Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, marzo 31, 2006

Il Quartetto Kronos: quattro archi senza confini

Dei quattro componenti del Kronos che pensavo di incontrare ne arriva uno solo, il leader e primo violino David Harrington, testa pensante del gruppo e a quanto riferiscono anche testa parlante, da sempre colui che traccia la rotta. Ho scoperto in seguito che sono persone molto piacevoli e disponibili, ma anche munite di una logica professionale inflessibile, secondo la quale i compiti sono rispettati, sia che si tratti di rapporti con la stampa, sia che si tratti del soundcheck rigoroso in teatro prima di ogni concerto.
Giubbotto da caccia, felpa gialla e scarpe da ginnastica ai piedi, Harrington mi viene incontro da perfetto "alternativo" in un incredibile hotel di Ferrara, dove sono affastellati in un'unica sala i lampadari a goccia di Murano, le finestre all'inglese, i tavolini in stile barocco viennese. Lo stridore del suo modo di essere, della musica di cui parliamo, dei percorsi attraverso i quali passano i loro vaticini sulla cultura del nostro tempo trovano qui una cornice assurda e coerente al tempo stesso. Il dio greco Kronos mangiò i propri figli per timore di una profezia. La nostra curiosità è sapere quale divorante impulso spinga loro invece a nutrirsi della musica dei propri fratelli, di coloro che il Kronos elegge a proprio simile.

Parliamo dei vostri inizi...
La storia del Kronos inizia nel 1973. Personalmente, già a 12 anni amavo suonare i quartetti di Beethoven, Haydn, Schubert; dai 16 in poi ho cominciato ad affrontare Bartok e la musica dei compositori che scrivevano cose nuove. Ma nel '73 mi capitò di ascoltare alla radio un pezzo di George Crumb, Black Angel, e mi imbattei nella musica più eccitante, allarmante, inquietante che avessi mai ascoltato in vita mia. Volli suonare quel pezzo. Sa, non è quel genere di musica che puoi mettere sul leggio e lasciar scorrere sotto gli occhi, è necessario l'affiatamento di un gruppo per suonarlo. Così decisi di formarne uno, passando tutto il tempo a suonare insieme, che potesse andare avanti. Ho pensato che mi sarebbe piaciuta questa vita. Ecco la storia del Kronos, dal 1973.
E dove vi siete formati?
Questo fu a Seattle, nello stato di Washington. Da allora mi sento come se non avessi mai cessato di studiare...
Eravate tutti di lì?
No, veniamo da parti differenti dell'America.
E come vi siete scelti l'un l'altro?
C'è voluto un po' di tempo per arrivare all'attuale formazione, che è del 1978. Hank Dutt, John Serba, Joan Jeanrenaud ed io ci siamo trovati a San Francisco, dove adesso viviamo.
Com'è che avete scelto la formazione cameristica più classica per suonare il repertorio meno tradizionale che si possa immaginare?
Per me, il suono di un violoncello, di una viola e di due violini è il suono che sento nel sangue, è il suono dei miei pensieri. Per la maggior parte dei compositori, se lo si chiede loro, la sfida massima è scrivere musica per quartetto, perché è un genere che adopera mezzi essenziali e allo stesso tempo esprime una grande quantità di cose. Nelle mani di un compositore di genio poi il suono è sempre differente in ogni condizione musicale. Per me è un modo anche di andare alla radici di ciascun compositore, perché il quartetto è profondamente rivelatore. Inoltre possiede anche una grande flessibilità, possiamo passare da Webern a John Zorn quasi istantaneamente. Non credo che altre forme permettano una tale flessibilità, o se ne esistono di altrettanto duttili io non le conosco.
L'aspetto più appariscente dei vostro modo di esibirvi è l'uso dei media, vale a dire luci, immagini e soprattutto l'amplificazione del suono. Qual è la vostra idea sul suono acustico naturale e su quello elettrico?
Io considero tutto quello che suoniamo di elettronico una sorta di estensione del suono di cui abbiamo bisogno oggi. Le sale utilizzate per i concerti adesso non sono fatte per il suono acustico, generalmente sono destinate a migliaia di persone, sono molto lontane dalle sale del palazzo Estherhazy del 1750. Il tipo di impatto musicale che noi realizziamo, l'amplificazione, ci permette di portare il pubblico all'interno di ciò che stiamo facendo. Anche all'interno dello stesso concerto, noi andiamo da pezzi interamente acustici ad altri notevolmente amplificati. Secondo noi è quello che dev'essere un concerto.
Ma voi usate il supporto elettrico anche con differenti intenzioni: a volte duplica ciò che state eseguendo, in altre occasioni si sovrappone dall'esterno con materiale preregistrato...
Certo, dipende dalle occasioni. Per esempio, uno dei pezzi che suoniamo molto spesso comincia con la nostra sonorità naturale, mentre al culmine della composizione si sentono migliaia di Kronos che suonano insieme allo stesso tempo. E' un pezzo composto in uno studio di registrazione con l'ausilio di computer; quando lo suoniamo dal vivo frequentemente il pubblico pensa che sia fatto per scherzo. Molti dei nostri pezzi sono nati su nastro.
Pensate di condurre ricerche anche su altri media?
Sì, penso che quello che facciamo abbia in ogni momento a che vedere con l'esplorazione della forma del concerto nel 1992, nel tentativo di capire quale sarà nel 1993. Per me la grande sfida nell'essere musicisti è scoprire come la materia della musica si integri come parte del nostro tempo, e senta di esserne coinvolta.
Pensate anche alla televisione, oltre al vostro programma radiofonico?
Sì, per l'appunto abbiamo terminato di girare un film sul nostro lavoro e dovrebbe essere mostrato, credo, nel prossimo febbraio.
Può dircene qualcosa di più?
E' in parte un video, in parte un documentario; si muove continuamente dall'uno all'altro genere, senza definirsi mai in uno preciso.
Il vostro repertorio assomiglia sempre di più a una cartina geografica, e d'altra parte voi stessi avete un atteggiamento da esploratori. Si sente un'assonanza tra i libri di Bruce Chatwin e i vostri dischi. Quali sono per voi i confini della musica?
Non avverto dei confini, concepisco la musica come una sostanza, un'entità che è libera. Noi non possiamo controllarla, è qualcosa che viene scambiato di continuo tra gli uni e gli altri. Credo che uno dei vantaggi di vivere nel nostro tempo sia la eccezionale opportunità di essere consci che esistono parti del mondo prima ignorate che stanno emergendo. Per esempio, attualmente ci sono 30 compositori che stanno scrivendo nuovi pezzi per il Kronos, più di 30 in effetti, dal Caucaso allo Zimbabwe, fino alla Cina, al Giappone, a tutta l'America e a parti dell'Europa, come l'ex Unione Sovietica. Non credo che sarebbe potuto accadere 50 anni fa. Il quartetto d'archi è una forma d'arte che ha raggiunto una dimensione globale, ma è qualcosa che è avvenuto solo in questi ultimi anni. E' diventata una forma di espressione internazionale, e il Kronos è coinvolto in tutto questo. La nostra grande responsabilità oggi, anzi lo scopo, è di approfittare delle possibilità offerte da questi linguaggi.
E con quali criteri selezionate i nuovi lavori?
Del tutto per istinto, scegliamo quello che sentiamo come giusto, non potrei definirlo altrimenti. Cerchiamo molte occasioni, specie se qualcuno sembri sentire un'urgenza, sembri essere sul terreno giusto per scrivere un capolavoro. Questo mi interessa molto personalmente: voglio che i giovani compositori, quelli che sono pronti per scrivere il loro primo grande pezzo, lo compongano per il Kronos. E' il caso anche di persone come Sofia Gubaidulina, che in questo momento sta scrivendo un nuovo lavoro per noi. Sento che sta attraversando un magnifico momento nel suo lavoro, ora è il tempo per il quartetto giusto. Lo stesso per Gorecki, un polacco, e molti altri compositori.
Di quale parte del mondo sono i compositori che ritenete di maggior rilievo attualmente?
Non credo si possa dire con precisione. Ho fiducia soprattutto nelle singole persone, dovunque stiano. Ce ne sono di molto interessanti dappertutto. Nella ex Unione Sovietica sta crescendo una generazione di musicisti meravigliosi, come il compositore azerbaigiano Franghiz Ali-Zadeh, al quale abbiamo commissionato un brano.
Non sembrate avere lo stesso interesse verso la musica americana più originale, la musica dei neri, fatti salvi episodi come Jimi Hendrix.
Sinceramente non penso che sia vero. Abbiamo in mente molte idee, che lei potrà notare nel nostro prossimo album. Stiamo vagliando molte possibilità. Ci sono un sacco di cose che si possono fare, e che noi vogliamo intraprendere. Spero che ci sia tempo per tutto quanto.
Per molto tempo la domanda centrale per l'avanguardia artistica è stata: che cos'è il linguaggio? Per voi invece la domanda sembra essere: quanti sono i linguaggi esistenti? Questo implica una radicale scelta di semplicità contro la complessità precedente.
E' un grosso problema. Tempo fa ho sentito dire che, prima dell'arrivo di Colombo, solo nel Nord America si parlavano un migliaio di lingue. Adesso molto poche, circa un centinaio. Io trovo davvero che la diversità nell'espressione sia incantevole, per me è indubbiamente del massimo interesse. Io rispondo alla musica in primo luogo in quanto ascoltatore: né come commentatore, e neppure come esecutore. Prima di tutto è l'orecchio che mi guida, che mi dice se la musica sta andando nella direzione giusta o no. Per combinazione, la musica africana per quartetto è cominciata nel 1984 proprio a Darmstadt, quando il Kronos ha suonato Kevin Volans. Lì sono accadute molte cose di cui non si sa quasi nulla, fatti che hanno più a vedere con l'intuizione che coi libri.
La maggior parte dei vostro repertorio è costituita da musica contemporanea, nel senso pieno del termine. A volte però includete anche autori ormai classici, come Webern o Shostakovic. Che significato hanno le parole passato e tradizione per voi?
L'altro giorno stavo ascoltando un gruppo australiano, chiamato Yothu Yindi, molto interessante. Il cantante leader del gruppo sostiene che le liriche delle loro canzoni sono vecchie di 80.000 anni. La sua idea di classico è in uno schema temporale assai diverso dal nostro per cui classico significa magari 250 anni. Non sono per niente convinto in effetti del nostro concetto di classico. La musica per quartetto è cominciata 250 anni fa più o meno con Haydn, e credo che il nostro lavoro sia connesso in qualche modo a quella fioritura musicale, specialmente a Vienna in quell'epoca. Ma non mi ci sento particolarmente legato, condannato dallo scorrere del tempo. Così di frequente mi accorgo che il mio lavoro è ispirato da musica assai più antica della musica classica del diciottesimo e diciannovesimo secolo.
Avverto però altrettanto frequentemente che il nostro stesso lavoro si potrebbe definire visionario per quanto riguarda il futuro. Molti pezzi interpretati dal Kronos hanno avuto un'influenza su altri compositori.
Tornando all'aspetto teatrale delle vostre esecuzioni, come si è definito il vostro stile sul palcoscenico?
Per molto tempo sono stato convinto che mostrarsi in un concerto con quattro seggiole e una lampadina fosse bello, ma credo che qualche volta ci sia di più che questo per rendere tutte le potenzialità implicite nella musica che suoniamo. Nella forma di un concerto, in ciò che il pubblico può vivere come esperienza, è possibile mettere più pensiero. Abbiamo solo provato a cambiare il nostro punto di vista nel corso degli anni, abbiamo immaginato qualche tipo di situazione particolarmente interessante.
Qual è la differenza tra l'esecuzione dal vivo e quella in sala di registrazione per voi?
Sono momenti totalmente diversi, per me. Possono essere messe in relazione per quel che riguarda il particolare suono del Kronos, ma restano esperienze profondamente diverse. Lo scopo che ho in mente nelle registrazioni è quello dell'uso domestico che ne verrà fatto, nell'intimità della propria casa, o con gli amici, nella vasca da bagno, cucinando o facendo l'amore, nella manipolazione che ciascuno può compiere. Ciò è diverso che andare a un pubblico concerto, dove le aspettative sono totalmente altre. Nelle nostre registrazioni alcuni elementi sono un'estensione di quello che possiamo, vale a dire ciò che non possiamo, fare in un concerto. In qualche modo la registrazione rappresenta la nostra esecuzione ideale.
Ma le vostre esecuzioni richiedono tuttavia un certo apparato tecnico. Non è un condizionamento della libertà espressiva, per esempio per quanto riguarda la scelta dei tempi o delle sonorità?
No, quando siamo sul palcoscenico la nostra concentrazione è dedicata a far musica insieme. In questo abbiamo collezionato molti anni di esperienza e consuetudine comune. Non ci sono scorciatoie, se non l'abitudine accumulata in quindici anni, con centinaia di pubblici e centinaia di compositori.
Ma questo vale anche quando suonate pezzi con nastri pre-registrati?
Dipende dai casi. In pezzi particolari, come Different Trains di Steve Reich per esempio, mentre lo si esegue, noi come chiunque altro lo suoni, c'è il Kronos in tre dei quattro quartetti preregistrati. Fummo noi a incidere il nastro, si parla di molto tempo addietro. Nell'esecuzione, pensiamo di rivivere un'esperienza per il pubblico su quel lavoro, su quel particolare senso delle cose. Noi pensiamo a che l'intero evento musicale sia messo insieme. Possiede tuttavia un suono particolare in ciascuna sala e presso ciascun pubblico, non rimane mai lo stesso.
Lei sa che Steve Reich ha criticato la vostra esecuzione di Different Trains, suppongo...
Presumo che l'abbia fatto, ma ci ha anche chiesto di registrare il prossimo quartetto, che ha scritto per il Kronos. Mi piacerebbe anche poter criticare la sua esecuzione di Different Trains. (Si ferma un attimo, getta uno sguardo luciferino, la bocca disegna un sorrisetto). Tra di noi c'è un'interessante relazione.

Oreste Bossini (Musica Viva, Anno XVII n.1, gennaio 1993)

mercoledì, marzo 29, 2006

Povero Beethoven

Mi trovavo in un lindo paesetto del Cadore per le vacanze estive.
La sua bella piazzetta, con al centro una tipica fontana ricca di statuine e ferri battuti, era la mèta preferita delle mie brevi passeggiate prima di coricarmi; spesso m'incontravo con un noto musicologo inglese la cui scelta era pure caduta su questo solitario angolo di montagna. Una sera, durante la nostra solita uscita, sentimmo parlare dell'interesse degli abitanti verso la musica classica, e dei vari complessi da camera che con nostra somma sorpresa venivano a dare dei concerti nel delizioso paesino.
Nel frattempo, intanto, si era sparsa la voce sulla nostra presenza nel luogo e, spinti dalle insistenti preghiere dell'intellighenzia locale, decidemmo di organizzare, nell'unica sala della scuola che poteva essere messa a nostra disposizione, una conferenza-concerto su Beethoven. Mancava il pianoforte, però... così che dovemmo farcelo prestare dal farmacista, mentre per il trasporto si decise di chiamare due grossi facchini che discussero a lungo il prezzo dell'insolito servizio.
Tutto il paesotto era stato tappezzato da manifesti. Lettere cubitali mettevano in risalto il nome del Gigante di Bonn, mentre altre, più modeste, i nostri, dato che anch'io avevo aderito a prendere parte alla serata, cantando qualche lirica. Tutto era quasi pronto e nella sala ferveva una grande agitazione per dare gli ultimi ritocchi, quando finalmente arrivò il pianoforte, sorretto da due forzuti facchini.
Dopo aver terminato il lavoro, vidi quei due avvicinarmisi e chiedermi candidamente: "Scusi, Signor Beethoven, chi paga per il trasporto del pianoforte?. "Io" risposi divertito; e sorridendo, non solo pagai il convenuto, ma diedi loro anche una lauta mancia, lusingato per l'immeritato onore... che, ignari, mi avevano attribuito.

dai "Ricordi Teatrali" di Raffaele Arié

lunedì, marzo 27, 2006

Roberto Gini: un gentiluomo barocco...

"Ti dò il mio numero nuovo", dice Roberto Gini. "Forse tu hai il vecchio, ma tu sai". Non so, ma annuisco. "Al vecchio", dice, "c'è ancora una segreteria telefonica, che sento. Poi c'è quello di Cremona, non è proprio un telefono, cioè non è proprio il mio, ma in questo periodo là sanno dove sono e se son libero, perché Monteverdi mi prende molto, coi ragazzi. Quello della Scuola Civica ce l'hai? Mi riferiscono. Non mi interrompono, naturalmente, perché devo tenere le lezioni, e mi chiamano soltanto per le cose urgenti, e non sempre rispondo. Mi raccomando, chiamami".
Lo chiamo, ma alla Scuola Civica dicono che è a Cremona, spiego che è per quella serie di concerti di cui deve dare risposta immediata, come qualcuno ha già lasciato detto più volte. Niente. Gli faccio dire che l'aspetta il pagamento d'un arretrato. Niente. Allora m'arrabbio, alzo il telefono ed al numero della segreteria lascio detto al telefono vecchio: "Pronto. Ma è davvero così bello il Miserere di Jommelli?". Dieci minuti dopo squilla il mio telefono. Nemmeno un "Pronto". "Bellissimo, bellissimo. Se hai anche solo un'ora oggi vengo a Milano a fartelo sentire al pianoforte".

Da quale regione della storia o della fantasia sarà sbucato Roberto Gini, mezzo folletto e mezzo gentiluomo barocco? Anzi, tutt'e due le cose per intero. Tutti, nel mondo della musica, l'avevano già visto e già sentito, senza riuscire a ricordare come e quando la prima volta, e da dove venisse.
Era apparso alla viola da gamba, dentro ai complessi antichi; non come uno che esca da un tragitto organizzato e regolare, ma piuttosto come quei batteristi e tastieristi che, quando si mettono in proprio, sono già facce note perché avevano animato i migliori gruppi rock.
Del rock lui non ha molto, da vedere: magro, scattante, naso antico, barbetta alla Monteverdi giovane; se scrive, la calligrafia pare arrivare da un prezioso incunabolo; se parla, può mettersi a teorizzare all'improvviso così compiutamente sulla musica barocca da spingere a chiedersi se non stia per caso citando un famoso trattato secentesco. Ma le parole arcaiche entrano in mezzo a quelle d'oggi, e le idee d'oggi a quelle antiche come il dialetto dentro alla lingua, per uno che abbia nella sua terra le radici ancor vive.
"Non mi sono mai chiesto" spiega, "se dovevo dedicarmi alla musica barocca. L'ho ascoltata, m'ha entusiasmato. Ci sono capitato dentro, era mia. Basta. Amo tutta la musica. Ma ancora non son sazio di cercare, di trovare, di ascoltare le meraviglie della musica da Mozart a Monteverdi" (dice proprio così, va all'indietro) "da Rossini a... perché sai forse bisognerebbe partire da Rossini, che è il punto d'arrivo. Si capisce benissimo Rossini, se si va a recuperare tutta la scuola di canto da Hasse a Vivaldi... Poi c'è tutta la civiltà strumentale. Guarda i colpi d'arco del primo Settecento: lá forse si può cominciare a tenere la tradizione senza bisogno di scegliere gli strumenti d'epoca". No, Gini, non deviare, stavi parlando di te. "Perché è lì che ho capito. Suonavo il violoncello, ero allievo di Attilio Ranzato; sapevo che un violoncello ad esempio non poteva bastarci per capire, poniamo, le Sonate di Bach per Viola da Gamba e Cembalo Obbligato". (Bisogna mettere le maiuscole, perché sembra di vederle, mentre cita il frontespizio). "Sai perché? Non tanto per una questione di possibilità strumentali, come certi disegni, certi accenti, certa intensità. Ma perché il suono d'uno strumento ha dentro a sé la civiltà della sua epoca. Si può suonare Bach, invece che sul clavicordo, sulla tastiera elettronica; ma sapendo che c'è un passaggio, una sosta intermedia. Anche la viola da gamba non risuona al nostro orecchio come una volta, e quindi non possiamo dire di ascoltare quello che faceva ascoltare Bach ai suoi amici. Ma non è importante. Ho studiato con Jordi Savall, con Harnoncourt. Ho capito, ho saputo, ho sentito, che la viola da gamba però, come accade con tutti gli strumenti di quella che chiamiamo discutibilmente 'musica antica' non altera i valori estetici per cui quei pezzi sono stati pensati. Nell'equilibrio fra sonorità e scrittura sta la ricerca di Bach, ad esempio, che non è solo strutturale, ma anche timbrica, coloristica, quando indica lo strumento. Io vivo un po' (ride) da disgraziato, trascinato da entusiasmi epassioni, e anche da contraddizioni; ma il piacere, il piacere della musica, del suono, dell'armonia, del contrappunto, è un valore importante, rinnovatore. Come si fa a chiamare 'musica antica' quello che viviamo quando suoniamo, cantiamo, ascoltiamo Vivaldi o Monteverdi, e pensare di chiuderla in una serie di norme stabilite allora una volta per sempre? Che invece è un fondamento morale, di libertà?"

Ha inciso molti dischi, Gini, ormai. Quelle Sonate di Bach, per esempio, con la fedele collaboratrice Laura Alvini, una delle figure più ostinatamente intelligenti e capaci di quella che non bisognerà più chiamare 'musica antica'. Con lei al clavicembalo l'esecuzione sembra una meditazione e insieme un'improvvisazione. Le cantate di Vivaldi, invece, con due cantanti giovani, il soprano Alessandra Ruffini ed il contralto Caterina Calvi. Per lo Stabat Mater di Vivaldi, il libretto di note riporta un'immagine della Crocifissione tratta dal Vangelo secondo Matteo di Pasolini. Perché, maestro Gini? Forse perché vuol tendere un parallelo fra questa partitura ed il cinema? "Semplicemente perché ogni volta che la vedo mi trattengo a stento dal piangere. Quello per me è lo Stabat Mater".

Ma i suoi dischi non gli piacciono. Alla Tactus, con Gini che incide per loro devono alternare legittime soddisfazioni e periodi di coccolone. Ha tutta una serie di Monteverdi, che vengono considerati da tutti eccellenti o almeno interessanti. A volte non gli piacciono: "Hai i miei dischi? Per piacere, li butti via?", a volte addirittura non sa più dove li abbia messi o se li abbia a casa sua: "Per favore, avresti il mio Cd col Combattimento di Tancredi e Clorinda? Me lo potresti prestare, che devo controllare una cosa?" Qualche ragione ce l'ha. Da quando ha una sua scuola, corsi in Italia e all'estero, stages di perfezionamento o di rapidi choc rivelatori, ha radicalizzato il lavoro sulle partiture, a cominciare proprio da Monteverdi; e i dischi rispondono al "Gini vecchio", come chiama lui le incisioni dell'altroieri.
Radicalizzare, però, non vuol dire qualche cosa di astratto e filologico. Vuol dire un'altra cosa. Cioè che ha cominciato il lavoro da capo, con i ragazzi; e li ha convinti giorno per giorno che Monteverdi è la cosa più naturale del mondo, pur nell'artificio dell'arte e la provenienza da lontano nel tempo. Stile di canto? Tecnica? Sì. Però, prima di tutto, un gesto di pensiero.
"Quando ho cominciato a fare le audizioni per il gruppo monteverdiano all'As.Li.Co, sembrava che Monteverdi fosse solo il titolare d'un centenario di non si sa quanti secoli. Importante, ma estraneo, una cosa dentro la storia della musica. Anche i ragazzi, alle audizioni, non avevano idea di come lo si cantasse, ed è abbastanza logico, dovevano mostrare soprattutto le loro qualità vocali. C'era di tutto, soprattutto casalinghi, cioè quelli che cantavano alla buona, come per dire che qui non è Verdi e nemmeno Mozart e ognuno s'arrangia come a casa sua. Poi c'era il livello presuntuoso. Canto e faccio delle finezze che se non capisci che sono finezze barocche è perché non hai ascoltato gli ultimi dischi. Poi c'erano le interpretazioni con l'enfasi o l'effetto sfumato per coprire i difetti, e questi sono i primi che ho scartato perché chi copre i difetti non viene per lavorare. Le voci femminili avevano i modelli più disparati, c'erano alcune Fedora Barbieri e alcune Ornella Vanoni. Perucchetti, Majer, Rovaris, Allorto e Cristina Miatello si sono trovati concordi fra loro e con me nello scegliere voci duttili e persone disponibili all'avventura del canto e della musica. Perché man mano che lavoriamo accade questo, che non ci abbandona mai la musica. Stranamente, mentre nelle classi di canto tante volte prevale l'ugola e il diaframma, l'andare a tempo e il ripetere quello che il disco o alla meglio il maestro vuole, questi monteverdiani invece si appassionano continuamente al far musica. Continuano a cercare le ragioni. Continuano, se posso dirlo, nei limiti umani e senza troppe illusioni, ad essere felici di cantare e progredire nel capire, nel gustare. Naturalmente, Monteverdi risponde da par suo".
Ma il metodo qual era?
"Mah,il metodo. Parte dell'analisi della musica. Diamo per scontato che si tratti di voci tutte d'una certa estensione naturale e che siano disposte a lavorare sull'emissione graduata, sull'alleggerimento e sull'accento. Diamo anche per realtà da accettare che Monteverdi non ha mai scritto un trattato di canto, non ci sono indicazioni tecniche; però ci sono tante indicazioni che riguardano i campi più svariati, paralleli al canto, e bisogna investigarle tutte, ascoltare tutto ciò che ne esce pensando al canto".
Sì ma niente Verdi, niente Mozart, niente musica leggera d'oggi, niente storia del Lied tedesco o della canzone francese. Che cosa diamine bisognerà trovare?
"Una scommessa. Nulla che si conosce; una cosa nuova. Un fascino, un colore, un'espressione nuova, in cui però si ritrova un po' di Mozart, un po' di musica leggera, un po' di Haendel, un po' di tradizione popolare, un po' di antico... Ma bisogna cercare dentro le forme, anzi dentro le composizioni. Se lo si prende come genere storico, da celebrare, è finita. Sono poesie, poesie bellissime. Chi le dice, non può non pensare a tutto ciò che esprimono. Anche nel gesto, non perchè esista una gestualità stabilita, o perché, se è esistita, ci sia possibile recuperarla, ma perché ognuno deve essere nelle condizioni in cui partecipa, moralmente e fisicamente, a quello che dice, magari a modo suo. Certo, le poesie sono messe in musica, non solo cantate. La declamazione, che diventa melodia, anche quand'è per una voce sola, deve fare i conti con il basso continuo. Ed il basso continuo è il fondamento dell'armonia ed il fondamento della melodia; è servo del canto e da servo ne diventa padrone, perché porta la dinamica, il colore, aiuta il respiro e lo impone, e crea dissonanze che possono essere scritte e non scritte, e dev'essere tanto logico e concorde con chi canta, da poter essere improvvisato, sul fondamento delle note del basso. Non è un accompagnamento, accompagnare è un'altra cosa. Quando ci sono, poi, varie voci: ah, allora, sono storie contemporanee, ognuno dice il testo con la sua voce, con la sua espressione, credendoci, e deve ricevere la sua libertà proprio dall'esattezza del gioco a cui è costretto e dalla presenza vocale, musicale, fisica, degli altri. Per uno come Monteverdi, è chiaro che la cosa non è senza conseguenze. Dal madrigale nasce il teatro. Il teatro è qui. I madrigalisti diventano i personaggi d'un microcosmo che in palcoscenico diventerà immenso. E' questo che fa la scuola di canto, tutto questo. Niente escluso. Anzi, che fa la bottega di canto".

"Bottega", dice Gini, "è il piacere di creare insieme. Monteverdi per l'opera aveva una bottega. Come Rembrandt, come i pittori rinascimentali. Il bello dell'Incoronazione di Poppea è proprio che è di tanti, con sovrintendenza di Monteverdi. Con intelligenza, controllo, idee di Monteverdi, ma con tale libertà ciascuno che adesso ormai li cominciamo a riconoscere. Si sentono i grandi talenti, sceglieva bene. Sagrati, Cavalli. La parte di Pallade è di Benedetto Ferrari: è il primo che scrive le appoggiature, è come se fosse firmata. Anche Busenello era nella bottega, Monteverdi lo seguiva passo a passo: come Mozart con Da Ponte, e di fatti gli scritti per il Maestro sono superiori ad ogni altro, nella Poppea ogni frase è un universo di sapienza. Busenello faceva parte anche d'un circolo abbastanza licenzioso, dove si accettava la trasgressione, dove non si condannava l'omosessualità, dove si parlava liberamente. Monteverdi aveva preso gli ordini religiosi: lo dicon prete, ma non risulta che abbia detto Messa. Però credeva profondamente, non era stato un gesto di comodo: d'altra parte tutta la vita Monteverdi ebbe fama di persona intensa, coerente. Era alchimista, deteneva cioè una visione dell'universo che poteva essere in forte contrasto con la scelta razionalista e occidentalista della gerarchia cattolica. Molta parte del suo sapere era esagerata. Aveva un pessimo carattere: cercava, cercava, cercava, sperimentava: una ricerca forsennata, esigentissima. Però accettava, la natura e gli altri. Per questo la bottega era tensione e libertà, la nostra piccola bottega è una piccola cosa, ma sentiamo l'ombra d'un modo di lavorare così alto e importante. Il piacere dell'inventare insieme, per noi quello di capire, di proporsi, di far musica tirando dietro la poesia, anzi di fare la poesia e la musica tirando dentro noi stessi. Ah, e poi il Teatro. Insomma, tutto".

"Sapeva tutto, Monteverdi. Ci pigliava gusto. Seneca, il filosofo, serio, onestissimo, di grande peso morale, martire per la virtù. I soldati non si fidano di lui, lo prendono male. Il valletto lo prende in giro. Quando fa il discorso del suicidio per virtù, tutti sembra che guardino l'orologio, mi scusi ma ho un appuntamento, il mio treno parte tra venti minuti, lui continua le sue frasi che vanno a finire sempre più in basso nello stesso punto. Poppea incastra Nerone passo a passo, vi par possibile che lui non capisca? Sì, pare possibile, perché è l'uomo che è bestia. La seduzione, l'accortezza, lei. E poi quel duettone finale, la passione accettata così com'è. Il realismo tragico, e insieme il non rinunciare a provare la gioia del teatro e della musica mentre se ne prende atto, magari amaramente".
Perché parli tanto di Monteverdi?
"Perché amo vivere oggi".

Ma da dov'è saltato fuori, Roberto Gini, mezzo filosofo e mezzo Puro Folle della musica? Ero a Cremona, in maggio, e abbiamo improvvisato per Telepiùtre uno speciale su Monteverdi. In palcoscenico, al Teatro Ponchielli, con alle spalle le luci del teatro, per presentare mi sono sentito troppo solo: c'era bisogno d'incontrare qualcuno, personaggi monteverdiani... Con Gini si doveva fare un servizio sulla scuola e sui madrigali a più voci, nel ridotto. Son salito nell'aula dove faceva lezione, ho chiesto se c'era qualcuno che potesse cantare la prima parte del Lamento d'Arianna. Lo conoscevano un po' tutte le allieve, fu scelta quella che aveva la voce impostata nel modo più vicino a quelle frasi (magnifica). Dissi a Gini: vieni giù anche tu con la viola da gamba. Per favore, lo pregai, usciamo da un filmato, c'è bisogno d'uno stacco, mi puoi fare il sottofondo mentre dico qualche parole di presentazione? Annuì, avrebbe improvvisato anche quello. Un fonico mi chiese: quanti minuti di parlato? Uno e mezzo, risposi. Allora, finalmente, Gini si fece sentire. "Se poteste fare qualche secondo meno, preferirei; perché in un minuto e mezzo ho paura che mi venga un po' troppo vicina allo stile francese". La stessa logica del giorno di Jommelli.

Quel giorno, in ogni caso, al pomeriggio è arrivato davvero, con la sua valigetta di partiture zeppa di inediti e di brani sconosciuti. Alla viola ed al cembalo, Gini è un raffinato degustatore ed un trascinatore spericolato. Al pianoforte, con davanti una partitura, arraffa e afferra accordi, canta e canticchia, tace e volta le pagine, dice, commenta, suona e dirige senza porsi la domanda, mai, di cosa ne risulti. Mi chiedevo difatti, alla fine, se per caso il dubbio gli fosse venuto, dopo tanto artificio che richiede un ascolto coordinato da antenne profetiche. E volevo rassicurarlo. Così, l'ho chiamato. Alla Civica, ma era uscito da poco. A Cremona, ma arrivava l'indomani. A casa, ma figurarsi se c'era. Allora ho fatto il vecchio numero, quello del 'ma tu sai'; ma doveva essersi dimenticato di mettere la segreteria. Non l'ho più richiamato. Sarebbe stato in ogni modo molto difficile. Perché adesso ascoltando non vogliamo più cascarci con emozioni e commozioni. Parliamo di parametri e stilemi, arriviamo ad ipotizzare un tasso d'emozione. Poi ci resta da esprimere davvero quel che abbiamo provato, e a volte lo proviamo addirittura in ritardo, quando ormai sono ridicole le dichiarazioni. Non c'è ancora, la bottega dell'ascolto.

Lorenzo Arruga (Musica Viva, Anno XVII n.6, giugno 1993)

sabato, marzo 25, 2006

Christopher Hogwood e la filologia

Biondo, più giovane dei suoi quarantacinque anni, Chris Hogwood non corrisponde, con l'abbigliamento informale e la risata contagiosa, all'immagine stereotipa di un serioso docente di Cambridge. Oltre ad avere quella carica, è anche uno dei più preparati ed acuti musicologi che l'Inghilterra abbia prodotto nelle ultime generazioni. Non è, però, solo un teorico: la ricerca scientifica è per lui il supporto di esecuzioni. il più possibile aderenti alla volontà, allo stile e alla «maniera» degli autori. Quindi, uso di strumenti originali, continua ricerca e confronto sulle prassi esecutive, studio approfondito dei documenti d'epoca. Fondatore prima (con David Munrow) dell'Early Music Consort, poi dell'Academy of Ancient Music, che capeggia stabilmente e con cui è costantemente impegnato in concerti ed incisioni, Hogwood da qualche tempo si sta dedicando alle Sinfonie di Beethoven.
Nei rari casi in cui qualcuno si accosta alle pagine di Beethoven usando strumenti originali e prassi d'epoca, in genere non va al di là delle prime due o tre Sinfonie: è come se uno spartiacque limitasse di lì in poi l'interesse della ricerca. Anche lei ha intenzione di fermarsi?
No, spero invece che le incideremo tutte; abbiamo già fatto anche l'Eroica e mi sembra logico continuare. Abbiamo intenzione di alternarle con le Sinfonie di Schubert che possono servire in qualche modo da controllo, e le spiego perché. Si sa che Beethoven chiede sempre agli strumenti un po' più di quanto in realtà possano dare; ai suoi tempi si diceva che in lui la ricerca di effetti strumentali era eccessiva, e in realtà Beethoven è un autore difficile, che suona difficile. Per eseguirlo con gli strumenti originali occorre avvicinarglisi con un metodo preciso; per controllo, noi applichiamo quel metodo ad Haydn, che invece è sempre simpatico con gli strumenti, e se ci sono difficoltà di esecuzione capiamo che il metodo ha qualcosa di scorretto; altro controllo lo facciamo con Schubert, che viene immediatamente dopo Beethoven ed è anche lui simpatico con gli strumenti. Così si delimita il territorio per Beethoven, e si viene anche a sapere come superare questi confini per suonare quel pochino di troppo che per lui è necessario.
Ma c'è comunque un limite al discorso dello strumento originale?
No, non esiste: in astratto, questa è una filosofia che si può applicare a tutta la musica. Il problema è semmai pratico: non è facile trovare degli strumenti del diciannovesimo secolo, né dei musicisti che vogliano comprarli ed imparare a suonarli nel modo giusto per eseguire, che so, la Fantastica di Berlioz.
Ma le differenze per il repertorio più vicino a noi sono così sostanziali da giustificare un tale impegno?
Tutti gli strumenti cambiano con grande rapidità. Se lei parla con un clarinettista, ad esempio, le dice che il suo insegnante usava uno strumento molto diverso da quelli di oggi, con chiavi, tessiture differenti. Anche gli archi cambiano, e soprattutto è il modo di suonare che muta. Basta sentire una registrazione di prima della guerra: gli archi delle orchestre usavano molti portamenti e un vibrato molto stretto, mentre legni e ottoni erano completamente senza vibrato. Ora, invece, tutti gli strumenti in orchestra usano il vibrato, il flauto in particolare, mentre il solo che suona senza è il clarinetto: penso che i clarinettisti abbiano paura, altrimenti, di sembrare dei suonatori di sax.
Qual è, comunque, la ragione ultima di questa scelta di filosofia esecutiva?
Se non si rispetta esattamente quello che scriveva il compositore, se non si ricreano le condizioni in cui egli aveva ideato l'opera, si produce qualcosa di falso, qualcosa che nel progetto originale non esisteva. E' come aggiungere dei particolari a un quadro di Rembrandt o di Leonardo usando dei colori acrilici o fluorescenti, la stessa assurdità.
Anche l'interpretazione è soggetta a regole ferree o rimane un fatto personale?
E' sempre personale. Alcuni temono che se si applicano metodi scientifici all'esecuzione non rimanga spazio per la ricreazione individuale. Invece il problema con la musica è che ci sono troppe possibilità e bisogna limitarle. E' come scrivere un sonetto: bisogna rispettare delle regole ferree, ma se il sonetto come forma è così forte è proprio perché sta in limiti ben precisi. Con la musica, bisogna limitare le possibilità con la ricerca scientifica per fare più forti le idee personali, e si vede che i gruppi che fanno musica «autentica» danno dei Brandeburghesi, per fare un esempio, molte più interpretazioni differenti di tutte le orchestre sinfoniche che li suonano con strumenti moderni. Io penso che con un approccio musicologico si abbiano molte più possibilità d'interpretazione personale che con l'approccio tradizionale, che non rileva ad esempio tutte le differenze tra Bach, Haendel o Telemann: invece al diciottesimo secolo c'era molta sensibilità per le differenze, bisogna cercarle tutte.
Lei è un ottimo clavicembalista, ma le sue uscite pubbliche non sono quasi mai solistiche. C'entra col suo lavoro di ricerca questa predilezione per la musica d'insieme?
Sì: quello che amo nella musica d'insieme, nella musica «sociale», è non tanto il repertorio quanto il provare con gli altri e modificare le proprie idee. La mia formazione di studi umanistici a Cambridge, il fatto che insegno in quella stessa università, mi hanno dato il gusto e la necessità del dibattito, della disputa di idee; amo sempre discutere su come fare questo o quello, è una caratteristica un po' accademica, un po' gesuita.
Nell'interpretazione musicale c'è della schizofrenia, certo, perché occorre essere assolutamente definitivi nel presentare un'esecuzione al pubblico, molto convinti di ciò che si fa; nello stesso tempo, però, bisogna essere parecchio flessibili. Praticamente tutti i giorni si trova un testo antico che dice tutt'altra cosa rispetto a quello che si era sempre creduto, allora bisogna tener conto di questa nuova informazione ed essere pronti a cambiare tutte le proprie idee: la filosofia storicista ci insegna a fare così, e i dibattiti, le discussioni, sono utili per capire se si tratta di informazioni importanti o no. Procedere da soli su queste cose è molto difficile: si tende a diventare sempre più manieristi, di un manierismo personale che non amo affatto: ho visto che succede anche nella musica antica, a un certo punto c'è chi fa tutto allo stesso modo. Invece bisogna essere differenti per la musica italiana e quella francese, per quella scritta a Roma, a Mantova o a Firenze. Bisogna essere camaleonti, ma camaleonti con una grossa biblioteca, e cambiare è più facile quando c'è possibilità di discutere con altri musicisti allo stesso livello di preparazione e di cultura musicale. Anche in orchestra, sarà forse un po' anarchia, ma io spero sempre che dall'ultimo leggio dei violini arrivi una domanda, che qualcuno mi chieda: e perché dobbiamo fare così? Insomma, c'è molta gente che suona magnificamente in concerto da sola, ma io non amo quel tipo di vita: preferisco far musica in una piccola società con una filosofia comune, ma con idee molto differenti.

intervista di Patrizia Luppi (Musica Viva, Anno X n.6, giugno 1986)

giovedì, marzo 23, 2006

Erik Satie e la critica del suo tempo

Fu nel 1910 che, sfogliando gli addenda del dizionario di Rimenn, caddi su queste parole all'articolo Debussy: "Il a orchestré les Gymnopédies d'Erik Satie (le musicien de la Rose-Croix)". Cosa potevano essere queste Gymnopédies onorate da una orchestrazione di Debussy e chi era quel compositore sconosciuto ai miei maestri ed amici?

Rispondiamo a Roland Manuel con la scheda che lo stesso compositore consegnò agli editori della propria musica: Il signor Erik Satie, nato a Honfleur il 17 maggio 1866, che passa per il più strano musicista del nostro tempo. Si situa lui stesso tra i fantasisti che secondo lui sono "brava gente del tutto ammodo". Del suo humor dice lui stesso "Il mio humor ricorda quello di Cromwell. Devo molto anche a Cristoforo Colombo giacché lo spirito americano mi ha talvolta dato un buffetto sulla spalla e ne ho sentito con gioia il morso ironicamente gelido". Su questi pezzi così si esprime il maestro: "scrissi le Descriptions automatiques in occasione del mio compleanno. Quest'opera segue a ruota i Véritables préludes flasques. E' evidente che i Prosternati, gli Insignificanti, i Bolsi, non vi troveranno alcun diletto. Che si mangino la barba! Che ballino sulla pancia!" Lo stile dei begli e limpidi Aperçus désagréables è dei più elevati e spiega perché il sottile compositore abbia il diritto di dire "Prima di scrivere un'opera le giro intorno più volte in compagnia di me stesso".
Roland Manuel apriva con quei ricordi il numero de La Revue Musicale dedicato a Satie nel 1952, ventisette anni dopo la sua morte. Un volume che gronda celebrazioni ed esaltazioni dal sapore riparatorio. Dopo averlo tenuto da sempre ai margini della musica accademica di Francia, ci si accorgeva che Satie, assieme a Schönberg e Stravinsky, era una delle tre grandi "S" capostipiti della musica moderna parallele alle tre grandi "B" della musica tedesca (Bach, Beethoven e Brahms). L'intero volume celebrativo del 1952 non riscatta però decenni di emarginazione e Yvonne Brill sul Dizionario Universale della Musica e dei Musicisti nel 1988 ricorda che talvolta ammirato come precursore geniale, talvolta trattato da mistificatore, Satie ha suscitato, e suscita ancora, accese controversie. E' davvero forse l'unico musicista che ancora non ha un valore artistico riconosciuto. Ma di tutto ha fatto Satie per collocarsi sempre a ridosso della vita musicale francese e mai al centro. Il suo antiaccademismo traspare dalla sua opera ma traspare ancor più dalle sue parole e dal suo stile di vita. Al critico dell'Echo de Paris che aveva osato criticare Wagner rispose: Le ordino l'allontanamento dalla Mia presenza, nonché una perenne tristezza e una dolorosa meditazione. Non che a Satie piacesse Wagner, tutt'altro, ma semplicemente non riconosceva al critico l'autorità di criticare. Il pubblico, poi, non era trattato meglio: Coloro che non capiranno Socrate sono pregati di osservare il più rispettoso silenzio e di esibire un atteggiamento di completa sottomissione, di assoluta inferiorità. Alla prima della sua Parade Satie stesso, gongolante per lo scandalo, si unì invece ai fischi del pubblico contro il suo balletto. A Camille Saint-Saéns, presidente dell'Accademia delle Belle Arti, infine, scrisse nel 1894 per indignarMi e renderla migliore: Mi sono presentato a lei onde raccogliere la sua approvazione al mio desiderio di assumere la successione di Charles Gounod in seno alla vostra Compagnia. Non ho ceduto a una folle presunzione, ma a un dovere di coscienza. Il senso della giustizia, o perlomeno, la semplice urbanità, Mi autorizzavano a ritenere che la mia candidatura, consentita da Dio, sarebbe stata accettata da lei. La Mia amarezza è stata immensa nel vederla trascurare, a causa della banalità dei suoi gusti, la solidarietà in Arte... Giudicandomi a distanza e prendendo la decisione che ha preso, lei ha commesso un atto degno di riprovazione e meritato l'Inferno. La sua aberrazione può essere stata provocata soltanto dalla sua debolezza nei confronti delle idee del secolo e dalla sua misconoscenza di Dio, causa diretta dell'attuale avvilimento Estetico. Perciocché io la perdono in Gesù Cristo e l'abbraccio nella grazia del Signore.
Era la seconda volta che tentava di ottenere l'incarico. Ci avrebbe riprovato ancora una volta nel 1896. Aveva solo trent'anni e succedere a Gounod significava soltanto accedere alla onorificenza più alta, quella dell'Institut de France, l'Académie.
Il suo antiaccademismo era poi teorizzato chiaramente nella critica all'amico Debussy, che pure gli aveva così dedicato una copia dei Cinque Poèmes de Charles Baudelaire: A Erik Satie, delicato mu sicista medioevale smarritosi in questo secolo per far felice il suo migliore amico. Molti anni dopo Satie scriverà su Le Coq: Non attacco mai Debussy. Solo i debussisti mi infastidiscono. NON C'E' UNA SCUOLA DI SATIE. Il satismo non potrà esistere o mi troverebbe ostile. Pur salvando in altri e più tardi casi la stima per l'opera del suo ex amico.
Il suo proclamato rifiuto delle scuole e delle accademie è ricambiato con una totale assenza della critica sulla sua opera. Salvo le polemiche private lo scontro con la musica di Parigi avviene con lettere aperte di Satie ai giornali, come quella inviata a Saint-Saens, che non hanno risposta.
Nel 1911, però, un Satie quarantacinquenne viene presentato da Ravel alla Société de Musique Indépendante come proprio amico ed esempio compositivo. E' un precursore geniale ma incompleto dei raveliani, un dilettante curiosamente dotato, agitato senza sosta dalla fantasia più barocca. Ha successo, Satie, nei circoli più moderni: ma ha successo il Satie di venti anni prima, non la sua produzione recente. Come Debussy, anche Ravel e la S.M. I. sono allora abbandonati. Ironico, caustico, sempre dissacrante, negli scritti, nei gesti, nella sua stessa musica, guarda la realtà e l'arte dal di fuori, sempre pronto a bruciare ogni forma di scuola o di "verità" artistica, perfino l'idea stessa di arte. Quando si dedicherà alla musica d'arredamento avvertirà: la musica d'arredamento è in sostanza un prodotto industriale. Noi vogliamo produrre una musica dichiaratamente utilitaria: Esigete la musica d'arredamento. Disertate le case che non adottano musica d'arredamento: Non addormentatevi mai senza ascoltare un brano di musica d'arredamento, se volete dormire sonni tranquilli...
La sua ironia, talvolta al limite dell'ingiuria, infatti lo spingeva a non fermarsi. No: Saint-Saens non è tedesco... E' solo un po' "duro" di cervello... e capisce tutto di traverso, nient'altro. E Ravel? Per l'Heure Espagnole, quel vecchio Ravel trionfa (come a Verdun). Il Teatro è sempre pieno di spagnoli (come a Verdun) Alcuni portoghesi hanno la faccia tosta di mescolarsi alla folla ispanica... ma vengono subito scoperti (una vera barba il finissimo militar-compositore! - se posso azzardarmi a dirlo tra parentesi).
Con Parade Satie si avvicina ai sur-realistes amici di Apollinaire e Cocteau. Per un critico americano Satie ha il misticismo nevrotico di una donna che tramuti la sua sensualità insoddisfatta in fantasie cerebrali. L'ironia è essenzialmente un fatto intellettuale. E in certo modo essa rappresenta la bancarotta dell'intelletto, è la vitalità dell'impotenza. Anche l'Italia con Gatti non è da meno e Satie vaga in un errare senza via d'uscita senza misura ed ostinato. E tuttora l'Italia conta una sola biografia su di lui, quella che Guarnieri Corazzol ha pubblicato per Marsilio.
I giovani compositori francesi ne riconoscono però apertamente il modello e l'esempio. Il Gruppo dei Sei lo segue fedelmente fino all'anno prima della sua morte e, anni dopo, Milhaud ricorderà come, dopo la tempesta della Sagra, Satie si fece riconoscere e riportò la musica alla semplicità aprendo così la strada per i giovani musicisti che avrebbero formato la scuola francese post-bellica. Ci diede Parade, un balletto creato in collaborazione con Cocteau, Picasso e Massine, uno dei maggiori successi dei Balletti Russi dove la nostalgia per il music-hall ci offrì un'arte totalmente insospettata... Seguendo la strada di Satie, Poulenc e Auric riscoprirono il folclore francese e particolarmente di Parigi. La tristezza delle fiere, di bande distanti e del music hall trova in Auric una eco che è spesso amaro e incisivo, talvolta brutale e pieno di vitalità ritmica.
Il vero ripensamento sulla sua lezione avvenne dopo la sua morte. Nel 1925 si scrisse che il principale difetto di Erik Satie fu il fatto di non riconoscere il suo posto. Portava la sua musica a bizzarrie con l'aria di adempiere ad una missione artistica. Sembrava tanto un bimbo nel suo tempo ma in realtà ne era senza speranza fuori. Il caso era disperato. La mancanza di tecnica musicale e di discriminazione nella invenzione, l'incapacità per la chiarezza e la continuità del pensiero rendeva Satie goffo per qualunque genere di originalità. Ma un altro articolo di quella Revue Musicale del '52 dichiarerà che molte delle sue opere hanno un valore che è indiscutibile e veramente unico. Le Gymnopédies, le Gnossiennes, Sports et Divertissements, e i Nocturnes tra le opere per piano, Socrate e Parade, sono tanto notevoli che non possono essere ignorati da chi si interessa di musica contemporanea. L'opera di Satie è scritta senza tenere conto del gusto e dello stile del momento, ma ha in realtà anticipato questo gusto e questo stile con una stupefacente precisione.
Il ruolo di Satie nella musica del nostro secolo non ha ancora oggi trovato piena affermazione. Chi lo segue con passione non è un pubblico vasto, ma piuttosto un gruppo ristretto che ha quasi il sapore della setta, per altri è il nome di un eccellente ma perenne precursore. Forse perché la sua opera piace ma pare povera, e la sua lezione continua ad affidarsi al personaggio Satie, ai suoi scritti e alla sua intera produzione musicale. Pochi sono quelli che si prendono la briga di approfondire le sue singole creazioni. La disgrazia dì un musicista preso all'ingrosso.

Paolo Russo (Musica Viva, Anno XVII n.5, maggio 1993)

martedì, marzo 21, 2006

Un oboe crepato ed il Teatro si ferma

Il Prof. A., primo oboe titolare dell'orchestra di un Ente Lirico, avverte alle nove il suo Direttore artistico che deve urgentemente conferire per un grave motivo: gli si è rotto, anzi, gli si è crepato l'oboe nuovo. Viene urgentemente ricevuto ed espone il caso in tutti i suoi molteplici addentellati; mentre il professore di oboe parla - per ventisei minuti - il Direttore Artistico compila una scheda che intitola "Imprevista sostituzione di strumento" e che gli servità per impostare la pratica ad ogni livello.
Eccola:

Oboe 1
di proprietà del Prof. A.
Crepato, inservibile.

Oboe 2
di proprietà del Prof. A
In riparazione a Modena per sostituzione tamponi ed altro: non disponibile, disponibile fra una decina di giorni.

Oboe 3
di proprietà della Ditta M.
Costo di listino L. 4.000.000; in vendita a L. 3.500.000.

Oboe 4
di proprietà della Ditta N.
Disponibile a noleggio.

Oboe 5
di proprietà dell'allievo B.
Disponibile in prestito gratuito, molto mediocre.

Oboe 6
di proprietà dell'allievo C.
Eccellente, stessa marca Oboe 1, presunto pericolo di crepa.

Oboe 7
di proprietà del collega D.
Disponibile in prestito per la giornata, non di più.

Oboe 8
di proprietà del collega E.
Ordinato e pagato, in costruzione, consegna fra due mesi.

Oboe 9
ex proprietà del collega F.
Alienato, non più disponibile, nè rintracciabile.

Oboe 10
vedi Oboe 9
Vedi sopra.

Completato il panorama ha inizio il dibattito tra il Direttore Artistico e il Prof. A. Dopo aver posto alcune astute domande a tranello per assicurarsi che tutto sia stato esposto nei termini esatti, che il Prof. A. abbia esperito tutte le opportune ricerche e non ci siano nascosti inghippi di qualsiasi genere, il Direttore Artistico concentra l'attenzione sugli oboi 3 e 4. La soluzione più semplice è il noleggio dell'Oboe 4, ma si sa che le cose più semplici sono le più complicate: l'Oboe 4, marca S., ha un sistema di chiavi che non piace al Prof. A., il quale ha sempre fermamente rifiutato di suonare quel tipo di strumento. Con la morte nel cuore, e sapendo a che cosa va incontro, il Direttore Artistico si prepara ad affrontare il problema "Oboe 3".
Qual è il problema? Per acquistare un oboe da tre milioni e mezzo, in un Ente di diritto pubblico, non basta disporre di tre milioni e mezzo in cassa o in bilancio: si può anche non possedere un baiocco (si pagherà tra un anno), ma è indispensabile avere in mano almeno tre preventivi, di cui uno da tre milioni e cinquecentomila lire, uno da tre milioni e cinquecentoventimila, uno da tre milioni e cinquecentotrentamila o giù di lì (sono ammesse tutte le più artistiche variazioni in cifra, si sa, purché i preventivi siano tre). I tre preventivi non ci sono e sarà impossibile averli nell'arco di ventiquattr'ore.
Il Direttore Artistico tenta una diversione, puntando sull'oboc 5: sarebbe possibile che ... ? Il Prof. A. dice di no, e suggerisce di chiedere, il candido, se sarebbero invece disponibili in cassa i tre milioni e mezzo. Telefonata in Amministrazione. Risposta: il relativo capitolo di bilancio presenta la necessaria capienza e la cassa "capisce" la somma. Controdomanda: ma ci sono i tre preventivi? Non ci sono.
Tentativo disperato e malaccorto. Il Direttore Artistico cerca di fare il primo della classe ed osserva che se anche ci fossero i debiti preventivi non si potrebbero avere in tempo il placet della Commissione Consultiva Acquisti e la Delibera del Consiglio d'Amministrazione. E' vero, gli si risponde, ma dichiarando il Caso di Estrema Urgenza si potrebbe ricorrere alla Determinazione del Presidente con successiva Ratifica del Consiglio. Touché. Dopo lunga e confusa confabulazione con il Prof. A., che è ormai in stato preagonico, il Direttore Artistico decide di tentare la soluzione "all'italiana": chiedere alla Ditta M. l'Oboe 3 "in visione", acquisendo contestualmente il preventivo (e chiedendone altri due a ditte notoriamente aliene da sconti). Telefonata. Il gestore della Ditta M., italianissimo, respinge con fermezza il subdolo assalto: «Lo strumento non esce se non è acquistato». Si riparte da capo. Conoscendo già tutto il copione, il Direttore Artistico non può però resistere di fronte all'ingenua speranza del Prof. A., che non intende come e perché, in un caso così... Chiede una riunione congiunta con Sovrintendente e Direttore Amministrativo, l'ottiene, cava fuori la sua scheda e comincia ad illustrare tutta la situazione. La conclusione - faccio venia al lettore di come ci si arrivi, con tutti quegli oboi che fanno girare la testa a chi non è del mestiere - è che il caso è eccezionale, che il Prof. A. ha fatto tutto il suo meglio per rimediare, che un oboe di proprietà dell'Ente, per i casi eccezionali, potrebbe far comodo e che la soluzione ottimale sia di acquistare l'Oboe 3, magari togliendo momentaneamente al Prof. A., per regolarità, la "indennità strumento". Questo in astratto, cioè da persone di buon senso. In concreto, la soluzione ottimale è impraticabile.
Dopo tre ore e quaranta minuti da che il Prof. A. ha chiesto di conferire, la situazione si radicalizza all'estremo. Conclusione: l'Ente dimostra la sua sollecitudine noleggiando l'Oboe 4. Ma l'Oboe 4 verrà suonato? Come preventivo non si sa. Come consuntivo, si vedrà.
Consuntivo: l'Oboe 4 è rimasto giacente presso l'Archivio Musicale, competente alla custodia degli strumenti, il Prof. A. ha suonato l'Oboe 5, riuscendo con un grande lavoro sull'ancia cosa da introdurre negli annali della scienza ancistica - e con miracoli di virtuosismo del labbro, a far diventare meno disastroso uno strumento inadatto. Il caso si chiude e tutto è a posto: nel subconscio tutti sapevano fin dal principio che sarebbe stato usato l'Oboe 5, ma la mattinata è servita a dimostrare al Prof. A. la solidarietà - impotente - della Direzione, e a convincerlo a compier lui lo sforzo per non far sentire al pubblico un piffero invece di un oboe.

Altro caso, un po' diverso (ma in sostanza non molto). Si decide di fare uno spettacolino "intelligente", con pochi personaggi, poco costoso, da distribuire in decentramento. Si sceglie un costumista che abita a X. e gli si dice che c'è disponibile una somma massima di cinque milioni per l'acquisto dei costumi. Il costumista disegna dei bei bozzetti e propone di far confezionare i dodici costumi da una piccola sartoria della città di X., che lavora per la prosa e che non sarebbe attrezzata per grosse forniture di lirica, ma che proprio per ciò costa meno. Il costumista, abitando a X., potrà anche andare ogni giorno in sartoria per seguire il lavoro. La sartoria detta telefonicamente un preventivo di quattro milioni e mezzo: un buon preventivo. Ma ci vogliono i tre preventivi. Il costumista rispedisce da X. i bozzetti, l'Ente istruisce la pratica, richiede con lettera raccomandata i preventivi scritti alla sartoria di X. e a sartorie delle città di Y. e di Z., preventivi che, come previsto, sono rispettivamente di quattro milioni e mezzo, di sei milioni, di sei milioni e mezzo. Ci sono i termini per passare l'ordine alla sartoria di X., che nel frattempo ha incominciato a lavorare perché altrimenti, non avendo molto personale, non sarebbe arrivata in tempo per la consegna. E se un'altra sartoria avesse fatto un preventivo di quattro milioni e quattrocentomila lire? In tal caso - improbabile, ma in teoria possibile - avrebbe avuto l'ordine, e l'Ente avrebbe rimborsato al costumista alcuni viaggi e relativi soggiorni da X. a Y. o a Z. per controllare la confezione.

Di queste storie si potrebbe raccontarne a dozzine e si potrebbe trovarne a milioni nella storia della burocrazia e relativa letteratura. E ci saranno certamente, ci son certamente fior di ragioni perché gli enti pubblici debbano seguire determinate regole. Ma mettiamo che, invece dell'oboe, fosse stato il tenore a rompersi la testa cadendo dalle scale dell'albergo. Che sarebbe successo, allora? Il Direttore Artistico si sarebbe attaccato al telefono e se avesse trovato disponibile un buon sostituto avrebbe ringraziato il cielo ed avrebbe concordato senza batter ciglio e senza temer nulla un onorario di cinque milioni, che senza batter ciglio sarebbe stato confermato dal Sovrintendente e pagato sull'unghia dall'Amministrazione.
Se avesse trovato per miracolo un divo dell'ugola avrebbe concordato dieci o dodici milioni, ed avrebbe ricevuto i complimenti entusiastici del pubblico. E del resto, se per dodici costumi ci vogliono tre preventivi, per scritturare per dodici recite, a cinque milioni a recita, un cantante non ci vuole, lo Stato non chiede altra garanzia che la scelta dichiarata di natura artistica.
Perché mai si possono "assegnare" ad un artista, con un rapporto diretto ed in sostanza privato, sessanta milioni, e non si può assegnare similmente ad una sartoria una fornitura per quattro milioni e mezzo? Perché, suppongo, la mentalità galileiana invece che baconiana che impera nel nostro paese impone di procedere per principi invece che secondo statistica. Secondo i principi del diritto pubblico la fornitura di dodici costumi teatrali e la fornitura di dodicimila divise per i carabinieri devono sottostare alle stesse procedure; secondo statistica si tratterebbe di vedere quante assegnazioni di forniture per dodici costumi siano state in grado di rispettare nella sostanza, non nella forma, il principio della gara. Ma anche senza la statistica basterebbe il buon senso, o addirittura il senso comune per dire che un altro principio, quello dell'economicità della gestione, non viene automaticamente salvaguardato facendo una gara per una fornitura dell'ordine di quattro milioni e mezzo, in Enti con dodici o quindici miliardi di bilancio.
Chi fa il mestiere di organizzatore di teatro musicale deve essere in grado di valutare se la proposta di un costumista, che sceglie una sartoria di sua fiducia, sia liscia oppur pelosa, invece di esser costretto, una volta fattasi questa convinzione, a costruire artificiosamente il "supporto cartaceo" che lo mette al riparo dai pericoli. Ma in Italia, patria del diritto, valgono i principi e valgono le applicazioni analogiche dei principi. Per quanto concerne la scrittura degli artisti il diritto pubblico... non ha invece un'esperienza da applicare per analogia, e lascia - per fortuna - che le cose vadano in un altro modo, senza neppure preoccuparsi se l'artista Tizio, per lo stesso ruolo, viene pagato una lira in un teatro e due lire in un altro.
C'è un rimedio? In tempi in cui si parla di nuovo di legge di riforma per le attività musicali è il caso di chiederselo. E le risposte possono essere due. 0 si "riforma" il modo di scritturare gli artisti, rendendolo compatibile con i principi di sana, corretta, limpida ed inefficiente assegnazione delle forniture, o si analizzano i meccanismi specifici delle attività musicali e le si regolamentano in modo specifico. Io sono per la seconda ipotesi, e molto probabilmente la mia opinione è di quelle che non stanno giuridicamente in piedi. A questo punto devo solo sperare che non prevalga la prima ipotesi e che rimanga in vita il regime misto ed ibrido che in certi casi consente per lo meno di operare in modo tempestivo ed efficace. Ma non credo comunque che si possa parlare veramente di legge di riforma se non si riformano prima le applicazioni meccaniche, le fatali applicazioni analogiche di principi generali del diritto e se, in conseguenza, non si riforma la mentalità dei controllori, oggi ridotti, anche loro malgrado, ad esercitare non il controllo sostanziale ma la censura. Prova d'orchestra di Federico Fellini ha riunito in un'ora di spettacolo ciò che nella realtà succede forse in cinque anni. Credo che con un rapporto molto più stretto si potrebbe confezionare uno spettacolo altrettanto esilarante e altrettanto sgomentevole intitolato Ispezione dei revisori dei conti.
In vista della riforma si chiede da più parti, sinistra compresa, che i dirigenti dei teatri siano dei managers e che garantiscano l'economicità della gestione. L'economicità della gestione, secondo me, non dovrebbe identificarsi con il pareggio del bilancio, ma dovrebbe significare rapporto tra ciò che si spende e ciò che si dà alla collettività. Il manager ci può arrivare? Penso di sì. L'azione del manager è compatibile con il controllo di un Consiglio d'Amministrazione rappresentativo della collettività? Penso di sì. Il manager è il toccasana? Penso di no. Il manager andrebbe benissimo, ma non in quanto manager di chiara fama. Non servirebbe chiamare dei managers a gestire degli Enti Lirici o dei centri di produzione musicale: bisognerebbe creare le premesse e le condizioni perché solo dei managers siano in grado di gestirli.
E' possibile ciò? Penso di no. Ma il nostro è il paese dei miracoli.

Piero Rattalino (Musica Viva, Anno VI n.2, febbraio 1982)

domenica, marzo 19, 2006

Sei secoli per suonare John Cage

Il 5 gennaio alle 5 l'organista di Halberstadt, in Germania, ha suonato un nuovo accordo. Poi ha agganciato dei sacchetti di sabbia per tenere premuti i tasti, si è inchinato al gentile pubblico ed è andato via, fino a maggio non ha più niente da fare. L'accordo che ora rimbomba nella chiesetta tedesca, «fa diesis-do-la», è appena il terzo dall'inizio del concerto: e l'inizio del concerto è stato il 5 settembre 2001, mentre la fine è prevista per il 2640. Sempre che nessuno chieda il bis. Forse gesto geniale forse capriccio di un'arte ormai sfibrata, l'esecuzione lunga oltre sei secoli di una partitura per organo di John Cage ha il merito di dilatare, oltre alla durata delle note, anche le possibili riflessioni sul tempo e sulla mortalità. Non soltanto umana: l'opera già sopravvive al suo autore, morto nel 1992, e, cosa ben più originale, rischia di seppellire anche lo strumento sul quale viene eseguita. Chissà se l'organo di Halberstadt resisterà fino al 2640, o cadrà in pezzi prima.
Ma perché proprio Halbqrstadt e perché fino al 2640, quale cabala c'è dietro questa sfida tanto stravagante quanto affascinante - un po' come lanciare nello spazio un messaggio che sarà letto fra un fantastilione di anni in una galassia sconosciuta? John Cage scrisse un pezzo per pianoforte della durata di venti minuti, poi lo trascrisse pei organo con l'indicazione "ASLSP", As slow as possibile: il più lentamente possibile. Ma quanto lento è "lento"? Un apposito congresso di musicisti e teologi decise che la migliore approssimazione all'infinito era il 2640, per una complessa simmetria con il 1361: cioè con l'anno in cui, appunto a Halberstadt, fu inventato il famoso Blockwerk organ dal quale derivano tutte le tastiere, e nacque così la musica moderna. Nel frattempo, mentre i teorici discutono e l'organo attende il prossimo cambio di tonalità, chiunque può acquistare un pezzetto di immortalità: per mille euro, può porre una targa marmorea con il suo nome nella chiesetta. E sperare a sua volta, se crede, in un bis.

Giovanna Zucconi (La Stampa, sabato 14 gennaio 2006)

venerdì, marzo 17, 2006

Il Quartetto di Tokio

Nel recente Dizionario degli interpreti musicali - filiazione del Dizionario Enciclopedico della Utet - il loro nome non compare. Possibile? E' davvero così sconosciuto il Quartetto di Tokyo, da non meritarsi uno spazio tra il Quartetto Tatrai e il Quartetto Ungherese? Sembrerebbe proprio di no. Basta un'occhiata alla discografia nutrita del gruppo, alle agende incredibilmente fitte di impegni in tutto il mondo (ultima prestigiosa chiamata, l'esecuzione dell'integrale dei Quartetti di Beethoven dalla Scala ad Amsterdam, Vienna, Bruxelles, Parigi e New York) e soprattutto basta uno sguardo alla storia affascinante di questo Quartetto venuto dall'Estremo Oriente - solitario, per ora, nell'affermarsi nei circuiti musicali occidentali per concludere che la svista del Dizionario italiano va sanata almeno con immediate scuse.
E' una bella storia, questa del Quartetto di Tokyo. Probabilmente piacerebbe a Kurosawa, perché è una tipica storia giapponese, un equilibrato convivere di tradizione-lentezza-pensiero con i frenetici ritmi di successo-lavoro-rischio. A raccontare la storia dei "Tokyo" sono in due, le due anime del Quartetto, la viola Kazuhide Isomura, che è lo sguardo sottile sul passato, il parlare pacato, in un inglese depurato dal connaturale affanno, e il primo violino Peter Oundjian, arrivato dopo dodici anni di vita del quartetto, cultura mista, divisa tra Canada, Armenia e Inghilterra, passo nervoso, orologio sotto controllo, e un quotidiano americano discretamente a portata di mano, sul divano, per riempire i tempi morbidi della conversazione del compagno di avventure.
Così va l'intervista alle due facce del Quartetto di Tokyo: su due binari, con perfetta divisione del territorio, in concentrazione rispettosa, ma senza interferenze.

Cominciamo da 25 anni fa, da quel 1969 che ha segnato la nascita della vostra formazione: come vi siete incontrati?
Con Kiochiro Harada, Yoshiko Nakura e Sadao Harada studiavamo insieme alla Toho School of Music. Era la scuola di musica più importante di Tokyo e di tutto il Giappone. Nell'elenco degli iscritti, il suo primo allievo era stato Ozawa. La scuola era stata fondata nel 1950, sul modello della Juilliard di New York. Figura centrale alla Toho School era il professor Hideo Saito, allievo di Emanuel Feuermann: terminati gli studi di violoncello, aveva fondato una straordinaria classe di musica da camera. E' stato lui, Saito, ad avvicinarci per primo al fascino del quartetto.
Una scuola su modello americano, un maestro allievo di uno dei più famosi violoncellisti degli Anni '20-40: voi studenti di musica giapponesi non sentivate come importata questa cultura?
No. Noi quattro eravamo tutti nati dopo la seconda guerra mondiale, quando la musica europea era molto popolare. E poi non va dimenticato che l'Orchestra della Radio giapponese ha quasi cent'anni, e il suo repertorio erano i classici della musica occidentale; a tre anni io ascoltavo Mozart, a cinque ho iniziato a studiare violino. Era naturale, per me e per i miei coetanei: siamo cresciuti con la musica dell'Europa.
E la musica giapponese?
E' una musica particolare, non è per i concerti. E' musica nata per il teatro - No e Kabuki - oppure è musica da suonare a corte, per le cerimonie reali. E' comunque musica per piccoli ambienti, da meditare, non da applaudire.
Dunque voi quattro studiate quartetti con il professor Saito a Tokio: ma come siete usciti dal Giappone?
Nel'65 era venuto a Tokyo per un workshop il Quartetto Juilliard e ci impressionò, non solo per il repertorio presentato, ma per il modo in cui lo suonavano. C'erano stati altri Quartetti occidentali in Giappone, prima di loro. Avevamo sentito il Quartetto Italiano, l'Amadeus, il Quartetto di Budapest. Ma il Juilliard dava il primo workshop. Eccitati, lavorammo con loro, ormai decisi a diventare anche noi un quartetto. E loro ci invitarono ad Aspen, dove tenevano dei corsi estivi. Ma solo Harada, il violoncellista, ed io potevamo permetterci studi così lontani. Anche se in realtà soldi ce n'erano pochi. Studiammo con Robert Mann, il primo violino del Juilliard, e intanto arrivammo a conoscere Pierre Ménard, secondo violino del Quartetto Vermeer di Chicago. Lui era anche spalla dell'orchestra di Nashville, un'orchestra che suonava un po'di tutto, classica e country. Avevamo bisogno di soldi e così fummo ingaggiati lì. Presto ci raggiunsero anche i nostri due compagni dal Giappone e fu lì che ci preparammo per Monaco.
Monaco, 1970, con il suo decisivo primo premio al prestigioso Concorso internazionale: come andò?
Beh, non avevamo più problemi di soldi, di concerti, di agente, di casa discografica. Di colpo la nostra vita cambiò. E diventammo il Quartetto di Tokyo. Il nome nacque proprio lì, alla consegna dei premi. Fu un momento tutto particolare: nessuno, nelle altre categorie del concorso di quell'anno, aveva vinto il primo premio. La giuria scorreva i nomi, e c'erano solo secondi o terzi. Ultima ad essere chiamata fu la categoria quartetto: nominarono noi, e ci fu una reazione entusiastica, anche perché da tanti anni a Monaco non si dava il primo premio al quartetto. In giuria c'era anche Paolo Borciani. Fu lui a parlare di noi a Milano ad Alfredo Amman, l'agente che ci presentò alla Società del Quartetto. Così da Monaco partirono i concerti per l'Europa. Invece in America funzionava - e c'è ancora oggi - un'associazione dedita alla promozione dei giovani, la Young Concert Artist: fu lei a lanciare Zukerman, Emanuel Ax, Richard Goode e tanti altri. E grazie a questa associazione noi debuttammo a New York.
Poi ci fu la separazione del secondo e poi del primo violino.
Che Yoshiko Nakura ci avrebbe lasciati lo sapevamo da tempo: l'esperienza del quartetto doveva rimanere per lei limitata ad un certo periodo, prima della famiglia e dei figli. Le subentrò Kikuei Ikeda, che è con noi dal '74, e veramente ci sembra che sia stato con noi dall'inizio. Ma il vero shock fu il distacco del primo violino. Non sapevamo più che fare: provammo tanti violinisti, ci consigliavano di restare con i giapponesi, per via dell'identità del gruppo. E invece a convincerci fu lui, Peter Oundjian. Lo conosceva la moglie di Ikeda; suonavano tutti e due nell'Orpheus Chamber Orchestra, e poi sapevamo che era un gran violinista, che faceva molta musica da camera.
E' venuto ilsuo momento. Fino ad ora si è limitato ad ammiccare, sprofondando nel divano, incurante della compostezza giapponese.
Dunque, Oundjian, cosa provò nel suonare a Tokio?
Mi sembrò strano; ma soprattutto pensavo che per me sarebbe stato un grosso rischio. Allora godevo di una buona reputazione in ambito violinistico. Se avessi fallito con loro, per me sarebbe finita. E suonare in quartetto non vuol dire solo metter insieme quattro persone che suonano bene. E' un discorso diverso. E comunque, per me, allora, era un rischio. Però ero curioso. Ma avevo anche sogni di carriera solistica. Ero in conflitto. Per convincermi ad accettare, i Tokyo mi dissero che mi avrebbero lasciato tre mesi all'anno esclusivamente da dedicare alla mia personale carriera. Ma poi c'era anche un problema di repertorio: allora conoscevo praticamente tutta la letteratura per violino solo, ma pochi quartetti. Quanti? Mah... cinque, forse. Quanti anni avevo? Venticinque. Nato a Toronto, a quattro anni in Inghilterra, studi al Royal College di Londra, e poi alla Juilliard, con Galamian, Perlman e Delay. Ma fu Zukerman a incoraggiarmi a studiare in America.
Non si è mai sentito un po' straniero nel Quartetto?
No. Abbiamo culture diverse, ma fisicamente ci assomigliamo. Forse se fossi alto due metri e biondo sarebbe diverso... Mi ricordo una volta, proprio prima di iniziare un concerto, una signora delle prime file, in sala, un po' ad alta voce disse: "Guarda, il primo violino è cinese".
Lavorate molto insieme?
Sì, circa dieci mesi all'anno. Viviamo tutti e quattro in America.
Dicono che il quartetto sia la formazione più precaria e litigiosa: è vero?
E' difficile andare d'accordo, ma cerchiamo sempre di prevenire le difficoltà, di
affrontare i problemi prima che esplodano. Nel lavoro cerchiamo la comunicazione, che può a volte essere tanto intensa da aver bisogno di compensazioni: così nella vita siamo molto indipendenti. Ad esempio, prendiamo treni diversi, in aereo chiediamo posti lontani, e se è possibile cerchiamo di evitare di alloggiare tutti nel medesimo hotel.
Avete dei modelli per il vostro quartetto?
No. Vorremmo costruire qualcosa di nuovo. Quando suoniamo siamo in quattro, e su una frase musicale abbiamo sempre almeno tre idee diverse. Certo risentiamo di influenze musicali, ma non necessariamente di altri quartetti.
Come avete affrontato l'integrale dei Quartetti di Beethoven?
Questo è un po' difficile da spiegare a parole. Quando suoniamo, è sempre come fosse la prima volta. E l'importante è che queste sensazioni nuove passino tra tutti e quattro: comunicare è la cosa per noi più importante. Spontaneamente. Senza necessariamente un concetto prefissato. Così non abbiamo obbligatoriamente un disegno su Beethoven da rispettare. E i Quartetti li verifichiamo ogni volta diversi, anche se li avremo suonati in concerto dalle cinquanta alle cento volte.
Il Quartetto di Tokyo ha fatto anche delle commissioni a compositori contemporanei: nel vostro curriculum ci sono quattro pagine appositamente scritte per festeggiare i vostri primi dieci anni di quartetto.
E' stata una storia strana: avevamo contattato quattro compositori: Takemitsu, che ci ha scritto A way a done, che abbiamo registrato, ed è andato tutto bene; Machover, che ci ha presentato Quatuor, un po' in ritardo - pazienza - con scrittura un po' controcorrente, però l'abbiamo suonato. Poi avevamo chiesto un pezzo a Penderecki, che però era troppo occupato e avrebbe potuto fare qualcosa per noi, ma molto fuori dal nostro decennale, e quindi abbiamo rinunciato. E poi c'era Lees: quando ci arrivarono le parti non capivamo quasi nulla, note impossibili da prendere, non so, avrei forse dovuto suonarle con il naso. Allora chiamiamo l'autore, gli spieghiamo che certe cose sugli archi non si possono fare. E lui? Fate come potete - ci risponde cambiate pure le note. Ah no. Così non si fa. Scriva pure per il Kronos, ma non per noi.
Il Kronos? Non vi piacciono? Non fanno musica nuova?
No. Il Quartetto Arditti fa veramente musica nuova: sono fantastici, seri, grandi musicisti. La musica del Kronos è un cross-over. E poi suonano amplificati, si potrebbero discutere molte cose. Comunque, se alla gente piacciono, se li tengano. Meglio loro del rap.
Quali sono i vostri prossimi impegni?
Subito il ciclo Beethoven, in tante città. Il più stimolante è quello che proponiamo a Vienna: undici serate, divise a metà con il Quartetto Borodin, che suona l'integrale dei Quartetti di Shostakovich. Poi avremo un po' di registrazioni: Bartok e Janacek, Debussy e Ravel, poi un pezzo nuovo di Ezra Ladermann per quintetto con pianoforte, che suoneremo con Marc Neikrug, il pianista di Zukerman. E ancora dobbiamo finire il ciclo Schubert, abbiamo i Quintetti di Brahms e Weber con Stoltzman, e con Marilyn Horne registreremo Il tramonto di Respighi e altri brani di Puccini e Verdi, per voce e quartetto d'archi.
Tace la viola Kazuhide Isomura. Ascolta assorto il parlare veloce del compagno. (Tra di loro, in quartetto, la lingua ufficiale è l'inglese: è la minoranza ad averla spuntata).
Ma possibile? Siamo qui, ad intervistare un quartetto giapponese, e il Giapponese chi lo nomina? Si doveva parlare di "tempura", di "sushi" di "sukjaki", e invece ad ogni angolo qui spuntano hamburger e hot-dog. Ma insomma, il Quartetto di Tokyo non torna mai alla madre terra?
Sì, torniamo. Ogni due anni, per concerti, non per vivere. Non teniamo masterclasses. Morto Saito, è molto calato l'interesse per la musica da camera. Il modello per i giapponesi oggi è Midori. Il pubblico locale preferisce interpreti occidentali: meglio l'Alban Berg che il Tokyo. In Giappone ci vedono un po' come se da voi gli attori italiani facessero il kabuki. Purtroppo basta il nome Vienna o Berlino per entusiasmare i giapponesi! Il pubblico lì ha il complesso dell'artista occidentale. Era così anche in America, con i quartetti finché non è arrivato il Juilliard.
Ma la scuola violinistica giapponese è molto rinomata: il metodo Suzuki, per i bambini, ad esempio...
Io ho studiato con Mister Suzuki, ed è stato un buon metodo. Ma è solo una scuola di partenza, non è professionale; è un metodo che rispecchia l'idea di Doctor Suzuki, che crede che in tutti i bambini vi sia sufficiente talento per poter suonare uno strumento.
Quando i complessi italiani vanno in tournée in Giappone, tornano sempre entusiasti della preparazione musicale del pubblico giapponese: non è così?
Il pubblico giapponese è molto attento, ma il Giappone è ancora molto isolato, e non solo geograficamente. A New York le stagioni musicali passano in rassegna tutti i migliori musicisti, con scelte molto sofisticate. In Giappone le scelte sono sempre parziali: si importano artisti alla moda, con programmi quasi sempre conservatori. Cambieranno le cose? E' probabile. I giovani maestri di musica nelle scuole giapponesi hanno quasi sempre ricevuto una formazione internazionale: speriamo insegnino a guardare avanti. Ma non credo che uno studente americano o europeo verrà mai in Giappone a studiare musica.
Così, con una punta di malinconia sul futuro musicale della propria terra, si congeda Kazuhide Isomura. Una stretta di mano leggera, accompagnata da un impercettibile inchino. Peter Oundjian è già scattato impaziente, lo aspetta un viaggio, deve correre, l'orologio lo chiama. Chissà dove porterà i suoi tre compagni, sempre più lontani dal Giappone eppure con quelle custodie dei preziosi strumenti tutte tappezzate di fotografie, con tanti occhi a mandorla - bambini, giovani donne - che sorridono gentili.

Carla Moreni (Musica Viva, Anno XVII n.10-11, ottobre-novembre 1993)