Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, novembre 30, 2007

Ingmar Bergman e la gioia di bach

Il 30 luglio 2007 è morto a Farö il regista svedese Ingmar Bergman, aveva 89 anni. Sul rapporto tra Bergman e la musica pubblichiamo un articolo che Sergio Sablich scrisse il il "gdm" nel 1987, quando uscì la traduzione italiana della sua biografia, Lanterna Magica.

Una volta Ingmar Bergman mi disse che se fosse tornato a vivere avrebbe voluto essere un musicista. Nel suo lavoro in teatro gli era parso sovente di assolvere alla stessa funzione di un direttore d'orchestra e, come autore di film, di concepire le sue sceneggiature secondo temi, ritmi, timbri e persino forme musicali. Nella sua autobiografia, Lanterna Magica, tradotta in italiano dalla Garzanti, Bergman fa riferimento spesso alla musica: non solo per rievocare aneddoti ed esperienze professionali della sua vita, ma anche per attribuire alla musica un ruolo decisivo nella propria formazione umana e artistica. Lo stesso volume, del resto, contiene lo schema di una forma musicale organica, quasi classica. I primi capitoli, dedicati ai ricordi dell'infanzia, fissano i temi principali, come nell'esposizione di una forma-sonata; lo sviluppo centrale, ampio, travolgente, ricco di contrasti drammatici e di sospensioni liriche, di digressioni e ciclici ritorni, converge alla fine in una sorta di ripresa nella quale quei temi, attraverso il colloquio col fantasma della madre e la lettura del suo diario, acquistano tutt'intero il loro significato: rivelano cioè il senso di un'esistenza, e la trasfigurano. Non si tratta però di un apparato esterno. Guardando all'interno, ogni volta che Bergman ci parla di musica lo fa per segnare tappe fondamentali di una presa di coscienza. Sono illuminazioni, pensieri, momenti che restano, incidendo profondamente la loro orma in una personalità inquieta e sfuggente. Si direbbe anzi che in questo libro aspro, crudele, talvolta persino brutale per accanimento e sincerità, dove l'attività cinematografica e teatrale di un genio sembra aver lasciato soprattutto impressioni di pena e di inadeguatezza, la musica sia l'unico punto di riferimento luminoso: un conforto, un invito alla pace e alla concentrazione creativa. Musica come gioia, musica come silenzio.
Bergman racconta che fu un musicista che suonava dietro le quinte nel Sogno di Strindberg a introdurlo per la prima volta nella magia del teatro. Aveva dodici anni, e fu la rivelazione. Molti anni dopo, mentre cura lui stesso la regia del Sogno al Dramaten, Bergman è turbato, angosciato. Il pensiero va a Sebastian Bach: «Il maestro era tornato da un viaggio, durante la sua assenza erano morti la moglie e due figli. Egli scrisse sul diario: "buon Dio, fa' che non perda la mia gioia". Per tutta la mia vita cosciente ho vissuto con quella che Bach chiamava la sua gioia. Mi ha salvato durante crisi e periodi di infelicità, è stata efficace e fedele come il mio cuore. A volte soggiogante e difficile da governare, mai però ostile o distruttiva. Bach chiamava gioia questa condizione». Nell'ultimo capitolo è la musica di Bach, quella dell'Oratorio di Natale, ad avviare la trasfigurazione nel ricordo della madre, in un corso di pensieri e sentimenti più disteso, decantato. La luce: «I corali di Bach si muovono ancora come veli colorati nello spazio della coscienza, avanti e indietro sulle soglie, attraverso porte aperte, gioia».
Anche nel silenzio di Dio, durante notti insonni popolate di dèmoni, la musica parla e conforta, dà un senso misterioso e aperto alle cose. Ecco Mozart, il Flauto magico filmato per la televisione, risultato di un lungo amore e di citazioni criptiche disseminate lungo il cinema di Bergman. Se Bach è l'assoluto dello spirito che dà voce all'indicibile - come in una scena capitale di Sussurri e grida -, Mozart è il compagno di strada che non si limita a interrogare. La scena in cui Tamino, solo di fronte al triplice tempio, invoca la notte e interroga gli spiriti sul destino di Pamina contiene «due domande ai limiti estremi della vita, ma anche due risposte»: la seconda è che «l'amore esiste, l'amore è reale nel mondo degli, uomini». Oscuro nei labirinti dell'esistenza, ma reale. A ventun anni, rifiutato dal Dramaten, Bergman viene assunto all'Opera di Stoccolma come assistente alla regia. Ha modo di familiarizzarsi con la grigia routine di un solido teatro borghese, ma anche di incontrare personalità eccezionali, come Issay Dobrowen. E lui a svelargli che il mondo dell'interpretazione musicale è pauroso e semplice nello stesso tempo: fuoco, passione, ma anche autodisciplina, discernimento, rispetto. Le follie dei registi, «la libertà totale, la totale problematicità portate al culmine della disperazione professionale» appaiono al «barbaro del Nord, che ha assorbito la fedeltà al testo insieme al latte materno», qualcosa di «spaventoso», confessa Bergman di sé. A Monaco, durante l'esilio, gli capita di assistere alla prova generale del Fidelio diretto da Karl Böhm. «Ricordo vagamente che la regia era orribile e la scenografia paradossalmente moderna, non c'entrava niente. Karl Böhm dirigeva i suoi bavaresi viziati ma virtuosi con piccoli movimenti delle mani - come facessero coro e solisti a comprendere quei segni era un mistero - [...] Quest'opera-mostro, verbosa e mal riuscita, s'era improvvisamente trasformata in un'esperienza limpida come acqua di fonte. Compresi che stavo sentendo il Fidelio per la prima volta, che - per dirla in parole povere - non l'avevo mai capito, compreso, inteso. Un'esperienza decisiva, turbamento interiore, euforia, gratitudine, tutta una serie di reazioni inattese. La cosa appariva semplice: le note al loro posto, nessun trucco strano, mai tempi sorprendenti, non uditi prima. L'interpretazione fu - come dicono i tedeschi con leggera ironia - werktreu. Eppure il miracolo era un fatto». Tutt'altro l'incontro con lo stregone Karajan, a Salisburgo durante Il cavaliere della rosa. Benché la proposta gli appaia ridicola (un film su Turandot), Bergman rimane «irrimediabilmente affascinato». Il maestro parla e straparla di sé: «Improvvisamente s'interruppe: "ho visto la Sua messinscena del Sogno. Lei dirige come un musicista, ha senso del ritmo, della musicalità, del tono. Lo si vedeva anche nel Flauto magico. Ogni pezzo preso a sé era affascinante, ma non mi è piaciuto. Lei ha cambiato l'ordine di alcune scene, verso la fine. Questo con Mozart non lo si può fare, è un tutto organico"». La lezione è finita, Karajan si avvia alla prova, scortato dal suo seguito: «un corteo imperiale di assistenti, collaboratori, cantanti d'opera d'ogni sesso, critici ossequiosi, giornalisti deferenti e una figlia [ ... ] Quando l'esile figura comparve trascinando la gamba, tutti si alzarono e rimasero in piedi finché il Maestro fu portato a braccia al di là dell'orchestra e giunse al suo posto. Il lavoro ebbe inizio immediatamente. Affogammo in un'ondata di devastante, rivoltante bellezza». Nella sua vita professionale, Bergman non ha realizzato molte opere: se si eccettua il film del Flauto magico, solo una Vedova allegra in anni lontani. Perché mai? «L'imparare a memoria un pezzo musicale per me è faticoso come scalare una montagna. Per giorni me ne sto seduto con registratore e partitura, a volte questa incapacità è paralizzante, a volte ridicola. Forse questa lotta incarognita ha un aspetto positivo: sono costretto a darmi da fare con quel pezzo all'infinito. Ho modo di ascoltare attentamente ogni battuta, ogni pulsazione, ogni attimo. La mia rappresentazione sorge dalla musica. Non posso seguire un'altra via. La mia invalidità me lo impedisce».
Film come sogno, come musica: è la conclusione cui Bergman aspira, che gli sembra di non aver mai raggiunto. Si sbaglia, naturalmente, o finge. Ma nel suo maniacale perfezionismo egli sa di non poter andare oltre quel limite. Non si cambia il proprio destino. Anche per questo, se tornasse a vivere, Bergman vorrebbe essere un musicista.

Sergio Sablich ("il giornale della musica", n.23, dicembre 1987)

venerdì, novembre 23, 2007

Alessandro Orologio

Alessandro degli orologi – Orologio e gli orologi.
La famiglia di Alessandro proveniva da Aurava, un piccolo borgo oggi nel comune di San Giorgio della Richinvelda, in provincia di Pordenone. Mistro Pellegrino, il padre del musicista, orologiaio da torre per antica tradizione familiare, nel 1550 era stato chiamato nella capitale del Friuli dallo zio Giacomo, per collaborare alla costruzione del grande orologio di Piazza San Giovanni. Ultimato il maestoso congegno, Pellegrino di Aurava era riuscito, già nel 1553, ad avere l’incarico di addetto alla manutenzione di quello e di tutti gli altri orologi pubblici della città, ed aveva quindi deciso di trasferirsi definitivamente a Udine con la famiglia. Qui era entrato in rapporti con l’ambiente della compagnia strumentale che la Comunità manteneva fin dal 1379. Suo figlio Alessandro, oltre ad imparare il mestiere paterno, aveva perciò ricevuto una formazione musicale a contatto con questa compagnia, che solo pochi anni prima annoverava ancora fra i propri membri il grande Girolamo Dalla Casa, poi trasferitosi a Venezia e diventato capo de’ Concerti delli Strumenti di fiato della Serenissima Repubblica e celebre trattatista. Viste le sue notevoli doti tecniche e musicali, nel 1573 Alessandro viene assunto come membro stabile della compagnia. La situazione del bilancio familiare dei Da Aurava tuttavia, precipita con la morte di Pellegrino. Attraverso documenti ancor oggi conservati nella Biblioteca Civica di Udine, sappiamo che, rimasto l’unico sostegno della famiglia, Alessandro ottiene nel 1574 di prendere il posto del padre come manutentore degli orologi della comunità. E’ per questo motivo che il giovane, fino allora chiamato da Aurava, da quel momento è conosciuto come Alessandro degli orologi e così viene citato nei documenti. Poco dopo, lo stesso musicista prende a firmarsi come Alessandro Orologio. Il nome Orologio è stato, fino a tempi recenti, un rompicapo che ha fuorviato più di un musicologo. Alcuni hanno ipotizzato non dimostrati legami con la nobile famiglia padovana degli Orologio. Altri, poggiando sulla denominazione De la Aurava o Della Vrava (grafie diverse che indicavano la medesima località), hanno supposto che provenisse da zone del Friuli in cui si parla un dialetto slavo, nel quale la parola Vrava significa orologio. E’ merito di Gilberto Pressacco, prima, e di altri musicologi fra cui Franco Colussi, poi, aver indicato e per quanto possibile documentato l’ipotesi più verosimile.

L’inizio della carriera di strumentista e compositore.
Verso il 1574 Alessandro degli orologi, pur in giovanissima età, è già una persona inserita nell’ambiente sociale della capitale del Friuli. Riveste incarichi pubblici sia come manutentore degli orologi, sia come membro stabile della compagnia degli strumenti a fiato in un momento in cui, finita la guerra contro i Turchi, il governo della Serenissima è disposto a spendere per potenziare e sviluppare il gruppo musicale. Per compensare questa notevole mole di impegni, Alessandro presenta diverse richieste di aumento, che vengono regolarmente accolte moltiplicando i suoi guadagni.
Cionostante, Alessandro capisce presto che la carriera vera va cercata fuori dalla compagnia musicale udinese, in capitali più importanti e ricche. Così il 6 aprile 1578 presenta le proprie dimissioni da tutti gli incarichi che svolgeva per la Comunità, decidendo irrevocabilmente di andarsene via dal Friuli. Secondo uno studioso si dirige a Ferrara, dove si fermerà per meno di due anni, cornettista “assai acclamato, ben pagato, e con meno obblighi che a Udine”, ma la notizia non è certa. Quel che è sicuro è che, due anni dopo, passate le Alpi, troviamo Orologio a Praga, presso la corte dell’Imperatore Rodolfo II, finalmente inserito come Trommeter und Musicus in quel mondo ricco e prestigioso nel quale aveva tenacemente cercato di entrare.

Orologio compositore.
L’attività di compositore di Alessandro orologio è abbastanza intensa. Nel 1586, a Venezia e per i tipi di Angelo Gardano, Orologio pubblica il suo Primo Libro de Madrigali a Cinque Voci. Nell’89, a Dresda, esce poi Il Secondo Libro de Madrigali a Quattro, a Cinque & a Sei Voci. Fra il 1593 ed il 1594, il friulano pubblica due libri di Canzonette, dedicati ai nobili e mecenati polacchi Piotr e Zygmunt Myszkowski, libri che contengono quasi tutta la sua produzione in questo genere musicale. Un terzo volume, pubblicato nel 1596 da Francesco Sagabria, contiene infatti intavolature per liuto e voce (cioè riduzioni per una voce con ‘accompagnamento’ di liuto) di composizioni che erano già quasi tutte apparse nei due volumi precedenti. Nel 1595 è il turno del Secondo Libro de Madrigali a Cinque Voci, che tiene dietro a quello che era uscito nel 1586. Due anni dopo, nel ’97, la stamperia di Jakobus Lucius a Helmstedt pubblica il volume delle Intrade a cinque ed a sei voci, dedicato al grande mecenate Cristiano IV di Danimarca, con cui Orologio è stato a lungo in contatto e per il quale ha svolto diversi incarichi. Un terzo libro di madrigali a cinque ed a sei vede la luce a venezia per i tipi di Giacomo Vincenti nel 1616. La medesima officina di stampa pubblicherà nel 1627 i Cantica Sion a otto voci. Qui si ferma (a parte brani isolati in raccolte) la lista delle opere musicali a stampa a nostra disposizione. Di altre opere di cui siamo certi, ad esempio quelle che Orologio cita nella sua lettera del 12 ottobre 1599 a Cristiano IV di Danimarca (un libro di madrigali a 5, 6 e 7 voci, uno di Madrigali Concertati, uno di Dialoghi Concertati ed un liber di coloratura) non possiamo, per il momento, che piangere la perdita.

Le Canzonette.
Anche se all’epoca in cui Orologio entrava in carriera il paradigma della musica vocale profana in Italia era ancora costituito dal madrigale, la canzonetta e gli altri generi profani cosiddetti leggeri non erano semplici surrogati del madrigale. Essi esibivano invece forme e stili autonomi e riconoscibili, pur nell’ambito di tecniche musicali condivise e di mode letterarie e culturali comuni. Né bisogna pensare che i generi leggeri fossero di per sé ‘popolari’ e perciò rozzi o poco raffinati, in contrapposizione al madrigale ‘colto’. Al contrario, si trattava di composizioni destinate allo stesso tipo di pubblico che apprezzava o eseguiva il madrigale. Per quanto riguarda il favore del pubblico, poi, studi recenti dicumentano come, sul finire del Cinquecento, i generi leggeri ed in particolare la canzonetta abbiano avuto in Italia una diffusione ed un successo paragonabili a quelli del madrigale. Fra le molteplici ragioni di ciò va certamente presa in considerazione la circostanza che quelle composizioni erano pensate per servire al divertimento, al passatempo ed alla vita sociale ed evitavano volutamente complessità ed intellettualismi, talora un po’ troppo artificiosi, propri del più ‘serio’ repertorio madrigalistico. Inoltre, la loro struttura strofica e fortmente ritornellata si prestava ad una più agile e meno impegnativa esecuzione a memoria, distinta da quella ‘sul libro’ che era indispensabile al madrigale. Le caratteristiche strutturali proprie della canzonetta, in modo particolare la stroficità, e la sua destinazione d’uso rendevano tuttavia inutilizzabili molti dei testi letterari di maggior valore e portarono alla creazione di testi strofici adatti, che, date le origini del genere e le sue parentele con gli altri generi leggeri come la villanella, non potevano che essere legati a “forme di cultura poetica bassa”. L’uso di testi di questo tipo si spiega forse anche con un’altra ragione. I testi per le canzonette, come quelli di tutta la musica vocale strofica, presentano sempre non pochi problemi legati alla difficoltà spesso insormontabile di far coincidere una struttura musicale, definita a misura della prima strofa del testo, con gli accenti tonici, le pause, gli effetti necessari alle strofe successive. Questi problemi furono superati con espedienti di vario tipo, che spesso dovevano comportare la modifica dei testi, dato che la musica doveva essere ripetuta pressochè identica salvo piccole differenze. Ciò da un lato rese i compositori molto liberi nell’uso dei testi poetici, dall’altro dovette sconsigliarli dall’utilizzare testi ‘importanti’, per i quali evidentemente ogni modifica sarebbe suonata blasfema. Questa situazione aprì la strada all’affermarsi di testi costruiti da ‘parolieri’ che agivano in modo simile a quelli del repertorio leggero dei nostri giorni. Si trattava di testi perlopiù anonimi, magari pubblicati in raccolte vendute a prezzo economico come quelle dello Zoppino, che ogni compositore poteva saccheggiare liberamente, in un’epoca in cui oltretutto non esisteva il diritto d’autore! Cionostante, molti divennero testi di grande successo e vennero ripetutamente posti in musica.

Le Intrade.
Le 28 intrade pubblicate da orologio in Germania nel 1597 costituiscono, secondo il parere di diversi musicologi, un notevole contributo per l’affermazione di uno stile musicale prettamente strumentale, allora ancora in fase di formazione. Orologio non inventa il genere intrada, ma gli dà un tale impulso che, a partire da quel momento, il nome da lui utilizzato diventa di uso generale. Infatti, dopo la pubblicazione della sua raccolta, le stampe tedesche dedicate al genere non recano più soltanto la denominazione tradizionale di Auffzug, ma contengono il nuovo termine Intrada, di evidente origine italiana. Il nome intrada significa entrata e denota composizioni destinate ad usi abbastanza diversi, che andavano da occasioni ufficiali (l’entrata, appunto, di personaggi importanti o l’inizio di cortei solenni) a situazioni conviviali, di gioco o di danza, ad uso prettamente musicale (l’entrata cioè l’introduzione di una composizione musicale diversa). Si tratta di composizioni brevi e ritornellate, nate da un repertorio originariamente modellato sulle caratteristiche degli strumenti a fiato, ma ben presto evolutesi in modo da essere compatibili con le caratteristiche degli strumenti ad arco.

Gian Paolo Fagotto (dalle note allegate al CD Arts 47531-2)

domenica, novembre 11, 2007

Hugo Wolf: L'estro e la follia

Quando ci si accosta a una personalità bizzarra, per certi certi versi «romanzesca» come quella di Hugo Wolf è difficile riuscire a prescindere dall'aneddotica e tracciare un profilo rigorosamente artistico: complice, in questo caso, persino Thomas Mann, che nel Doktor Faustus riuscì a sovrapporre alla figura umana di Wolf il credo estetico di Schönberg, ricavandone il personaggio di Adrian Leverkühn. E come mai la figura umana di Wolf si prestava così bene a ospitare la crisi creativa che indirizzerà prima verso il ripudio del sistema tonale, poi verso le geometrie dodecafoniche? Proprio per via del tracollo intellettuale che segna il cammino terreno di Wolf, consegnato già nel 1897, appena trentasettenne, alla notte della follia e rimasto ancora per sei anni a vegetare, come Schumann, in una clinica psichiatrica. Il temperamento lunatico e imprevedibile, l'ipersensibiltà estrema, l'altemanza incontrollabile di fasi creative rigogliose e fasi di totale aridità, infine la fisionomia di «vagabondo» alla ricerca di qualcosa che gli sfuggì evidentemente per tutta la vita: viene spontaneo cercare di scoprire nelle sue composizioni una traccia di questi drammi personali. Nella realtà storica, però, e nella concretezza del suo messaggio artistico, Wolf non è affatto Schönberg e soprattutto non è il Leverkühn del romanzo di Thomas Mann. E piuttosto un poeta dell'intimità, un cesellatore di piccole forme la cui genialità è consegnata per intero (tolte piccole eccezioni) a un solo genere musicale, quello del Lied, a cui consacrò tutta la vita. Dopo Wolf, che ne pubblicò oltre duecento, il Lied per voce e pianoforte tacerà, cedendo il passo alla fioritura del Lied per voce e orchestra. A testimonianza, se ce ne fosse bisogno, dello sviluppo a cui era approdato l'accompagnamento pianistico, ormai maturo per riversarsi in sontuosi organici orchestrali. L'impressione generale data dalla lirica wolfiana è quella di un desiderio di canto che non riesce a trovare il suo sbocco e a dirsi per intero. Questa non è impotenza di epigono, quanto piuttosto estremo autocontrollo, pudore del sentimento. Schumann, tanto venerato da Wolf, aveva l'abitudine di sdoppiare le linee tematiche creando echi nascosti, «voci segrete», che sfuggono al profano frettoloso e si rivelano solo a chi decifri la pagina in umiltà e comunione di spirito, sapendo scavare nei sottintesi. La scrittura di Wolf è tutta intessuta di riverberi segreti: una scrittura senza dubbio elusiva e poco accattivante, ma di una precisione ed essenzialità estreme. Viene in mente la narrativa di Schnitzler, scrittore della Vienna fine secolo di cui Wolf era cittadino adottivo. Fra giri di valzer, frivolezze e bon ton l'Impero imbocca il sentiero del tramonto, dissimulando la rovina sotto l'insegna del Prater. E con l'Impero se ne va alla deriva l'individuo, disancorato dalla realtà, lento all'azione e incapace di decifrare i suoi stessi sentimenti. In Wolf (come in Schnitzler, come in Hofmannsthal) la crisi dell'io e l'insufficienza del linguaggio sono ormai dati di fatto incontrovertibili; lo si capisce dalla tortuosità delle armonie, dalla ricerca inesausta di soluzioni timbriche nuove, dal mutuo intrecciarsi di canto e strumento (mai così interdipendenti prima d'ora).
Si parla spesso di Wolf come di un post-wagneriano, anzi come di un operista mancato che ripiegò sul Lied per consolarsi come meglio sapeva della sua scarsa attitudine a maneggiare l'orchestra. Ascoltando i suoi Lieder, però, non si percepiscono quasi mai echi wagneriani. Certo, fra i Goethe-Lieder ce n'è almeno uno, Mignon (Kennst du das Land), che raccoglie in tutta evidenza l'eredità, se non del Tristano, almeno dei Wesendonck-Lieder. Ma sono casi sporadici, da non scegliere come pietre di paragone. Le strategie tonali dei due compositori sono molto diverse, il fatto che entrambe facciano ampiamente ricorso al cromatismo non è garanzia di identità né di dipendenza, conferma l'assimilazione dei canoni wagneriani, ma anche l'indipendenza e l'originalità con cui vennero rielaborati. Ecco i tranelli della biografia: ricollegare Wolf a Wagner viene spontaneo, perché si sa che il nostro compositore trascorreva pomeriggi e notti a ripassare al pianoforte i drammi wagneriani; perché si sa che stravedeva per Wagner al punto da convertirsi, come lui, alla dieta vegetariana e alla fobia per Mendelssohn; perché si sa che, alla notizia della sua morte, scappò ad appollaiarsi su un albero, per leggere il Parsifal in solitudine e raccoglimento. Queste stravaganze sono ciò che più falsa l'immagine di Wolf e che rischia di consegnarla ad alcuni luoghi comuni. Prendiamo un esempio di natura biografica: Wolf ebbe numerosi amori, veri e propri incendi affettivi che poi dileguavano all'improvviso, senza un perché. O meglio, un perché ci sarà ben stato, ma per noi è sepolto nella nebbia più fitta. Wolf l'emotivo, Wolf l'irruente era in realtà segretissimo riguardo alla sua sfera privata, o quantomeno era così accorto e sensibile nello scegliersi i confidenti che nulla mai ne trapelò. Al biografo non resta che attribuire certe metamorfosi inattese alla pazzia infieri. Oppure rassegnarsi a riportare i fatti, ammettendo di non poter fornire spiegazioni che vadano al di là dell'ipotesi.
Restiamo quindi anche noi ai fatti e atteniamoci all'unico «fatto» che un artista possa produrre, vale a dire le sue manifestazioni creative. Tralasciamo anche le critiche, tra incensi (per Wagner, per Bruckner) e fiele (per Brahms, per gli italiani, per Mendelssohn), scritte da Wolf negli anni della gavetta per un pettegolo giornale viennese, il Salonblatt.
Non c'è niente di più semplice da riassumere e memorizzare del catalogo wolfiano: a parte il Poema Sinfonico Penthesilea, la Serenata Italiana e l'opera Il Corregidor, è costituito unicamente da Lieder. Non Lieder sparsi, però, tratti volta per volta da autori diversi, ma quaderni «monografici» costituiti quasi tutti da una cinquantina di pagine tutte dello stesso poeta. Il quaderno più breve, l'unico a comprendere «soltanto» una ventina di Lieder, è quello su testi di Eichendorff. Seguono i Mörike-Lieder, i Goethe-Lieder, e infine i due «canzonieri» su poesie popolari rispettivamente spagnole e italiane. Non si tratta di «cicli» nel senso schubertiano o schumanniano, con un filo conduttore interno, una sorta di trama che lega i diversi testi. Questi sono piuttosto «ritratti» di poeti, simbiosi artistiche, oggi con Mörike, domani con Goethe. Questo è già un fatto significativo: pur mantenendo inalterate certe caratteristiche di scrittura, i vari fascicoli acquistano ciascuno un'identità propria, in relazione al contesto poetico. Beninteso, non attribuiamo queste capacità mimetiche a un presunto eclettismo, la scrittura di Wolf è sempre, troppo densa e scavata per poter venir accostata anche lontanamente all'eclettismo. Però senza dubbio l'autocontrollo di stile, la bravura e l'acume con cui la pagina musicale è modellata su quella poetica pur senza esserne succube sfatano l'idea del compositore impulsivo. Wolf sa fare appello all'estrosità nel quaderno eichendorffiano, allo spleen in quello mörikiano, a un classicismo mai calligrafico quando affronta Goethe. E poi ci sorprende ancora con le due ultime raccolte, il Canzoniere spagnolo e il Canzoniere italiano, dove tutti questi ingredienti ritornano, irrorati da un umorismo delicato e amaro nello stesso tempo.
Nei Canzonieri si dipanano battibecchi immaginari fra innamorati, simulando dialoghi costellati di alti e bassi: ecco perchè la tradizione sia concertistica sia discografica ne affida sempre l'esecuzione a una coppia di interpreti. «L'artista è colui nella cui anima è passata una vita», diceva Busoni. E la vita inquieta, ardente, delusa di Wolf palpita in queste pagine meglio che in tante «esternazioni» provvisorie. La fantasmagoria di affetti, reazioni e situazioni che sboccia da queste vignette alla Callot sembra improvvisata, ma non lo è affatto: Wolf è scrupolosissimo nelle annotazioni espressive e ricorre sistematicamente all'uso della didascalia per mettere l'interprete sulla strada giusta. La matrice di queste indicazioni («selvaggio», «affettuoso», «sfacciato», «teneramente», il tutto rigorosamente in tedesco) è nella Ballata, il filone più colloquiale e pittoresco della liederistica, quello più consanguineo al dramma, quello più incline a evocare sfondi «scenografici» e non solo emozioni spirituali, e che pertanto attinge alla pratica tutta teatrale delle didascalie. In conclusione, Wolf mostra davvero di raccogliere per intero l'eredità storica del Lied, dal versante più lirico e schubertiano fino a quello più oggettivo e loewiano, cosi, se da un lato risulta difficilmente classificabile in questa o in quella tendenza, dall'altro offre all'interprete la responsabilità e la gioia di intuire questo patrimonio di sfumature e addentellati, trasmettendoli al pubblico. Fondamentale sarà in primo luogo la chiarezza della dizione, su cui aveva già insistito Loewe (autore soprattutto di Ballate) in alcuni appunti conservati dalla figlia Julie e su cui tornò a più riprese Strauss, invitando i cantanti a esercitarsi preventivamente nella declamazione, in modo tale che all'atto del canto niente del testo risultasse incomprensibile, neanche nel fassaggi vocalmente più ostici. A Wolf sembrava tanto preziosa la conoscenza del testo da premurarsi personalmente di darne lettura prima dell'esecuzione del Lied, e guai al distratto che non se ne desse per inteso e continuasse a chiacchierare col vicino! Il punto di vista di Wolf è comprensibile; la musica non è affatto una tautologia della parola, si capisce. Però in un Lied ben scritto entrambe le componenti partecipano della stessa ispirazione e non possono essere scollegate. Quindi il decorso musicale è in parte sorretto da leggi proprie, in parte veicolato dal contenuto poetico. Se il contenuto
poetico è sconosciuto o risulta poco intellegibile all'atto dell'esecuzione, a essere compromesso è il significato stesso del Lied. L'interprete dovrà quindi essere un cantante-attore: non conta solo la bellezza della voce, ma la sua duttilità, la sua abilità nell'inflettersi anche a toni parlati, la sua forza di penetrazione psicologica nel portare allo scoperto ombreggiature minime, variazioni impercettibili nel ritmo o nell'armonia, particolari che non vanno appiattiti, ma nemmeno enfatizzati. E poi c'è la difficoltà dell'apporto pianistico: nei Lieder di Wolf non è quasi mai pensabile una scissione fra canto e accompagnamento strumentale, perchè l'uno completa l'altro sia armonicamente sia come senso melodico. L'affiatamento fra i due interpreti è fondamentale. Sembra un'osservazione scontata, ma in questo caso rispecchia una necessità imprescindibile. Senza quest'intesa assoluta il Lied wolfiano rischia in genere di perdere la sua coerenza e di apparire come un coacervo di dissonanze. Ormai il pubblico moderno è ben lontano dalla severità di giudizio del secolo scorso, quando il brahmsiano Max Kalbeck accusava il linguaggio di Wolf di patire le «convulsioni armoniche». Ma dal momento che la scrittura di Wolf non è in ogni caso fra le più accessibili (e la lingua complica ancor più le cose, per l'ascoltatore non germanofilo) è articolarmente preziosa un'interpretazione che metta in luce la policromia interna, il superbo incastonarsi di frammenti pianistici e frammenti vocali, l'unitarietà complessiva e insieme la varietà. Sarà per questi motivi che, nonostante trascorrano gli anni, certe incisioni non appaiono mai invecchiate e non si avverte il desiderio di sostituirle con edizioni più recenti, anche se in realtà resta probabilmente ancora molto da aggiungere e una nuova «versione» ben condotta delle miscellanee più celebri (Mörike-Lieder, Italienisches e Spanisches Liederbuch) potrebbe persino consacrare una carriera, per l'importanza e la difficoltà dell'impresa. Solo il grande «interprete» (qualcosa di riù del bravo cantante, quindi) azzarda l'approccio con Wolf . La melodia è spesso (a dir poco) disadorna e per far apprezzare il Lied bisogna di conseguenza intervenire con la fantasia e le doti colloquiali. In una parola, sono necessari i «cantanti-attori», che riescono a fondere parola e canto, lirismo e oggettività, tragedia e commedia aiutando anche chi ascolta a entrare nell'universo in miniatura del Lied. In un momento che sembra assistere a una crisi della figura carismatica dell'interprete, che qualche volta pare voler omologare le esecuzioni secondo un cliché comune di esattezza un po' anodina, l'opera liederistica di Wolf è ancora una sfida aperta all'originalità. Questo un po' perché bisogna misurarsi con le incisioni strepitose dei cantanti-attori, per l'appunto, da Fischer-Dieskau a Elisabeth Schwarzkopf e Irmgard Seefried. E un po' perché in Wolf l'esattezza esecutiva non potrà mai essere soddisfacente e non riuscirà mai a soppiantare il contributo personale e l'estro dell'interprete, che ritorna a essere un vero medium tra compositore e pubblico.
di Elisabetta Fava ("MUSICA" n.111, aprile-maggio 1999)

domenica, novembre 04, 2007

Michel Glotz: l'Arte di assecondare i Grandi

Nell'arco degli ultimi cent'anni il disco ha condizionato sempre di più la vita musicale, dall'atto creativo alle scelte interpretative, dallo studio musicologico all'ascolto più casuale. E a far sì che una semplice documentazione sonora diventasse strumento musicale e modello estetico a tutti gli effetti sono stati soprattutto i record producers. Pionieri coraggiosi come Fred Gasiberg, visionari dispotici come Walter Legge e collaboratori esperti che si mettono al servizio dell'interprete come Michel Glotz, il quale firmò le ultime incisioni autorizzate di due mostri sacri come Maria Callas e Herbert von Karajan.

«Sarà un viaggio agitato, ma mai noioso»: così disse Herbert von Karajan a Michel Glotz durante una cena newyorchese del 1965 che cambiò la vita di entrambi. Al produttore discografico francese, fino a quel momento dipendente della EMI e noto soprattutto come stretto collaboratore di Maria Callas, veniva offerta la possibilità di coordinare gran parte delle attività artistiche - tra incisioni, film, festival e tournée del maestro austriaco, senza rinunciare a quell'agenzia musicale parigina, Musicaglotz, che stava per fondare e che ormai è attiva da oltre quarant'anni.
E' stato protagonista o soprattutto un testimone d'eccezione, il signore parigino dai tratti dolcemente malinconici che mi accoglie nel suo ufficio a due passi dal Jardin du Luxembourg? Entrambe le cose, sicuramente. I suoi scritti autobiografici (l'ultimo volume, pubblicato da JC Lattès a Parigi nel 2002, è intitolato La note bleue) ci offrono squarci rivelatori «dietro le quinte» di cinquant'anni di vita musicale ai più alti livelli. Fu Glotz ad accompagnare la Callas al pianoforte in concerti privati sul panfilo Cristina, ad assistere a «jam sessions di musica da camera tra Heifetz, Piatigorski e Weissenberg» negli stessi anni sessanta, a seguire da vicino i rapporti tra Karajan e i Berliner Philliannoniker nei momenti esaltanti come in quelli di crisi. E fu lo stesso Glotz a firmare come record producer non solo buona parte delle incisioni di Karajan a partire dal 1968, ma anche gli ultimi dischi di Carlo Maria Giulini, una fetta sostanziosa della produzione discografica dell'amico di sempre Alexis Weissenberg, alcune opere verdiane
incise da James Levine nei primi anni novanta (cito, tra gli esiti più alti, Luisa Miller e Don Carlo) e le opere russe realizzate in Bulgaria da un talento intrigante troncato dall'Aids, Emil Tchakarov. A differenza dei suoi predecessori Walter Legge (EMI) e John Culshaw (Decca), Glotz ricorda con sincero affetto molti degli artisti con cui ha lavorato e non cercò mai, in sala d'incisione, di imporre una propria visione estetica che andasse al di là di un indubbio culto del bel suono. Ma nonostante il carattere amabile, il suo legame prolungato con il più potente maestro del secondo Novecento gli ha attirato non poche critiche sul piano professionale, talvolta «per errori che in realtà erano di Karajan o dell'equipe tecnico», come precisa l'autorevole biografo del direttore, Richard Osborne, che sottolinea pure l'affidabilità e la coerenza dei ricordi di Glotz. Del resto nessuno ha definito meglio dell'amico e «factotum» parigino l'essenza dell'uomo Karajan, a metà «tra un bambino e un vecchio saggio cinese».
Per un professionista di tale esperienza, una certa nostalgia è inevitabile («a Berlino Karajan non è mai stato sostituito»), ma nel corso della nostra conversazione (troppo lunga per essere riportata integralmente) l'attenzione di Glotz si sposta volentieri dal passato al presente, per comunicare tutta la sua ammirazione per certi artisti con cui collabora tuttora. Ne La note bleue viene dedicato un intero capitolo al grande basso italiano Ferruccio Furlanetto, e simili peani sono rivolti al Trio Wanderer e al violoncellista francese Xavier Phillips: entusiasmi di oggi che reggono benissimo i confronti coll'ingombrante passato.

Come nasce in Lei l'amore per i dischi?
I primi ascolti che ricordo risalgono all'età di quattro anni. I miei genitori avevano un'ottima collezione di 78 giri e presto divenni anch'io collezionista. Loro scoprirono in seguito che il modo migliore per potermi incoraggiare negli studi per il baccalauréat era darmi soldi con cui comperare dischi. Mi piacevano tanti generi e le mie orecchie erano particolarmente sensibile alla melodia. Quand'ero bambino odiavo la Sagra della primavera: per fortuna si cambia con la maturazione e negli anni a venire avrei inciso il capolavoro di Stravinski diverse volte.
Nel secondo dopoguerra Lei frequentò assiduamente i corsi pianistici di Marguerite Long. Ha mai rimpianto il fatto dí non essere diventato concertista?
In realtà no. Fu la guerra ad impedirmelo, negli anni formativi per le dita, per la mente, per quella disciplina quotidiana che è indispensabile al solista. Ma quell'educazione musicale che comunque ho avuto è stata la preparazione ideale per ciò che ho fatto nella mia vita. Seguivo i corsi della Long a Parigi come uditore. Mi dedicavo anche agli studi letterari allora e avevo già rinunciato all'idea di diventare concertista. Talvolta però accompagnavo gli allievi sul secondo pianoforte quando si trattava di studiare i Concerti con orchestra, e col tempo divenni un amico stretto della Long. Appresi moltissimo da lei sulla musica in generale e in particolare sulle composizioni di Debussy, Fauré, Ravel, Albéniz, Granados e De Falla, con i quali era stata in rapporti amichevoli. Si aveva veramente l'impressione con lei di poter raccogliere i frutti di una grande tradizione musicale. Fu attraverso la Long poi che conobbi personaggi come Poulenc e Milhaud e Georges Auric.
Naturalmente conobbe anche il violinista Jacques Thibaud, l'altro fondatore dell'Ecole Long-Thibaud...
Sì, e nell'ultima estate della sua vita - era il 1953 - trascorsi le vacanze con lui e sua moglie nella sua casa a Saint-Pée-sur-Nivelle, vicino a Saint-Jean-de-Luz. Poco dopo egli partì per quel viaggio in Oriente - doveva andare prima a Saigon, per suonare per le truppe francesi, e poi fare una tournée in Giappone - che gli sarebbe stato fatale. Morì in un incidente aereo orribile, e con lui furono distrutti i due violini che portava con sé. Uno Stradivari e un Vuillaume, che era meno vulnerabile dello strumento italiano ai cambiamenti di clima. Thibaud aveva un carattere molto diverso da quello della Long: estroverso e spontaneo, tipicamente meridionale. E il suo modo di suonare rispecchiava il carattere dell'uomo: un bon vivant, pieno di charme e fantasia, gentile e generoso.
Come si diventa un produttore discografico?
Ho avuto un ottimo apprendistato, assistendo alle sedute di registrazione di diversi amici musicisti: specialmente quei pianisti - come Aldo Ciccolini e Philippe Entremont - che entrarono in carriera dopo aver seguito i corsi della Long, ma anche direttori come André Chiytens. Trascorrendo tante ore in sala d'incisione mi resi conto che il lavoro di record producer era quello più adatto a me. Ero capace di distinguere una ripresa ottima da una semplicemente buona e ero convinto di poter creare un clima di entusiasmo che avrebbe aiutato i musicisti psicologicamente. Ero disposto nello stesso tempo a dire loro la verità. Si tratta di una regola inderogabile in questa professione. Se dici delle bugie a un interprete lo rimpiangerei per il resto della vita e perderai la fiducia dello stesso artista. Perché quando il disco uscirà lui si renderà perfettamente conto che l'incisione che avevi descritta come ottima in realtà è mediocre. Questa regola valeva pure per Karajan, anche se non sempre era facile essere franchi in determinate situazioni. Durante l'incisione la partitura diventa veramente la bibbia del produttore. In quel momento non vedi nessuno quando iniziavo negli anni cinquanta non c'era una vetrata che ti permetteva di osservare chi incideva e devi dimenticare qualunque sentimento di affetto o di ammirazione nei confronti degli artisti. Il suono giunge attraverso le casse e devi semplicemente giudicarlo in base a quanto è scritto dal compositore. Se occorre correggere qualcosa bisogna farlo senza compromettere l'atmosfera di amicizia rilassata. Se si avverte però qualche difetto nella resa sonora, si deve intervenire subito: altrimenti l'orecchio si abituerà all'elemento di fastidio ci si renderà conto della gravità dell'errore soltanto dopo l'uscita del disco.
Le Sue prime incisioni furono realizzata alla Salle Wagram a Parigi? Come si trovava lì?
Era, ed è, una sala eccezionale. Usata normalmente per gli incontri di pugilato, è relativamente silenziosa e ha un'acustica eccellente grazie al rivestimento in legno. Questa sala fu amata da tanti artisti, tra cui Beecham, che vi incise la sua Carmen nel 1959 con l'Orchestre National de France.
Cosa ricorda di quelle sedute d'incisione?
Posso raccontare un aneddoto curioso. Un giorno si doveva provare le arie di Carmen alle dieci del mattino e Victoria de los Angeles era un po' in ritardo. Alle dieci in punto Beecham si rivolge a me dicendo: «Il tuo soprano spagnolo non è arrivato» e poi insiste perché io la sostituisca. Così mi trovo a cantare in falsetto praticamente tutta la parte del mezzosoprano! Si trattava soltanto di una prova, ma Paul Levasseur, l'ingegnere del suono, registrò tutto, compresi i commenti di Beecham che approvò la mia interpretazione della «Seguidille» ma mi chiese di ripetere una parte del duetto con Don José per un errore di solfeggio! L'orchestra naturalmente si sbellicava dalle risa.
In Inghilterra Beecham è considerato un grande interprete della musica francese: questo parere è condiviso in Francia?
Assolutamente sì. Nell'opera francese colpiva per la fantasia e la sensibilità del fraseggio, per la bellezza delle sonorità. Ed era senza rivali per esempio nella Sinfonia in Do di Bizet. Mi ricordo che insistetti tante volte con Karajan perché incidesse quella sinfonia, ma lui rispondeva sempre: «Il disco di Beecham è così bello che non posso superarlo».
Negli ultimi anni cinquanta arrivai a conoscere Beecham molto bene. Negli ultimi giorni della sua vita mi chiese di diventare direttore musicale di un Festival Berlioz che lui voleva organizzare a Londra con la Royal Philharmonic Orchestra. Andai a trovarlo alla sua casa di campagna in Inghilterra per pianificare il lavoro, ma lui era ormai molto stanco. A un certo punto tornai a Parigi e mi telefonarono la mattina dopo per dirmi che era morto durante la notte. Volai subito di nuovo in Inghilterra per il funerale, dove Lady Beecham che vive ancora oggi - insistette perché salisse in macchina con lei e con il figlio per accompagnare Sir Thomas al luogo di sepoltura nella bellissima campagna inglese.
Quella di Beecham fu solo la prima di molte incisioni di Carmen realizzate de Lei. In effetti l'opera di Bizet è diventata una mia specialità. Dopo quella di Beecham, in cui affiancavo il produttore discografico Victor Olof, ebbi piena responsabilità per l'incisione con Maria Callas diretta da Georges Prétre, per le colonne sonore del film di Karajan con Grace Bumbry e di quello con Julia Migenes e regia di Rosi e per l'ultima incisione in studio di Karajan con Agnes Baltsa.
Preferisce i recitativi cantati oppure i parlati della versione originale?
Trovo che i recitativi di Guiraud si sposano benissimo con la musica di Bizet. I dialoghi originali mi piacciono solo quando gli artisti hanno una vera padronanza del francese.
Personalmente - per limitarci alla protagonista - li ho sentiti dire bene soltanto da Regine Créspin, in una recita dal vivo dal Met.
In effetti la Crespin è stata una delle cantanti che ha saputo pronunciare il francese con la massima chiarezza. Un esempio di dizione anche tra gli interpreti di madre lingua francese. Basta sentire l'incisione dei Dialogues des Carmélites che realizzammo insieme nel 1958: una pronuncia assolutamente impeccabile. E' un peccato che non avesse un tipo di voce adatto alla parte di Mélisande, perché sarebbe stata una rivelazione sentirla in quella musica. Dopo il mio arrivo alla EMi nel 1957 ebbi diverse occasioni di lavorare con lei. Ricordo una selezione della Tosca in lingua francese diretta da Pretre. Fui io a presentarla poi a Rudolf Bing, il quale le offrì un contratto per il Metropolitan, e grazie al mio amico André Cluytens fu presentata a Wieland Wagner, che la scritturò per diverse opere a Bayreuth. Devo dire che anche l'idea di Karajan di scritturarla per Brünnhilde al Festival di Pasqua di Salisburgo nel 1967 ebbe origine da un mio suggerimento.
Incuriosisce il fatto che si incideva ancora una Tosca infrancese nel 1960.
Negli anni cinquanta la vita musicale francese era ancora molto provinciale. Al punto che quando Maria Callas debuttò all'Opéra nel 1958 le sue incisioni non venivano praticamente distribuite dalla Pathé-Marconi in Francia perché erano in lingua originale. Devo dire che odiavo questa tradizione di eseguire le opere in traduzione; una tradizione ancora viva allora anche in Italia e in molti altri paesi europei. Quando per esempio Karajan diresse Carmen alla Scala nel 1955 con la Simionato e Di Stefano, venne avvicinato da Toscanini che era alquanto contrariato dall'idea che il direttore austriaco volesse imporre quell'opera in lingua originale nel teatro milanese. Se avesse però sentito un Falstaff in francese, credo che si sarebbe indignato...
Prima ha parlato dei Dialogues des Carmélites di Poulenc, un compositore che ha conosciuto molto bene negli ultimi anni di vita.
Le case discografiche erano felicissimi di incidere la musica di Poulenc perché i suoi dischi vendevano: in un solo anno furono acquistati - e soltanto negli Stati Uniti - centocinquantamila copie dell'incisione del Concerto per organo con Maurice Duruflé, sotto la direzione di Prétre. Era uno dei pochi compositori del Novecento che godette di un'autentica popolarità quando era ancora in vita. Lui stesso era entusiasta dei progetti discografici, ma preferiva non assistere alle sedute di registrazione. Quando abbiamo inciso il Concerto per organo in una chiesa a meno di un chilometro di distanza dalla casa del compositore, mi disse: «Io ho detto tutto quello che avevo
da dire attraverso la musica e voi l'avete capito. Amo Georges Prétre. Lasciate che il disco mi giunga come un dono, una sorpresa. Stupitemi!». Ricordo soltanto due eccezioni a questa regola. Gli chiesi di venire alla Salle Wagram durante l'incisione di Gloria per offrire il suo appoggio morale al soprano Rosanna Carteri che era angosciata per una frase ostica per l'intonazione sul passaggio di registro. E la presenza del compositore la aiutò a superare il problema in modo superbo. L'altro esempio riguarda l'incisione della Voix Humaine con Denise Duval, che non fu prodotta da me ma che venne acquisita dalla EMI in un secondo momento. In quel caso fu lo stesso Poulenc a voler essere presente per assicurarsi che le pause di silenzio - così cruciali in quest'opera - fossero sufficientemente lunghi.
Nello stesso periodo Lei divenne amico di Maria Callas.
Avevo già visto la Callas in una Turandot al San Carlo di Napoli e poi in una Traviata alla Scala che lasciò l'uditorio in stato di choc. Ma cominciai a conoscerla bene nel 1957, quando fece scalo a Parigi durante un viaggio dall'Italia agli Stati Uniti e diventammo amici stretti - sentendoci spesso ogni giorno per telefono - a partire dal 1958, quando collaborai all'organizzazione della grande serata di beneficienza all'Opéra che segnò il debutto del soprano a Parigi. Una serata di tre ore che fu trasmessa in Eurovisione, e che ebbe un impatto tale che per la durata del programma si verificò una notevole diminuzione del traffico automobilistico in tutta Europa. La Callas conquistò in quell'occasione l'amore della città di Parigi e della Francia intera. Quel concerto segnò una svolta nella sua carriera e Parigi sarebbe diventata in seguito la sua città. Aveva una personalità fortissima, ma nello stesso tempo si adattava benissimo ai luoghi più diversi. Parlava un ottimo francese, con intonazioni dolci e gravi che rispecchiavano gli armonici bellissimi della voce cantata.
La Sua prima collaborazione discografica con la Callas riguardava i due album intitolati «Callas à Paris». Il produttore Ufficiale tuttavia fu Walter Legge...
Legge aveva la responsabilità globale per le incisioni, ma lui andava avanti e dietro tra Parigi e Londra lasciando il grosso del lavoro a me. Siccome però lui era Walter Legge ed io non ero nessuno, il suo nome figura come recording producer. A questo proposito la Callas mi disse: «Sarebbe una battaglia perduta in partenza tentare di ottenere un pieno riconoscimento del tuo ruolo, ma voglio almeno che sulla copertina dei dischi ci sia un articolo scritto e firmato da te»: e così si fece. La Callas ebbe in quel periodo dei dissapori con Legge a causa di un'edizione del Requiem di Verdi promessa prima a lei e poi affidata - per quanto riguarda la parte sopranile - alla moglie Elisabeth Schwarzkopf Si era un po' stufata del suo modo di fare, così come si era stufato Karajan, che era stato aiutato moltissimo da Legge nel primo dopo-guerra ma in seguito si sentì sfruttato da lui dal punto di vista contrattuale. Ora che la Schwarzkopf non c'è più posso dire che Walter Legge fu un maestro per tutti noi ma anche uomo sgradevole: e dire sgradevole è un understatement. Era una specie di genio per quanto riguardava la conoscenza della musica, la qualità del suono che otteneva e i suggerimenti che era capace di dare agli interpreti (con la Schwarzkopf agì da vero Pigmalione), ma aveva anche molti pregiudizi e nel dire la verità agli artisti spesso oltrepassava i confini della maleducazione, di endo le cose in maniera brutale e facendosi di conseguenza molti nemici. Tuttavia tra i produttori discografici solo Jack Pfeiffer della KCA poteva avvicinarlo per conoscenza della musica (non posso parlare però di John Culshaw perché non l'ho conosciuto a sufficienza per poterlo confrontare con Legge). Per anni, durante le mie trasferte londinesi, osservai Legge al lavoro negli studi di Abbey Road, assimilando come una spugna tutto quello che aveva da insegnare. Non l'ho mai imitato però nella rudezza di carattere, anche perché ero troppo giovane per impormi in quella maniera: lui era abrasivo e severo, io invece avevo un atteggiamento dolce ed amichevole nei confronti degli artisti.
Nei due album «Callas à Paris» si spazia dal repertorio per contralto a quello per soprano leggero: come vennero scelte le arie da incidere?
Molte delle arie erano già state studiate dalla Callas con Elvira de Hidalgo in Grecia. C'era un pianoforte all'Hotel Lancaster a Parigi dove il soprano alloggiava allora e ci incontravamo lì con il direttore Georges Pretre per decidere cosa inserire nel disco. La Callas poi ripassò il tutto con Janine Reiss, con la quale nacque un'intesa artistica specialissima. L'unico pezzo che non pubblicammo subito fu «Mori choeur s'ouvre à ta voix» da Samson et Dalila: ed è l'unica incisione la cui pubblicazione venne approvata da me dopo la morte di Maria. Prima di dare la mia approvazione l'ascoltai tante volte e mi sembrava veramente eccezionale: toccante come interpretazione, bellissima come linea. Sapevo bene naturalmente perché l'aveva bloccata: la melodia scendeva nel registro più grave della sua voce ed era stata costretta a una ripresa di fiato che lei riteneva fosse troppo lunga. Quando decidemmo di pubblicare l'aria tentai di accorciarla in sede di editing, ma si avvertiva troppo l'intervento tecnico e alla fine abbiamo lasciato l'esecuzione com'era. Mi opposi invece con forza alla pubblicazione del duetto dal terzo atto di Aida realizzato alla Salle Wagram nel 1964 con Franco Corelli. Quello che venne pubblicato, con l'autorizzazione non mia ma della sorella della Callas, Jackie, secondo me è un insulto alla memoria di Maria. Si tratta non di una registrazione definitiva ma di una semplice prova, durante la quale Corelli voleva a tutti a costi cantare a piena voce mentre la Callas si stava semplicemente scaldando. Poi, quando la prova era finita, Corelli si rifiutò di ricantare il duetto in voce perché diceva che l'aveva già fatto. Ci sono due cantanti con cui non sono mai riuscito a lavorare felicemente. Uno era Boris Christoff, a causa del suo carattere difficile (ma riconosco la grandezza dell'interprete). L'altro era Franco Corelli, a causa delle interferenze della moglie e di certi comportamenti stupidi. In quell'occasione Maria era arrabbiatissima con lui e mi disse: «Vai a trovare Franco. Digli che lo ammiro molto, che amo la sua voce, ma che non posso lavorare in queste condizioni».
Capitava alla Callas di innervosirsi a causa dei suoi problemi vocali?
Era quasi sempre tranquilla in sala d'incisione. Se la voce non rispondeva mi diceva: «Oggi non sono in forma. Cercherò di fare meglio, ma se non riesco lo ripeterò domani». Sapeva di poter lavorare con tranquillità perché i suoi dischi vendevano così bene che la EMI poteva ben permettersi di dedicarvi diverse sedute. La Callas non arrivò mai in ritardo per le incisioni, ma a volte stava in crociera con Aristotele Onassis sulla nave Cristina fino a pochi giorni prima dell'inizio del lavoro e non aveva trovato il tempo per mettere le arie totalmente in voce. In quei casi veniva chiamata Elvira de Hidalgo da Milano. Era spesso presente alle incisioni di Maria fino alle ultime sedute gestite da me nel 1965. E bastava un'ora al pianoforte per trasformare la voce della Callas. Frasi che erano sembrate tecnicamente ostiche improvvisamente diventavano facili. Spesso si dice che Onassis non apprezzava l'arte della Callas.
Io non ho mai detto cose del genere. In realtà Onassis amava il belcanto come amava Chopin. C'era un pianoforte su Cristina e quando ero ospite sulla nave suonavo i Notturni di Chopin per lui e accompagnavo Maria in arie di Bellini. Ma ho sentito la Callas cantare, come nessun altro al mondo, anche le tradizionali canzoni greche accompagnate dal bouzouki. Le ho chiesto di inciderle, ma lei non amava l'idea di fare un disco che potesse sembrare un tentativo di utilizzare il suo nome per fini puramente commerciali. Amava però quella musica e guardava con assoluto rispetto e umiltà agli interpreti di musica «leggera», come Melina Mercouri. Era in grado di impadronirsi di qualsiasi musica. L'ho sentita cantare il jazz da vera americana e interpretare meravigliosamente le mélodíes di Duparc. Registrò infatti la versione con orchestra dell'«Invitation au voyage» per la trasmissione televisiva «Les Grandes Interprètes» nel 1965, ma non c'era spazio per inserirla nel programma e in seguito il filmato sparì. Io ero presente durante la registrazione e fu un'interpretazione fantastica, ma lei rifiutò sempre le mie proposte di realizzare un disco dedicato a Duparc: diceva che non avrebbe mai potuto rivaleggiare con le migliori cantanti francesi.
La Callas cantò Norma per l'ultima volta all'Opéra di Parigi negli anni 1964-65, talvolta in precarie condizioni di salute e di voce. Ha un ricordo felice di quelle recite?
Assolutamente sì. Nonostante tutto, ebbe dei trionfi indescrivibili. Vorrei ricordare poi un episodio significativo riguardante il sindacato degli orchestrali, che allora come oggi era molto forte. Una mattina la Callas stava provando Norma all'Opéra con Prétre sul podio: c'era un'atmosfera particolarmente bella e armoniosa. Maria non si rendeva conto del passare del tempo e la prova - che avrebbe dovuto concludersi alle tredici - proseguì per altri sedici minuti. A un certo punto lei interruppe il lavoro perché voleva correggere qualcosa e Prétre le disse che purtroppo dovevano fermarsi perché la prova era finita. Neanche uno dei professori d'orchestra si era fermato, tuttavia. Lei si scusò con l'orchestra, ma io decisi di raccontare comunque quest'episodio a Georges Auric, direttore dell'Opéra, perché sapevo che i sindacati avrebbero potuto creare qualche problema. Ma quando lui telefonò ai rappresentanti sindacali, loro dissero: «No, non vogliamo dei soldi in più per quei sedici minuti perché si tratta di Madame Callas». Ciò fa capire la felicità che era in grado di trasmettere al mondo intero.
Un altro artista con cui ha avuto un sodalizio stretto, e per un periodo ancora più lungo, è Herbert von Karajan.
Lo conobbi Karajan già nel 1957 e dopo che avevo lasciato la EMi alla fine del 1965 per creare un ufficio di rappresentanza per artisti, divenni il suo collaboratore e factotum, con un ruolo molto attivo nella progettazione del Festival di Pasqua a Salisburgo, che si inaugurò nel 1967 con l'inizio di un Ring in cui si proponeva un approccio nuovo e diverso al canto wagneriano. In quel periodo lui aveva un contratto discografico esclusivo con la DG, firmato dopo la rottura con Legge. Ma quando quel contratto terminò, riuscii a convincerlo a non confermare quel rapporto di esclusività e di riprendere i rapporti con la EMI. Dal 1968 fino alla morte nel 1989 sono stato poi il produttore discografico di Karajan, collaborando non solo con la EMI ma anche con DG, mentre le incisioni Decca erano gestite da altri. Lui mi cercò anche nell'ultimo giorno della sua vita. Mi chiamò alle 11,30 di quel 16 luglio - un'ora prima della morte - ma purtroppo non riuscì a raggiungermi. Le mie prime incisioni con lui erano state le ultime sei sinfonie di Mozart con i Filarmonici di Berlino, seguite da Tristan und Isolde con Helga Dernesch e John Vickers e
Fidelio con gli stessi interpreti. A Berlino si incideva in quegli anni nella Jesus Christe Kirche, che era sulla strada per l'aeroporto di Tempelhof. Lavorarci era un'esperienza esasperante perché dovevamo interrompere le riprese ogni cinque minuti a causa degli aerei. In seguito abbiamo inciso sempre nella Philharmonie, mentre a Vienna, con i Wiener Philliannoniker, si utilizzava il Sofiensaal del Musikverein e a Parigi - per tre anni, dopo la morte di Charles Munch nel 1968, Karajan fu consigliere musicale dell'Orchestre de Paris - si incideva nella Salle Wagram.
Di quali incisioni con Karajan va più orgoglioso?
Un giorno che eravamo a tavola nel suo chalet di Anif in Austria, mi chiese lui stesso quale dei nostri dischi avrei portato su un'isola deserta. Risposi che avrei scelto le sinfonie di Brahms oppure qualcosa di Strauss, magari il Heldenleben. «Non ti piace allora il mio Beethoven?», mi rispose scherzosamente. Devo dire che ho un ricordo fantastico anche di molte altre incisioni straussiane - per esempio la Salome con la Belirens e i Vier Letze Lieder con la Janowitz - , dei Concerti di Beethoven con Alexis Weissenberg, del Don Carlo inciso nel 1978 con Carreras e la Freni e del Pelléas che incidemmo sempre nel 1978. Quest'ultima incisione fu curata al massimo: ventisette o ventotto sedute, con la presenza di Janine Reiss come coach musicale. Fu il risultato di una specie di baratto. Peter Andry della EMI voleva che si incidesse un'integrale delle sinfonie di Schubert, ma Karajan non era così entusiasta dell'idea: amava alcune delle sinfonie, ma non tutte. Alla fine lo convinse a inciderle in cambio della promessa di fare quel Pelléas, a cui teneva moltissimo. Per tornare al discorso di prima, Karajan mi chiese pure quale delle nostre incisioni mi piaceva meno di tutte. Non ebbi dubbi: Le Stagioni di Haydn incise a Berlino nel 1972. «Perché?». «Perché la Janowitz non stava bene e aveva problemi di intonazione, Walter Berry stava divorziando da Christa Ludwig ed era in cattiva forma anche lui. Il tenore era terribile: preferisco non nominarlo. E il coro - quello del Deutsche Oper Berlin - non ti piaceva». Lui mi guardò e disse: «Sono stupefatto. E' l'unico lavoro di Haydn che non mi piace per niente. Ma abbiamo fatto davvero quell'incisione?». « Sì, ed è il ricordo più infelice di tutto il nostro lavoro insieme. Te lo dissi allora. E ricordo bene che dicesti che non avresti più inciso un lavoro corale senza il Singverein di Vienna». In effetti lo impiegò sempre in seguito, tranne che nella Carmen, per la quale scelse il Coro dell'Opéra di Parigi.
Il legame di Karajan con Vienna, in effetti, fu molto forte.
Bisogna ricordare che era nato l'8 aprile del 1908. Come tanti austriaci della sua generazione provava una grande nostalgia per l'Impero Asburgico. Per lui il Trattato di Versailles del 1919 fu una catastrofe totale che distrusse un impero che, per quanto complicato e diversificato geograficamente, permetteva tuttavia una convivenza armoniosa. E ancora oggi stiamo pagando le conseguenze di quel catastrofe: basti pensare alle turbolenze nel Kosovo. Devo dire che Karajan mi trasmise quest'amore per Vienna e questa nostalgia per il passato, e ogni volta che vado nella città austriaca - l'ultima volta fu nel mese di giugno per vedere un grandissimo Ferruccio Furlanetto nel Don Carlo - visito l'Hofburg ed entro anche nella Cripta dove sono sepolti gli imperatori.

Stephen Hastings ("Musica", n.189 - settembre 2007)