Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, dicembre 30, 2011

Bach: un piccolo libro d'organo per la gloria di Dio...

"Il 6 novembre, Bach, fino ad allora maestro di concerto e organista a corte, è stato, a causa della sua testardaggine e del congedo che sollecita con ostinazione, arrestato nella sala di giustizia; il 2 dicembre, il suo congedo gli è stato infine concesso ed è stato liberato dagli arresti”.

E’ in questo modo che gli archivi municipali di Lipsia raccontano questo sorprendente aneddoto della vita di Johann Sebastian Bach. Siamo alla fine dell’anno 1717, esattamente il 2 dicembre. Bach ha appena finito di passare quattro settimane agli arresti. Il suo signore, il duca di Weimar, non aveva sopportato che il suo brillante musicista avesse potuto immaginare di abbandonare il suo servizio e, per farlo riflettere, l’aveva messo in prigione!
Sarà dunque durante questo periodo che Bach dedicherà il suo tempo a questo “piccolo libro d’organo, nel quale l’organista principiante è iniziato ad eseguire in ogni modo un corale, oltre che a perfezionarsi nello studio del pedale….”
Tutto Bach è in questo progetto che, a dire il vero, rimane incompiuto. Incompiuto perché il manoscritto contiene lo spazio (ed i titoli) deli centosessantaquattro corali disposti nell'ordine dell’anno liturgico, come erano nella pratica religiosa della Turingia. Solo quarantacinque corali saranno scritti. Pedagogico? Evidentemente, il titolo lo indica chiaramente. A chi pensava, lui che si trovava lontano dalla famiglia? Senza dubbio ai suoi figli Wilhelm Friedman e Carl Philip Emanuel, ma quest’ultimi erano ancora troppo piccoli per arrivare con i piedi ai pedali dell’organo… Rigoroso. Certo, ogni corale è scritto a quattro voci, ogni corale
contiene una sola volta la citazione del “cantus firmus”. Il piccolo libro prevede di contenere tutti i corali necessari all’anno liturgico.
E perchè questo lavoro rimane incompiuto? Vedremo in seguito la cura con la quale Bach metterà il punto finale a diverse raccolte, quella del Clavierübng, quella delle Suites, delle Partite, delle Sonate. Qui tutto si ferma, lasciando il piccolo libro nel suo stato imperfetto. Aveva la sensazione di aver detto tutto? Impossibile. Bach non ha mai detto tutto, non cessa mai di stupirci, di emozionarci. Le ragioni sono forse più semplici. Lasciava il servizio del dica di Weimar nell’idea di diventare musicista di corte a Coethen. Mette a semplicemente a profitto questo periodo d’isolamento per immergersi dentro una riflessione profonda su quei testi e quei corali che sono la base del suo nutrimento spirituale. Sa bene che a Coethen, al prezzo di una situazione che spera economicamente più confortante, non avrà più nessuna responsabilità nell'ambiente della musica religiosa, poiché il suo signore è calvinista. Se a Weimar la sua produzione organistica è principalmente quella dei grandi brani virtuosi eredi dello “stylus fantasticus” imparato da Buxtehude a Lubecca, è adesso con questo rigore, con questa intimità, che mette il punto finale al suo lavoro di musicista di chiesa, almeno per il momento. E curiosamente, quando diventa Kantor della chiesa di San Tommaso a Lipsia nel 1723, non si interessa più a questa raccolta.
Mai le melodie di un corale sono state trattate con tanta sensibilità. Ogni melodia è situata in uno scrigno unico, sempre nuovo, sempre immaginativo. Non vi è ombra di dubbio che se avesse continuato, Bach avrebbe trovato la soluzione per variare le 119 altre possibilità offerte dagli altri corali previsti. La melodia del corale è presente in ogni brano, passeggia di voce in voce, è lì, a volte semplicissima, a volte ornamentata con quel significato così importante che Bach accorda ai suoi abbellimenti, che non sono mai aggiunti al discorso musicale, ma sempre ben integrati.
Quando poco tempo dopo scriverà per il suo primogenito Wilhelm Friedman un “piccolo libro per tastiera”, il primo brano non ha forse ha uno scopo pedagogico di sviluppare nelle dita (e nella testa) dell’allievo l’importanza di questi ornamenti che costituiscono l’essenza stessa del discorso?
Ed è senza dubbio nell’Orgelbüchlein, che colpisce di più. Certo l’arte del contrappunto è rigorosa, perfetta, esemplare. Certo le figure retoriche e le allusioni quasi descrittive sono evidenti come le imponenti settime discendenti del pedale che evocano con tanta forza la “Caduta d’Adamo”…
Ma ciò che tocca più profondamente l’anima e il cuore sono quei corali dove tutto sembra fermarsi all’improvviso per lasciare spazio a questa nostalgia, a questo canto sublime che solo Bach ha potuto trovare per far parlare il cuore del credente. Ich ruf zu dir, O Mensch bewein dein Sünde groß , Wenn wir in höchsten Nöten sein, quei corali dove il credente si ritrova solo nel punto della vita dove solo Dio gli può portare conforto, consolazione, compassione…
E infine, Das Alte Jahr vergangen ist: non si è mai vista espressione più esatta per evocare il sentimento indicibile proprio di quello strano momento dell’anno nuovo, questo passaggio che porta sempre con sé la sensazione di lasciare dietro di sé un passato pieno di ricordi tristi e felici, un passato irrimediabilmente perduto. Là dove altri si accontenterebbero di cantare superficialmente lo spirito del futuro, Bach si lascia andare a questo sogno sublime sul tempo passato.

Jerôme Lejeune (traduzione di Andrea De Carlo)

sabato, dicembre 24, 2011

Yes: "Close To The Edge"

Essendo la quintessenza di gruppo “virtuoso”, composto di abilissimi arrangiatori ed esecutori capaci di creare partiture di intricata genìe ed impeccabile riuscita, la recensione di un disco degli Yes, da parte di un loro fan e tale io sono, tende a virare sempre e comunque all’aspetto tecnico della loro musica, accusata dai detrattori di costituire mero esercizio formale, vuoto di contenuti. Effettivamente le opere minori della loro vastissima discografia hanno questo difetto, non è certo il caso però di “Close To The Edge”, quinto album da essi prodotto e considerato loro capolavoro. Fulcro centrale del meccanismo Yes è la collaborazione fra il cantante e compositore principale Jon Anderson ed il bassista Chris Squire. Anderson è insolita figura di leader, assai carente in quanto a presenza scenica (sul palco se ne sta, piccoletto e all’apparenza timido, attaccato al microfono al massimo agitando un tamburello o strimpellando talvolta un’acustica) tiene però un’incredibile voce, altissima e melodiosa ma al contempo forte e salda, intonata da paura, inevitabilmente dominante sopra gli strumenti anche nelle fasi più concitate e nei pieni orchestrali più stratificati. Il basso di Squire ha un impatto nella struttura dei brani di inusuale rilievo. Appresa in gioventù la lezione dei primi grandi bassisti melodici del rock (Paul McCartney, John Entwhistle degli Who… inquadrabili come musicisti per così dire “fuori ruolo”, con un approccio chitarristico al loro strumento nel senso di sostanzialmente melodico ed armonico più che ritmico) Squire ha sviluppato uno stile superlativo spettacolare e penetrante, messo in primissimo piano dal timbro secco e brillante del suo Rickenbacker e da un sempre generoso missaggio, sì da farne il vero motore ritmico/armonico della musica Yes. In modo tale che il chitarrista Steve Howe, virtuosissimo autodidatta con una spaventevole preparazione e sensibilità al tocco classico ed al contrappunto, svincolato da grossi obblighi ritmici può svariare alla grande in tutta una serie di abbellimenti, bordature, armonizzazioni da manuale. Un vero professore con laurea honoris causa, con un approccio “progressivo” alla chitarra elettrica nel quale il rock è soltanto uno degli elementi e neanche il principale. Jazz, folk e classica si mescolano nei suoi interventi rendendo a sua volta peculiare e riconoscibilissima la musica sua e del gruppo.In questo disco il tastierista è Rick Wakeman: studi classici ortodossi per lui, risultanti in una destrezza tecnica a livello di grande concertista, da subito convogliata nel più remunerativo e frizzante mondo del rock. La sua mano destra sui tasti bianchi e neri, che siano di sintetizzatori, organi o pianoforti, è di proverbiale agilità e sensibilità. Non altrettanto la sua vena compositiva, Wakeman negli Yes è solo arrangiatore e sommo esecutore, ciliegina sulla sostanziosa torta preparata dai colleghi. Alla batteria in questo disco siede ancora Bill Bruford, al tempo elevato a sua volta al rango di fenomeno. Non lo è, ma ”Close To The Edge” è l’opera ideale per apprezzarlo nella fase migliore della sua carriera, appesantitasi nel corso degli anni con un’involuzione di stile e di scelta di suoni. Qui il giovane Bruford appare ancora essenziale e creativo in sommo grado (ti aspetti un colpo di cassa e lui invece usa il rullante, e viceversa…veramente imprevedibile il suo accompagnamento per lunghi tratti). La suite che dà il titolo ed apre l’album si dipana per diciotto minuti in quattro diversi movimenti. Compatta e varia, brillante ed intricata, prima convulsa poi eterea infine gloriosa, è un classico del progressive di intensa musicalità, le partiture dei cinque musicisti hanno percorsi spesso asincroni per poi confluire magicamente in stacchi e cambi d’atmosfera. La scansione ritmica e quella vocale divergono spesso e volentieri, richiedendo consumata abilità a chi, come Squire e Howe, è impegnato sia strumentalmente che vocalmente (mi riferisco chiaramente alla sua esecuzione in concerto). “And You And I” è altra abbondante composizione, più lineare e definibile nelle sue parti: esordisce con un introduzione di Howe alla 12 corde acustica, sulla quale Wakeman si inventa deliziosi svolazzi di Minimoog (il glorioso, insuperato sintetizzatore monofonico solista) mentre Anderson declama asciuttamente le strofe. Tutto cambia al momento del ritornello, perché parte un’inaudita, veramente stentorea fanfara di moog + chitarra lap steel all’unisono, con tonnellate d’eco e su un tappeto fosforescente di mellotron ed organo. Una atmosfera massimamente sonora ed eroica, un vero trionfo all’estinguersi del quale riprende serafica la 12 corde stavolta più briosa per un altro giro strofe + fanfara stellare e conclusione finale oltrepassato il decimo minuto di durata. Gran pezzo, seppur magniloquente, indimenticabile. A chiudere l’album la cavalcata di “Siberian Kathru”, inaugurata da un riff piuttosto obliquo dell’elettrica di Howe sul quale si innesta un cantato ancora più obliquo che poi si estende in una jam strumentale, con le tipiche stratificazioni ritmiche notevoli stavolta non particolarmente eclatanti. Splendida la copertina dell’artista Roger Dean, un disegnatore molto astrale ed immaginifico: elegante ed essenziale all’esterno con il sinuoso logo Yes che qui fa la sua prima apparizione, fantasiosa all’interno con un paesaggio asteroidale ed acquatico in irrealistico equilibrio.

Pier Paolo Farina

sabato, dicembre 17, 2011

Gesualdo: il "Terzo Libro de' Madrigali" (1594)

Il Terzo Libro de’ Madrigali di Carlo Gesualdo “Prencipe di Venosa” venne pubblicato dall’editore ferrarese Vittorio Baldini, nel 1595, nello stesso anno e nella stessa tipografia del Primo e del Secondo Libro. La pubblicazione è curata da Ettore Gesualdo in quanto (già lo sappiamo dalle precedenti pubblicazioni) non era adeguato che un nobile si occupasse materialmente della pubblicazione di musica: secondo la concezione dell’epoca, infatti, altri impegni sociali e mondani dovevano occupare la vita di un aristocratico dell’alta società rinascimentale. Gesualdo era prima di tutto un principe, quindi nobile, ricco e potente grazie all’antica casata di cui era l’ultimo discendente e grazie ai grandi territori e castelli di famiglia che aveva ereditato nel sud Italia, vicino a Napoli. Con uno stratagemma, l’omonimo Ettore (del quale, purtroppo, non abbiamo alcuna notizia biografica) curerà sia questo che il Quarto libro assicurando di avere la stessa cura del suo predecessore Stella in questo nuovo “grandissimo saggio d’artificio et leggiadria…imitazione et osservanza di parole”. Se il Secondo Libro proseguiva il lavoro di ricerca musicale del Primo, questo Terzo Libro, segna sicuramente una svolta nel linguaggio di Gesualdo: accesi contrasti, dissonanze sempre più innovative e non regolate dalle convenzioni compositive di quel periodo storico, espressioni che accostano elementi e immagini fra loro inconciliabili, Gesualdo ricerca quella plausibile energia della parola poetica a divenire “evento sonoro”. In questo tipo di sperimentazione, Gesualdo non pretende la notorietà del poeta o la cura estetica del testo: egli cerca nella poesia quell’efficienza e quel vigore che la parola può offrire perchè divenga immagine, avvenimento, situazione acustica da apprezzare attraverso l’ascolto. Come un’opera pittorica si comprende e si ammira nel profondo attraverso l’osservazione per lungo tempo, così sempre più i suoi madrigali divengono tele musicali da comprendere solo con un ascolto che supera il primo impatto superficiale: già all’epoca i suoi madrigali furono studiati sulla notazione musicale scritta. Non è casuale che nel 1613 un’edizione completa dei suoi madrigali fu pubblicata “in partitura” perchè possa essere letta e studiata. Questo tipo di edizione è estremamente raro all’epoca (la “Rappresentazione di anima et di corpo” di Emilio de’ Cavalieri fu un altra eccezione), in quanto si preferiva stampare piccoli libri per ogni voce, che erano molto più economici, agili, pratici per l’esecuzione e molto più semplici dal punto di vista editoriale. Probabilmente edizione “in partitura” si rese anche necessaria per porre termine alle varie discussioni interpretative su molte delle note alterate che costituiscono i cromatismi tipici del linguaggio del principe.
Rimirando approfonditamente e reiterando l’ascolto di queste tele musicali, potremmo finalmente apprezzare tutto l’infinito mondo di soluzioni sorprendenti verso le quali il compositore si protende e si immerge da questo momento in poi: in quel momento storico, nessun musicista poteva avviare una ricerca musicale che non considerasse quel tipo di successo effimero che sgorga da una superficiale bellezza edonistica delle proprie opere. Stipendiato alla corte di un nobile mecenate o responsabile d’una istituzione religiosa, i compositori dovevano misurarsi in ogni momento con l’effettivo gradimento delle loro composizioni da parte dei committenti o dei fruitori del loro prodotto artistico. Gesualdo, principe potente e ricco, viceversa poteva permettersi di evitare un riscontro di pubblico, dimenticandosi della propria “sopravvivenza materiale” (e di conseguenza anche di quel rendimento in moneta e in notorietà che le opere “di successo” potevano offrire), concentrandosi viceversa sulla maturazione musicale e sulla sperimentazione di linguaggio. Forse per la prima volta nella storia della musica, egli poteva permettersi di svolgere una vera e pura “ricerca” finalizzata solo a se stessa.
In quest’ottica di assoluta autonomia artistica, anche i testi non venivano proposti o imposti dal mecenate, ma scelti accuratamente da Gesualdo stesso per la loro efficacia di infondere nella musica nuove sensazioni sonore: egli spesso commissiona dei madrigali a poeti e letterati (nessun musicista se lo poteva permettere), chiedendo loro delle immagini e delle parole che potessero mettere in mostra tutta la sperimentazione che solo lui era in grado di svolgere, libero da ogni tipo di vincolo materiale. Vediamo, ad esempio, il rapporto unidirezionale fra Gesualdo e Torquato Tasso: il sommo poeta inviava costantemente (e umilmente) i propri lavori, ma questi non erano assolutamente apprezzati dal principe che preferisce testi più anonimi (e di poeti meno blasonati) ma più soddisfacentemente efficaci a sublimare e le sue idee. Il 19 novembre 1592 il sommo Tasso scriveva: “le mando ancora dieci madrigali (…) per compiacere Vostra Eccellenza, mi sforzerò di trasmutarmi in nuove forme”. Altri madrigali furono inviati in seguito dopo un gelido silenzio, ma non ricevendo risposta il 10 dicembre con coraggio scriveva ancora “le mando altri dieci madrigali (…) in tutto deono esser stati sino a questa ora più di quaranta”. Non ricevendo ancora riscontro, il 16 dicembre si scusava con il principe perchè “l’esperienza mi ha fatto vergognare di me stesso e del mio ingegno (…) ma Vostra Eccellenza non può dubitare ch’io non l’onori ed ami quanto si conviene a l’alta sua fortuna e a la mia depressa condizione, bench’io non abbia saputo soddisfarla ne componimenti dei cinque madrigali che io le mando”. Neanche uno di ben quarantacinque documentati madrigali commissionati (e probabilmente pagati) al Tasso furono mai utilizzati da Gesualdo che dal Terzo Libro si avvale sempre più opere di letterati a noi sconosciuti ma che appagano il suo crescente desiderio di nuova creatività.
Tranne il madrigale d’apertura di Giovanni Battista Guarini (“Voi volete ch’io mora”), il Terzo Libro non si avvale di poeti noti ma piuttosto di testi anonimi in cui parole, immagini e situazioni possano mettere in luce la capacità del musicista ad offrire atmosfere ricche di pathos. Accesi contrasti, espressioni che accostano elementi e immagini fra loro razionalmente inconciliabili, Gesualdo si compiace di trasfigurare musicalmente dei madrigali che siano efficaci a divenire “eventi sonori”.
Nella seconda parte del libro l’atmosfera diventa poi particolarmente cupa e violenta segnando il passaggio alla successiva poetica: il madrigale “Non t’amo, o voce ingrata” segna questo passaggio. Da questo momento la parola “morte” e tutti i suoi sinonimi saranno quasi onnipresenti nei testi musicali, a segnalare una ferita sanguinante nel proprio cuore. Il tradimento dell’amata moglie, consumato in casa propria, e il terribile e violento epilogo a cui fu indotto, segnò sicuramente un punto fermo nella sua produzione creativa e nella assidua ricerca di testi che mostrassero a tutti quelle immagini. Probabilmente anche il ruolo di violento uxoricida vendicativo, che è costretto ad indossare, lo porta ad indagare una realtà musicale rabbiosa, irascibile, furiosa e turbinosa. Oramai era noto in tutto il mondo per quest’episodio violento: ora la sua musica, quella che da sempre lo aveva reso un uomo affascinante e felice allo stesso tempo, dovrà mostrare e narrare questi suoi stati d’animo, questa sua reale sofferenza, questi sentimenti repressi che erano esplosi in quell’episodio estremo. La musica di Gesualdo da questo momento in poi deve far riflettere il pubblico sulla sua sorte d’essere umano sofferente e tradito: a quest’uomo non resta altra amara sorte che ritirarsi nella musica, tentando di riscattare con questi affreschi sonori quella triste vicenda a cui era stato involontariamente sottoposto. Visto che tutti vedevano in lui solo l’effigie di violento assassino, la sua musica doveva mostrare il perchè di quel gesto estremo, il perchè pur amando la propria moglie fin da bambino, è costretto dalla società a pugnalare quell’amore. Vedremo nelle note del Quarto Libro che nonostante il processo per l’assassinio della moglie e del suo amante scagionava totalmente Gesualdo da Venosa in quanto “delitto d’onore” (giustificato pienamente dalla collettività e dalla giustizia dell’epoca), la società prenderà in seguito posizioni molto contrastanti riguardo questa vicenda. Molti infatti schiereranno a favore dell’amore di Maria d’Avalos con Fabrizio Carafa, valorizzando non l’onore come valore morale, ma il potere dell’amore che vince ogni consuetudine sociale fino alla conseguenza estrema di morire per esso.
Per tutta la vita Gesualdo deve difendersi: lo farà con la sua arte, con queste tele sonore. Il testo del madrigale “Dolcissimo sospiro” offre parole esplicite di quanto vissuto:
Deh, vieni a raddolcire
l’amaro mio dolore:
ecco ch’io t’apro il core.
Ma, folle, a chi ridico il mio martire?
Ad un sospir errante
che forse vola in seno ad altro amante?
Così anche il madrigale anonimo “Non t’amo” descrive l’insopportabile risposta dell’amata che categoricamente rifiuta l’amore tanto faticosamente cercato e trovato:
“Non t’amo”, o voce ingrata,
la mia donna mi disse;
e con pungente strale
di duol e di martir, l’alma trafisse.
Grazie al lavoro di Elio Durante e Anna Martellotti (1987) possiamo attribuire questo testo a Ridolfo Arlotti, segretario del cardinale Alessandro d’Este e cognato di Gesualdo che probabilmente fu l’artefice di alcuni “rimaneggiamenti” nello stile del Principe di alcuni testi anonimi molto più vecchi, come ad esempio “Se vi miro pietosa” e il madrigale più famoso di questo libro: “Ancidetemi pur, grievi martiri”.
Come era avvenuto nel Secondo Libro per il madrigale scritto da Alfonso d’Avalos “Sento che nel partire” anche in questo Libro noi troviamo un omaggio del Principe al celebre Jacques Arcadelt: infatti come “Sento che nel partire” anche “Ancidetemi pur” (nel 1539) era stato usato dal musicista fiammingo (che evidentemente Gesualdo ammirava). Il testo doveva essere adeguato in modo tale che potessero emergere l’inedita e personale poetica. Interessante confrontare i due testi, come affascinante confrontare le due realizzazioni musicali. Ecco l’originale usato da Arcadelt:
Ancidetemi pur, grievi martiri
ch’l viver m’è sì a noia
che’l morir mi fia gioia,
ma lassat’ir gli estremi miei sospiri
a trovar quella ch’è cagion ch’io muoia
e dir’a l’empia fera
ch’onor non gli è che per amarl’io pera.
Cinquant’anni separano questi due madrigali ma, nonostante le assonanze, la modernizzazione della poetica operata da Arlotti evidenzia lo stesso mutamento che Gesualdo opererà come trasfigurazione musicale: non più la statica perfezione armonica e contrappuntistica di Arcadelt, ma una tela sonora colma di chiaroscuri, contrasti, contrapposizioni, contraddizioni musicali che esplicano gli ossimori poetici evidenziati in madrigalismi che coinvolgono tessiture e armonie: “gli estremi miei sospiri” divengono estensioni estreme, dissonanze, cambi repentini di modi e quindi di atmosfere sonore.
Non possiamo infine tralasciare di citare l’intima espressività di “Se piange, oimè, la donna del mio core”. Gesualdo non dovrà subire una condanna in tribunale per quel gesto estremo che gli segnò la vita, ma dovrà difendersi da quanti ritennero l’amore un valore superiore ad ogni legge e convenzione sociale: egli si difese con l’arte della musica, con una vita dedicata a rivalutare la propria immagine consumata ogni giorno dal rimorso di avere ucciso l’unico sogno in cui credeva.
Con quel gesto feroce Gesualdo riceverà dalla società un ruolo che dovrà subìre pesantemente fino alla fine della vita: i suoi madrigali e la loro estrema realizzazione sonora fisseranno quel personaggio secondo il personale punto di vista. La sua musica sarà l’unica colonna sonora possibile.
Marco Longhini

sabato, dicembre 10, 2011

Quartetto Prometeo: miti contemporanei

Uno sguardo alla classicità e uno al nostro tempo, la formazione cameristica nata alla Scuola di Fiesole si va affermando come una delle più interessanti della sua generazione.

Diciott'anni di carriera, di concerti, di incisioni e di prime esecuzioni assolute. Il Quartetto Prometeo è, a distanza di due mesi dal Trio Johannes (vedi Amadeus n. 260, luglio 2011), il secondo ensemble italiano che festeggia la maggiore età nel 2011 con un cd allegato ad Amadeus. Il Prometeo però ha cambiato alcuni dei componenti - tutti nati nei primi anni Settanta - nel corso della sua carriera. Aldo Campagnari (secondo violino) e Francesco Dillon (violoncello), i membri fondatori rimasti nella formazione, hanno «voluto e cercato» gli altri due musicisti che ora sono parte stabile del quartetto: Giulio Rovighi (primo violino) da tre anni, Massimo Piva (viola), il più giovane, da un anno soltanto.
Il Prometeo ha vinto numerosi concorsi internazionali, tra cui la grande affermazione alla 50° edizione del Prague Spring International Music Competition nel 1998, in cui hanno ricevuto anche il Premio Speciale Bärenreiter per la migliore esecuzione fedele al testo originale del
Quartetto K 590 di Mozart, il Premio Città di Praga come migliore quartetto e il Premio Pro Harmonia Mundi. La sua storia nasce cinque anni prima alla Scuola di Musica di Fiesole, dove Campagnari e Dillon erano prime parti dell'Orchestra Giovanile Italiana, sotto gli auspici dello
storico violista del Quartetto Italiano Piero Farulli. Agli inizi del percorso, però, Prometeo era ancora lontano. «Il nostro primo nome», ricorda Dillon, «ci è stato proposto da Farulli, ed era Quartetto dell'Orchestra Giovanile Italiana 1993. Poi per fortuna quel nome chilometrico
venne abbreviato in Quartetto Ogi».

E dunque quando è "nato" Prometeo?
Dillon. «Dopo qualche anno, quando non eravamo più giovanissimi e abbiamo cercato un nome per percorrere una strada più indipendente. Dopo una lunga riflessione abbiamo scelto Prometeo, sia come riferimento all'opera omonima di Luigi Nono, e quindi alla contemporaneità,
sia come legame con la classicità».
La vostra identità si è modificata quando è cambiata la formazione originaria?
Dillon. «lo e Aldo non vediamo un cambiamento radicale quanto un'evoluzione. Lo stile del nostro quartetto resta e la componente individuale viene integrata nella "visione Prometeo". Suonare insieme in quartetto è molto delicato e bisogna scegliersi per affinità musicale. Non ci siamo mai scelti in base alla comodità geografica, anche se sarebbe molto più comodo: io sono di Firenze, Aldo di Trento, Giulio di Roma e Massimo di Rovigo, quindi siamo sempre in viaggio».
Quali sono le caratteristiche del Quartetto Prometeo come insieme e quali invece gli apporti dei singoli elementi?
Rovighi. «Il tratto distintivo è che non c'è un leader. Da noi le decisioni vengono equamente divise e ognuno porta lo stesso tipo di apporto e contributo. Certo, ci vogliono più tempo e più prove, ma sicuramente c'è abbondanza di idee».
Dillon. «Per quanto riguarda le peculiarità individuali, le abbiamo individuate nelle biografie in chiave scherzosa disponibili sul nostro sito internet (www.quartettoprometeo. com): Giulio è il più attento alla qualità del suono, Aldo il maniaco del ritmo, il "metronomo", Massimo il più rigoroso nella ricerca del fraseggio e della metrica, mentre io sono il fantasista che propone brani stravaganti».
Visitando il vostro sito internet e la vostra pagina Facebook si nota un approccio divertente e fresco alla comunicazione. Lo mantenete anche quando affrontate una partitura?
Campagnari. «Alle prove quasi mai, mentre durante i concerti ci sentiamo un po' píù liberi di divertirci con il pubblico».
Dillon. «Ogni tanto però giochiamo anche con il repertorio. Quest'anno abbiamo inciso un disco di trascrizioni di Stefano Scodanibbio e da cose molto serie, come tre contrappunti dell'Arte della Fuga di Bach, siamo arrivati ad altre più leggere come 5 canzoni messicane che suoniamo come bis».
Qual è il vostro rapporto con la musica contemporanea? Ci sono dei compositori con cui avete un rapporto speciale e privilegiato?
Dillon. «L'idea è quella di mettere in dialogo musiche di varie epoche: accostiamo György Kurtág ad Alban Berg e Schumann, o Sciarrino a Debussy e Brahms, e cerchiamo di spiegare in sede di concerto come il compositore del Novecento segua idealmente la scia tracciata dagli altri due. Abbiamo poi lavorato molto con Salvatore Sciarrino, che ha trascritto per noi le Sonate di Scarlatti e ci ha dedicato il Quartetto n. 8, e con Stefano Gervasoni.
Rovighi. «Collaboriamo anche con Ivan Fedele, che ha molto apprezzato la nostra interpretazione di Der Tod und das Mädchen di Schubert, nel quale lo studio della musica contemporanea ci ha permesso di ampliare moltissimo la gamma delle sonorità».
Piva. «Io stesso compongo: la mia opera più complessa è proprio un quartetto per archi e la mia aspirazione sarebbe quella di eseguirlo con loro».
Nella lista delle vostre influenze musicali, pubblicata sulla vostra pagina Facebook, Robert Schumann spicca perché è il primo nome. E' una casualità o effettivamente lo considerate un punto di riferimento assoluto?
Campagnari. «Non è casuale. Il suo Quartetto n. 1 è il primo pezzo che abbiamo studiato insieme, quindi si può dire che Schumann sia sempre stato un filo conduttore della nostra attività».
Schumann non si è dedicato molto al quartetto d'archi. Ne ha realizzati solo tre, scritti nell'arco di due mesi nel 1842. Quali sono le loro caratteristiche?
Rovighi. «Il primo quartetto è il più facile da ascoltare, il più limpido e il più classico come scrittura. Il secondo rappresenta di più il lato inquieto, scritto con soluzioni più audaci e complesse. Il terzo è il più elaborato e consapevole».
Dillon. «Sono stati composti in un periodo felice della vita di Schumann, sposato da poco: all'inizio del Quartetto n. 3 c'è una quinta discendente che è un motto sulla parola "Clara", quasi un messaggio cifrato, come del resto ha fatto in tutta la sua opera».
Come mai faticano a rientrare nel grande repertorio?
Campagnari. «Forse si pensa che sia musica a cui manca oggettività, e invece ha contenuti poetici meravigliosi che vanno sottolineati nell'interpretazione. Altrimenti si rischia di perderne le sfumature, che sono la cosa più bella».
Dillon. «Alcuni movimenti sono molto complicati da risolvere dal punto di vista tecnico, soprattutto nell'applicazione del rubato tipico del pianista che esegue Schumann. La sfida, se ci si vuole cimentare con questi tre quartetti, è ottenerlo pur suonando in quattro».
Rovighi. «Anche la loro scrittura è molto pianistica, e tradurla con uno strumento ad arco non è per niente semplice».
Che scelte interpretative avete operato?
Rovighi. «Essere più liberi possibile e superare il limite della scrittura quartettistica rendendola quasi individuale. Abbiamo anche cercato di seguire i metronomi originali con tempi molto rapidi».
Dillon. «In molti casi quelle indicazioni sono una spinta a estremizzare i caratteri, e noi abbiamo cercato di seguirne lo slancio».
Quali sono i vostri progetti futuri?
Campagnari. «Abbiamo in uscita l'integrale per quartetto d'archi di Salvatore Sciarrino e stiamo completando la registrazione di due cd-dvd: il primo conterrà Der Tod una das Mädchen di Schubert e l'op. 95 di Beethoven, il secondo musiche da camera di Ivan Fedele, tra cui un pezzo scritto per noi che prevede la partecipazione del soprano Valentina Coladonato».
Rovighi. «A settembre registreremo anche l'integrale per quartetto d'archi di Hugo Wolf, che comprende il Quartetto, l'Intermezzo e la Serenata italiana».
Dillon. «Per quanto riguarda i concerti, oltre alle date in Italia abbiamo nei prossimi mesi due tournée in Olanda, e Argentina».

di Claudia Abbiati (Amadeus, n.262, settembre 2011)

sabato, dicembre 03, 2011

Gesualdo: il "Secondo Libro de' Madrigali" (1594)

Il Secondo Libro de’ Madrigali di Carlo Gesualdo “Prencipe di Venosa” venne pubblicato dall’editore ferrarese Vittorio Baldini, nel 1594, nello stesso anno e nella stessa tipografia de Il Primo Libro de’ Madrigali. Entrambe le pubblicazioni sono curate dal musicista Scipione Stella che, nella dedica introduttiva di questo secondo lavoro, si scusa con il Principe per aver avuto “l’ardire di raccogliere, e dare alla stampa questi Madrigali (precioso saggio, e parto dell’Eccell. Sua) senza domandargliene licentia”. Sappiamo quanto non fosse conveniente che un nobile si occupasse della pubblicazione di libri o di musica (ben altri impegni dovevano riempire la vita di un principe in quella che era l’alta società rinascimentale); quindi, Gesualdo si rivolge a Stella perchè le proprie opere potessero essere pubblicate senza essere biasimato. Curiosamente, questo raffinato stratagemma barocco s’inceppa nelle date: la dedica di questo Secondo Libro (10 maggio 1594) precede di poco meno di un mese la data di pubblicazione del Primo Libro (2 giugno 1594) confermando l’ipotesi che questi Madrigali del 1594 vengono dunque distribuiti all’interno dei due libri senza un effettivo ordine cronologico di composizione. In queste due stampe, le composizioni musicali sono scelte e saldate insieme in occasione del viaggio a Ferrara: qui Gesualdo pochi mesi prima, il 21 febbraio 1594, aveva sposato Eleonora d’Este figlia di Alfonso d’Este (marchese di Montecchio e figlio illegittimo del Duca Alfonso I, duca di Ferrara). Abbiamo già esaminato nella precedente nostra pubblicazione (Naxos 8.570548) questo suntuoso avvenimento mondano, il mondo Estense e la prima pubblicazione dei Madrigali: ricordiamo solo la testimonianza del cronista Fontanelli (inviato da Alfonso II d’Este per avere maggiori notizie del suo futuro parente) che ci informa che il Principe raggiunge Ferrara portando “seco due mute di libri a cinque, tutte opere sue”, probabilmente proprio questi due Libri del 1594.
Ascoltando questi venti Madrigali del Secondo Libro, notiamo la prosecuzione di un lavoro già maturamente avviato, l’approfondimento di temi cari al nostro musicista, la fluida capacità di trattare la parola poetica quale fonte di gemmazione musicale e la geniale inquietudine musicale: quasi fosse una seconda parte di una stessa opera, questo Secondo Libro prosegue anzichè rivoluzionare, conferma più che deviare. Bisognerà attendere il Terzo Libro, 1595, e il Quarto, 1596 (Naxos 8.572137) (sempre pubblicati a Ferrara da Baldini) perchè l’autore si rimetta in discussione e frantumi il prezioso mondo musicale che ascoltiamo in questo Libro e nel precedente. La stupenda concezione manieristica di poetica inquieta, questo “instabile equilibrio” (usando un ossimoro che sarebbe piaciuto al nostro musicista) ancora poco intaccato dalle successive ricerche estreme e ancora congiunto alle strutture razionali della tradizione polifonica, verrà in ultimo sovvertito nei Madrigali contenuti nel Quinto e Sesto Libro (1611) per costruire qualcosa di nuovo, qualcosa di assolutamente inedito. Per ora, con grande orgoglio, il “Prencipe” si accontenta di mostrarsi quale abile compositore, desiderando presentarsi con una certa originalità linguistica, certo che il mondo culturale raffinato di Ferrara, la sua sposa e il Duca Alfonso II d’Este, lo possano capire e apprezzare. Il Secondo Libro è dunque un chiaro ossequio alla cultura ferrarese, quella più avanzata e innovativa (legata a compositori come Cipriano de Rore, Jacques de Wert o a Luzzasco Luzzaschi), adatto ad essere fruito e apprezzato dal più raffinato pubblico d’intenditori, in quella corte aristocratica che più d’ogni altra coltivava e apprezzava la musica e il madrigale quale simbolo di sintesi e risultato maturo d’incontro tra le diverse arti rinascimentali. Basta ascoltare due madrigali esemplari di questo Libro per rendersi conto della grande maestria: Hai rotto e sciolto e All’apparir di quelle luci.
I testi contenuti in questa pubblicazione non sono facilmente attribuibili. Pochi madrigali del Secondo Libro sono stati ufficialmente assegnati ai rispettivi autori e, sostanzialmente, i poeti a noi noti sono solo tre: Torquato Tasso, Giovanni Battista Guarini e Alfonso d’Avalos. Su quest’ultimo autore e il suo componimento Sento che nel partire, che troviamo in posizione centrale nel Libro, convergiamo per un istante la nostra attenzione: è un madrigale molto famoso nel Rinascimento (come fu un altro madrigale dello stesso autore: Il bianco e dolce cigno). Venne scritto nel 1547 (quindi quasi cinquant’anni prima del Libro di Gesualdo) e musicato da Cipriano de Rore nel suo Primo Libro a quattro voci edito a Ferrara nel 1550; vista la popolarità raggiunta in tutta Europa fu citato come brano “da variare” in molte messe-parodia di autori come Jacquet de Mantua, Philippe de Monte e Orlando di Lasso. Il testo originariamente scritto da Alfonso è diverso:
Anchor che col partire
io mi senta morire,
partir vorrei ogn’or ogni momento
tant’è ‘l piacer ch’io sento
de la vita ch’acquisto nel ritorno.
Et così mill’e mille volt’il giorno
partir da voi vorrei
tanto son dolci gli ritorni miei.
Molte le versioni scherzose a cominciare da una Giustiniana di Andrea Gabrieli del 1570, fino alla più famosa e divertente parodia contenuta nel Libro L’Amphiparnaso, Comedia Harmonica di Orazio Vecchi, edita nel 1597, e nella variazione di Adriano Banchieri, Il Studio Dilettevole, 1600 (da noi recentemente registrato e pubblicato), nel quale si inscena una serenata della maschera carnascialesca bolognese del Dottore Graziano che volendo apparire edotto (visto che abita nella città con la più antica università del mondo), sbaglia tutte le citazioni storpiando le parole:
Il vecchio e Pedrolin stanno a sentire
Grazian che vuol cantar alla sua diva
quel madrigal “Ancor che col partire”.
Ancor ch’a parturire
l’huom si senta murire.
Padir vorrei ogn’or un molumento
tant’e’l piacer ch’ a stento
l’acqua vita m’ha pist’e pur ai torno;
e così mille volpe al far del zorno,
padir ancor vorrei,
tanto son dolci i storni ai denti miei.
Nel caso del nostro Secondo Libro, probabilmente è lo stesso Gesualdo a rinnovare un testo ormai considerato “vecchio” o a commissionare (a qualche letterato della sua cerchia culturale) un suo adeguamento in cui potessero emergere, in seguito, le personali ricerche musicali. Se questa scelta testuale potrebbe essere intesa quale tributo alla cultura ferrarese, esistono molti elementi per credere che, viceversa, Gesualdo pensasse a rendere omaggio ad un grande amore. Se noi, infatti, supponiamo che tale madrigale fosse stato precedentemente composto (insieme a tutti i brani contenuti nelle “due mute di libri a cinque”), dobbiamo evidenziare che Alfonso d’Avalos era il padre di Carlo d’Avalos, a sua volta padre della prima sposa di Carlo Gesualdo (nonchè cugina): la famosa Maria d’Avalos.
Gesualdo e Maria d’Avalos, le prime nozze, l’assassinio
Era considerata la più bella donna di Napoli: bionda, occhi azzurri, corpo formoso. Gesualdo, anche se più giovane di lei di sei anni, n’era attratto fin da bambino: ma a diciotto anni lei sposa Federico Carafa, giovane diplomatico di una celeberrima famiglia partenopea, da cui ebbe in seguito due figli. Purtroppo, dopo solo tre anni di matrimonio, il marito muore e poco dopo muore anche il figlio maschio. Due anni più tardi si sposa nuovamente con un ricco ventenne Alfonso Gioieni con il quale vive in Sicilia per sei anni ma, nel 1586, disgraziatamente anche il secondo marito muore. Provata dalla vita, ritorna a Napoli (nel castello Aragonese di famiglia, sull’isola d’Ischia). La giovane età (aveva ventisei anni), la straordinaria bellezza (famosa in tutte le corti europee) e le nobili origini, rendevano Maria d’Avalos una donna affascinante e ancora desiderata. Se non fosse per questi motivi, il suo sfortunato destino le avrebbe riservato una fine ancora più infelice: il convento. Carlo Gesualdo, ventenne, vede in lei la sposa sognata fin da bambino ma, essendo cugini primi (la mamma di Maria, Sveva Gesualdo, era la zia di Carlo), occorreva ottenere la dispensa papale; il papa Sisto V dapprima la nega, poi la concede grazie alla mediazione dei cardinali d’Aragona e Alfonso Gesualdo, vicini al papa. Le nozze furono celebrate a Napoli con estremo lusso. L’unione fra le due famiglie più ricche e importanti di Napoli era avvenuta: questo sanciva un’affermazione di potenza per entrambe i casati. Maria diventava immune ad un destino crudele; Carlo appagato per aver acquisito l’amore tanto desiderato. I due sposi conducevano una vita ricca d’avvenimenti mondani (come feste, caccia, ricevimenti) e culturali (come concerti e serate di poesia): il loro palazzo di Napoli era una fucina di cultura, dove poeti e musicisti erano di casa. La “melanconia” di Carlo (quel tipico stato d’animo dell’epoca che oggi possiamo definire come un misto fra introversione e irrequietezza) era colmata dall’appassionato amore (finalmente si era avverato, dopo tante sofferenze, un sogno a lungo rimasto frustrato) e dalla musica, quella che gli Avalos conoscevano bene (come abbiamo visto dagli interessi e dalle creazioni del nonno di Maria). Se per i nobili dell’epoca scrivere madrigali (sia letterari che musicali) era un piacevole diletto per occupare il tempo, mostrando la propria cultura e sensibilità artistica, “Maria capiva che la musica per Carlo era invece qualcosa di molto diverso: era disciplina, studio, mestiere, passione, rifugio, ragione di vita, qualcosa di totalizzante che impregnava l’intero essere, l’intera essenza di Carlo, rendendolo appunto diverso, bizzarro, affascinante” (Giovanni Iudica: Il principe dei musici, 1993). Purtroppo, questo momento di felicità fu straziato da un altro infausto evento: la figlia di Maria, Beatrice, data in sposa ad uno dei Carafa (come Maria in prime nozze e come la nonna), muore la prima notte in quanto“si ruppe una vena nel petto nel primo congiungimento carnale che fece col marito”. Aveva appena dodici anni. All’infelice evento ne segue finalmente uno lieto: nasce Emanuele, un erede maschio sano e forte che assicurava il perdurare della dinastia dei Gesualdo.
A questo punto, entra in scena Fabrizio Carafa (parente del primo marito di Maria), definito da molti come il più bell’uomo di Napoli: era sposato e con quattro figli avuti dalla religiosissima moglie. Il suo temperamento spavaldo e sempre sicuro di sé colpisce Maria d’Avalos ad una festa da ballo: fra i due nasce una fortissima attrazione che in breve diventa una passione travolgente, estrema, spavalda. I due si incontrano e si frequentano con assiduità, nei luoghi più diversi, in campagna, da amici fidati e poi persino nello stesso palazzo Gesualdo con la complicità delle dame di compagnia. Questa relazione (che ci ricorda la leggenda medioevale di Tristano e Isotta) rapidamente divenne troppo evidente perchè fosse al riparo dal pettegolezzo di corte e di Napoli: il vicerè stesso e molti nobili intervengono tentando di far ragionare il Carafa, mentre su Maria premono la madre e persino lo zio cardinale con una lettera inviata da Roma (lo scandalo aveva dunque varcato i confini della città di Napoli). Gli amanti erano consapevoli di aver superato il limite a loro consentito. Fabrizio tenta di far ragionare la sua amata ma Maria (che dichiara d’aver ancora verso Carlo Gesualdo un infinito affetto e grande stima) ama Carafa, lo desidera ardentemente, manifesta di non poter vivere senza di lui e d’essere attratta da lui fisicamente “come fosse posseduta dal demonio”. Maria desidera andare fino in fondo al suo amore e se egli non l’avesse bramato come lei, “che andasse a farsi bizzo, avendo errato la natura a produrre cavaliero, (poi)ché teneva cuore di donna!”.
Carlo sicuramente sapeva: si ritira nella sua melanconia, sentendosi tradito, sperando che il suo amore possa vincere ogni avversità (come narrano i suoi madrigali). Purtroppo le voci di questa relazione appassionata e sempre più palese non possono essere più sottovalutate o insabbiate. Gesualdo tenta di minimizzare, evitare o almeno di procrastinare il gesto estremo a cui la società l’avrebbe costretto: egli ama ancora e più che mai la sua sposa e non può pensare di distruggere l’amore della sua vita, anche se tradito e umiliato. Ma con il passare dei giorni la situazione degrada e anche lo zio Giulio Gesualdo fa notare a Carlo che l’onore della sua casata è ridicolizzata da questa situazione; inoltre, non esistono più soluzioni diplomatiche poiché fallite nonostante l’aiuto di amici e parenti. Carlo per proteggere la dignità del proprio casato non ha via di scampo: tutta la società napoletana aspetta un atto da lui.
Il 26 ottobre 1590, Carlo finge di organizzare con gli amici più fedeli una battuta di caccia della durata di qualche giorno lontano dal palazzo di Napoli; ma anziché partire si ferma per strada e ritorna a palazzo a notte e, senza essere visto, arriva fino alla stanza sottostante la sua camera da letto nuziale. Carafa arriva sotto il balcone e ad un segnale d’assenso convenuto con Maria, apre la porta con una copia della chiave (come fosse casa propria) salendo fino alla camera da letto. L’evidenza è troppa anche per il cuore infranto del principe: dopo mezz’ora, due amici fedeli di Gesualdo entrano nella stanza e sparano agli amanti sorpresi nel letto, poi entra Carlo seguìto da altri due amici. La scena che affronta è cruda: i due amanti sono entrambi in un lago di sangue, lei ancora distesa nel letto; lui, barcollando, tenta di sguainare la spada prima di crollare a terra, gridando: “A casa Gesualdo, corna!”. Carlo si avvicina a Maria che implora la confessione e il perdono, coprendosi il volto con il lenzuolo per la vergogna. Soltanto in quel momento Carlo pugnala ripetutamente tutto il corpo avvolto nel lenzuolo, uscendo poi dalla stanza grondante di sangue; poi fuori di se, dicendo “Non credo esser morta”, ritorna nella stanza e squarcia ulteriormente Maria dall’inguine alla gola.
Tutte queste notizie, tremendamente dettagliate, ci sono riferite da numerose testimonianze nel processo a Carlo del quale abbiamo tutti gli atti: Gesualdo fu assolto per “delitto per causa d’onore”. Ma questa assoluzione che la società gli offriva, non era la fine d’una situazione drammaticamente insostenibile: era l’inizio di nuovi tormenti per il nostro Gesualdo . Carlo in quel momento compiva ventiquattro anni.
Marco Longhini
(note al CD Naxos 8.570549)

sabato, novembre 26, 2011

Marco Rapetti: Anatoliy Lyadov (1855-1914)

Sono un uccello libero. La parola devi non mi costringerà mai a fare nulla.
Anatolij Konstantinovič Ljadov

“Per quanto riguarda la musica, qualcosa è accaduto” - scriveva Musorgskij al critico Vladimir Stasov il 2 agosto 1873, “un nuovo e indiscutibile giovane talento, originale e russo è apparso fra noi: si tratta del figlio di Konstantin Ljadov, ora studente al conservatorio […] Un vero e proprio talento, dotato di facilità, naturalezza, audacia, freschezza e potenza […] Cui, Borodin e il miserabile sottoscritto sono al settimo cielo. Te ne descrivo l'aspetto: chiaro di capelli, labbra carnose, con piccole rughe intorno al naso disegnate dalla natura quasi fossero canali per le lacrime diretti verso la bocca. La fronte non è ampia ma piena di carattere, specialmente in congiunzione con le tempie prominenti. Terribilmente nervoso, ancor più terribilmente taciturno, egli ascolta senza proferire parola; solo le sue narici iniziano a muoversi, e ciò significa approvazione! Per quanto concerne i suoi scarabocchi, beh, giudicherai tu stesso. Korsakov va pontificando parecchio su di essi...”
Musorgskij, purtroppo, non visse abbastanza per potersi dilettare con gli “scarabocchi” del Ljadov più maturo. Al momento della sua precoce morte, avvenuta quasi contemporaneamente al brutale assassinio dello zar Alessandro II, nel marzo del 1881, il giovane Anatolij aveva composto soltanto una suggestiva serie di melodie per voce e pianoforte (op.1) e svariati pezzi pianistici in stile schumanniano (opp. 2-4), ed era alle prese con un progetto di vasta portata, l'opera Zorjuška, che avrebbe in seguito abbandonato. In quello stesso anno 1881, Cesar Cui dedicava a Ljadov un intero paragrafo del suo saggio La Musica in Russia, sottolineando “l'estro creativo, la ricchezza e l'eleganza del vocabolario armonico e il magistero tecnico” del giovane compositore.
Di fatto, Ljadov appartiene alla prima generazione di musicisti russi che ebbero l'opportunità di sviluppare un solido bagaglio tecnico grazie a un sistema di educazione pubblico (il Conservatorio di San Pietroburgo era stato appena fondato da Anton Rubinstein, nel 1862). Egli, inoltre, era cresciuto in un ambiente musicalmente stimolante, in quanto diversi familiari erano musicisti professionisti impegnati nel mondo dell'opera. Lo stile bohèmien della sua trasandata e disinibita famiglia ebbe nel contempo un influsso negativo sul talentoso ragazzo, non invogliandolo a seguire gli studi con regolarità (più avanti sarebbe stato addirittura espulso dal conservatorio per assenteismo) e rafforzando in lui la propensione all'indolenza e all'isolamento. Il padre, famoso direttore d'orchestra al teatro Marinskij nonché buon compositore in potenza, impartì le prime lezioni di musica al piccolo Anatolij, che trascorse la sua infanzia dietro le quinte del teatro, trattato come la mascotte della compagnia.
La morte di Konstantin Ljadov, nel 1868, lo lasciò orfano di entrambi i genitori all’età di 13 anni e fu allora che venne affidato a uno dei direttori della Società Musicale Russa che lo iscrisse, due anni più tardi, al conservatorio. Qui sviluppò presto uno spiccato interesse per le tecniche contrappuntistiche, frequentando la classe di contrappunto e fuga di Johansen e successivamente quella di composizione tenuta da Rimskij-Korsakov. “Come tutto era facile per lui!” - scriverà più tardi Rimskij nelle sue memorie. “Da dove scaturiva tutta quella esperienza? Era davvero l'allievo più dotato e più brillante!”
Dopo il suo esame finale di composizione nel maggio 1878, i due musicisti trascorsero l'estate in due villaggi poco distanti e "come passatempo ed esercizio, ognuno scriveva una fuga al giorno sullo stesso tema in re minore". Il legame di Ljadov con Rimskij durerà tutta la vita e avrà profonde ripercussioni su entrambi i compositori, inizialmente discepolo e maestro e in seguito amici e colleghi (il celebre manuale di armonia di Rimskij, ad esempio, fu ispirato ai principi didattici di Ljadov). A settembre dello stesso anno, il ventitreenne Anatolij divenne professore di teoria al conservatorio e, nel 1885, Balakirev e Rimskij lo chiamarono a insegnare teoria e armonia anche alla Cappella della Corte Imperiale.
Se Ljadov non fosse appartenuto a una generazione posteriore, la Mogučaja Kučka (il Possente Manipolo, come Stasov aveva soprannominato la famosa squadra di compositori capeggiata da Balakirev) sarebbe nota oggi come Gruppo dei Sei, invece che come Gruppo dei Cinque. In qualità di membro affiliato al circolo di Balakirev, Ljadov partecipò a varie composizioni collettive (vedi, ad es., il geniale ciclo di Parafrasi per pianoforte, composto insieme a Borodin, Cui e Rimskij-Korsakov), collaborò all'orchestrazione di opere dei suoi colleghi più anziani (Il Principe Igor di Borodin, Il Prigioniero del Caucaso di Cui, La Fiera di Soročintsy di Musorgskij), nonché alla revisione delle opere di Glinka.
All'inizio degli anni '80, Balakirev decise di abbandonare la scena musicale per barricarsi in un'ossessiva e misantropica religiosità; in conseguenza di ciò, i suoi allievi e compagni si distaccarono gradatamente dal carismatico e dispotico fondatore della Mogučaja Kučka, fino al totale scioglimento del gruppo. Fu allora che Ljadov divenne uno dei fondatori del Beljaevskij Kružok (il Circolo Beljaev), insieme a Rimskij e al giovane prodigio Aleksandr Glazunov. Anche Borodin iniziò a frequentare il nuovo cenacolo di musicisti, ma sfortunatamente morì poco tempo dopo. Ljadov e Rimskij (quest’ultimo, essendo nato nel 1844, era il più giovane dei Cinque), rappresentano dunque il collegamento fra i due più importanti circoli di musicisti russi dell'Ottocento, formatisi intorno alle due più influenti 'B' della storia musicale russa: da un lato, Balakirev, capace di catalizzare le energie di una brillante generazione di compositori autodidatti e di spingerla alla creazione di una nuova e autentica scuola russa incentrata sulla rivalutazione del canto popolare; dall'altro, Beljaev, cui si deve la diffusione a livello internazionale della musica russa contemporanea.
Erede di una delle più ricche famiglie di commercianti di legname di tutto l'impero, Mitrofan Petrovič Beljaev decise di ritirarsi dal commercio a 48 anni per dedicarsi interamente a una causa filantropica, per la quale avrebbe devoluto enormi quantità di denaro: la promozione della musica e dei musicisti russi in patria e all'estero. Egli stesso suonava la viola per passione e si esibiva spesso con gli Amanti della Musica di San Pietroburgo, una piccola orchestra privata diretta da Ljadov, che sarebbe rimasto per sempre il suo inseparabile assistente e supervisore. "È possibile considerare il circolo di Beljaev come una continuazione di quello di Balakirev?" - si chiede Rimskij nella sua autobiografia. "In comune essi avevano le idee innovative e un’evidente progressismo. Ma il gruppo di Balakirev corrispondeva al periodo Sturm und Drang della musica russa, mentre quello di Beljaev a un periodo di pacifica marcia in avanti. Il gruppo dei Cinque era rivoluzionario; il Gruppo di Beljaev, progressista."
Nel 1885, l'imponente e altero mecenate fondò a Lipsia una delle più prestigiose case editrici del secolo (la Russia non aveva ancora firmato il protocollo per la protezione dei diritti d'autore e questo fu uno dei motivi per cui venne stabilita la sede in Germania). Beljaev diede disposizioni affinché un comitato di esperti - ovvero, Rimskij, Ljadov e Glazunov - lo aiutasse a selezionare le composizioni da pubblicare (al medesimo triumvirato sarebbe stata poi affidata la gestione dell'impresa editoriale dopo la morte del fondatore, avvenuta nel 1904).
Nel 1894 la musica di Aleksandr Scriabin venne sottoposta per la prima volta al giudizio di Beljaev e dei suoi collaboratori. Rimskij e Glazunov si rifiutarono categoricamente di pubblicare qualsiasi composizione presente e futura dell'altezzoso compositore moscovita, per il quale avrebbero sempre nutrito un'epidermica antipatia (“Narciso” fu il soprannome appioppatogli da Rimskij). Grazie all'opposizione di Ljadov e al supporto di Beljaev, Scriabin superò comunque la selezione e divenne presto il nome più importante e più richiesto nel catalogo della ditta. Entrambi ferventi chopiniani, Ljadov e Scriabin si attrassero e ammirarono reciprocamente fin dal primo incontro.
Per quanto non sia facile distinguere chi ha influenzato maggiormente l'altro nei lavori scritti a metà degli anni '90 (si comparino i Preludi opp. 31, 36, 39, 40, 42, 46 con i pezzi brevi composti da Scriabin negli stessi anni), è chiaro invece come sia stato il vocabolario armonico scriabiniano a fornire il modello per gli ultimi lavori di Ljadov. Il carattere egocentrico e stizzoso di Scriabin era antitetico a quello di Ljadov; inoltre, l'agnosticismo di quest'ultimo non aveva nulla in comune con il misticismo esoterico e il pensiero escatologico scriabiniano.
Tuttavia, Ljadov subì profondamente il fascino del geniale e più giovane collega, anche quando la straordinaria evoluzione del suo linguaggio gli causò sconcerto e non poche perplessità. "In confronto a Scriabin, Wagner balbetta dolcemente come un poppante. Penso che mi possa dar di volta il cervello in qualunque momento. Come ci si può nascondere da questa musica? Aiuto!" - sbottò una volta in presenza di Beljaev. Nel 1911, dopo la prima esecuzione di Prometeo, Ljadov confidò a un amico: "Sapessi come ho dormito male la notte scorsa! Non riesco a non pensare a come sarà quando fra un paio di settimane scopriremo che Scriabin è stato rinchiuso a Udelnij (un ospedale psichiatrico lungo la ferrovia per la Finlandia)."
Scriabin, dal canto suo, dimostrò sempre un affetto particolare per il collega più anziano e similmente fece Stravinskij. "Ljadov era il musicista più progressista della sua generazione e fu lui a difendere i miei primi lavori" - scrive Stravinskij in Memories and Commentaries (1959). Per merito di Ljadov, venne pubblicata la melodia giovanile Il fauno e la pastora; inoltre, a causa dell'eccessivo ritardo con cui “il grande pigro” si accinse alla composizione de L'Uccello di fuoco, Diaghilev, spazientito, girò la commissione del balletto all’ancora sconosciuto Stravinskij e fu così che la storia si arricchì del celeberrimo capolavoro. "Ho l'impressione che Ljadov fosse più sollevato che offeso, allorché accettai la proposta di Diaghilev" - scrive Stravinskij. "Ljadov era un brav'uomo, tenero e adorabile come la sua Tabacchiera musicale. Lo chiamavamo "il fabbro ferraio", ma non so perché; forse proprio per il fatto di apparire, con la sua dolcezza e gentilezza, esattamente il contrario di un fabbro. Era abbastanza piccolo, con un viso simpatico e ammiccante e pochi capelli sulla testa. Teneva sempre dei libri sotto il braccio: Maeterlinck, Hoffmann, Andersen… Adorava tutto ciò che avesse a che fare con l’elemento fantastico."
In effetti, gran parte delle opere orchestrali di Ljadov (Baba-Jaga, Otto Canti popolari russi, Il Lago incantato, Kikimora) evocano atmosfere fiabesche: "Datemi fate e draghi, sirene e folletti e sarò al colmo della felicità" - dichiarò una volta. "L'arte mi nutre con uccelli del paradiso arrosto. È come vivere su un altro pianeta, che nulla ha a che fare con questa terra".
Diversamente da Rimskij, col quale condivise l'amore per il mondo senza tempo delle favole popolari, Ljadov non produsse mai lavori di vaste dimensioni. "Caro amico, ti prego, scrivi un'opera, un'opera autenticamente russa: sei splendidamente dotato per una tale impresa e nessuno potrebbe farlo meglio di te!" Nonostante i ripetuti incoraggiamenti di Rimskij, non soltanto alcuni progetti di opera, ma anche il balletto Lejla i Adelaj e un quartetto d'archi furono a un certo punto abbandonati o lasciati incompiuti.
Questo grande compositore in potenza è stato spesso accusato di mera pigrizia, soprattutto in seguito al matrimonio, avvenuto nel 1884, che gli permise di ottenere una proprietà di campagna a Polinovka, dove avrebbe trascorso tutte le estati e dove avrebbe terminato i suoi giorni (stranamente, Ljadov mantenne sempre il suo matrimonio avvolto in un'aura di mistero, non consentendo a nessuno di conoscere la moglie e recandosi ovunque sempre da solo). "Il suo scetticismo e la sua propensione a ritirarsi in una torre d'avorio erano più forti dei suoi impulsi creativi" - commentò senza mezzi termini Michel Dmitri Calvocoressi. In realtà, dietro al carattere dimesso e all'apparente mancanza di ambizione, Ljadov era un severo autocritico, e questa qualità inibì non poco il suo potenziale creativo, contribuendo al parziale ritiro dall'agone dei contemporanei.
Il “fabbro ferraio” (o piuttosto "l'orologiaio", come Stravinskij avrebbe maliziosamente soprannominato Ravel) si sentiva molto più a suo agio con le piccole strutture finemente cesellate. Le sue opere per pianoforte, voce, coro o per orchestra sono così curate in ogni dettaglio da potersi paragonare a veri e propri cammei musicali. Come scrisse il critico e compositore Vjačeslav Karatighin pochi giorni dopo la morte del compositore, "l'arte di Scriabin è spesso tanto magnificata, riflette talmente il cosmo su larga scala, che per afferrarne i contorni dobbiamo accostarci ad essa come se si trovasse a una certa distanza (psicologica). Possiamo ammirare Chopin con un normale, chiaro colpo d'occhio. Per portare il nostro animo in contatto con le ispirazioni di Ljadov, dobbiamo invece aggiustare la nostra vista a livello microscopico, armarci di prismi e lenti speciali, e scrutinare attentamente i mondi di vita sonora che si parano dinanzi ai nostri occhi. Adottando quest’intimo approccio a quest'arte intimista, ecco che improvvisamente può rivelarsi la sottile e profonda bellezza delle immagini musicali di Ljadov e la loro originalità".
Mentre Scriabin si tuffava nell’efferato nuovo secolo spingendo l'armonia funzionale ai suoi estremi limiti, Lyadov si ritirava come un gasteropode nella sua conchiglia, limitandosi a sempre più sporadici tentativi di comporre. Nel 1901 iniziò a insegnare contrappunto avanzato al conservatorio e nel 1906 subentrò come docente di composizione, attività nella quale dimostrò un rigore pedagogico simile a quello del suo predecessore, Rimskij-Korsakov.
Quando l'enfant prodige Prokof’ev s’iscrisse nella sua classe, trovò l'approccio di Ljadov eccessivamente severo e insofferente a qualsiasi audacia e modernità compositiva da parte dei suoi allievi (la stessa impressione fu riportata anche dall'amico e compagno Mjaskovskij). Viene da chiedersi se Ljadov sia stato davvero il progressista descritto da Stravinskij; di sicuro non fu un rivoluzionario, né in musica né in politica. La sua paura per i cambiamenti e il suo rifiuto per gli eccessi non gli consentirono di aderire agli ideali rivoluzionari che aleggiavano in quell’epoca così inquieta e turbolenta. Molto sensibile al concetto di libertà individuale, ammirava Nietzsche ma provava antipatia per Tolstoj, che, a suo giudizio, "stava aiutando l'umanità a commettere il più grande crimine possibile: livellare tutti".
Un significativo episodio accadde tuttavia nel 1905, al tempo della Prima Rivoluzione Russa. Allorché Rimskij-Korsakov venne licenziato dal conservatorio in seguito all'accusa di aver appoggiato le sommosse degli studenti, Ljadov e Glazunov si dimisero all'istante, per poi riprendere a insegnare solo dopo la riabilitazione dell’amico e collega. Nonostante avesse sempre preferito restare in disparte, rifugiandosi nel suo flemmatico e pessimistico distacco, Ljadov fu consapevole dell'imminente tragedia che stava per travolgere l'Europa e il suo paese, governato da un miope e repressivo regime zarista. Nel 1899 (anno di nascita di Maria, terzogenita della famiglia imperiale), fu proprio la corte dei Romanov a commissionargli l'inno ortodosso Slava, originariamente composto per coro femminile, due arpe e due pianoforti. In questo peana al duce dell'impero (in seguito trucidato con la famiglia nel luglio 1918 per mano dei bolscevichi), l'ultimo zar di Russia, Nicola II, viene paragonato al sole, la zarina alla luna e le figlie alle stelle. Come scrive Faubion Bowers, a quell'epoca "il prezzo dell'ortodossia e dello zarismo era alto, e veniva pagato in infiniti modi, talvolta opposti. Alcuni si fecero atei convinti. Un certo byronismo banalizzato prestò la figura di Don Giovanni come modello di anticonformismo. Altri divennero trascendentalisti autodistruttivi, nella convinzione di essere dio, come ad esempio, Scriabin o il personaggio Kirillov ne i Demoni di Dostojevskij. L'escatologia è un elemento essenziale non solo della Russia che precede la Prima Guerra Mondiale, ma di tutta la storia religiosa russa. Lo spirito apocalittico fece diventare il Libro della Rivelazione la sezione della Bibbia più citata e più rappresentata, sia visivamente che musicalmente. Tutti predicevano la fine del mondo, sconvolgimenti epocali (potrjasenia), rivoluzioni (perevoroti); di 'eventi inauditi' scriveva il poeta simbolista Aleksandr Blok, 'conflagrazione planetaria', gridava Scriabin, 'fine della storia', intonava Solovjov. Persino Ljadov stette in silenzio abbastanza a lungo per poi scrivere un brano
sull'Apocalisse".
Nel 1911-12, all'epoca in cui compose il poema sinfonico Iz Apokalipsiza (Dall'Apocalisse) op.66, la salute di Ljadov aveva già iniziato a deteriorarsi. La sua ultima opera, intitolata Skorbnaja pesn' (Trenodia), per piccola orchestra, apparve nel 1914 e portò il numero di catalogo delle sue opere a 67. Per quanto opposte in dimensioni e finalità, sia l'ultima miniatura di Ljadov sia il colossale e utopistico Misterja di Scriabin sembrano riflettere le stesse parole di Čekov: "Il tempo sta per scadere, una valanga sta per muoverci addosso, una travolgente tempesta chiarificatrice è ormai vicina e presto si scatenerà…" Lyadov morì nell'agosto del 1914, pochi giorni dopo lo scoppio della Grande Guerra. Scriabin lo seguì otto mesi più tardi. Nessuno dei due poté assistere alla traumatica fine di un'era russa.

Marco Rapetti (note al CD Brilliant Classics 94155)

sabato, novembre 19, 2011

Gesualdo: il "Primo Libro de' Madrigali" (1594)

Gesualdo e la città di Ferrara
Il Primo Libro de’ Madrigali di Carlo Gesualdo “Prencipe di Venosa” venne pubblicato da un editore ferrarese, Vittorio Baldini, nel 1594. Nello stesso anno e dallo stesso tipografo venne pubblicato anche Il Secondo Libro de’ Madrigali. Entrambi i libri sono presentati dal musicista Scipione Stella che, nelle dediche introduttive alla pubblicazione, scrive d’avere raccolto (e corretto gli errori di stampa) alcuni brani del suo protettore e principe, già precedentemente pubblicati. All’epoca non era conveniente che un nobile si occupasse della pubblicazione di libri o di musica (ben altre dovevano essere, o apparire, le occupazioni di un principe nella società rinascimentale) e quindi ricorre a Giuseppe Piloni (non uno pseudonimo, ma un “caro amico” del musicista fiammingo Jean de Maque che frequentava con lui la casa Gesualdo, dopo il 1586) per dare a stampa alcune sue opere (delle quali, purtroppo, abbiamo perso ogni traccia). Le dediche di Stella sono datate 2 giugno 1594 per il Primo Libro e 10 maggio 1594 per il Secondo: come noterete sembra che il Secondo abbia anticipato il Primo. Seguono a brevissima distanza il Terzo Libro, 1595, e il Quarto, 1596, sempre pubblicati a Ferrara da Baldini. Come capita molto frequentemente nel Rinascimento italiano, la pubblicazione di un libro musicale non fa altro che raccogliere i brani pregevoli che il musicista aveva precedentemente composto e che ritenesse fossero adatti ad essere fruiti e apprezzati da un più vasto pubblico di intenditori e musicisti. Tutti questi Madrigali (in tutto sono ottanta, venti per ogni libro) vengono dunque distribuiti su quattro libri, probabilmente senza un effettivo ordine cronologico di composizione, ma tutti congiunti dalla stampa avvenuta a Ferrara. Ben quindici anni trascorreranno prima che esca un altro suo nuovo libro, spento l’interesse per Baldini e stampando le sue ultime due opere a Venezia, entrambe nel 1611.
Come mai Ferrara fu la culla del primo impegnativo parto artistico e perchè Gesualdo proprio in quel momento decide che fosse il momento giusto per esporre il proprio pensiero musicale? Quali intrecci potevano esserci fra Ferrara e un principe che aveva sempre gravitato tra Napoli, la città di Venosa e quella di Gesualdo (cittadine ancor oggi esistenti nel sud Italia che portano ancora il nome della nobile famiglia patrizia)?
Per Carlo Gesualdo stampare le proprie opere a Ferrara significava essere presente in quella corte che più forse più d’ogni altra, in quell’epoca, coltivava e apprezzava la musica e il madrigale quale simbolo di sintesi tra arti e frutto maturo e prelibato di una raffinata cultura aristocratica. Per Ferrara, invece, il Principe da Venosa significava la possibilità di tutelarsi da un fatale avvenimento politico: il Duca Alfonso II d’Este (nipote della diabolica Lucrezia Borgia), ultimo erede di quell’aristocratica e mecenate famiglia che governa la città dal 1332, non può avere figli e (a causa di un antico accordo con il Papa) la terra degli Este sarebbe ritornata allo Stato della Chiesa di Roma se non ci fossero stati eredi maschi. Per Ferrara, il matrimonio fra Gesualdo ed Eleonora d’Este doveva essere un’ottima occasione politica per tentare di risolvere una delicata questione politica, raccogliendo i favori del cardinale Alfonso Gesualdo, zio di Carlo e una delle più potenti e influenti figure politiche romane. Il 19 febbraio 1594, il Principe raggiunge Ferrara: “porta seco due mute di libri a cinque, tutte opere sue” (come scrisse il cronista Fontanelli, inviato da Alfonso II d’Este per avere maggiori notizie del suo futuro parente) e un seguito di trecento persone della sua corte. Il 21 febbraio è celebrato il matrimonio con feste, torneo a cavallo, copioso pranzo di nozze di ventitrè portate (di questo banchetto lussuoso, come di tutte le feste, ne abbiamo la descrizione minuziosa) e scambi di doni preziosi, come la corazza da parata finemente cesellata, ancor oggi visibile nel Castello di Praga, e un’Ode “Lascia, o figlio di Urania, il bel Parnaso” scritta appositamente dal celeberrimo poeta Torquato Tasso. Come abbiamo visto, tre mesi dopo il matrimonio, furono pubblicati il Primo e il Secondo Libro dei suoi Madrigali tanto amati e subito parte per Venezia. Ritorna a giugno direttamente nel suo castello di Venosa e poi in Gesualdo “paese ameno et vago alla vista quanto si possa desiderare, con un’aria veramente soave et salubre”, ma senza la sua sposa novella che lascia a Ferrara.
Gesualdo, il principe di Venosa
Carlo Gesualdo non è dunque un musicista ordinario: prima di tutto egli è un principe, ricco e potente. Come esamineremo in seguito nelle note introduttive che accompagneranno le nostre sei pubblicazioni contenenti la sua opera profana completa, egli divenne celebre per due impulsi che segnarono la sua vita: il sanguinoso assassinio della moglie e del suo amante (tale fatto lo rende protagonista di molte opere teatrali, opere liriche, romanzi e anche film) e la passione per la musica espressiva e ardita, sia sacra che profana, ammirata sia dai suoi contemporanei come da musicisti a noi più vicini, primo fra tutti Stravinskij. Quest’ultimo, elabora alcuni brani del musicista rinascimentale (le Tres Sacrae cantiones) e, nel 1960, per quello che era considerato il quarto centenario della nascita, gli dedica un brano: Monumentum pro Gesualdo da Venosa ad CD annum. In realtà la data di nascita non fu il 1560: ricerche recenti hanno stabilito che egli nacque l’ 8 marzo 1566, a Venosa. La sua famiglia affonda le sue radici in tempi lontani: dalla Francia secondo alcuni, da Ruggero il Normanno secondo altri. Erano parenti di San Carlo Borromeo (la mamma del nostro Carlo era sorella del Borromeo) ed erano in ottimi rapporti sia con Carlo V che con Filippo II, re di Spagna, che in tempi diversi regnarono sui territori del sud Italia in quel periodo. I Gesualdo avevano ampi possedimenti terrieri e castelli: erano ricchissimi, dunque. Il padre di Carlo, Fabrizio II, e la madre, Geronima de’ Medici, erano anche persone di cultura e come tali organizzavano spesso nella loro residenza napoletanta alcune serate a tema, invitando gesuiti, astronomi, astrologi, alchimisti e anche chiromanti; non mancavano le serate dedicate alla poesia e alla letteratura, come quelle dedicate alla musica in cui anche il padre Fabrizio Gesualdo faceva ascoltare sue proprie composizioni. Carlo crebbe in un ambiente dove la musica era un’arte fondamentale per la persona: venne finemente istruito da musicisti come Pomponio Nenna, Gian Leonardo Privitera e Jean de Maque (quest’ultimi due compositori dedicarono pure a Carlo proprie pubblicazioni musicali) che abitualmente frequentavano la casa paterna. Sappiamo che imparò a suonare il liuto tanto quanto andare a caccia. La sua prima composizione fu edita a diciannove anni, nel 1585: un mottetto a cinque voci (Delicta nostra ne reminiscaris DomineDimentica le nostre colpe, o Signore—edito insieme ad altre brani sacri di Stefano Felis) che curiosamente lascia presagire alcuni dei temi che vedremo svilupparsi sia nell’opera sacra come in quella profana: il senso colpa, la morte, il peccato, il pentimento.
L’anno successivo, nel 1586 a soli vent’anni, sposa Maria d’Avalos più vecchia di lui e già vedova per ben due volte e con due figli a carico: questo matrimonio con una delle donne più belle di Napoli ebbe un tragico esito quattro anni più tardi, quando Carlo la uccise insieme al suo amante nel letto dove egli stesso dormiva. Questo episodio che contrassegnò fortemente la sua vita, e la sua opera, lo tratteremo nel seconda pubblicazione dedicata al Secondo Libro de’ Madrigali e alle sue composizioni strumentali (Naxos 8. 570549).
Il Primo Libro de’ Madrigali
Apre la prima pubblicazione ferrarese del 1594, un madrigale di Giovanni Battista Guarini: Baci soavi e cari in due parti. Venne trasposto in musica da vari autori, fra cui citiamo Luca Marenzio (1591), Adriano Banchieri (nella sua Barca di Venezia per Padova, 1605, “Un per de Marregali alla Venosa-Madrigale capriccioso”) e nel Primo Libro di Claudio Monteverdi, 1587: il testo è tratto dalla prima strofa della Canzon de’ baci che poi prosegue con Baci amorosi e belli, Baci affannati e ingordi, Baci cortesi e grati. Il raffinato gioco erotico in tutto il madrigale, ricco di sospiri e ansimi ci porta ad una vera e propria simulazione nell’unione dei due amanti e dell’atto amoroso, resa esplicita se comprendiamo quelle convenzioni di linguaggio della corte rinascimentale che nella parola morire celava il significato del raggiungimento dell’orgasmo sessuale. Le analogie con la versione di Monteverdi sono molte, soprattutto per quanto riguarda l’interpretazione nella suddivisione ritmico-prosodica del testo: confrontando le due versioni, anche ad un semplice ascolto, notiamo come il brano di Monteverdi (nonostante la sorprendente sapienza compositiva) sia ancora un brano giovanile; mentre quello di Gesualdo sia un brano d’un autore smaliziato, in cui l’uso dell’espressività nella parola, viene esaltata da una sapiente arte di contrasti melodici e timbrici. Questo ci fa sospettare che il brano d’apertura scelto da Stella per presentare il suo mecenate, non fosse assolutamente un “primo parto” giovanile ma un frutto ben più maturo che, fin dall’inizio, mettesse in mostra l’arte raffinata del Principe.
Con lo stesso gioco erotico sulle parole morire (ma perchè non parafrasare nei due diversi modi antitetici questo brano, visto che il significato più tragico può essere comunque avvalorato?) dobbiamo leggere il bellissimo madrigale Tirsi morir volea di Giovanni Battista Guarini (stampato nel 1581, tra le Rime di Tasso, con il sottotitolo “Concorso d’occhi amorosi” e musicato da L. Marenzio 1580, J. De Wert 1581, A. Gabrieli 1587 e poi da L. Luzzaschi 1604, G.F. Sances 1633). Nella seconda parte Frenò Tirsi il desio si raggiunge una delle più alte vette musicali del nostro compositore, accendendo il contrasto fra le belle dissonanze sulle parole “sentendo morte” e la scala di note ascendente contigue, sulle parole “in non poter morire”, che simulano un’estatica ascesa alla voluttà o alla redenzione del regno dei cieli. Vedremo, però, che nei Libri successivi la parola morte lascerà questo suo valore erotico della poesia della corte per divenire esternazione di “tragedia”, del dolore supremo con cui l’uomo deve confrontarsi.
Un altro argomento amoroso-erotico lo troviamo anche in Mentre madonna (anch’esso suddiviso in due parti), sonetto di Torquato Tasso, tratto dalle Rime: con grande raffinatezza, la scena descrive l’invidia provata da chi vede il pungiglione d’un “ape ingegnosa” che insidia le labbra femminili “dopo i suoi lieti e volontari errori”. In “Sì gioioso mi fanno i dolor miei” troviamo già quella tipica ricerca e attenzione del Venosa verso testi che accostano concetti o parole apparentemente contrapposte: un gioco manieristico d’immagini inconciliabili ma fatalmente accostate fra di loro, in cui la razionalità del lettore si compiace nello smarrirsi.
Per mezzo di “Questi leggiadri odorosetti fiori”, utilizzato da Venosa come cardine per fiaccare il clima ricco di contrasti “dolorosi” sia sonori che letterali (in quanto alterna, al proprio interno, atmosfere giocose e dolenti), al termine di questo libro troviamo quattro madrigali solari, giocosi, che hanno il compito di restituire serenità. In vista delle nozze con la casa d’Este, Gesualdo dedica “Felice primavera!”: un esplicito dono ai luoghi della sposa Eleonora d’Este in quanto vengono citati i luoghi fioriti del fiume Po che scorre poco distante da Ferrara gettandosi nel mare Adriatico, e “Bella angioletta” madrigale esplicitamente commissionato a Tasso dal duca Federico d’Este per corteggiare una donna di nome Angelica. La musica di Gesualdo in questo libro è il risultato di una maturazione precedentemente avviata, non un primo affacciarsi al mondo editoriale di un giovane musicista: è un libro da amare, da studiare, da approfondire. Già nella Musurgia Universalis, 1650, Athanasius Kircher cita proprio il madrigale Baci soavi e cari come esempio, dicendo che la musica di Gesualdo deve essere oggetto di studio per la sua finezza e maestria. Molti teorici e musicisti dell’epoca considerano Gesualdo quale elemento fondamentale della svolta espressiva della musica tardo rinascimentale; lo stesso Monteverdi lo includeva fra i musicisti del mutamento radicale verso la seconda prattica. Giulio Cesare Monteverdi, concludendo la difesa del fratello dall’attacco di Giovanni Maria Artusi ai madrigali contenuti nel Quinto Libro de’ Madrigali scrive: “il Sig prencipe di Venosa, Emiglio del Cavagliere, il conte Alfonso Fontanelli, e il conte di Camerata et altri signori di questa eroica scola”. Pubblicare a Ferrara, entrare in quell’ambiente culturale, poter confrontarsi con i più innovatori dell’arte, doveva essere per il Principe, la consacrazione nell’olimpo dei musici più rinomati del tempo: quel 1594, fu il momento di realizzazione di un grande sogno, isola felice nella sua impetuosa e turbinosa vita.
Un sentito ringraziamento al Prof. Giovanni Iudica per averci donato la bella biografia dedicata al Principe dei musici (fondamentale per una conoscenza del nostro autore, come gli studi di G. Watkins) nonchè per i proficui e piacevoli incontri milanesi sgorgati dalla medesima passione.
Marco Longhini
(note al CD Naxos 8.570548)

sabato, novembre 12, 2011

Gustav Mahler: 18/11/2011 Maratona Radiofonica


MARATONA RADIOFONICA MAHLERIANA
18 novembre 2011

Una sinfonia deve essere come il mondo. Deve contenere tutto.

Gustav Mahler è stato uno dei compositori fondamentali nel passaggio tra Ottocento e Novecento, una delle incarnazioni più efficaci e potenti della tensione estrema tra un passato ormai irrecuperabile ed un futuro tragicamente incerto. A livello musicale, ma anche umano, sociale, politico.
La sua esistenza, come la sua produzione musicale, 10 sinfonie e numerosi lieder, disegnano con tratti drammatici il profilo di un uomo e di un mondo che anticipano i grandi temi del Novecento, bevendo sino in fondo il calice della crisi di un secolo che si chiude.
Dalla provincia boema a Vienna e New York, incrociando i destini dei personaggi del crepuscolo di un impero, da Klimt a Freud, da Mann a Schoenberg, da Max Reinhardt a Gropius…

Nel 2010 si è ricordato il centocinquantesimo anno della sua nascita (1860), mentre nel 2011 il centenario della morte (1911). In tutto il mondo musicale questi ultimi due anni sono stati dedicati a Mahler, il cui successo in Italia è giunto soltanto a partire dagli anni Sessanta, e con fortune critiche alterne. La Maratona Radiofonica Mahleriana si propone di:
  • rendere omaggio alla figura di Mahler;
  • fornire un invito all’ascolto della sua opera e alla conoscenza dell’autore e della sua vita;
  • fotografare l’universo culturale di un periodo storico fondamentale per il Novecento;
  • con un approccio divulgativo e non specialistico, attraversare vita e opera con l’ausilio di aneddoti tratti dalle numerose biografie;
Nel corso della Maratona Radiofonica Mahleriana si alterneranno:
  • introduzione alla figura di Mahler attraverso la lettura di stralci da saggi, biografie e documenti dell’epoca, coordinata in studio dal conduttore e da una voce recitante affidata ad un’attrice professionista;
  • ascolto guidato di una parte dell’opera di Mahler, con frequenti comparazioni da differenti versioni orchestrali degli interpreti più noti (Abbado, Bernstein, Rattle, Maazel, Von Karajan, Walter ecc..);
  • l’intervento attraverso collegamenti telefonici con direttori d’orchestra, musicisti, critici ed appassionati di Mahler, italiani e stranieri (sono stati invitati musicisti provenienti da orchestre quali Boston Simphony Orchestra, MaggioMusicaleFiorentino, Orchestra dell’Arena di Verona ecc…) che commenteranno ed introdurranno parte degli ascolti;
Elenco degli ospiti confermati:
  • Paolo Borsarelli – contrabbasso della Lucerne Symphony Orchestra
  • Massimo Castagnino – Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
  • Gaston Fournier-Facio – coordinatore artistico presso il Teatro Alla Scala
  • Stefano A.E. Leoni – docente presso l’Università di Urbino
  • Marco Ravasini – docente presso il Conservatorio di Torino
  • Charles Schlueter – ex prima tromba della Boston Symphony Orchestra
  • Angelo Vinai – clarinetto dell’Orchestra dell’Arena di Verona
La Maratona Radiofonica Mahleriana si articolerà:
  • dal vivo, sia la conduzione, sia i contributi di lettura da parte di un’attrice, sia gli interventi degli ospiti in collegamento;
  • in un unico frammento temporale, della durata di 6/8 ore circa;
  • senza interruzioni pubblicitarie;
  • e terminerà con l’esecuzione dal vivo dagli studi della radio di alcuni lieder di Mahler per voce e pianoforte, eseguiti dai M.i Paola Roggero e Andrea Stefenell.
La trasmissione sarà:
  • in diretta su RadioStereo5 FM 100.600
  • in live streaming su www.radiostereo5.info
  • e video streaming su www.cuneoronaca.it

venerdì, novembre 04, 2011

Frescobaldi: i "Capricci" (1624)

Il Libro dei Capricci di Frescobaldi del 1624 deriva da un'estensione del libro dei Ricercari del 1615 ma la sua concezione è marcatamente rivolta verso una strumentalità tastieristica che ne fa un capolavoro, oltrechè di tecnica contrappuntistica, di raffinatissima arte e tecnica clavicembalistica ed organistica. Vero è che, a sottolineare l'interdipendenza dei due libri, essi saranno uniti nelle vicende editoriali fin dalla seconda edizione dei Capricci del 1626, e successivamente in quelle del 1628 e del 1642. Le prime edizioni dei ricercari (1615 e 1618) comprendono cinque canzoni, dopo di che l'eventuale "secondo libro" assumerà in realtà caratteristiche talmente peculiari di elaborazione da indurre Frescobaldi a dare un titolo proprio all'opera, quello appunto di "Capricci": "In questi componimenti intitolati Capricci, non ho tenuto stile così facile come ne' miei Ricercari".
Ancora una volta il magistero di Luzzaschi è, secondo l'ammissione del Frescobaldi nella dedica ad Alfonso d'Este principe di Modena, all'origine di tale opera: "Devo a Vostra Altezza, come a Principe, che per nascita ritiene da' suoi maggiori l'antica ed ereditaria protezione delle buone arti, il frutto di quelle fatiche musicali, a cui mi diedi ne' miei primi anni sotto la disciplina del signor Luzzasco Organista sì raro, e servitore sì caro alla Serenissima Casa d'Este".
Il Capriccio mostrerà il cammino alle Toccate del Secondo Libro sia nella sezionalità chiara e distinta dei passaggi che nell'uso della mensuralità le cui vestigia compaiono solo come gioco ritmico nella contrapposizione tra ternario e binario nella Toccata nona per evidenziarsi maggiormente nelle Canzoni, particolarmente la quinta e la sesta. Tale ormai impropria segnatura proporzionale cederà quindi il passo all'esplicita indicazione di movimento "allegro" e "adagio" delle Canzoni del 1628 e dei Fiori Musicali un processo inverso dalla Toccata al Capriccio è verificabile al contrario nella conclusione binaria delle sezioni in trippola, quali ad esempio a battuta 48 (ed. Suvini-Zerboni) del Primo Capriccio, a batt. 36 del Terzo e così via. Analogo procedimento si riscontra anche nelle Canzoni del 1628 e nei Fiori Musicali del 1635 (ad esempio la fine della seconda sezione della Canzon dopo l'Epistola della Messa della Domenica).
Anche se a tutt'oggi manca uno studio comparativo dei vari temi di Ricercari è certo che la circolazione a stampa permettesse la diffusione di temi e la verifica di stili differenti reciprocamente influenzantisi. Tuttavia è legittimo opinare che Napoli sia stato il tramite grazie al quale la musica iberica, da Frescobaldi forse conosciuta anche nello stilisticamente misterioso soggiorno fiammingo, abbia potuto pervenire ad influenzare la concezione del Capriccio, sia nella tematica che nella sua stessa estensione, notevolmente più ampia del Ricercare.
Particolarmente il libro di Mannel Rodriguez Coelho, Flores de Musica, pubblicato a Lisbona nel 1620 in partitura contiene elementi ben precisi di raffronto con l'opera di Frescobaldi. In esso sono contenuti vari esempi di canto all'organo (i Magnificat) ed il titolo stesso è analogo all'opera del 1635, Fiori Musicali. Inoltre il tema del IV Tento del quarto tom è molto analogo a quello del Capriccio X ed al Recercar della Messa della Modonna, ambedue con obbligo di cantare la quinta parte senza toccarla. L'opera è in partitura a quattro voci ed è fornita di una serie di avvertimenti molto utili per il raffronto con quelli del Frescobaldi.
Per quanto attiene al Capriccio con l'obbligo di cantare la quinta parte esso è in linea con una tradizione iberica che ritroviamo anche in Antonio Carreira nel Tento com Cantus firmus a Cinco: Quinta voz de fora "Conque la lavaré la flor de la mi cara" per non parlare dei Versos para se cantarem ao argao ou Arpa em Tiple ou Tenor contenuti nel Ms 964 di Braga. Ancora nel corso del XVIII secolo J.J. Cassanea de Mondonville, pubblica un libro di Pièces de clavecin avec voix ou violon, opera V, 1748 a Parigi, in cui dichiara che il volume "interesseroit particulièrement ceux qui joignent au talent du Clavecin celui de la voix, puisqu'ils pourront executer seuls ce genre, de Musique. Les personnes qui ont l'usage de s'acompagner en chantant, auront plus de fácilitè à remplir mon idée".
Né è da dimenticare che Frescobaldi stesso ebbe fama di avere ottima voce di tenore, tessitura per la quale è scritta la quinta parte del Capriccio e del ricercare. Nel caso del Capriccio X tale consuetudine di cantare viene posta come obbligo non solo compositivo ma anche esecutivo. Sussiste qualche dubbio sulla recente identificazione della quinta parte con la melodia dell'Inno Jesu corona Virginum. Se l'incipit dell'Inno presenta una evidente somiglianza con quello del Capriccio non è così per la conclusione del Cantus, in cui proprio le due note finali sono invertite rispetto al tema gregoriano. La predominanza compositiva nella concezione dei Capricci e la piena aderenza alla tradizione dell'obbligo, esasperato come detto fino a coinvolgere anche l'esecutore, rendono evidente il fatto che, come avviene per gli obblighi dei Ricercari e dei Capricci basati su note di solmisazione, la sillaba RE sottoposta alle entrate della quinta parte indichi proprio l'obbligo di cantare le note della solmisazione. Il contesto dei Capricci pare tutto incentrato su base profana e l'esecuzione, pur nou escludendo l'organo anche sulla base polimorfica e polifunzionale cui Frescobaldi fa più volte cenno, trova il suo mezzo più adatto alla tastiera del cembalo "signor di tutti gli strumenti del mondo" su cui "si possono sonare ogni cosa con facilità" al dire del Trabaci. Che un organista componesse soprattutto per il cembalo non è da meravigliarsi: la qualifica di organista è molto generica e più etimologica che non legata all'organo vero e proprio. La quantità di musica organistica nel senso attuale del termine è molto esigua se comparata a quella vocale composta dai vari "organisti". Alla mentalità moderna sfugge il fatto che l'organo come strumento di studio era fino a qualche decennio fa legato alla collaborazione necessaria di un tiramantici, come il gustoso episodio riportato da Costanzo Antegnati nell'Arte Organica ci fa rilevare. Del resto la titolazione dei Libri di Toccate del Frescobaldi porta la dicitura prevalente di Intavolatura di cimbalo, che comunque vuole altresì porre l'accento sulla forma di scrittura usata: l'Intavolatura tastieristica. Le prefazioni del Frescobaldi non formulano mai una destinazione precisa, facendo anzi riferimento alla tecnica di arpeggiare le dissonanze che pare più propria di uno strumento da penna.
Si parla di "suono de' tasti" (Fantasie) mentre l'articolazione dei brani del I Libro di Toccate è indubbia destinazione clavicembalistica. Per contro proprio nel II Libro di Toccate, nel quale la distinzione strumentale è chiaramente indicata, nella dedica al Nunzio Gallo si parla in termini entusiastici della virtù "del sonar Gravecembalo" del Dedicatario, Vescovo di Ancona, prelato "dotato di grazia, agevolezza, varietà di misura e leggiadria", condizioni necessarie "alla nuova maniera", vera seconda prattica di tecnica tastieristica. Inoltre i Fiori Musicali che rappresentano un distillato ed una sintesi dello stile del Ricercare, del Capriccio e della Toccata vengono indicati nell'avvertimento al lettore come espressamente dedicati agli Organisti, quasi a contrapposizione della destinazione strumentale delle opere che elenca immediatamente prima e cioè "le stampe d'Intavolatura, ed in Partitura di ogni sorte [di] Capricci e d'invenzioni". Ai fini della destinazione strumentale può rivestire un qualche significato anche la lunghezza veramente notevole dei Capricci rispetto alle analoghe composizioni dei Fiori (la Bassa Fiamenga della Canzon dopo l'Epistola, la Bergamasca basata anche sul Ruggero e la Girolmeta, in cui la sezionalità è ben più marcata ed indicata, come del resto più volte nel corso delle altre Messe, dall'indicazione alio modo). Temi, questi, profani collegati ai Capricci ed eccezioni all'interno di una condotta rigidamente sacra, tra i cui paludamenti essi ammiccano in qualità di veri e propri "divertissements" siglati furbescamente dalla firma della Girolmeta.
Opere difficili da sonare i Capricci per il fatto di essere in "diversi tempi e variazioni", di "stile non così facile come ne' miei Ricercari". Difficoltà accresciuta dall'essere scritti in Partitura di cui "pare che da molti sia dismessa la pratica". Pur tuttavia anche dopo il successo tipografico delle Toccate "di grandissimo gusto per non essere in Partitura" il fatto della lettura "contrappuntistica" spinge il Frescobaldi ad insistere sulla necessità dello studio della Partitura.
Le ragioni sono indicate nella Prefazione dei Capricci: la lettura "polifonica" permette di risolvere alcune irregolarità contrappuntistiche con la giusta ricerca di affetti e del "fine dell'autore circa la delettazione dell'udito" e del "modo che si ricerca nel sonare". L'insistenza sullo studio della Partitura viene senza mezzi termini conclamata nella Prefazione dei Fiori Musicali.
"Stimo di molta importanza a sonatori, il praticare le partiture perchè noti solo stimo a chi ha desiderio affaticarsi in tal composizione ma necessario, essendo che tal materia quasi paragone distingue e fa conoscere il vero oro delle virtuose azioni da l'Ignoranti. Altro non mi occorre, solo che l'esperienza è del tutto maestra: provi ed esperimenti, chi vuol in questa arte avanzarsi, la Verità di quanto ho detto [e] vedrà quanto esequirà di profitto".
La pratica odierna, così attenta al recupero delle prassi esecutive antiche ignora per lo più tale avviso. Uno degli scogli per l'esecuzione sulla partitura da parte degli esecutori secenteschi era l'imperfezione nell'allineamento delle parti nelle stampe dell'epoca per cui secondo il Grassi "avviene che son affatto dismesse, essendo necessario alli sonatori di divenir prima buoni compotisti per imparare a compartire il valor delle note".
Passando ad esaminare la struttura dell'andamento del Capriccio il quale, come le toccate, è basato sulla varietà di misura, si può verificare come l'architettura base della composizione Frescobaldiana venga elaborata secondo una struttura "oratoria" che prende le mosse da un solenne esordio cui seguono le varie argomentazioni gestite con l'episcopale "varietà di misura del bravo Nunzio Gallo. Tale varietà nel Capriccio è dal Frescobaldi stesso spiegata secondo quella riduttività del segno proporzionale tipico della scrittura mensurale, piegato e semplificato ad una mera indicazione di andamento e finalmente abolita nelle Canzoni e nei Fiori dalle esplicite indicazioni di Allegro e Adagio "nelle trippole o sesquialtere se saranno maggiori si portino adagio, se minori alquanto più allegre, se di tre semiminime più allegre, se saranno sei per quattro si dia il lor tempo con far camminare la battuta allegra". Alle quali chiarissime e fin troppo semplici indicazioni aggiungiamo come già detto l'impassibilita del tema che passa attraverso le vicende variative rimanendo identico pur nella necessaria caratterizzazione affettiva: è questo il caso del terzo Capriccio sopra il Cucco e dei Capricci basati sugli obblighi di solmisazione.
Certamente i Capricci sono l'opera più impegnativa e riuscita del Frescobaldi, nella quale egli profonde virtuosità compositiva, felicità inventiva e sapiente tecnica tastieristica.
L'uso limitato di tale opera, rispetto alle altre del Ferrarese, è stato certamente determinato dalla difficoltà esecutiva e di studio, fino ad ora condotto esclusivamente in forma armonica sull'Intavolatura. L'impiego dello stesso tema, l'esacordo, per i primi due Capricci determina tuttavia una diversissima caratterizzazione degli stessi: nel primo l'uso ascendente crea un'attiva tensione solenne e allegra dove per contro la discendenza dello stesso esacordo nel secondo crea una malinconicità assorta.
La meraviglia del terzo Capriccio, vero modello barocco per le generazioni successive, è determinata dall'ossessiva presenza in tutte le sezioni (ognuna organizzata attorno ad un tema proprio) dell'obbligo Re Si con cui risuona il canto del Cucù.
La seconda parte del tema gregoriano del Kyrie Cunctipotens percorre il quarto Capriccio con una fantasia fantasmagorica assoluta.
Il tema del quinto Capriccio, la Bassa Fiamenga (o Tedesca) è elaborato secondo un'eccelsa tecnica espressiva e compositiva tale da porsi come "obbligo" esecutivo per ogni tastierista. Da rilevare qui in particolare la struttura-tipo del Capriccio generalmente solenne e densamente contrappuntata nella prima sezione, cui seguono le altre, variamente trippolate secondo un criterio di intensificazione ritmica, per sfociare nella quasi onnipresente sezione cromatica, vero adagio al centro della composizione: infine compare una chiusura solenne o ritmicamente densa con il tema talora aggravato. Tale retorica è il modello elaborato dal Frescobaldi sulla scorta del Madrigale la cui forma poetica è generalmente costruita secondo un sillogismo contenuto spesso in un'unica frase in cui la chiusa è generalmente a forma di motto a rima baciata, finale esemplata dall'ottava, anch'essa forma chiusa di ragionamento epico-cavalleresco il cui codice viene trasposto nei casi amorosi. In tale senso la forma stessa della chiusa esemplifica "madrigalisticamente", il suggello amoroso del bacio.
Talora il tema-base del Capriccio è, sviluppato orizzontalmente: è, il caso della Spagnoletta la cui completa citazione, due volte ripetuta, percorre e caratterizza le varie sezioni, dividendo in due parti la composizione stessa. L'inadeguatezza all'assunto del libro da parte del settimo Capriccio, ed il suo carattere toccatistico e galante fa sì che venga espunto nelle due seguenti edizioni per ricomparire in forma variata come Aria detta Balletto nel Secondo Libro di Toccate.
La modernità del Capriccio ottavo con ligature al contrario è talmente sconvolgente che solo uno studio approfondito può rivelarne la grandezza. Esso nasce come un virtuosismo sul vezzo napoletano di durezze e legature realizzato dal Capriccio seguente.
Già si è parlato del Capriccio X di cui si vuole qui rilevare l'intensificazione emotiva determinata dalle tre sezioni in trippola susseguentisi fino a sfociare nell'ampio finale. Anche qui la forma del Capriccio indicata per la Bassa Fiamenga è realizzata in pieno con esordio solenne cui si susseguono vari passi che conducono alla sezione cromatica, centro della composizione da cui scaturisce l'impeto finale testè rilevato.
Del Capriccio sopra un soggetto (undecimo nella prima edizione, nono nelle due seguenti) colpisce il piglio di Canzon Francese, specificato anche dalla ternarietà del secondo episodio. Tale genere è all'origine di tutte le fughe "frescobaldiane" presenti nelle varie intavolature seicentesche, per non parlare delle innumeri attribuzioni sette-ottocentesche nelle Antologie organistiche: grandiosa la sezione finale in aggravamento del tema.
L'ultimo Capriccio è esempio magnifico di "madrigalizzazione" tematica. In esso il tema, basato sull'incipit Ariostesco del canto XLIV dell'Orlando Furioso, è il cosiddetto Ruggero in cui Bradamante dichiara la propria fedeltà al Paladino. I due versi iniziali, intonati con la melodia variata più volte nell'opera del Frescobaldi, recitano: "Rugger, qual sempre fui tal esser Voglio / sino alla morte e più se più si puote". La prima sezione si divide in due parti di cui la prima (batt. 1 a 17 secondo l'edizione Suvini-Zerboni) vede il primo verso diviso in due emistiche: "Ruggier qual sempre fui" solennemente affermativo, si contrappone a "tal esser voglio", rassicurantemente affettuoso. La seconda parte (batt. 18 a 35) suddivide anch'essa il verso: "fino alla morte" con le sue note ribattute è accompagnato da un contrappunto costituito da un moto continuo di crome ad indicare la durata illimitata del sentimento sul quale si innesta la solenne dichiarazione "se più si puote".
La sezione seguente in trippola maggiore interviene solennemente a commento parziale dell'esposizione dei caratteri tematici, ribadendo la solennità "eterna" del giuramento del secondo verso. Lo schema di Capriccio frescobaldiano vede la trippola maggiore in tale funzione anche nel Primo e nel Terzo Capriccio, in quest'ultimo proprio nella stessa situazione gerarchica di seconda sezione. La seconda parte del Capriccio inizia con un episodio in cui l'intero distico è citato due volte per intero (batt. 48 a 56 e batt. 56 a 64) con eccezione dell'ultimo emistiellio "se più si puote" che interviene solo in conclusione a partire da batt. 61 a fugare ogni dubbio del Paladino. Segue anche qui una trippola, questa volta minore, (batt. 65 a 77) basata su un eco di "tal esser voglio" per sfociare (batt. 78 a 86) in un'espressivissima intensificazione dei tre segmenti "tal esser voglio, fino alla morte, se più si puote" incastrati in tale forma, efficacissimamente madrigalistica: "sino alla morte" è seguito da una quintuplice affermazione di "tal esser voglio" (con inversione testuale di grande effetto); alla ripetizione al basso di "sino alla morte" (batt. 80-81) segue due volte "tal esser vaglio". Il soprano riprende il "sino alla morte" cui si interseca l'alto con il "tal esser voglio" mentre unitamente al soprano il basso conclude col "se più si puote" Alla battuta 82 il tenore riprende il dialogo col "sino alla morte" seguito dal "tal esser" del soprano cui s'ntersecano l'alto e quindi il tenore con il "se più si puote", il basso con due ripetizioni di "tal esser"(batt. 83 e 84), il soprano con "se più si puote", ma tutte queste ultime inserzioni sono veri e propri "inganni" ossia false entrate. Alla battuta 84 l'alto proclama il suo "sino alla morte", seguito dal "tal esser voglio" del tenore, concluso finalmente dal "se più si puote" del basso con un piccolo eco del "tal esser voglio" del soprano.
L'epopea continua con una terza parte al cui prima sezione (batt. 87 a 111) vede il tema esposto nella sua interezza all'interno delle varie voci, una prima volta da batt. 87 a 98 per poi riprendere col "sino alla morte se più si puote" fino a 111. Il tutto accompagnato da un trottante controsoggetto. Dolce ed affettuosa, la sezione centrale cromatica (batt. 112 a 132) canta cinque volte "Rugger qual sempre fui" per sfociare nella quarta ed ultima parte che conclude il cielo con intensificazione eroica e cavalleresca del contrappunto che nella prima sezione (batt. 132 a 151) accompagna con un vero "moto del cavallo" i due eroi-cavalieri-amanti, Ruggero e Bradamante, che si ridicono allontanandosi all'orizzonte il secondo verso, mentre il "Ruggier" è già stato sufficientemente esposto nella scena amorosa cromatica. L'ultima sezione (batt. 152 a fine) prolunga nell'eternità, grazie alle gamme ascendenti e discendenti, l'ultimo verso, con l'terazione finale (batt 55 a 158 e batt. 160 a fine) del "se più si puote".

Sergio Vartolo