Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, febbraio 25, 2006

Maurice Ravel: il suono

Incominciamo dal suono. Da udire attentamente dovunque, nelle sue composizioni, per sentirne le sottili novità. I timbri, gli strumenti di provenienze diverse immessi nell'orchestra "classica": ciascuno ha la sua forza evocatrice, con i suoi connotati anche ritmici di partenza, il jazz entra restando jazz a modo suo, gli echi d'Oriente sono nel respiro di accostamenti timbrici inconsueti all'Occidente: non citazioni, ma nemmeno colonizzazione dei timbri "altri" che la musica "classica" debba assimilare. Fatti evidenti, notati mille volte. Non i piú interessanti.
Notati sempre anche i rumori, certa presenza di provenienze acustiche di sapore non strumentale, ma come protesa nell'esperienza fuori dal concerto, Citata spesso, negli studi su Ravel, la sua paginetta di racconto: "5 luglio 1905, sul Reno. Dopo una giornata su un fiume molto largo tra due rive disperatamente piatte senza carattere, si scopre una città di camini, di duomi che sputano fiamme e razzi diventati rossicci o blu. E' Hann, una fonderia gigantesca nella quale lavorano giorno e notte 24.000 operai. Come dirvi l'impressione di questi castelli di ghisa, di queste cattedrali incandescenti, della meravigliosa sinfonia delle cinture di cuoio, dei fischietti, dei formidabili colpi di martello che ti avvolgono? Dappertutto un cielo rosso, scuro e ardente... Come tutto ciò è musicale!". Significativa emozione; interessante; ma non ancora un fatto radicalmente innovatore.
Innovatore, anzi profetico, alla radice dell'esperienza non soltanto musicale d'oggi, è invece - sembra a me, decidete voi - il lavoro di moltiplicazione della percezione acustica e psicologica dei suoni e degli stessi linguaggi. Ravel fa musica partendo cioè non dalla proposta d'un germe musicale all'ascoltatore che deve seguirne lo sviluppo, ma dalla condizione propria del nostro tempo di ascoltatori immersi in innumerevoli suoni, rumori, parole, sovrapposti, dalla nostra capacità di seguirli completamente. Provare ad ascoltare il suo teatro musicale. Sarebbe necessario in teatro, ma si esegue poco, in Italia: è molto difficile da eseguire e per ora sembra ancora - ma sarà vero? - marginale agli interessi del consueto pubblico dell'opera. Necessaria comunque una registrazione stereofonica, spazio (o la fantasia per immaginarla, per i più geniali).
Prendere L'heure espagnole: del 1907, "scandalosa" farsa dove una bella moglie d'orologiaio, poco fornito salvo che d'orologi, cerca di consolarsi in sua assenza: il tempo è poco, i suoi visitatori son vivaci solo a parole, fino a che arriva un mulattiere poco capace di conversazione ma capacissimo di quello che la signora va cercando; per così dire, lieto fine. Canone conclusivo dei personaggi: "Un finanziere / ed un poeta / un buffo sposo / una civetta / che vari facendo / grandi discorsi / con versi lunghi con versi corti / e un po' di Spagna che li accompagna... / L'amore che deduce / e cerca il più efficace... Boccaccio ci può dare il suo parere: giunge il momento per il mulattiere".
Trama senza spessore, e parodia disinvolta dell'opera, di Wagner e degli altri. Ma tanto lineare e nitida è la farsa "nonchalante", tanto è denso, misterioso, l'insieme della percezione sonora. Udire attentamente il preludio. Al cupo e greve progredire d'un disegno di fiati che dipingono l'atmosfera della bottega dell'orologiaio, si sovrappongono rigorose spericolatezze di linguaggi totalmente differenti: campane e trombe e percussioni degli orologi ineccanici e dei loro carillons. Come fosse casuale circostanza, sovrapposti mondi sonori completamente differentì. Cifra costante oggi delle città e ormai anche delle campagne, la sovrapposizione. Cifra teorizzata da John Cage anche nell'ascolto della musica, non separarla dai rumori e suoni attorno. Cifra assunta pienamente da Luciano Berio, che ne fa una ragione poetica, un modo di comporre (potrebbe esserne un manifesto l'impressionante Sinfonia, del 1968).
Questa attenzione ad ascoltare insieme i percorsi indipendenti è da volgere anche alla musica di Ravel che la chiede con minore evidenza: per restare nell'Heure, provare ad ascoltare il lamento della insoddisfatta Conception, l'orologiaia: "Oh la pitoyablé aventure! ... / Et ces gens-là se disent Espagnols! ... / Dans le pays de donà Sol, / A deux pas de l'Estremadure!...". Per dirla in termini tecnici, oltre ad un variegato accompagnamento in sei ottavi degli archi, mentre clarinetto e clarinetto basso fanno macchia, ha un disegno di fagotto, che viene poi parodizzato grezzamente ma con la stessa nota ripetuta in un frammento brevissimo di corno, che passa alla tromba con sordina, ai tromboni con sordina, alla tromba senza sordina, e finisce in un crescendo e accelerando su una breve frase cromatica discendente dei flauti insieme agli archi, mentre anche il sarrusofono (una specie di oboe basso d'origine bandistica) emette la sua notona. Non c'è istante in cui non sentiamo una qualità sonora che ci circonda e ci si insinua, che è solamente di Ravel e che procede per associazioni acustiche, sensazioni fisiche, firniniscenze.
Intuizione assoluta, questa? A me sembra che sia assai grande invenzione scrivere sapendo che la percezione moltiplicata dei mondi sonori s'associa alla moltiplicata coscienza e percezione della complessità psicologica; inventare avendo capito la differenza fra l'unità del gesto o della scelta senza contraddizioni e l'unità della persona. Obbligati a sentire e decifrare insieme linguaggi e mondi differenti, diventiamo noi i depositari, con Ravel, d'un senso ultimo della storia, che non sta nella sequenza dei fatti, ma in come Ravel e noi li udiamo svolgersi. Non c'è che da ascoltare bene l'altra opera, breve anche questa, in un atto, L'enfant et les sortilèges. E un testo di Colette, il sogno d'un bambino: le cose e gli animali attorno a lui, che li maltratta, si ribellano, si muovono, ingigantiscono, lo accusano, lo perdonano soltanto quando, nel giardino illuminato dalla luna, egli con gesto spontaneo medica la zampa ferita a uno scoiattolo caduto. Anche qui, la struttura è semplice: una specie di passerella di personaggi, incorniciata dalle venute della mamma, di oggetti ed animali; al centro l'incantamento per la principessa, quella della favola, che teneramente, amorosamente lo emoziona (ed è lo smarrimento della fanciullezza alle prime scoperte del fascino dell'altro sesso... ed è il mito della fantasia che cerca un'immagine, come nella famosa fatina di Pinocchio... ma più ancora è soltanto se stessa, col suo contrappunto tranquillo col flauto, e con lo struggimento che lascia); prima della fine, la battaglia degli animali contro il bambino e il corale degli animali convinti che il bambino è buono: che lo alzano verso la luna, lo riportano dalla mamma. E anche qui è complesso il mondo sonoro, con innumerevoli personaggi ed innumerevoli strumenti (da quelli classici, a quelli della musica leggera del tempo, a una grattugia); più ancora che nel teatro precedente è svincolata dalla tradizione l'armonia, come perpetuamente divagante (alla maniera dei Valses nobles et sentimentales) o esoticizzante (come Laideronnette in Ma mère l'Oye) e poi tuffata nella musica ballabile e jazz compiacendosi e inebriandosi... Nell'elenco dei procedimenti armonici, c'è una denunciata bitonalità, cioè sovrapposizione di brani eseguiti da diversi strumenti in tonalità diverse. E un elenco di abili procedimenti si può compilare per il contrappunto, nella sua raccolta semplicità. E più che i procedimenti interessa la qualità delle idee: la bellezza d'una melodia lontana dalle seduzioni dell'eloquenza ma non da quella del lirismo più interiore e commosso, la forza di agglomerati timbrici e armonici che continuamente ci portano a vivere con stupefazione e senza disagio in questo mondo di sortilegi. Ma, in più, il continuo ammiccamento, la continua parodia dei linguaggi, viene a creare una realtà molto più autonoma che non il riferimento ad altre. Se cioè la musica dice la partecipazione al tempo in cui Debussy aveva aperto la strada dell'impressionismo musicale, Schoenberg da Ravel ammiratissimo aveva creato le più prorompenti realtà autonome, linguistiche, e Stravinsky era l'esempio della possibilità di esser se stesso inventando o assumendo linguaggi nuovi; e se il tema teatrale dice la partecipazione al mondo dove Maeterlinck aveva offerto nelle favole il senso misterioso delle cose (e la principessa è la sua, col suo Oiseau bleu ... ) e dove Proust invitava alla realtà nata nell'intimo dei ricordi e fatta di null'altro che di sortilegi della memoria; la musica più il tema, cioè l'opera, sembra soprattutto procedere come costruendosi man mano le sue ragioni. Qualcosa di non troppo lontano da quello che trent'anni dopo Roland Barthes vedeva nel primo Adamov, se al concetto di «derisione» sostituiamo quello di «parodia»: «da una parte la derisione del linguaggio è evidente, e, dall'altra, tale derisione non cessa per questo di essere creatrice, producendo esseri perfettamente viventi, dotati di uno spessore di tempo che può anche accompagnarli per tutta un'esistenza fino alla morte».

di Lorenzo Arruga (Musica Viva, Anno XI n.7, luglio 1987)

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