare, tanto".
Adesso è guarito?
"Sì, grazie al Cielo, ora sto bene".
Il suo nome, Shlomo, deriva da Salomone, un uomo di giustizia; però ha anche un'assonanza con shalom, pace. Come artista, crede di poter fare qualcosa per la sua terra tormentata?
"Non credo, purtroppo ci sono troppi interessi in gioco. La gente è molto stanca di tutta questa guerra, e io anche. Per quel che mi riguarda, non è mai stato in questione chi fosse il pubblico, se bianco, nero, rosso o altro.
Voglio che ciò che faccio sia sfruttato da tutti, perché, se è valido, lo è per chiunque. Non penso affatto di essere una persona superlativa, ma il mio sforzo è dimostrare che la cultura è un fatto globale, comprensibile ovunque".

Oreste Bossini (Musica Viva, Anno XVII n.2, febbraio 1993)

venerdì, febbraio 03, 2006

Harnoncourt a Milano: Passione Secondo San Matteo

Un colpo d'occhio indimenticabile. Tra la scenografia naturale della Basilica di Santa Maria della Passione, gli esecutori facevano spettacolo emozionante in anticipo. Come quinte, le antine bellissime dei due organi troneggiavano in alto mentre la distribuzione geometrica dei musicisti ne pareva l'ideale, terreno, prolungamento verso il pubblico. Incuneati tra primo e secondo 'coro', i bambini formavano una macchia di colore che preannunciava quell'altra macchia di colore vocale eccitante aggiunta alla massa sonora nella grandiosa pagina d'apertura, alle parole "0 Lammes Gottes", Agnello di Dio. Disposta a semicerchio, come preannunciando una funzione di solenne meditazione religiosa, officiante il padre ammirato della moderna filologia Nikolaus Harnoncourt, era anche l'orchestra essenzializzata nelle proporzioni. Harnoncourt stava nel mezzo, la partitura aperta su un leggio da chiesa, adattissimo all'occasione e al clima particolare (tra l'altro era il Lunedì Santo), a metà strada tra esecutori e pubblico. Gli elementi rituali c'erano tutti. E a quelli concreti davanti agli occhi di tutti andavano aggiunti gli altri, psicologici che avevano mosso tanta gente a mettersi disciplinatamente in coda all'ingresso della chiesa, occupando la strada, con un'aria di festa che non si coglieva da tempo e una voglia di godersi fino in fondo la bellissima occasione. Perché ascoltare la Passione secondo Matteo, non l'altra altrettanto meritoria d'attenzione sotto ogni altro profilo, non è soltanto ascoltare una musica infinitamente alta, severa eppure comunicativa, religiosa eppure capace di esprimere emozioni laicamente umane: questo Bach va vissuto fino in fondo, senza mezze misure, con l'ardita persuasione d'essere ammessi a partecipare a una cerimonia, a un'esperienza di vita intima e collettiva. Poi, ognuno sa il proprio modo di lasciar scorrere le immagini della passione di Cristo; e il modo inuguale ribadisce l'idea di esperienza da vivere nel segreto, che si sente crescere dentro e non fa pesare la durata temporale non lieve.
Quando poi tutto ciò s'agita in un luogo giusto, con un'esecuzione magnifica, sembra veramente di potere trascendere il semplice e passivo ruolo di ascoltatore; e non fosse per il rispetto dell'impegno professionale altrui verrebbe da aggiungersi sottovoce allo spiegarsi armonico di certi Corali. E non è detto che qualcuno non l'abbia fatto, o che comunque un'impressione del genere fosse solo nostra. Bastava osservare l'aria beatificata del pubblico che alla fine sciamava senza fretta, senza caricare l'applauso oltre la soglia dell'ammirazione calcolata, quasi per il timore di incrinare con la partecipazione al rito collettivo di ascoltatori quell'intima pienezza individuale appena accumulata. Siamo, anzi eravamo, in una disposizione d'animo che a Mendelssohn e alla maggior parte degli scopritori romantici di Bach non avrebbe molto interessato: di nuovo, eravamo partecipi al cerimoniale d'una Passione luterana che attraverso la musica si fa iper-confessionale, universale. Religiosa in quanto pienamente umana.
La suggestione del luogo era suggestione. L'interpretazione musicale ha fatto il resto. Harnoncourt non si lascia sedurre degli echi drammaturgici esteriori della partitura pur non firmando odiose operazioni di scheletrizzazione; semplicemente riconduce il respiro bachiano a un'evidenza espressiva che è comunque quella del Vangelo, non d'un libretto. Cioè d'un testo che non deve narrare o spiegare azioni e reazioni di 'personaggi', perché gli unici personaggi sono i fedeli, l'assemblea pasquale o quella laica richiamata dal concerto straordinario. La bellezza della musica, la sua evidenza esecutiva devono stimolare la drammaturgia dei nostri sentimenti non essere sentimento o 'affetto' di operistico spessore: la Passione secondo Matteo di Bach non è musica religiosa, è musica allo stato puro. Questo ha sottolineato per l'ennesima volta Harnoncourt rifiutando le facili interpretazioni e turbando così gli ascoltatori.
Venendo alla realtà. Harnoncourt dirige la Passione bachiana con morbidezza inusitata, cercando un innesto naturalissimo tra voci e strumenti, tra parole e forme musicali, tra emozione interna e scrittura arditamente descrittiva. Di qui scaturisce quella sensazione di mistero esaltante che ha preso tutti, quel clima di potenza arcana che discendeva dall'articolazione lineare, dalla scioltezza ammirevole dei fraseggi. Un contributo insostituibile a tale naturalezza esecutiva veniva dall'eccellente tenuta musicale degli interpreti, in primo luogo dall'orchestra del Concertgebouw di Amsterdam a ranghi ridotti. In altra parte della rivista Harnoncourt accenna al rapporto profondo che stringe il suo lavoro di interprete-filologo a questo complesso 'moderno': nell'attimo della conferma diretta possiamo registrare con soddisfazione una capacità stupenda di deporre la grinta di orchestra mahleriana per rivestire i panni stilizzati di formazione bachiana specializzata (e senza citare tutti i solisti sopraffini, a partire dall'incredibile Christophe Coin, viola da gamba), senza rinunciare al nerbo, alla nitidezza degli attacchi, a una tenuta dinamica di qualità superlativa, a una misura espressiva che non dimenticheremo facilmente. Non di minore spicco la duttilità del coro preparato da Jan Slothouwer cui ha dato mano forte il drappello di voci bianche provenienti dalla recente scuola scaligera affidata a Gerhard Schmidt-Gaden: quel cantare sul fiato, senza asprezze, come pregando a fior di labbra anche negli episodi severi o drammatici, rientrava perfettamente nella complessiva intenzione di trasfigurare spiritualmente i passaggi 'terreni' della Passione. Qualche disomogeneità purtroppo nella compagnia di canto che pure ha potuto contare su Kurt Equiluz, un Evangelista non spericolato vocalmente ma incisivo nel declamato e ammirevolmente misurato, sull'importante presenza di Robert Holl (Cristo) e di Arleen Augér. Gli altri erano un po' incolti ma con bella voce (il contralto Jard van Nes), oppure ineducati vocalmente e non dotati, e non sì capiva in che modo fossero finiti a turbare un complesso così equilibrato. Buon per loro, e per noi, che la Passione secondo Matteo non s'esaurisce nel semplice ascolto.
Angelo Foletto
(Musica Viva, Anno IX n.5, maggio 1985)

mercoledì, febbraio 01, 2006

Il grido di Mahler

Essere parte di una civiltà è avere in sè una tradizione di conoscenze ma anche di emozioni; la tradizione raccoglie accidenti storici, del tutto casuali, e li trasforma da storia in natura.
Assorbiamo ciò che è stato casuale, e lo facciamo diventare necessario, incarnato e connaturato in noi. Fu un caso che Goethe scrivesse il Faust, poichè avrebbe potuto non scriverlo, o che Dante scrivesse, la Commedia (un genio un po' più stanco e dotato di quotidiano buon senso non l'avrebbe fatto, per sfiducia), o che Mozart mettesse in musica il mito di Don Giovanni, o che Wagner componesse Tristan und Isolde e inventasse il Tristan-Akkord. Oggi ci domandiamo come potrebbe esistere la nostra civiltà senza la Commedia dantesca, senza il Faust goethiano, senza Don Giovanni e senza Tristan und Isolde.
Eppure, legioni di uomini intelligenti e colti, di altissimi spiriti, vissero con lucidità e chiarezza e pensarono pensieri sublimi (Platone, Boezio, Francesco d'Assisi, Eraclito, Hildegard von Bingen) senza possedere i tesori che abbiamo enumerato. E' uno dei misteri dell'essere, del rapporto tra l'esistente storico e l'eterno possibile, tra la potenza e l'atto.
Identica riflessione investe le dieci sinfonie di Gustav Mahler.
Prima che esse fossero ideate, coloro che amavano e facevano musica e di essa nutrivano la propria anima possedevano ricchezze a profusione: fra le recenti, Bach, Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert, Schumann, Chopin, Berlioz, Verdi, Rossini, già lo stesso Wagner.... inutile continuare. E possedevano, come cibo o vaglio o bisturi dell'anima, Platone e Aristotele, Pascal e Kant, Goethe e Manzoni, Baudelaire e Shakespeare, Memlinc e Bosch, Michelangelo e Watteau, Carlyle e Nietzsche, Schopenhauer e Wagner, Leopardi e Balzac, la Bibbia e le Mille e una notte, l'Iliade e le fiabe di Grimm. Gli uomini, almeno quelli intelligenti e colti, non avrebbero saputo fare a meno di questo immenso lascito, divenuto sangue circolante e ossatura portante. Ciascuno di quegli uomini avrebbe detto che ogni casa bella e nobile nata in seguito era da considerarsi un'aggiunta, da attendersi con curiosità e con trepidazione, ma non questione di vita o di morte. Invece, la perdita di una sola ricchezza fra quelle acquisite prima sarebbe stata sentita come un'amputazione. Poi, il nuovo diventa antico. Oggi non sapremmo fare a meno delle sinfonie di Mahler, e amputazione dolorosa sarebbe la scomparsa nel nulla di una sola. Questi monumenti di scrittura orchestrale, tanto discussi, idolatrati e odiati, sono a loro volta divenuti parte del nostro modo di esistere.
Un anno e mezzo fa, su questa stessa pagina, abbiamo dato sommarie notizie su alcuni tratti che riguardano l'architettura delle sinfonie mahleriane: moventi, radici filosofiche e letterarie (immancabili, in Mahler), e ciò che il compositore aveva costruito sopra. Diversi gli stili di costruzione: il neogotico prevale nelle prime tre, dalla Quarta alla Settima si fa strada l'analogia con la tabula picta alla Grunewald o alla Bosch, l'Ottava è di nuovo un'architettura ideata in dimensioni gigantesche in cui si tenta di sostituire il gotico autentico al neogotico, la Nona e la Decima sono piuttosto architettura d'interni, dimore in stile floreale con barlumi espressionistici nei colori. Qui vogliamo invece suggerire le disposizioni d'animo adatte a chi si disponga all'ascolto come ad un percorso sul terreno.
In primo luogo, le sinfonie di Mahler sono musica altamente impura: ogni tema, ogni semplice motivo di due note, ogni suono isolato sono carichi di significati poetici, filosofici, persino sociali e irti di polemica. Eppure, l'deale di "musica assoluta" non soltanto non è smentito, ma è addirittura esaltato sino al parossismo.
Il grido (proprio il grido lacerante, alla Munch), il "Naturlaut" o voce di natura (stridii di uccelli, crolli apocalittici, campanacci di mandrie al pascolo sui monti) è assorbito dalla musica, diventa musica intonata e armonizzata; la sua funzione è simbolica, non descrittiva alla maniera della musica a programma e del poema sinfonico. Il "programma" letterario, che c'è sempre, è altrettanto sempre un "inneres Program", un programma interiore la cui sede è nell'anima che riflette il mondo, e il mondo è appunto sempre riflesso, pensiero piuttosto che Essere. In secondo luogo, la struttura formale di queste sinfonie, ora perfettamente (talora parodisticamente) tradizionale, secondo i modelli classico-romantici (i quattro tempi, il bitematismo della forma sonata, come accade soprattutto nella Quarta), ora provocatoriamente anomala e quasi intenzionata a indispettire i custodi della tradizione, non è mai cornice: è "essa stessa" la musica mahleriana, e non ha alcun senso (ripetiamo, non ha alcun senso!) pretendere per esempio di godere l'ascolto dell'Adagietto della Quinta (ma sì, quello utilizzato da Visconti per il film Morte a Venezia) se non si sa intimamente, ascoltando ogni nota, che la Quinta ha cinque tempi e non quattro, che il II è il "fratello-nemico" del I, e che dopo l'Adagietto il Finale comincerà con la citazione ironica di un Lied mahleriano che mette in berlina i critici musicali. Così, colui che fu considerato il grande destabilizzatore e quasi il distruttore della forma sinfonica è in realtà nella moderna musica d'Occidente uno dei massimi custodi delle ragioni formali.
Fra i più profondi indagatori delle sinfonie mahleriane, Paul Bekker nella sua potente e analitica monografia del 1920 insistette sul loro carattere architettonico; Theodor Adorno, nel vertiginoso saggio del 1960, mise a nudo la natura insieme narrativa e teatrale di esse, utilizzando come modello ermeneutico la coppia sipario-fanfara, ossia la dialettica tra una situazione cosmica, tanto dolorosa quanto perenne ("l'esistente") e l'irruzione di un evento. Che poi l'evento sia rappresentato da materia triviale, sgraziate fanfare da caserma appunto, deformati brandelli di marce militari, orchestrine da taverna, rientra nella poetica di Mahler per il quale nulla esiste che non possa diventare musica alta: il triviale si fa nobile poichè nobile è lo sforzo di farlo entrare nel contesto drammatico. Come Wagner, ha scritto Luigi Rognoni nel 1960, introdusse la sinfonia nel teatro, così Mahler introdusse il teatro nella sinfonia. Forse per questo un talento così palesemente teatrale come Mahler non realizzò mai un lavoro operistico: le sue sinfonie, interiorizzando il teatro d'opera, le rendevano implicito in sè. Che ogni sinfonia mahleriana sia un'altra tragedia recitata dall'orchestra, fu più volte dichiarato dallo stesso autore. Così la Prima è il dramma di un eroe che combatte e muore, la Seconda una rappresentazione del Giudizio Finale, la Terza un lucreziano conflitto tra uomo e natura, la Quarta un luttuoso paradiso sognato da anime infantili, la Quinta un itinerario nel deserto, la Sesta una tregenda infernale da Settimo Sigillo, la Settima un'allucinata scorribanda nella notte, l'Ottava un disperato tentativo di credere nel dogma cattolico (cui Mahler, israelita d'origine, "voleva" orientarsi per essere radicato nella cultura austro-tedesca), la Nona una rappresentazione del Nulla, l'incompiuta Decima una danza con il Diavolo, come suggeriscono le didascalie annotate da Mahler sulle pagine lasciate in abbozzo: misteriosi torsi di sculture ancora sepolte nella pietra.

di Quirino Principe (Il Sole 24 Ore, 17/09/1995)