Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, gennaio 25, 2020

A proposito del Bruckner sinfonico

Anton Bruckner (1824-1896)
Mettendo giustamente da parte certe insignificanti, o quanto meno non fondamentali pagine per pianoforte e per organo l’origine della maggior produzione strumentale bruckneriana è da rintracciarsi nel fecondo biennio 1862/63, biennio in cui per l’appunto, si svolse il tirocinio del nostro Autore alla scuola del Kitzler.
Il lavoro strumentale di quegli anni evidenzia già un fortissimo scompenso quantitativo e qualitativo fra il genere cameristico ed il molto più preferito genere sinfonico. Si conoscono infatti un quartetto in do min. per archi (Edizione MWV der IBG, Vienna, 1960) e poi, trasmigrando quasi definitivamente al sinfonismo, una marcia in re min. per 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, tromboni, archi e timpani (Edizione Göllerich III/2 29, 32) della quale esiste una riduzione per pianoforte di M. Auer, tre pezzi (mi bem. Magg. - mi min. - fa Magg.) con identico organico della marcia (Edizione Göllerich III/2 33, 60), l’Ouverture in sol min. per ottavino, flauto, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, 3 tromboni, archi e timpani, (Edizione Universal, Vienna, 1921) ed infine la Sinfonia in fa min. per 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani ed archi (Edizione Göllerich III/2 61,124; il 2° movimento "Andante molto sostenuto" è invece edito dalla Universal, Vienna, 1921).
Dicevo prima che si tratta di una trasmigrazione pressoché definitiva al genere sinfonico per il quale del resto il già maturo Bruckner manifestava la sua forse non del tutto conscia inclinazione e predisposizione, ed in tale contesto va appunto inquadrata la composizione isolata e straordinaria di un quintetto (l’unico!) in fa Magg. per archi, dedicato al Duca Max Emanuel di Baviera, e composto nell’anno 1879 (Edizione A. Gutmann, Vienna, 1884).
Si tratta comunque di opera di indubbio interesse, non fosse altro perché giova a sottolineare con cognizioni analitiche una certa influente autorità sul primo Schoenberg e su un certo Hindemith, inserendo come intelligente tramite Reger.
Come nota però giustamente il Martinotti, già in questo Quintetto si intravvede una non troppo velata "provocazione sinfonica", repressa però in un accento più raccolto, ed anche nota acutamente una didascalia alla quinta battuta del secondo tema dell’ampio adagio "Mit Wärme" ripresa testualmente nell’adagio della Settima ed evocata nell’intensa emotività delle due sinfonie successive. Quintetto comunque che risulta maggiormente singolare ed inaspettato all’epoca della sua pubblicazione, per l’aggancio all’ultimo Beethoven, che dai primi Romantici era stato trascurato nel concetto della continua variazione incrementata dal linguaggio cromatico.
L’inizio del vero e proprio periodo sinfonico, che si protrarrà fecondamente per oltre 25 anni, si apre con alcune, reverenziali, cautele (leggi l'adozione non coattiva della forma-sonata) non prive di energiche sfide, come ad esempio l'immissione di un terzo elemento tematico nell'andante della sinfonia in fa min.
E cosi ricorrendo ad ancoraggi stilistici ben differenti fra loro, ove si pensi ad Haydn e Beethoven, a Schubert e Mendelssohn, Bruckner trova un suo posto ben definito nell'arte europea della seconda metà del 19° secolo, e dico "europea" nel senso più ampio possibile, ne sono prova le lezioni assimilate da Schubert, Berlioz, Liszt.
Accettando la tradizionale distinzione, nell’ambito della vicenda stilistico-sinfonica bruckneriana che vuole le prime cinque sinfonie (quella cui si accennava prima, in fa min., la "Nullte", la prima, la seconda e la terza) adattarsi morbidamente al primo Romanticismo, e le altre sei, a partire cioè dalla N" 4 "Romantica", adottare uno schema già molto più complesso, giacché, per citare nuovamente il Martinotti, "Bruckner nella sua ricognizione sinfonica sembra scomporre, con analisi fin spietata e con vicenda coraggiosa e dolorosa di tante continue approssimazioni, quanto il Romanticismo aveva addensato concretato, fin esaurito e poi ancora difendeva con Brahms", occorre ancora una volta ricordare il criterio di ampliamento del bitematismo con l’adozione sistematica di un terzo tema, criterio che troverà un convinto continuatore in un certo Rachmaninov, anche se "contaminato" da elementi ciclici cari al sinfonismo tardoromantico e moderno dei Franck, Mahler, Sostakovic, per arrivare, perché no, a Berg.
Sono dunque da stroncare certe affrettate critiche, giustificabili parzialmente solo per la scarsa conoscenza di cui ha sofferto Bruckner parecchi anni addietro, che se da un canto ammettono la presenza di pagine di ispirata bellezza, soprattutto nel corpus sinfonico, vogliono maggiormente evidenziare una sorta di enfatica prolissità dell’opera.
Invece se Bruckner a volte, non sa, anzi non vuole abbandonare una idea musicale già apparentemente esaurita e perché vuole analizzare "semanticamente" il tema a favore di una "conversione sottilmente metamorfica" come afferma ancora, e giustamente, il Martinotti nei suoi saggi sugli "Aspetti e caratteri del sinfonismo di Anton Bruckner".
Fra tali "aspetti" comuni all’intero corpus sinfonico bruckneriano va ricordato l’uso del corale sinfonico abilmente stilizzato (ed in ciò sono evidenti i frutti maturati durante lo studio della composizione effettuato con Sechter e probabilmente non estranee certe idee sviluppate durante i corsi di direzione d’orchestra con O. Kitzler) e validamente sfruttato come mezzo di mistica e collettiva sacralità. Si potrebbe citare l’entusiasmante ed epico finale della Quinta dove l’uso del corale raggiunge vertici difficilmente eguagliabili, o altrettanto validamente il 1° movimento "Bewegt, nicht zu schell", della "Romantica" dove un possente corale ricco di uno straordinario respiro cede il posto a quel tema che nell'introduzione della esposizione era stato meravigliosamente affidato al corno sopra i profondi fremiti degli archi tremolandi (ed anche questa idea non è stata forse sapientemente sfruttata dallo stesso Rachmaninov?).
Occorre dunque che il grande spunto tematico del primo tempo vada rispettato nella sua continua sovrapposizione con, specie nella sezione degli archi, una sonorità calda caratterizzata da un timbro ed una strumentazione sempre accuratamente concentrate.
Analogamente va reso il secondo tempo, nel suo contenuto romanticismo, sciolto, scorrevole e per nulla marcato, come avviene spesso nelle pagine bruckneriane, ove anche il più smisurato edificio sonoro deve essere ricondotto (e qui ha grande rilevanza la pratica strumentale e direttoriale degli esecutori) ad una lucentezza dinamica irrinunciabile come nel caso del successivo, meraviglioso, terzo movimento. Circa quell’"espediente" bisogna ricordare la lezione della Nona beethoveniana: risultato non sarà certo la vocalità fisica del grande Mahler, ma una cantabile vocalità della quale fanno sfoggio molti passi strumentali.
Non a caso si sono avanzate ipotesi su certe inflessioni operistiche o melodrammatiche, ed ecco come torna alla ribalta Verdi ed il suo Requiem e come parallelamente aumenti il divario con lo straussiano Symphonische Dichtung.
Il tremolo che esprime ingenuamente e forse in maniera previsibile, (ma pur sempre efficace!) una tensione innegabile evidenzia mirabilmente la sonora individualità del "Tema".
Il fatto che Bruckner dedicasse la sua Terza Sinfonia "All'illustrissimo Signor Richard Wagner, all'ineguagliabile, famosissimo e sublime Maestro dell'arte poetica e musicale in profondissima riverenza", alimentò la tesi di un unico filone Wagner-Bruckneriano.
Non a caso Eduard Hanslick, autorevole e temibile critico Viennese, ebbe a scrivere dopo la prima esecuzione della Terza bruckneriana, "si ha la visione di come la “Nona” di Beethoven stringa amicizia con la “Walchiria” di Wagner e finalmente vada a finire sotto gli zoccoli dei suoi cavalli".
Conseguenziali furono per il sinfonismo bruckneriano le accuse di mancanza di forma e non si interpretò il rifiuto d Bruckner ad essere catalogato secondo parametri wagneriani o secondo parametri classicistici.
Come d’altronde non è negabile la considerazione che Bruckner non fu un compositore romantico nel senso stretto della parola.
Ed in effetti, posto che durante la sua vita egli cercò una obiettività che non poteva essere aridamente catalogata in un filone o in una corrente e men che meno "nell'esaltazione drammatica dell'artista romantico" (Robert Simpson).
Lo spettro wagneriano ricompare pero con il famoso "Adagio" della Settima, sublime monumento funebre al venerato Wagner.
Composta negli anni 1881/83, la Settima Sinfonia in mi Magg., pur se si è trovata spesso a dover contendere la palma della popolarità alla Quarta, è ormai universalmente considerata la più valida e compiuta opera bruckneriana. Non a caso con la "prima", che si ebbe di quest’opera a Lipsia il 30 Dicembre 1884, il compositore raggiunse la prima vera grande affermazione presso il pubblico.
La Settima è opera ricca di sottili cesellature strumentali che tuttavia non influiscono negativamente sull’unita globale del capolavoro. Il respiro dell’opera, sostenuto da frequenti ed originali soluzioni strumentali ed armoniche, è ricco di infinito lirismo e nonostante la grande concezione sinfonica, si può affermare, senza paura di essere smentiti, che permane una limpida sensazione di cristallina luminosità.
Tale senso di luminosità e di grande respiro compare anche nella Sesta in la Magg. caratterizzata da maestose campiture sinfoniche che possono essere facilmente paragonate a certe pagine organistiche bachiane.
La deduzione appare molto logica ove si ricorra poi al ripetuto luogo comune del Bruckner agguerrito organista e fervente bachiano nonché acceso sostenitore delle sue "stratificazioni timbriche" (Luigi Bellingardi).
Tuttavia specie nei tempi centrali è rintracciabile una certa ascendenza schubertiana, soprattutto in quella sorta di fantasiosa delizia austriaca, eppure non priva, secondo altri, di popolari accenti ungheresi.
Simili inflessioni si possono anche riscontrare nella Sinfonia in re min. "Nullte", i cui primi abbozzi risalgono al 1864, ma che fu scritta nel 1869 ed edita addirittura nel 1924. L`importanza di questa sinfonia riporta in primo piano il caldo melodismo schubertiano, e certi retaggi orchestrali tipici del Mendelssohn della "Riforma" e del "Sogno di una notte d’estate". Chi non rintraccerebbe infatti i mendelssohniani corali per fiati o certi giochi timbrici dei legni?
D’altronde sono anche evidentissime certe accentuazioni ritmiche lisztiane (mi riferisco ai poemi sinfonici) e della produzione orchestrale di Berlioz, conosciuta da Bruckner per la notevole attività divulgativa dello stesso Liszt.
Un’opera dunque che pur pervasa da spumeggianti guizzi romantici, comincia a far intravvedere una certa originalità creativa.
Essendo state comunque composte le sinfonie bruckneriane nel secolo del Romanticismo, esse restano "fedeli allo spirito del classicismo". Dunque come Haydn non avrebbe  alcuna difficoltà a riconoscersi progenitore della "forma bruckneriana", forma che però risulterà naturalmente ampliata tematicamente ed armonicamente, così chi conosca la forma sinfonica haydniana non avrà indecisioni o titubanze per comprendere la Quinta bruckneriana, sicuramente la più classica, delle sue sinfonie.
La Quinta del ciclopico e monumentale musicista austriaco composta negli anni 1875/78, fu chiamata dall’autore "Fantastica" (il riferimento è puramente casuale!), forse perché credeva, ben conoscendo la mole della sua creazione, che fosse pura fantasia vederla eseguita. Le paure di Anton Bruckner erano ben giustificate, se è vero che egli non ascoltò mai la sua Quinta, che ultimata appunto nel 1878, fu eseguita per la prima volta sedici anni più tardi. Il compositore, malato, ed ormai vecchio, ne affidò la direzione al suo allievo Franz Scelk.
Tutt’ora fra le meno eseguite e registrate Sinfonie di Bruckner, la Quinta non fu mai revisionata nel suo manoscritto del 1878, tanto che la Società Bruckner non avendo problemi di testi, ne ricavò due versioni, una dovuta a Robert Haas, l’altra a Leopold Novak, ed anche se fra le due versioni esistono differenze minime, statisticamente risulta maggiormente eseguita la seconda versione.
Caratteristiche salienti dell’opera nel suo complesso sono l’ininterrotto sovrapporsi e combinarsi di idee musicali che vengono reciprocamente scambiate dalle varie famiglie strumentali, le intime connessioni dei temi, le enormi difficoltà contrappuntistiche e quella "precisa volontà costruttiva" e quella "capacità di elaborazione musicale" che ha puntualmente notato il Martinotti.
Da non trascurarsi il lapalissiano senso classico delle calibratissime proporzioni.
Chi si è infervorato maggiormente nell’ascolto di questa ingiustamente trascurata Quinta Sinfonia, ha voluto vedervi una sorta di testamento spirituale dell’autore.
Forse, considerando che negli anni successivi sarà composta da Bruckner la Sinfonia con la dedica "dem lieben Gott", mi riferisco ovviamente alla meravigliosa Nona, sarebbe più corretto parlare di ringraziamento devoto, di monumentale espressione di fede nei riguardi di Chi gli aveva donato la ineguagliabile ed insostituibile dote di saper scrivere musica. Proprio quella fede che, ove la "fatale mancanza di concentrazione" diagnosticata da Hugo Wolf venisse a nuocere alla vicenda sinfonica bruckneriana lo sorreggeva ed incoraggiava proprio accentuando quella sorta di "dislivello spirituale" che in definitiva era stato il nucleo ispiratore della sua complessa poetica.
Per quanto riguarda la Nona, cui accennavo poc’anzi, bisogna dire che essa fu cominciata nel 1887 e purtroppo rimasta incompiuta.
Dico purtroppo perché in effetti tale sinfonia era manifestamente prevista come il logico epilogo dell’ideale trittico composto dalla Settima, dall’ottava e dalla nona per l’appunto, quasi una sorta di transetto che abbracciasse in se gli elementi architettonici di tre navate gotiche (stile tanto caro a Bruckner!).
Infatti questa sinfonia porta gli elementi di una ripresa: nella coda del primo movimento è evidente il motivo-chiave dell’ottava, la coda dell’adagio ha reminiscenze dell’analogo movimento della precedente sinfonia, oltre che il tema ascendente in mi maggiore della settima.
Una versione ridotta e ritoccata della sinfonia si ebbe nel 1903 sotto la direzione e la responsabilità di Ferdinand Löwe.
La prima esecuzione che si rifece fedelmente ed integralmente all’autografo che Bruckner aveva donato per mezzo del testamento alla Biblioteca Nazionale di Vienna, fu quella del 1932 con la Münchner Philharmonikern sotto la direzione di Siegmund Von Hausegger.
Da notare in questa sinfonia, lo scherzo, che come nell’ottava e nel quintetto per archi occupa il secondo movimento, ed il principio bruckneriano di opporre alle sonorità miste del Romanticismo registri quasi organistici dei timbri strumentali, sebbene con minor rigore ed insistenza che nella quinta e nella sesta sinfonia.
Con l’ottava, dedicata all’Imperatore Franceso-Giuseppe, invece, l’Autore ormai sessantenne, realizza mirabilmente un obiettivo che avevano inseguito per molto tempo, e non sempre con unità di intenti i romantici ed i moderni: cioè sviluppare, partendo da una cellula tematica estremamente semplice un’opera strutturalmente di dimensioni molto vaste ed a volte addirittura smisurate.
La cellula dinamica creatrice e generatrice è, nell’ottava un intervallo di seconda minore ascendente che si sviluppa da valori inizialmente brevi (generalmente biscrome) a valori sensibilmente più lunghi (semiminime, anche col doppio punto).
Si può affermare, che fra le caratteristiche più evidenti, fra le non poche che caratterizzano questa penultima sinfonia, vi sia anche quella dell’attacco che crea un grandioso effetto spaziale; effetto che d’altronde, anche se per un carattere maggiormente vivace ed aspro, ritroviamo nella famosa prima sinfonia in do minore.
Tale carattere è confermato per altro dall’affettuoso titolo "das kecke Beser!" (piccola scopa impertinente) che Bruckner più che quarantenne diede alla sua composizione, prima delle sinfonie, ma terza fra i progetti sinfonici del nostro Autore.
E' una meravigliosa introduzione alle sinfonie immediatamente successive: ed infatti, come afferma Richard Osborne, essa rappresenta la giusta sintesi dei tratti più importanti del profilo artistico del musicista austriaco: "l’ostinazione, l’umorismo, un profondo senso lirico, ed un senso del dramma sia immediato che protratto".
Risulterà facile capire da che cosa scaturiscano caratteristiche talmente diverse, ove si esaminano superficialmente le vicende della vita di Anton Bruckner relative agli anni che seguirono il 1860.
Il suo sviluppo artistico era stato gradatamente costante e quando aveva cominciato a lavorare alla sua prima sinfonia era ormai sistemato e "venerato" a Linz.
Lì non aveva tardato a diffondersi la fama della sua formidabile competenza nel campo delle forme musicali antiche, e per la sua non comune abilità di organista, e per le composizioni corali che aveva completato per l’appunto nella prima parte degli anni Sessanta.
A questo, seguì però, il meno felice periodo a Bad Kreuzen, dove il compositore si rifugiò vittima probabilmente di un esaurimento nervoso. Il successivo trasferimento a Vienna e il bisogno di affrontare e di inserirsi nel mondo politicizzato e competitivo della musica viennese gli scossero definitivamente il già fragile equilibrio interiore.
Ma, "la sua conoscenza artigianale dei procedimenti musicali, la sua tenacia contadina, la sua fede cattolica, ed una certa naturale iconoclastia" (Osborne), lo aiutarono sensibilmente a comporre un lavoro appassionatamente esuberante, nonché irrefrenabilmente vitale come questa prima sinfonia, che, proprio per questo carattere, fra le tante revisioni e versioni, viene generalmente eseguita dai tempi di Bülow e Richter ai più recenti tempi di von Karajan ed Haitink, nella disadorna versione, ma molto ricca di carattere, nota come "Linz".
Comunque a Vienna non mancavano motivi per offuscare la sua permanenza nella capitale austriaca.
Infatti era scoppiato uno scandalo riguardante uno scontro, che era stato ampiamente reclamizzato, con alcune insegnanti del Collegio di S. Anna; tale diverbio aveva temporaneamente arrestato il germogliare della carriera bruckneriana, costringendo il nostro compositore a cercare conforto negli entusiastici applausi londinesi che salutavano le sue brillanti improvvisazioni sull’organo della nuova Royal Albert Hall. Al rientro da Londra avvenuto nei primi del settembre 1871, il compositore cominciò a lavorare alla più ardente e profetica delle sue prime sinfonie: la seconda.
Il ritmo, l’armonia, la lunghezza variabile delle frasi, i frequenti Gesangperiode (passaggi cantabili), conferiscono, inequivocabilmente, un’atmosfera indicibilmente serena, fiduciosa e sicura di una ricchezza interiore che in definitiva è quella del suo creatore.
Così, se da un lato non mancano i momenti di humour secco e impassibile, dall’altro non sono assenti quegli istanti culminanti in particolari estatici e splendidi attorno ai quali si concentra l'attenzione di qualsiasi ascoltatore più o meno smaliziato riguardo ai procedimenti bruckneriani.
Così, quando ascolteremo ad esempio l’Andante della seconda Sinfonia in do minore, non potremo far altro che ringraziare sinceramente in cuor nostro Anton Bruckner per aver detto una volta: "Vogliono che io componga in modo diverso. Potrei, ma non devo".
Roberto Salemi
("Rassegna Musicale Curci", anno XXXVIII, n. 1 gennaio 1985)

martedì, gennaio 14, 2020

Quattro tipi di ascoltatore...

(Hoffnung)
L'intellettuale
E' il tipo (o il tipo d'ascolto) per cui la musica è uno straordinario fatto di cultura. Siamo l'intellettuale quando ci accorgiarno di scegliere, di controllare, di filtrare, di predisporre, di pensare ascoltando, di ripensare riascoltando, di sentire la musica e la gioia della musica soprattutto come una fonte inesauribile di illuminata conoscenza. L'intellettuale è dunque uno che seleziona attentamente, che scarta l'eccessivo, il non chiaro oppure il non problematico. Attento alle attuali ragioni storiche, predilige le musiche raffinate, meno note, "difficili", i compositori minori o meno noti, le composizioni più curiose o più dense di significati storici. Ama soprattutto le esecuzioni rispettose della filologia, le caratterizzazioni interpretative che permettono una serie di osservazioni intelligenti, le "letture» dei direttori o dei concertisti che chiariscano le strutture, la logica dei rapporti strumentali, la bellezza peculiare d'un timbro, d'un colore. Ama l'insolito, la proposta "stimolante", l'accostamento di dischi che fra loro "facciano un discorso".
 
Il passionale
E' il tipo (o il tipo d'ascolto) per cui la musica è una stupenda immersione. Siamo il passionale quando, ce ne accorgiamo o no, andiamo verso la rnusica che ci cattura, ci cornmuove, ci emoziona. Il passionale vuole soprattutto partecipare. Istinto, sentimento, temperamento, tutto viene "coinvolto". Il passionale vive la musica. Ci ragionerà dopo; tutt'al più, in questo mondo così pieno di complicazioni, in questa vita in cui bisogna tanto ragionare, non ci ragionerà affatto. La musica attraverso la pelle, fino all'anirna: si abbandona, o soffre, o gioisce; a volte si consola. Per questo, sceglie le musiche più eccitanti, i direttori più scatenati, i concertisti più vulcanici o più intensamente segreti. Insomma, gli interpreti più "comunicativi". La sua discoteca sarà un mondo suo.
 
Il neofita
E' il tipo (o tipo d'ascolto) per cui la musica è un universo da scoprire. Siamo il neofita quando non ci occupiamo tanto di confronti fra interpretazioni, quanto di possedere il repertorio fondamentale. Il neofita non per questo cerca le edizioni generiche, anzi vuole piuttosto le interpretazioni più prestigiose, o le più "sicure", le più storicamente significative. E' attento alle edizioni economiche, perché a volte possono facilitare combinazioni interessanti, senza scendere nella qualità. Agisce come se per lui l’ingresso del mondo della musica fosse una conquista recente che non perderà mai; e, vedendo accumularsi poco a poco buoni dischi nella sua casa, ha una sua non cancellabile felicità.
 
Il discomane
E' il tipo (o il tipo d'ascolto) per cui la musica è una stupenda collezione. Siamo il discomane quando veniamo attirati dal pezzo raro dall'interpretazione d'annata anche se vecchia e quasi inaudibile, dall'edizione di pregio con ottima stampa e bella confezione. Perché anche per i dischi, come per i vini, esiste un sapore e un retrogusto, e si hanno annate buone e meno buone, secondo gli interpreti e le orchestre. Il discomane possiede già moltissimi dischi, o si comporta come se li possedesse. Suoi colleghi idealmente non sono gli altri ascoltatori, sono gli intenditori. I suoi consigli influenzano gli altri. Egli è severo nei dettagli, implacabile nei confronti. Detesta il risaputo, anche se bello e storico. Con lui, il mercato deve fare i conti. La sua discoteca e la palestra d'un ascoltatore professionista.
("Musica Viva", 1979)

sabato, gennaio 04, 2020

Quirino Principe: Musica e filosofia (4/14)

Due tradizioni musicali tra loro opposte: l'islamica e quella cinese
MUSICA E ASTRAZIONE
Quarta parte.


Testa di Bodhisattva
Indugiamo ancora una volta, una sola, oltre i confini invisibili dell'Occidente. Entro quei confini, le nostre tentazioni eurocentriche ci abituano a considerare il pensiero filosofico occidentale la filosofia tout court, e la musica che ci è familiare la musica per eccellenza, quella che "fa storia". Esistono fondate ragioni per non considerare interamente false tali abitudini, e ne abbiamo già discusso: la ragione più vincolante è la storicità che connota la filosofia e la musica d'Occidente, in misura incomparabilmente maggiore rispetto ad altre tradizioni. Su tali tradizioni ci siamo soffermati brevemente per correggere gli eccessi in cui possono incorrere quelle nostre convinzioni, e la loro pretesa di esclusività.
Quest'ultima sosta è dedicata a due tradizioni musicali tra loro diversissime. Se le associamo in questa fase del nostro percorso, è proprio per il carattere esemplare della loro opposizione, che è un'autentica polarità di estremi. Ci riferiamo alla cultura islamica e a quella cinese classica, forse i due mondi culturali più dissimili sul pianeta. Come spesso accade, la loro opposizione di fondo si rovescia in opposizioni uguali e contrarie, ed emergono i consueti paradossi grazie ai quali, nella fisionomia delle diverse civiltà, gli estremi si toccano. La filosofia islamica, fiorita accanto a quella tutt'altra realtà che è la teologia islamica, accanto agli aspetti sublimi della mistica e agli aspetti sgradevoli e talora odiosi della precettistica morale, tende all'assoluto, all'aforisma dogmatico, alla metafisica elaborata in sistematiche e vertiginose costruzioni del pensiero. La filosofia cinese esclude ogni dogma, ogni assoluto, ed è tendenzialmente antimetafisica; è fondata su un complesso equilibrio in cui tutto si regge perché è relativo, e tale equilibrio di relazioni sostituisce la cosiddetta Verità. Al muslim, al "fedele" che crede nell'Islam, interessa la Verità in cui è riconoscibile la figura personale di Dio. All'intellettuale della Cina classica interessa piuttosto il Bene, o meglio (poiché anche la parola 'Bene" ha un sentore metafisico) il Giusto, la norma corretta e irreprensibile del vivere; interessa la società, lo Stato, secondo una gerarchia ragionevole in cui la legge è tanto più elegante quanto più è impersonale. Una celebre classificazione di Marcel Mauss, maestro di antropologia culturale, definisce la civiltà islamica (e l'indiana classica, ad essa affine almeno sotto questo aspetto) come una civiltà metafisica, distinta dalla civiltà etica della Cina tradizionale e dalla civiltà estetica del Giappone.
Una più ampia classificazione è offerta dal musicologo e sinologo Maurice Courant: nella tradizione cinese, indiana ed ellenica il pensiero musicale è assunto a termine distintivo. I tre grandi ambiti di civiltà, osserva Courant, hanno in comune l'idea che la musica sia la rappresentazione percettibile dei rapporti che uniscono cielo e terra, e tutti gli elementi dell'universo tra loro. Ma l'antico pensiero musicale dei greci, alla luce della speculazione filosofica, tende a una configurazione del mondo entro sfere celesti, e la sua è una visione assoluta e tuttavia non dogmatica, metafisico-scientifica. Il pensiero indiano, come quello islamico, mira all'essenza di Dio, in una visione metafisico-teologica. Il pensiero cinese mira all'ordine mondano, in una visione etica, sociale, psicologica e politica. Ed ecco il capovolgimento dello schema, i piccoli e grandi paradossi. Il primo rovesciamento è la fenomenologia della tradizione musicale coesistente alla tradizione filosofica e alla sua indole fondamentale. La filosofia islamica, pur nelle sue varie scuole, è essenzialmente dogmatica e assoluta, ma la musica islamica è quanto mai libera e mutevole nelle sue norme e varianti: un universo variegato di possibilità inventive, con diversissimi sistemi, modi, scale, melodie. Noi occidentali assimiliamo, nella percezione, tutte queste varietà, e siamo sedotti soprattutto da un carattere della cosiddetta "scala orientale", la successione di un tono, un semitono e un tono e mezzo nel primo tetracordo, il conseguente intervallo di un semitono tra il quarto e il quinto grado, e la successione di un semitono, un tono e mezzo e un altro semitono nel secondo tetracordo. Esempio: DO, RE, MI bemolle, FA diesis, SOL, LA bemolle, SI, DO. Ma questa scala dalla denominazione impropria e approssimativa, teorizzata da Louis-Albert Bourgault-Ducoudray (1840-1910) in età wagneriana (Trente mélodies populaires de la Grèce et de l'Orient, 1876), è un modulo stilizzato e occidentalizzato. E' una scala che interpreta arbitrariamente la musica "orientale" e i suoi intervalli non temperati (come il semitono maggiore e il semitono minore, distanti di circa un quarto di tono) secondo il nostro temperamentum aequabile, e il suo "orientalismo" è un effetto che tale appare agli orecchi di noi occidentali, poiché fu usato ripetutamente da compositori d'Occidente (Saint-Saens, Verdi in Aida, Richard Strauss in Salome, RimskijKorsakov, Balakirev, Ravel), e per noi sa di odalische e di danze del ventre. La scala di Bourgault-Ducoudray trova il suo corrispondente non già in un supposto comune denominatore delle scale usate nella musica islamica, bensì soltanto in uno dei maqam ("modi") arabo-egiziani, il nawa'thar, e in parte (per quanto riguarda il primo tetracordo) nel maqam detto nakriz. In realtà, la varietà dei modi e delle scale è, nella musica islamica, sovrabbondante e spesso coincide (casualmente) con il sistema codificato in Occidente tra il XVII e il XVIII secolo. Noi tendiamo ad omologare quella varietà anche per un'ovvia illusione ottica, generata dalla distanza culturale e psicologica. Pensate alle stelle nel cielo, o almeno così siamo avvezzi a chiamarle: in realtà sono oggetti di natura difforme, nane bianche o giganti rosse, quasar o pulsar, radiostelle o pianeti spenti, e talora in un punto luminoso si nasconde non una sola stella ma un gigantesco ammasso stellare, un'intera galassia. E' questione di maggiore o minore lontananza. Alcune di quelle luci testimoniano di com'è ora l'astro, altre ci rivelano com'era la stella quattromila anni fa, o due miliardi di anni fa: una traccia di caos nel cosmo. Eppure, noi vediamo quelle luci come se fossero tutte sullo stesso piano, trapunte sull'illusoria volta del firmamento. Furono dette, un tempo, le "stelle fisse", e sappiamo che si allontanano costantemente l'una dall'altra, e naturalmente da noi, con velocità inconcepibile. Una similitudine più familiare: chi incontra popoli di altra etnia e di altro colore, con caratteri somatici che non sono i nostri, tende a dire che quegli individui tra loro "sono tutti uguali", e così dicono gli altri di noi.
Alla varietà di sistemi nella musica islamica, entro una civiltà tendente al dogma e all'assoluto metafisico in filosofia, si oppone in termini inversi la musica cinese classica, che all'interno di un relativismo filosofico avverso ai dogmatismi e ai rigori tende a un sistema con poche varianti, abbastanza semplice e austero nella scelta delle possibilità inventive.
Un secondo rovesciamento dello schema è generale, e investe il rapporto tra speculazione filosofica e pratica quotidiana. Il fedele islamico è intransigente nel dogma e nella fede, ma incline al rilassamento e alla trasgressione nelle scelte private; nella tradizione della Cina classica, priva di una religione vera e propria e guidata da norme etiche e sociali ispirate a tolleranza, l'uomo si assoggetta spontaneamente a una disciplina rigorosamente osservata.
Queste opposizioni incrociate sono in equilibrio, e ciò motiva uno sguardo d'insieme. Ma un terzo paradosso nasce proprio da elementi davvero comuni. Il primo, importantissimo, è la tendenza di entrambe le tradizioni, l'islamica e la cinese, ad una filosofia estranea ai movimenti storici, incline a formulazioni astratte di natura logico-matematica: l'assoluto della filosofia islamica astrae dagli eventi i loro caratteri simbolici, così come il relativo della filosofia cinese. Nel rapporto con la filosofia, la tradizione musicale islamica e quella cinese devono fare i conti con simili astrazioni. L'altro elemento comune è l'associazione dei suoni e dei sistemi musicali con un'organica simbologia naturalistica e psicologica, ancora una volta inquadrata, nell'uno e nell'altro ambito culturale, in un codice di luminose astrazioni.
Conviene ribadire, in quest'ultima sosta su tradizioni non occidentali, quanto abbiamo detto nelle sommarie incursioni precedenti: è difficilissimo, se non impossibile, valutare l'incidenza del pensiero filosofico orientale sulle strutture della musica in atto, sull'invenzione melodica e sull'impiego degli strumenti. Due sono gli ostacoli: la povertà di connotazioni storiche in quelle tradizioni musicali, corrispondente a una tendenziale immutabilità del linguaggio musicale attraverso epoche successive; la debole possibilità, concessa a noi occidentali, di percepire particolari contrassegni semantici e sfumature espressive in sistemi musicali che ci sono storicamente estranei. L'unico modo serio di intuire il rapporto è l'individuare il posto assegnato alla musica nella visione universale del mondo. Questo tipo di esame, molto più agevole, ci pone dinanzi a un ennesimo paradosso. Mentre la filosofia cinese classica non ha alcun rapporto storico con il pensiero d'Occidente, la filosofia islamica nasce da fonti elleniche ed ellenistiche come da un'incubatrice. I contatti di natura storica sono innumerevoli: quello decisivo è costituito dall'annessione degli scritti pitagorici e aristotelici alla cultura islamica dopo la conquista araba di Alessandria, capitale dell'Egitto ellenistico-romano-bizantino, ad opera di Amr Ibn al-Ass. Se teniamo conto della centralità di Aristotele e delle fonti pitagorico-platoniche nel pensiero occidentale, la filosofia islamica ci appare, fra le altre extraeuropee, l'unica occidentalizzata nelle sue origini. D'altra parte, i suoi esiti sono quanto di più estraneo all'Occidente si possa immaginare, mentre la filosofia cinese, nella sua qualità costante, presenta molte analogie con le filosofie occidentali della fase più recente: per esempio, con la fenomenologia husserliana o con la linea del cosiddetto "pensiero debole".
L'innesto dell'aristotelismo nella religione coranica dà alla tradizione filosofica islamica un carattere irripetibile, ibrido e strano, nel quadro di una delicatissima coesistenza di misticismo e di ragione logico-scientifica. Nella rivelazione annunciata dal Corano, il tratto distintivo della natura divina è l'assoluta impersonalità del creatore. Allah è il principio supremo dell'universo, la chiave di volta del creato, il garante della stessa natura umana e dei suoi impulsi. Tutto, nell'islamismo, è di radice divina, anche l'erotismo più accentuato, anzi, ogni forma di edonismo. In nessun modo Allah può essere confuso con il Dio cristiano, e ne è prova, nella tradizione islamica, l'assenza del concetto di grazia, che in quella cristiana contrassegna i rapporti dell'uomo con Dio come relazioni tra entità personali. Allah è dunque l'unica fonte di razionalità; anzi, è l'unica razionalità possibile. Ontologicamente, non esistono razionalità individuali, che gli esseri umani esercitino in piena autonomia; gli uomini pensano perché Dio li fa pensare, ed essi sono soggetti a lui anche in questo atto che la tradizione d'Occidente identifica con la suprema libertà e con la superiorità rispetto agli altri esseri (le roseau pensant di Pascal ... ). Per contrappeso, non c'è rapporto di superiorità e d'inferiorità tra l'uomo e gli altri esseri di natura; tutto l'universo è razionale, e, come l'uomo, è soggetto a Dio. Ed ecco una conseguenza decisiva. Chiunque compia un atto, s'illude di compierlo, ma in realtà è Dio stesso che lo compie, assoggettandolo alla propria suprema razionalità. Un uomo crede di pensare, ma è Dio che pensa per lui. Lo stesso vale per le arti; anche l'invenzione musicale, o l'abilità nel suonare uno strumento, è facoltà individuale soltanto in apparenza, poiché Allah è il supremo artista e il supremo musico. L'arte musicale viene così continuamente "ripresa in mano" da Dio, e non ha luogo la decisiva contrapposizione arte-natura che domina la filosofia, l'estetica, la letteratura nell'Occidente moderno (gli esempi di Kant, Hegel, Leopardi, Schopenhauer, Kierkegaard, Thomas Mann, nella loro molteplice diversità, testimoniano tutti tale dominio). Nel pensiero islamico, l'arte è un aspetto della natura, poiché entrambe sono opera di Allah. Il musico e teorico Ziryab (morto verso l'850 dell'era volgare) teorizzò un vasto sistema pedagogico intorno all'uso dello 'ud, il più illustre fra gli strumenti arabi a plettro, originariamente a quattro corde, cui lo stesso Ziryab aggiunse una quinta. Le cinque corde emettono suoni a intervalli di quarta ascendente, e si chiamano bamm (LA), matlat (RE), matna (SOL), zir (DO), zir di Ziryab (FA). Ciascuna delle cinque corde, grazie alla diversa collocazione delle dita, emette, oltre al suono fondamentale, un tetracordo in scala cromatica ascendente, ed è legata a un elemento cosmico e a un temperamento umano: il bamm alla terra e alla nera bile, il matlat all'acqua e alla flemma, il matna all'aria e al sangue, lo zir al fuoco e alla bile gialla, lo zir di Ziryab alla vita e all'anima. Ciò significa, evidentemente, che ogni musico il quale intoni uno strumento, canti o inventi melodie, muove contemporaneamente gli elementi dell'universo, del corpo e dell'anima; facendo questo, egli si adatta ad essere a sua volta strumento nelle mani di Dio. Di conseguenza, nella tradizione islamica non esistono rigidi limiti all'invenzione musicale: i modi e le scale sono innumerevoli poiché sono "tutti leciti". Malgrado alcuni enunciati del Corano, severi verso l'arte musicale intesa come occasione di puro piacere, un raffinato edonismo domina in pratica la musica islamica. Quanto alle connessioni tra i suoni e gli elementi dell'universo, l'aria, l'acqua, la terra e il fuoco (è superfluo sottolineare la radice aristotelica di questa ideale articolazione), non può sfuggire la natura astratta di tali indicazioni; gli elementi sono meri ideogrammi analogici, fissati in nome di una simbologia stilizzata, e non hanno alcun connotato "descrittivo" o imitativo, come avviene, sotto tutt'altro cielo, nella moderna musica occidentale.
E' utile istituire un confronto tra simili connessioni che legano nella tradizione islamica la musica e l'universo, e le connessioni, se non analoghe, almeno omologhe che esistono nel pensiero cinese classico. Poiché la cultura cinese, nel corso dei millenni, non ha mai prodotto un testo "rivelato" paragonabile a quelli delle grandi religioni monoteistiche, ma soltanto una cosmogonia e una mitologia espresse in testi poetici (qualcosa di non molto dissimile accade nella civiltà ellenica ed ellenistica), è arduo orientarsi fra la molteplicità delle scritture, che sono di natura letteraria e non teologica. Nel "paese del Centro" (Chung-Kuo, la denominazione ufficiale della Cina) manca un testo "centrale". E' riconoscibile tuttavia una linea maestra, in cui la simbologia elementare ha formulazioni sostanzialmente univoche. Secondo la splendida sintesi offerta dal sinologo francese Marcel Granet (La pensée chinoise, La Renaissance du Livre, Paris 1934, e Albin Michel, Paris 1968), la serie degli elementi universali ha il suo enunciato capitale nella prima sezione del libro Hong fan, redatto durante il primo millennio avanti Cristo. L'universo è un sistema chiuso, e nessun mistero si nasconde dietro le sue realtà fenomeniche, nessuna metafisica, poiché il pensiero cinese non si pone neppure il problema se esso sia stato "creato" da un ipotetico Dio; anzi, i concetti di "Dio"e di "creazione" sono interamente elusi. L'unica realtà, e l'unico mistero, è l'intreccio di relazioni tra le realtà visibili e tangibili. L'unica disciplina esoterica, l'unica mistica che la cultura cinese abbia elaborato (ed è stata un'elaborazione a livello vertiginoso) è la scienza dei numeri, culminante nel valore simbolico del 5 come sintesi universale. Ai quadrilateri cari all'Occidente (le quattro stagioni, i quattro punti cardinali, i quattro venti, i quattro angoli del mondo, i quattro estremi della croce, i quattro evangelisti), in cui ciò che conta non è lo spazio interno al quadrilatero bensì i punti terminali, i vertici e gli spigoli, la Cina contrappone quadrilateri gravitanti intorno al proprio centro, resi significanti dal loro spazio interno, e trasformati, con l'aggiunta decisiva del punto centrale, in cinquine. Così, alle quattro stagioni si aggiunge, come quinto termine, il momento che stiamo vivendo ora; ai quattro punti cardinali si associa il centro dell'universo, che è il luogo in cui noi ci troviamo. Se non esiste un Dio che crei il mondo, si può dire che ogni elemento sia il creatore degli altri e del loro relativo equilibrio. Le due supreme forze che si contrappongono dialetticamente nel Tao, lo Yang maschile e affermativo, lo Yin femminile e negativo, riassumono e garantiscono il delicato sistema di pesi, contrappesi, sostegni, paralleli e divergenze.
Il numero 5 regge, insieme con l'intero universo, il sistema musicale. Il sinologo Jean-Joseph-Marie Amiot (1718-1793) identificò il suono fondamentale teorizzato nel libro Yo-ki (composto all'epoca dell'imperatoreWu-Li, 147-87 a.C.), ossia il huang-chong o "suono regio", con il FA della musica occidentale. Secondo la consueta connessione tra musica e realtà mondana, il FA è detto kong (= palazzo imperiale, stirpe imperiale). Con quattro progressioni di quinte a partire dal FA, si ottengono DO, SOL, RE, LA. Questi cinque suoni, posti in ordine scalare, danno la prima gamma pentafonica: FA (kong, palazzo), connesso con il momento presente, con il centro dei punti cardinali, con la terra, con il colore giallo, con lo zucchero, con il cuore, con il rango di principe, con il serpente; SOL (shang, deliberazione), connesso con l'autunno, con l'ovest, con il metallo, con il bianco, con il sapore piccante, con il fegato, con il rango di ministro, con la tigre; LA (kiao, corno e materiale lavorabile in genere), connesso con la primavera, con l'est, con il legno, con il colore azzurro, con il sapore acido, con la milza, con il popolo degli artigiani, con il drago; DO (chi, manifestazione pubblica), connesso con l'estate, con il sud, con il fuoco, con il rosso, con l'amaro, con il polmone, con i servizi pubblici, con il falco; RE (yu, le ali), connesso con l'inverno, con il nord, con l'acqua, con il nero, con il salato, con i reni, con i prodotti commerciabili, con la tartaruga. Una scala pentafonica può essere costruita su ciascun grado della scala basata sul kong, e si ottengono così cinque "modi", in ciascuno dei quali, naturalmente, gli intervalli si trovano in collocazione diversa: i cinque modi hanno i nomi delle note di partenza, kong, shang, kiao, chi, yu. Ogni musico, strumentista o inventore di melodie, si trova, all'interno dì questo sistema, in una condizione diametralmente opposta a quella del musico di tradizione islamica: egli si assume l'intera responsabilità della sua azione, e modifica ogni volta, cantando, suonando o inventando nuove musiche, l'ordine dell'universo. E' l'assoluto protagonista, e la sua iniziativa musicale è, in quel momento, il centro di tutta la musica terrena, così come i suoi piedi poggiano sul culmine del cosmo.
Quirino Principe
("Musica Viva", n. 4, Aprile 1990, Anno XIV)