Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
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giovedì, febbraio 23, 2006

La IX di Mahler diretta da Karajan

E' doveroso premettere che da un'ottica strettamente, volutamente limitata ad uno squisito ambito musicale questa versione di Karajan non riesce (ma d'altronde non vuole) a cancellare, a spazzare via in un sol colpo, a far dimenticare tutti i precedenti, molteplici anche se parziali, massimi momenti esecutivi scaturiti dalla bacchetta dei numerosi altri protagonisti mahleriani - in primo luogo ricordiamo Walter e Mitropoulos, ma poi anche Klemperer, Solti, Tennstedt, Giulini. Ed infatti in termini di capillare, radiografica analisi comparata, il distacco tra Karajan e gli altri direttori non è qui così netto, così vistoso come nel caso della quinta sinfonia. Ma, come ho già premesso in apertura, in questa sede a noi interessa solo misurare, identificare la portata, la profondità, l'intensità globale della concezione poetica con cui Karajan si è posto innanzi ed ha realizzato tale sterminata, antiretorica confessione dell'uomo di Kaliste.
Alla luce della sola quinta sinfonia, Pugliese affermava che «Karajan fissa, anzi ferma nel tempo il mondo poetico mahleriano ... ignorando completamente il "Futuro" di Mahler, e comunque attraendolo, per assorbirlo interamente, nell'orbita di quel "passato" al quale appartiene l'intera (sua) personalità artistica ... ».
Tale acuto giudizio, pur non perdendo il suo valore, appare però oggi, alla presenza di questa Nona, troppo limitativo. Karajan infatti, pur mantenendo il cosmo mahleriano sempre immerso e fissato in una dimensione costantemente rivolta ad un «passato» rimpianto, rimembrato, sospirato - e che è poi carattere precipuo e fondamentale della poetica artistica di Mahler - in questa sinfonia riesce con forza irresistibile a delineare il momento preciso della rottura, vero collasso psicobiologico, in cui l'ideale, il credo romantico che fino ad allora aveva guidato, o meglio sostenuto, l'animo di Mahler, si sgretola e crolla implacabilmente sotto i colpi sempre più violenti di una ormai chiara, razionale «cognitio mortis». Alban Berg in una sua famosa lettera definiva il primo movimento come un'immensa «celestiale» contrastante confessione di «amore per la vita e di certezza della morte». Karajan individua perfettamente tale situazione dello spirito traducendola nella resa musicale in un Andante ancora determinatamente pregno, intriso di senso del «passato», ancora dubbioso, incerto, insicuro di quanto di lì a poco sarà per essere rivelato. Al contrario di Levine, che fin dalle prime battute poneva invece il movimento in una certezza che in realtà dovrebbe essere ancora solo futuribile, Karajan fotografa un Mahler che, benché conscio della vera realtà delle cose, ancora esita, indugia, volge lo sguardo indietro, magari alla pia illusione dei Der Abschied dal Das Lied von der Erde. In questa dimensione gli isolati, incombenti annunci di morte, quali ad esempio il passaggio in fortissimo «con la massima forza» dove, parafrasando Berg, la morte da intuizione diventa drammatica certezza, risuonano in Karajan di una durezza e di una intensità fin ora mai ascoltate. E questo contrasto scaturisce e si evidenzia con tale determinazione proprio a causa di quella perdurante nostalgia dei passato. Elemento che in questa interpretazione mai viene programmaticamente abbandonato: quasi a ricordare, a sottolineare e qui la profondità dell'analisi del maestro salisburghese è davvero acutissima - che la Nona sinfonia non rappresenta una posizione poetica staticamente già accertata e definita, ma è essa stessa la risultanza di un continuo divenire interiore. Se è vero - ed io lo credo che, come ha scritto Marc Vignal, l'Adagio finale si pone come amplificazione dell'ultima parte dell'Andante comodo, è altrettanto vero che tale passaggio sarebbe inconcepibile, se non inspiegabile, senza la presenza dei due movimenti centrali: essi spiegano due diversi aspetti della medesima meditazione. Nel Laendler, così sardonico, goffo, trasandato, il ricordo dei momenti passati è più che esplicitamente dichiarato e si muta durante lo sviluppo in doloroso, angoscioso rimpianto. Tennstedt per quanto riguardava la scelta ritmica e l'accentuazione dell'incedere aveva operato una scelta felicissima; Klemperer per contro appariva troppo signorile e distaccato. Quello che però mancava realmente ai due era una concezione della pagina intesa in stretta relazione-opposizione alle drammatiche ammissioni del precedente Andante; con Karajan invece la nostalgia del passato diviene materiale, tangibile, di una tensione quasi struggente. Come se si trattasse di un estremo sguardo rivolto ad un mondo perduto prima dell'ultima finale capitolazione. Il Rondò-Burleske è pagina nervosa, virtuosistica, a tratti indemoniata. Come ho già avuto occasione di dire quasi mai si è riusciti ad ascoltarla eseguita correttamente per intero: la difficoltà tecnica, l'asperità della scrittura la rendono brano di assai difficoltosa esecuzione. Karajan però, forse solo come Solti e Mitropoulos, seppur in diversi aspetti, è riuscito a districarsi e a dipanare il fittissimo tessuto strumentale conferendo al brano una vitalità esasperata, un lacerante cinismo, un parossistico divertissement, rispetto a cui magnificentemente si evidenzia e si staglia il contrasto con il successivo Adagio. Qui ora si è innanzi veramente al momento magico dell'intera interpretazione di Karajan. Tutti i più inquietanti interrogativi vengono risolti di fronte alla luce di una cognizione, di una conoscenza della verità più definitiva ed assoluta. L'arte è qui davvero atto infinito di conoscenza pura. Alla presenza di una tale grandezza e vastità di realizzazione la nostra parola si fa inutile. Lo sconvolgimento abissale dei valori più sacri e necessari allo spirito dell'uomo, svelato nella pagina mahleriana, trova nella versione di Karajan una risoluzione abbacinante, stupenda, di terribile bellezza. Ormai non c'è più struggente compianto: al suo posto semplice, eterna constatazione. Ma il raggiungere simile, seppur crudele, vetta della conoscenza è momento di altrettanto intensissimo fascino. Ed anche sotto questo aspetto Karajan non è certo da meno di un Walter o di un Bernstein: la sua versione permette di gustare appieno tale, seppur quasi necrofilo data la paurosa intensità, accadimento poetico.
 
di Francesco M.Marcucci ("Banchetto Musicale", Anno III n.14, giugno 1981)

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