Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, aprile 30, 2011

L'Orfeo di Monteverdi: genesi dell'opera

«IO LA MUSICA SON…»
«Domani sera si dà la favola di Orfeo. C’è un palchetto allestito nel salone dell’appartamento vedovile di Margherita Gonzaga, la sorella di Vincenzo già sposa di Alfonso d’Este a Ferrara. Esecutori eccellenti, Rasi, Bacchini, Magli e compagni. Parole di Striggio. Penso che sarà una grossa sorpresa per molti. Una commedia in cui tutti gli interlocutori parlano cantando continuamente. Nuovo per Mantova. L’attesa è grande. La sala angusta. Sono sulle spine. Finite le prove, qui mi scarico un po’ i nervi scrivendo».
Il 24 febbraio 1607 rappresenta una data fondamentale nella storia del melodramma. Quella sera di un lontano Carnevale di oltre quattrocento anni fa, nel Palazzo Ducale di Mantova, più precisamente nell’appartamento che era stato della Duchessa di Ferrara, Margherita Gonzaga, vedova di Alfonso II d’Este, gli Accademici degl’Invaghiti, sotto la protezione dei Principi Gonzaga, facevano rappresentare L’Orfeo, favola in musica di Claudio Monteverdi su libretto del conte Alessandro Striggio tratto dalle Metamorfosi di Ovidio e dalle Georgiche di Virgilio con riferimenti, per le scene ambientate negli Inferi, alla Divina Commedia di Dante. Ad interpretarla erano stati chiamati due divi dell’epoca, entrambi cresciuti alla scuola di Giulio Caccini: il castrato Giovan Gualberto Magli, fiorentino, ‘prestato’ per l’occasione ai Gonzaga dalla corte medicea, e il tenore Francesco Rasi, aretino, già fra i protagonisti dell’Euridice di Jacopo Peri e Ottavio Rinuccini. Magli fu la Musica, Proserpina e forse la Messaggera o la Speranza, Rasi ovviamente Orfeo. Il prelato Girolamo Bacchini sostenne probabilmente la parte di Euridice. Le frasi riportate all’inizio, ancorché in prima persona, non sono del compositore ma di Claudio Gallico, il musicologo scomparso nel 2006, il quale nella sua Autobiografia di Claudio Monteverdi pubblicata nel 1995 ricostruisce su basi storiche i fatti di quei giorni come se fosse lo stesso musicista a farlo, in un diario immaginario ma ricco di spunti di riflessione su un capolavoro la cui gestazione resta ancora parzialmente avvolta nel mistero. Rileggere queste pagine è anche un omaggio a chi le ha scritte, autore di ricerche e studi di riferimento per la conoscenza della musica rinascimentale e del primo Seicento.
Dunque, L’Orfeo. Un passo in avanti straordinario rispetto alle Euridici della Camerata de’ Bardi, del Peri e del Caccini, opere in musica alle quali peraltro la partitura di Monteverdi, già ‘melodramma’ nell’accezione più autentica del termine, resta debitrice per molti aspetti. Quelle dei fiorentini, osserva Monteverdi-Gallico, erano «favole sceniche in cui tutti gli attori cantavano. Non mi bastava. Ho in mente una favola fatta concretamente di musica. Un teatro di suoni, in cui la musica non è semplice ornamento in superficie. Il dramma deve germinare dalla musica, ben appoggiata a una poesia giusta. E sia ricco di varietà. Non sospinto soltanto da quella movimentazione recitata delle parole, che alcuni predicano o praticano. Ma fatto di passi aperti declamati, inframezzati da cantabili formati, seguendo le situazioni sceniche; e di cori di vario registro che commentano dallo sfondo o avanzano protagonisti; e di strumenti divisi secondo i loro colori, a dipingere gli ambienti e le posizioni: pastorali, regali, infernali. Non abbiamo noi nuovi trovato e ben provato tanti modi e affetti diversi di musica? Perché non applicarli a fondo utilmente in questo genere di spettacolo?». L’accento viene posto sulle peculiarità della musica, del canto e dell’orchestrazione, ma anche sull’importanza del libretto, per la prima volta scritto appositamente per essere rivestito di note. E la discussione si accende sulla scena conclusiva dell’opera, che avrebbe dovuto essere tragica, persino scioccante in alcune truculente immagini, e che l’inflessibile cerimoniale di corte voleva invece lieta: «Dicono che il finale sanguinoso, con il coro delle Baccanti che ammazzano e fanno a pezzi il corpo di Orfeo, non va bene. Le dame inorridiscono. Un protagonista, un principe, muore in scena.
A parte le ragioni di opportunità qui a Mantova oggi, ripenso al mito antico. Cosa vuol dire quello spargimento delle membra di Orfeo sul terreno, e la testa spiccata dal corpo che continua a cantare portata dalla corrente del fiume. È l’eternità della musica, la sovranità della bellezza. E la terra è fecondata dal corpo del semidio sacrificato. Del figlio di Apollo.
Apollo appunto. L’altra versione che si vuole rappresentare, con l’apparizione del dio consolatore, e la loro salita in cielo cantando, mi lascia un po’ freddo. Va a finire che il pubblico sarà sviato, incantato dalle stregonerie degli scenografi, e l’arte nostra ricacciata sullo sfondo». A Mantova l’attesa per il nuovo lavoro di Monteverdi era spasmodica: «Dimani sera — scrive Carlo Magni al fratello Giovanni — il Ser.mo Signor Principe ne fa recitare una [commedia] nella sala del partimento che godeva Madama Ser.ma di Ferrara che sarà singolare, posciaché tutti li interlocutori parleranno musicalmente, dicendosi che riuscirà benissimo, onde per curiosità dubito che mi vi lascierò ridurre, caso che l’angustia del luogo non mi escluda». Il luogo prescelto per la rappresentazione era piccolo e Magni temeva di non riuscire ad accedervi per assistere a un evento che si preannunciava esclusivo e sensazionale. Lo stesso giorno il Principe Francesco Gonzaga, lo ‘sponsor’ della straordinaria operazione culturale, mandava a dire al fratello Ferdinando, studente a Pisa: «Dimani si farà la favola cantata nella nostra accademia poiché Gio.
Gualberto [Magli] s’è portato così bene, che in questo poco tempo ch’è stato qui non solo ha imparato bene tutta la parte a mente, la dice con molto garbo e con molto effetto, onde ne sono rimasto soddisfattissimo; e perché la favola s’è fatta stampare acciocché ciascuno degli spettatori ne possa avere una da leggere mentre che si canterà, ne mando una copia a V.S.». L’esito della rappresentazione fu così strepitoso che il Duca Vincenzo decise di farla replicare di fronte a un pubblico ancora più numeroso: «Si rappresenta la favola con tanto gusto di chiunque la sente — riferisce Francesco Gonzaga a Ferdinando — che non contento il Signor Duca d’esserci stato presente ed averla udita a provar molte volte, ha dato ordine che di nuovo si rappresenti, e così si farà oggi con l’intervento di tutte le dame di questa città, e per questa cagione si trattiene qui Gio. Gualberto, il quale s’è portato bene et ha dato gran soddisfazione col suo cantare a tutti e particolarmente a Madama».
Il libretto dell’opera, con il titolo La favola d’Orfeo, era stato stampato da Francesco Osanna in contemporanea con la rappresentazione; la partitura vedrà la luce soltanto due anni dopo, nel 1609, a Venezia, per i tipi di Ricciardo Amadino.
Al centro del suo lavoro Monteverdi pone Orfeo, il simbolo dell’Arte che redime il mondo, e non più Euridice, come negli ‘esperimenti’ dei fiorentini: «Alessandro [Striggio] era attirato dalla persona sventurata di Euridice. Io no. Io rispondevo di mirare tutta l’attenzione al dramma e alle pose di Orfeo.
Gli altri si muovono ai fianchi. Come padre e maestro di tutta la musica, Orfeo serve bene ai miei piani.
Grazie a lui, posso dimostrare qualcosa. [...] È Orfeo uomo che merita tutta la luce della ribalta. Che storia grandiosa. E quanti segreti di cose non rivelate. Orfeo perde Euridice due volte. Due volte! Non crede, non ha fede nella promessa del dio oscuro, e rompe la sua legge. Egli ama. Oggi penso che abbia forse ragione chi dice che Euridice è lo specchio, una emanazione necessaria di Orfeo, ossia Orfeo stesso, la sua anima, la sua aura. Quindi l’eroe perde se stesso. È Orfeo che genera la propria morte. La sua anima sarebbe così il mistero di quel volto che non gli è permesso scrutare. Avverrà mai la loro ricomposizione in uno?». Dall’alba del mondo l’Uomo cerca risposta a questa domanda angosciante nella Natura, nella Fede, nell’Arte. Monteverdi indaga, analizza, ma non scioglie l’enigma, anzi: la conclusione dell’opera, tragica o lieta che sia, precipita l’Individuo nell’abisso della propria solitudine. La partitura è strutturata magistralmente, lungo un arco drammatico che si sviluppa con perfetta unità formale e stilistica. Dopo la Toccata iniziale, il solenne inno dei Gonzaga ripetuto tre volte in cui squillano le trombe
e rullano i tamburi, e gli altisonanti ritornelli della Musica, l’opera inizia in un’atmosfera di grande serenità pastorale: «Luminosissima aria di festa, per cominciare. Scattanti movenze di balli. La canzone d’uscita di Orfeo, “Rosa del ciel”, è un giovanile canto del sole e dell’amore. Onde di felicità collettiva.
Natura benigna ride intorno. Di colpo il cielo si oscura. Armonie lacerate. Silvia la messaggera si annuncia da lontano. La macchina della morte si mette in movimento. Racconto e disperazione della compagna di Euridice. Gesti d’orrore dei pastori. Addio al mondo. Qui ho straziato me stesso. Cori lamentosi, come gli antichi treni funebri dei Greci.
Nell’Ade è guidato dalla Speranza. Preghiera del semidio. L’aria “Possente spirto”, pronunciata per incantare Caronte, è il vaso di tutta la musica che so inventare». Pochi compositori sono riusciti a uguagliare il vertice raggiunto da Monteverdi nel canto ammaliante, ipnotico che Orfeo rivolge al nocchiero infernale per ammansirlo e traghettare così sull’altra sponda dell’Acheronte. Siamo soltanto agli albori del melodramma, eppure l’aria contiene in sé i mirabolanti artifici del barocco, la conturbante vertigine del belcanto, gli eroici slanci del romanticismo, le arditezze armoniche del Novecento: una summa di tutto ciò che sarebbe stato, da quel momento in avanti, il canto lirico. Un percorso di quattro secoli di storia viene tracciato in pochi istanti di musica sublime. «Amori e tenerezze di Plutone e Proserpina: l’Inferno è una stanza nobile. Grazie al suo canto che addolcisce e convince, l’eroe ottiene la resurrezione della sposa. Risale. Fragori. Si volta. La perde. Dolce evanescente Euridice: quale buio rimane in scena senza te. Il grido di lui mi cresce nel petto. Emerge sui campi di Tracia, grigi desolati testimoni d’una addolorata e monotona lamentela. Luce morta, dove tutto è rallentato e senza speranza.
Questo deve essere comunicato. Comunque vada a finire.
Questa storia di amore e di morte mi è entrata dentro. E se io perdessi Claudia?». La perfidia del destino era in agguato: Claudia Cattaneo, amatissima consorte di Monteverdi, morì il 10 settembre 1607, pochi mesi dopo la prima dell’Orfeo.

di Giovanni Vitali (Vox Imago - Musicom)

sabato, aprile 23, 2011

Edvard Munch: il quadro conteso di Alma Mahler

Il pittore regalò una sua opera alla vedova di Gustav, ma con l'Anschluss il dipinto passò alla Pinacoteca di Vienna. Ora gli eredi lo reclamano e il governo deciderà a giorni.
 
La storia incredibile del capolavoro diventato un caso privato e politico. Una vicenda che coinvolse anche Gropius, Franz Werfel e le autorità giudiziarie. Nei prossimi giorni la signora Elisabeth Geher, ministro austriaco della Cultura, dovrà prendere una decisione - attesa da più di mezzo secolo - riguardo alla restituzione di un famoso quadro di Edvard Munch, "Notte d'estate in spiaggia", ospitato fin dalla guerra nella Galleria Nazionale Austriaca e reclamato dagli eredi della proprietaria, la mitica Alma Mahler. La storia del dipinto - esemplare per assurdità - s'intreccia alle alterne e non sempre amorevoli vicende della famiglia, nonchè all'oscura parabola dell'Austria entrata, dopo l'Anschluss, nell'orbita nazista. Una storia infinita fatta di una mistura esplosiva di avidità, antisemitismo e ostinata, cieca burocrazia. Rimasta vedova del musicista Gustav Mahler, Alma, l'affascinante e molto corteggiata figlia del pittore Emil Jakob Schindler, sposò l'architetto fondatore del Bauhaus, Walter Gropius, dal quale ebbe una amatissima figlia, Manon, alla cui nascita ricevette in regalo dall'amico pittore norvegese, appunto, la "Notte d'estate in spiaggia". La malattia - poliomielite - e la morte prematura della bambina fecero sì che sua madre, nel frattempo separatasi da Gropius, si legasse in modo particolare a quel quadro. Qualche anno dopo, Alma si sposò, per la terza volta, con lo scrittore ebreo Franz Werfel, i cui libri furono, già nel '33, messi al rogo dai nazisti. Il 14 marzo, un giorno dopo l'Anschluss, resasi conto del pericolo che correva, precipitosamente ella abbandonò Vienna per raggiungere il marito che già da qualche mese si era rifugiato a Parigi. Ovviamente non aveva provveduto a sistemare nessuna delle sue cose e buona parte dei quadri di casa si trovava ancora nella Galleria Nazionale alla quale li aveva affidati l'anno prima per un prestito che sarebbe dovuto scadere nel 1939. Tuttavia, quattro giorni dopo la partenza, il pittore Carl Moll, secondo marito di sua madre e quindi suo patrigno, si sentì autorizzato - senza che la Galleria gli chiedesse alcuna delega - a portarsi a casa cinque quadri della figliastra: il famoso Munch oltre a un ritratto di Alma dipinto dal suo antico innamorato Oskar Kokoschka e a tre opere di Emil Jakob Schindler. Nel frattempo, la sorellastra di Alma, Marie, figlia di Carl Moll, sposata con il Presidente del Tribunale di Vienna Richard Eberstaller, come lei di fervida fede nazista, l'aveva, tramite avvocato, convinta ad affidarle - pro forma - la residenza estiva di Breitenstein per evitare che venisse confiscata in quanto proprietà di ebrei. L'accordo era che Richard e Marie ne potessero usufruire come e quando volevano, accollandosi in cambio le spese di manutenzione. Quando però, alla fine del 1938, morì Anna Schindler Moll, l'anziana madre delle due sorellastre, Marie Eberstaller, con il pretesto che la casa aveva bisogno di essere riparata, vendette, per 7.000 marchi tedeschi, il quadro di Munch alla Galleria Nazionale che nemmeno stavolta pretese una delega, pur essendo al corrente - per via del precedente prestito - che l'opera apparteneva ad Alma. Nessuno tentò di mettersi in contatto con la proprietaria che all'epoca si trovava ancora a Parigi e che, all'oscuro di tutto, più o meno contemporaneamente, cercava di riavere il quadro con l'aiuto dell'ambasciatore ungherese, suo amico, che proprio allora era stato trasferito da Vienna a Parigi. L'operazione, ovviamente, non andò in porto e, anni dopo, durante il processo per la restituzione, l'allora direttore della Galleria Nazionale, Bruno Grimschitz, spiegò che dipendeva da lui concedere o meno il permesso per l'esportazione dell'opera e che quel permesso non l'aveva mai dato. Il 12 aprile 1945, con i russi alle porte di Vienna, il Presidente del Tribunale Eberstaller, prima di uccidersi, ammazzò a colpi di pistola il suocero Carl Moll e la moglie Marie. Due anni dopo, l'Austria promulgò una legge che annullava qualsiasi tipo di esproprio e transazione eseguiti durante l'occupazione nazista ai danni degli ebrei. Ed è dell'11 agosto 1947 la prima richiesta di restituzione della raccolta Mahler depositata in tribunale dall'avvocato di Alma. Avversario nel processo era la Procuratura di Finanza che rappresentava la Galleria Nazionale. Al centro della querelle non c'era solo "Notte d'estate in spiaggia", ma c'erano anche altri quadri che dalla casa di Alma erano stati trasferiti in quella degli Eberstaller e, da costoro destinati, in un testamento scritto pochi giorni prima di morire, senza una parola nè un pensiero per la legittima proprietaria, alla pinacoteca viennese. Pinacoteca che, ancora oggi, fa riferimento a quella collezione come "lascito Moll", benchè non esista alcun documento in tal senso a nome di Moll, ma solo il testamento firmato dagli Eberstaller. Da quel momento la vicenda si fa strettamente giuridica e, praticamente, interminabile. Sentenze e ricorsi si sono susseguiti, si sono invocati cavilli ed errori di procedura, si è discusso sul valore e sul prezzo dei quadri. E, tra le pieghe del processo, si è scoperto, tra l'altro, che i lavori di manutenzione della casa di Breitenstein erano costati solo 1.900 marchi contro i 7.000 ottenuti dagli Eberstaller con la vendita del quadro. La famiglia si era, dunque, permessa, una "cresta" non indifferente. Alma Mahler, che da tempo viveva a New York, combattè fino alla morte, avvenuta l'11 dicembre 1964, per riavere la sua "Notte d'estate in spiaggia". Ad amici e conoscenti che l'andavano a trovare ripeteva sempre che l'Austria l'aveva tradita. E, anche, la famiglia. La sua amarezza era così grande che, nel 1960, rifiutò di presenziare ai festeggiamenti viennesi voluti dal Ministero della cultura per ricordare Gustav Mahler. Scrisse il suo rifiuto al ministro Heinrich Drimmel, spiegando: "Nell'estate del '47 sono tornata a Vienna per riprendermi i miei quadri, e ho scoperto di essere stata espropriata. Da allora quell'ingiustizia mi spacca il cuore". E se la figlia maggiore di Alma, la scultrice Anna Mahler, nata dal suo primo matrimonio, si era sempre tenuta fuori dall'annosa disputa tralasciando, perciò, di subentrare nel processo alla morte della madre, è pero' scesa in campo la nipote per combattere la battaglia che fu di sua nonna. Marina Mahler confida nella nuova legge che, perfezionando i provvedimenti del 1947, impone la restituzione, da parte di gallerie e musei austriaci, di oggetti e opere d'arte che siano stati acquisiti in modo irregolare negli anni del nazismo.

Isabella Bossi Fedrigotti Isabella (Corriere della Sera, 26 ottobre 1999)

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Austria – Restituito un Munch alla nipote di Mahler
A Vienna, nelle sfarzose sale del Belvedere mancano ormai da metà marzo i cinque quadri di Klimt che la repubblica austriaca ha dovuto restituire agli eredi di Ferdinand Bloch-Bauer, e presumibilmente non vi torneranno: il ritratto di Adele Bloch-Bauer su fondo oro se l’è aggiudicato a giugno l’erede dell’impero cosmetico Lauder per la sua Neue Galerie di New York. Gli altri quattro sono stati assegnati l’8 novembre in parte via telefono a compratori ancora misteriosi, nel corso di quella che Christie’s ha definito «la più grande asta di tutti i tempi della nostra sede newyorkese».
Qualche ora prima di quest’ultima ingente vendita per 172 milioni di dollari, sempre l’8 novembre un altro strale ha colpito la pinacoteca viennese, e in tutta fretta un ulteriore quadro è stato tolto dalle sue sale: «Notte estiva sulla spiaggia» (anche denominato «Paesaggio marino sotto la luna») di Edvard Munch. Anche per questo dipinto a olio il verdetto della commissione austriaca preposta alla restituzione di opere d’arte confiscate o vendute sotto costo durante il nazismo e mai riconsegnate ai legittimi proprietari, è stato chiaro e unanime: quel paesaggio va ridato agli eredi della proprietaria, quella Alma Mahler-Werfel che seppe essere fondamentale animatrice del mondo della cultura viennese tra Ottocento e Novecento e fu fascinosa musa di uomini di primo piano, da Oskar Kokoschka a Gustav Mahler, da Walter Gropius a Franz Werfel. Il destino del quadro di Munch è stato quello di tante migliaia in Austria.
Alma Mahler era fuggita nel 1938 da Vienna insieme al marito Franz Werfel, di fede ebraica. Il patrigno Carl Moll, celebre pittore, oltre che acceso nazionalsocialista, aveva quindi venduto il quadro nel 1940 al Belvedere per 7 mila Reichsmark, ma senza il consenso di Alma. A partire dal 1947 la donna chiese – più volte e inutilmente fino alla morte, nel 1964 – alla Repubblica austriaca la restituzione del quadro. Quindi la chiesero gli eredi, ottenendo nel 1999 un nuovo rifiuto. E invece ora, quasi a sorpresa, il sì agognato: «Non posso crederci, sono strafelice, è così incredibilmente meraviglioso», è stata la prima dichiarazione di Marina Fistulari-Mahler, nipote di Alma, alla notizia, «d’ora in poi tornerò a Vienna con una disposizione d’animo diversa».
Era stata proprio la decisione della commissione arbitrale per i cinque Klimt ad indurre Marina Mahler a chiedere in febbraio il riesame del suo dossier, convinta «di avere argomenti migliori di quelli degli eredi Bloch-Bauer».
La restituzione di un’altra opera è andata a beneficio della leader del Partito comunista britannico (nove mila iscritti) che si è ritrovata all’improvviso da povera a proprietaria di una tela da 30 milioni di euro.

Flavia Foradini (Diario: Anno XI, numero 44, 17 novembre 2006)

sabato, aprile 16, 2011

...se ne verrà con me se accosì piace a Sua Altezza

Un viaggio quasi vero da Roma a Mantova

Siamo a Roma, nel settembre 1581: Antonio Rizzi è un cantore siciliano al servizio del duca Guglielmo Gonzaga, che viaggia per l’Italia con l’incarico di procurare al suo signore buoni musicisti. E non solo: a volte – come capita a molti servitori – gli viene chiesto di procurare un tessuto prezioso, o qualche altro oggetto di valore. È un buon agente, vivace: insieme al fidato Aurelio Zibramonti sa intessere trattative importanti. Come quella appena abbandonata a Bologna, per una cantante e strumentista, che Guglielmo vorrebbe come dama di compagnia per la giovane nuora Margherita Farnese, da poco giunta a Mantova. Si tratta di Laura Bovio, che tutti lodano per le sue qualità e vanno ad ascoltare ammirati nelle celebrazioni presso il convento di San Lorenzo.
Ora, però, Antonio deve lavorare bene: proprio tramite Aurelio Zibramonti ha ricevuto dal duca «cinquanta scudi d’oro del peso di Roma per andar alla suddetta città in servizio di Sua Altezza, de’ quali gli havrà da render ragione». Il cantore cerca virtuosi di pregio e può avere un aiuto dal nobile Scipione Gonzaga, attorno al quale si radunano tutti i migliori musicisti, come Luca Marenzio, Giovanni Pierluigi da Palestrina, Giovanni Maria Nanino, Ruggero Giovannelli. La relazione che manda a Mantova è dettagliata e offre diverse possibilità: ha ritrovato un castrato che è già stato a corte e può di nuovo tornare; Palestrina gli ha consigliato un contralto («persona molto litterata», già impiegata in San Pietro) che però partirà solo con adeguato compenso, così come l’arpista Giovanni Battista che vuole condurre con sé anche i genitori.
Ma il primo che ha riposto alle richieste del duca Gonzaga e che Antonio pone in cima alla sua lista è un grande organista fiammingo, giunto a Roma a studiare con Filippo Da Monte, dopo essere stato fanciullo cantore nella cappella imperiale di Vienna: Giovanni de Macque. Ha bisogno di alcuni giorni per sistemare le sue faccende (è organista in San Luigi dei Francesi), ma «s’è contentato di venir a servire Sua Altezza» e se ne verrà con lo stesso Rizzi «se accosì piace» a Guglielmo.
È arrivato a Mantova davvero de Macque?
Ancora non lo sappiamo, ma come non pensarlo alla tastiera dell’Antegnati in Santa Barbara, oppure intento ad ascoltare i concerti in corte, o le celebrazioni in chiesa? Possiamo immaginare che anche attraverso il viaggio a Mantova le sue costruzioni musicali raffinate, le sue capacità di creare forme insolite e mobilissime, di sperimentare nei timbri e nei fraseggi, abbiano trovato idee e suggestioni, prime fra tutte sui tasti dell’organo di Graziadio.
In fondo è solo un viaggio da un Gonzaga all’altro, da Scipione a Guglielmo, quest’ultimo così in confidenza con il grande Palestrina. E poi, per de Macque, un nuovo itinerario verso Sud, per altri incarichi importanti a Napoli, cominciando con un allievo di tutto rispetto: Carlo Gesualdo principe di Venosa.
Così la musica percorre gli spazi, fa parlare gli uomini, apre occhi e menti.
E Antonio? Il cantore così servizievole e attento con il duca di Mantova?
È vivace e intraprendente, forse un po’ troppo. Lo ritroviamo a Genova nel 1584, in mezzo ad un piccolo guaio: assunto per educare i giovani figli di un nobile cittadino, è sorpreso a recarsi di notte per vie e palazzi a guadagnare denaro cantando. Il comportamento è troppo disdicevole, andrebbe punito, ma Antonio riesce a salvarsi: grazie alle sue amicizie – e probabilmente anche alle sue qualità – trova impiego come cantore a Palermo. Un altro viaggio al Sud, questa volta un ritorno a casa.

Licia Mari

sabato, aprile 09, 2011

Musica contemporanea: Alex Ross & Alessandro Baricco

Benché sia trascorso ormai un secolo da quando Alban Berg e Anton Webern riversarono sul mondo le loro aspre sonorità, i classici moderni sono considerati tuttora indigesti da buona parte del pubblico dei concerti. All'ultima stagione della New York Philharmonic, al momento dell'esecuzione dei Tre pezzi per orchestra di Alban Berg decine di persone hanno lasciato la sala; e un gruppo altrettanto nutrito ha disertato Carnegie Hall quando la Filarmonica di Vienna ha affrontato le Variazioni per orchestra di Schoenberg. A volte basta anche il più blando dei regimi di musiche del XX secolo per suscitare uno stridor di denti chiaramente udibile. Persino una composizione che ha ben poco di atonale come la Serenata per tenore, corno e archi di Benjamin Britten, ascoltata al Lincoln Center nel 2009, non ha incontrato il gusto di un signore seduto dietro di me. Il quale, sentendo una voce gridare «bravo!» dall' altra parte della sala, ha borbottato: «Scommetterei che è una posa». Ho resistito a stento alla tentazione di sbattergli contro la partitura tascabile che avevo in mano. Alcuni comportamenti di questo tipo si possono mettere sul conto della ben nota mancanza di buone maniere di alcuni sponsor di New York. Ma il problema è molto diffuso, come può confermare qualunque organizzatore di concerti amante del repertorio del XX secolo. Tra il pubblico di Last Night of the Proms del 1995 c'è chi si dice ancora traumatizzato dall'estrema violenza di composizioni come Panic di Harrison Birtwistle. Per decenni i critici, gli storici e persino gli specialisti di neuroscienze si sono sforzati di comprendere come mai la cosiddetta musica moderna lasci perplesso l'ascoltatore medio. Dopo tutto, in altri campi artisti non meno avventurosi hanno ricevuto una ben diversa accoglienza. Il dipinto più quotato della storia è un vorticoso quadro astratto, il N° 5 di Jackson Pollock, venduto nel 2006 per 140 miliardi di dollari. I tycoon e gli emiri si contendono gli architetti d'avanguardia; e ogni anno, in tutto il mondo il 16 giugno si organizzano drinking parties ispirati all'Ulisse di James Joyce. Un tempo questi intoccabili della cultura erano trattati da ciarlatani, o da venditori dei «vestiti nuovi dell' imperatore», per citare una metafora divenuta ormai un luogo comune tra i musicofili dissenzienti. La troviamo fin dal 1913 in un editoriale del New York Times, che faceva strame di Marcel Duchampe del suo Nudo che scende le scale; e nel 1946 è ripresa da un commentatore che sostiene di non vedere la differenza tra un Picasso e il disegno di un bambino. Il poema di T.S. Eliot Canto d'amore di J. Alfred Prufrock è stato citato per le sue «incoerenti banalità». E dire che oggi, se durante una cena qualcuno osasse dir male di Pollock, si attirerebbe le occhiate perplesse dei commensali; mentre non è detto che un analogo commento su John Cage venga accolto da reazioni polemiche. I tentativi di spiegare la perdurante resistenza al modernismo in musica sono stati tanti da far pensare che nessuno di essi abbia colto nel segno. Una teoria sostiene che la preferenza per la tonalità semplice sia insita nel cervello umano; ma i test per verificare questa tesi hanno prodotto risultati ambigui. Alcuni studi rilevano che nei primi anni di vita prevale la preferenza per gli intervalli consonanti; è anche vero però che i bambini vengono abituati fin dalla nascita all'ascolto di musica tonale, e sono quindi condizionati ad accettarla come «naturale». Quanto alle arti visive, le ricerche dimostrano che i bambini preferiscono le immagini figurative a quelle astratte; ma questa propensione è stata evidentemente superata dai 327.000 visitatori che nel 2008-2009 sono accorsi alla Tate Modern per vedere le lugubri tele dell'ultimo periodo di Mark Rothko. E lo stesso potrebbe accadere per la musica. Si è anche tentata una spiegazione sociologica: chi assiste a un concerto è praticamente bloccato nella sua poltrona per un tempo prestabilito, e perciò tendenzialmente restio a compiere uno sforzo inusitato; mentre i visitatori di una mostra d'arte hanno la possibilità di muoversi liberamente, e quindi di assimilare immagini anche inconsuete secondo i propri tempi e ritmi. Ma se fossero le modalità della presentazione a condizionare la reazione, anche il pubblico dei cinema, dei teatri e degli spettacoli di danza dovrebbe opporre la stessa resistenza alle idee innovative. La relativa popolarità di autori quali George Balanchine, Samuel Beckett o Jean-Luc Godard induce poi a considerazioni di tutt'altro genere. Per quanto attiene in particolare al cinema, si è colpiti dal larghissimo uso di quelle stesse dissonanze che il pubblico dei concerti tende spesso a considerare alienanti. Alla fine degli anni 1960 il film di Stanley Kubrick 2001: Odissea nello spazio ha elettrizzato milioni di spettatori, grazie anche all'allucinata colonna sonora di György Ligeti. E il recente Shutter Island di Martin Scorsese, con musiche di Cage, Morton Feldman, Giacinto Scelsi e dello stesso Ligeti, ha realizzato un record di incassi. La partitura composta da Michael Giacchino per la serie televisiva Lost è una vera enciclopedia di tecniche d'avanguardia. Se quindi l'orecchio umano fosse istintivamente ostile alle dissonanze, queste e mille altre produzioni hollywoodiane dovrebbero essere votate all'insuccesso. Il mio sospetto è che il problema di fondo non sia né fisiologico, né sociologico; più probabilmente, i compositori moderni sono vittime di una persistente indifferenza intimamente legata a un rapporto di idolatria per la musica classica legata al passato. Accadeva anche prima del 1900 che il pubblico frequentasse i concerti col desiderio di farsi massaggiare dalle piacevoli sonorità dei giorni andati. («Le nuove composizioni non hanno successo a Lipsia», disse un critico nel 1859, ad una prima di Brahms). Il mondo della musica si è focalizzato sulla lucidatura maniacale di una vetrina di capolavori. Al tempo in cui Schoenberg, Stravinsky e altri musicisti coevi inauguravano un nuovo vocabolario di accordi e di ritmi, contro di loro i giochi erano fatti (...). Sembra impossibile - a meno di ricorrere a misure drastiche - colmare lo svantaggio di appartenere ancora al mondo dei vivi. D'altra parte, musei e gallerie d'arte hanno adottato un atteggiamento nettamente diverso. In America importanti istituzioni hanno svolto un'azione di propaganda per l'arte moderna. Facoltosi mecenati hanno sponsorizzato alcune delle novità più radicali; i mercanti d'arte hanno fatto un uso massiccio della pubblicità, e i critici hanno circondato di un alone romantico artisti quali Pollock e altri, rappresentandoli come eroi solitari. Così si è fatta strada l'idea che i musei possano essere concepiti come luoghi di avventure intellettuali. In occasione di una recente visita al MoMa sono stato colpito da una scritta all'ingresso, che recitava: «Essere parte di qualcosa di brillante, elettrizzante, radicale, curioso, nitido, dinamico... turbolento, visionario, drammatico, attuale, provocatorio, impavido...». Oggi nessuna orchestra importante potrebbe o vorrebbe descriversi in termini analoghi. Ma qualche organizzazione si sta muovendo in questo senso (...). I giovani accorrono a migliaia alle serate MusicNOW offerte dalla Chicago Symphony, che accortamente ha incluso nel biglietto uno spuntino a base di pizza e birra. A Londra una folla elettrizzata ha preso d'assalto il Southbank Centre o The Barbican per le serate di Edgard Varèse, Iannis Xenakis, Luigi Nono o Karlheinz Stockhausen. Ma anche a New York la situazione non è poi disperata. Alan Gilbert, che dalla scorsa stagione dirige la New York Philharmonic's, ha avuto uno straordinario successo con proposte indigeste come Le Grand Macabre di Ligeti, Amériques di Varèse e ancora, all'inizio della stagione, Kraft di Magnus Lindberg. Gli osservatori di lungo corso non credevano ai loro occhi davanti agli applausi tributati dal pubblico degli abbonati a questo brano di Lindberg, praticamente atonale dall'inizio alla fine, che prevede l'uso di parti di automobili dismesse come percussioni. A fare la differenza è stata la capacità di Gilbert di prendere per mano il pubblico per guidarlo in nuovi territori: nel corso di una mini-conferenza non priva di autoironia, ha illustrato la struttura del brano ponendo in luce i suoi punti salienti, e ha saputo dare al pubblico la sensazione che chi avesse lasciato la sala si sarebbe perso qualcosa di irripetibile. Il gusto musicale è sempre acquisito; e nessun tipo di musica può piacere ovunque. Alcuni mesi fa il blogger Proper Discord notava che l'album più venduto in America nel corso di quella settimana, il pop medley di Katy Perry Teenage Dream, era stato acquistato solo da un cittadino su 1.600. Certo, alcuni generi sono più popolari di altri, ma i gusti individuali possono cambiare in maniera drastica. Quand'ero giovane amavo il repertorio del XVIII e del XIX secolo e non quello del XX, classico o pop. Ma una volta compresa la forza della dissonanza, ho compiuto il percorso da Schoenberg a Messiaen a Xenakis, inseguendo la pista dei rumori fino alle sonorità post-punk dei Sonic Youth. D'altra parte, a qualcuno dei miei contemporanei è accaduto di scoprire la musica classica con un procedimento inverso, iniziando non da Mozart ma da Steve Reich o Arvo Part. Per formare il pubblico di domani le istituzioni musicali dovrebbero rafforzare il loro impegno per la costruzione di ponti inaspettati tra generi diversi. C'è una nozione che va decisamente respinta: quella che vede nella musica classica una fonte sicura di bellezza consolatoria - qualcosa come uno spa treatment, un trattamento rigenerante per anime stanche. Atteggiamenti del genere offendono non solo i compositori del XX secolo, ma anche i classici che si pretende di amare. Immagino l'ira di Beethoven, se qualcuno gli avesse detto che un giorno la sua musica sarebbe stata diffusa nelle stazioni ferroviarie per sedare i pendolari e allontanare i delinquenti. Familiarizzarsi con compositori quali Berg e Ligeti porta a scoprire nuove dimensioni anche in Mozart e in Beethoven: e ciò vale sia per il pubblico che per gli esecutori. Per troppo tempo abbiamo rinchiuso i maestri classici in una gabbia d' oro; è venuto il momento di aprirla.Alex Ross (Traduzione di Elisabetta Horvat) © Guardian News & Media Ltd

Questa: perché lo stesso pubblico che apprezza la bellezza di un Pollock non riesce ad apprezzare la bellezza di uno Schoenberg? Perché la modernità, in musica, continua a risultare così indigesta? La domanda è semplice ma coglie nel segno, e se c'era qualcuno che poteva farla non poteva essere che Ross, uno dei pochi, attualmente, che guardi al mondo della musica classica con intelligenza e senza troppi tabù. Bene, non resta che trovare la risposta. Ross ci prova, riassumendo risposte altrui e azzardandone una sua: appaiono tutte credibili, comprese quelle su cui lui mostra di coltivare dei dubbi, e che non sono poi tanto infondate. Probabile che sia la somma di tutte quelle ipotesi a generare il risultato, anomalo, che abbiamo sotto gli occhi. Così come è probabile che altre spiegazioni si possano trovare e aggiungere. Io mi permetto di annotarne una, tanto per non lasciare nulla di intentato. Forse è una questione, anche, di marketing. Ma non nel senso, innocuo, per cui se dai un titolo spiritoso al concerto e distribuisci coca cola, tutto funziona meglio. In un senso più intelligente. Voglio dire che per lunghissimo tempo la musica colta moderna è stata venduta come uno sviluppo naturale della musica classica. Se apprezzavi il cammino che portava da Haydn a Schubert, allora potevi apprezzare il cammino che da Wagner portava a Webern. Se non riuscivi a farlo, il problema era tuo. Il principio ha trovato per decenni una sciagurata formalizzazione nella confezione di concerti il cui schema modello era: Bach, Boulez, Brahms. Una cosa breve di un grande classico, una composizione contemporanea, intervallo, e poi orgia romantica (il disordine cronologico era dettato dal timore di un fugone dopo l' intervallo). A parte il fastidioso retrogusto da oratorio salesiano (partitella a pallone, messa, partitona a pallone), quel modello di concerto imponeva una verità che avrebbe fatto meglio, piuttosto, a mettere in discussione: che ci fosse una sostanziale continuità tra l'ascolto di un Brahms e di uno Boulez: che si trattasse di prodotti diversi ma fatti per lo stesso tipo di consumo. Li mettevano nello stesso scaffale del supermercato, se riesco a spiegarmi. Come ketchupe mayonnese. Giusto. Ma Chopin e Webern sono davvero, tutt'e due, salse? Io penso di no e penso che alla lunga il pubblico non abbia perdonato alla musica colta quella sottile truffa. Altrove sono stati più onesti. E' possibile ad esempio, che il famoso Pollock risulti così più accessibile proprio perché di rado viene esposto di fianco alla Gioconda. L'arte contemporanea sta, per lo più, in musei di arte contemporanea. Come la danza moderna ha altri circuiti dal Balletto classico. Allora è più facile scegliere, e alla fine apprezzare. Perché gustare Steve Reich non è difficile, amare Monteverdi neppure, ma tenerli insieme e trovarvi una parentela stretta è un'impresa ostica, spesso insensata, che mette fuori gioco il piacere puro dell'ascolto e genera solo fatica, spesso inutile, e frustrazione. Probabilmente si avesse avuto la lucidità e il coraggio di separare le cose fin dall' inizio, sarebbe stata tutt'un' altra storia. Non solo per il pubblico, anche per i compositori. Invece che pretendere di essere amati in nome delle loro ascendenze genealogiche (la grandezza di Boulez era legittimata da quella di Wagner che a sua volta era stata legittimata da quella di Beethoven), si sarebbero dovuti giocare il loro destino nel campo aperto dell'ascolto: senza padri e raccomandazioni sarebbe rimasta la loro musica, giusto posta davanti a un pubblico che non avrebbe dovuto riconoscere la sua bellezza, ma scoprirla. La sua bellezza come la sua eventuale bruttezza, va detto. Ma non è andata così. E adesso non è affatto chiaro come si possa tornare indietro, nell'esatto punto in cui tutto si è rotto, e ricomporre il filo di una fiducia, tra compositori e ascoltatori, che sembra davvero perduto.

Alessandro Baricco

venerdì, aprile 01, 2011

Il reportage musicale di Heinrich Heine

Fra i minori scritti di Enrico Heine sono le Lettere confidenziali ad Augusto Lewald, del '37, e le Cronache parigine inviate alla Gazzetta di Amburgo dal 1840 al '47, tutte intorno ai più notevoli avvenimenti musicali di Parigi. Tali epistolari, (ora tradotti da E. Roggeri, Divagazioni musicali, Torino, Bocca), si leggono con alquanto interesse, sia come testimonianze di quel singolare momento della storia musicale che comprende l'alba del romanticismo francese, l'affermazione del grand Opera meyerbeeriano e la rivelazione dei maggiori concertisti di pianoforte, sia come nuovo documento del virtuosismo dello scrittore, appena appena dilettantesi di musica, il quale esprime le sue lievi, superficiali, imponderate sensazioni musicali in una prosa tanto squisitamente aderente alle sensazioni stesse, e brillante e vivace, da rappresentarle quasi profonde e intime. Epistolarii estemporanei, redatti senza preparazione, coscienza o fede, ma con il gusto della curiosità, dell'aneddoto, del pettegolezzo. La celia è l'anima di molte pagine, la celia per la celia, la boutade per divertire i lettori. Lo Heine si giova perciò di quell'abilissimo sfavillìo di locuzioni amene, sarcastiche, ciniche, frivole, ingegnose, interrotte da qualche tocco di falsa passione qua e là, di quel giuoco letterario cioè nel quale egli fu eccellente. Con tali pagine non sono da raffrontare quelle, opache e gravi, dei pochi francesi del primo Ottocento, che occasionalmente inserirono nei loro romanzi vaste digressioni, e superflue, intorno alla musica. Ma neppure è da credere che queste corrispondenze informino esaurientemente del momento musicale. E chi prendesse la cura di controllarle sulle cronache parigine del tempo, per esempio del Castil Blaze, del Berlioz, dell'Escudier, eccetera, rileverebbe quanto siano imprecise e unilaterali. Non stupisce, innanzi tutto, che la prosa heiniana smarrisca la virtù suggestiva laddove lascia le chiacchiere e i pettegolezzi di corridoio per toccare teorie e principii. Le debolezze fondamentali del cronista si fanno allora evidenti. Egli comincia domandando «Che cosa è la musica?». Credete che da tempo s'affanni intorno a tale formidabile quesito? No, la domanda lo ha perseguitato «ieri sera, per molte ore prima di prendere sonno». La notte gli ha portato consiglio; potrebbe già rispondere, stamane, «che è un prodigio». Così tutto sarebbe chiaro, per lui e per il lettore. E comincia a scrivere l'articolo. Per abbondanza, aggiunge che la musica «sta fra il pensiero e la materializzazione, è un crepuscolo fra la luce dello spirito e la tenebra della materia». Infine risolve spiritosamente: non sa che sia la musica, ma sa che altro è la buona, altro la cattiva. Di palo in frasca, passa a definire in quattro e quattro otto la critica: può essere solo esperienza, non sintesi, dovrebbe limitarsi a classificare le opere musicali in base alle loro rassomiglianze e all'impressione che producono sulla collettività. Crederà perciò d'aver fatto critica affermando, per esempio, che la Norma non somiglia agli Ugonotti (e dove troverà una somiglianza non balorda?) e che tale opera fu fischiata e tal'altra applaudita! Tenta poi l'avvicinamento di Rossini e di Meyerbeer; non «amerà l'uno a spese dell'altro», ma «simpatizzerà forse più col primo che col secondo», aggiungendo che si tratta di un «sentimento privato» e non d'un «riconoscimento di superiorità». Sorvolato con questo insipiente preludio il pericoloso campo del concetto dell'arte e della critica, lo Heine si dà alla cronaca curiosa e vivace. Sfila davanti ad Enrico Heine la seconda generazione dei pianisti, quelli che avevano studiato e Clementi e Czerny, e tratto dalla meccanica, divenuta più docile, le più morbide romanticherie e le sinfoniche tregende. Il vecchio Kalkbrenner aveva già «estremamente perfezionata» la pianistica; i giovani «non potevano illudersi di raggiungere la sua abilità tecnica». Ma ecco tre giovanissimi e coetanei, Liszt, Thalberg, Chopin recare nuove sorprese e nuove maniere. Thalberg delicato, sentimentale, intelligente, amabile, quieto, tedesco, anzi austriaco; Liszt selvaggio, lampeggiante, vulcanico, burrascoso, ungherese. Tanto esibizionismo concertistico suggeriva alla Heine acuti accenni a un pregiudizio che è ancor oggi diffuso, quello che fa giudicare l'esecutore secondo la sua abilità tecnica. Egli notava che come si è giunti a distinguere, nell'arte poetica, la metrica dalla qualità poetica, sicché «noi non ammiriamo un bel verso soltanto perchè la sua composizione ha richiesto molto lavoro», così «quanto prima» — egli sperava — si accetterà un nuovo principio: essere sufficiente che l'esecutore esprima con il suo strumento tutto ciò ohe sente e pensa, o ciò che il compositore ha sentito e pensato. I tours de force volti a sfoggiare soltanto difficoltà saranno proscritti e relegati fra i giuochi di prestigio, i salti mortali, le spade ingoiate, gli equilibrismi e le danze sulle uova. Basterà, concludeva, che il musicista domini il proprio strumento, e tanto da far dimenticare i mezzi materiali, sì che soltanto lo spirito della composizione sia messo in evidenza. (O poeta, o sognatore! Tu, che ripeti ciò che già dissero le persone ben pensanti del secolo che precedette il tuo, e ti associi al romantico Tieck, manda pure al futuro l'utopistico «quanto prima»! Son trascorsi cento anni, e le folle notturne ancora staccano i cavalli alla carrozza del mago zazzeruto che infiori di pizzicati e svolazzi l'Ave Maria di Schubert!). Chopin, aggiungeva, non soltanto brilla per la tecnica perfezione, ma anche si innalza come compositore. «E' un uomo di prim'ordine. Favorito di quella élite che cerca nella musica la più sublime voluttà spirituale, la sua gloria è aristocratica, profumata dell'ammirazione della buona società, distinta come la sua persona. Poiché nacque da genitori francesi in Polonia, e fu educato, per qualche anno, in Germania, le influenze delle tre nazionalità coincidono nella sua personalità, la quale si è appropriata il meglio dei tre popoli. La Polonia gli diè l'animo cavalleresco ed il tradizionale dolore, la Francia la piacevolezza e la grazia, e la Germania la romantica profondità. La natura poi gli donò aspetto leggiadro, svelto, alquanto delicato, nobilissimo cuore, e il genio. Si deve parlare di genio, nel più ampio significato della parola; egli è poeta, e può comunicarci la poesia che vive nella sua anima; è musicista e nulla uguaglia il godimento che ci offre quando siede al pianoforte e improvvisa». Alla poesia di Chopin fu assai sensibile lo Heine, il quale, come ha narrato Franz Liszt, non solo ne ascoltava, commosso, le musiche, ma anche ne sollecitava astratte e sognanti conversazioni sull'arte, voluttosamente smarrendosi insieme «nella aerea patria». I violinisti, numerosi nei concerti parigini, gli suggeriscono altre divagazioni e altri pensieri. Il virtuosismo dei violinisti, dice, non è soltanto il risultato dell'allenamento delle dita, non è soltanto tecnica, come nei pianisti. Il violino è un istrumento che ha quasi capricci di oreatura vivente e sta in vibrazione simpatica con il sentimento del suonatore; la minima manchevolezza, la più lieve agitazione, un brivido di sensibilità suscitano immediata risonanza nell'istrumento; il violino, premuto fortemente sul nostro petto, riecheggia i palpiti del nostro cuore. Ma ciò avviene soltanto agli artisti che nel petto hanno un cuore pulsante, un'anima. Quanto più arido e frigido è il violinista, tanto più uniforme risulta la sua esecuzione; e soltanto in tal caso può contare sull'obbedienza del suo istrumento, in ogni ora, in ogni luogo. Siffatta sicurezza è certamente il risultato di un'angustia spirituale. I grandi maestri, invece, non si sottrassero mai alle influenze esterne, ne ai moti interiori. «Non ho mai sentito alcuno suonare meglio, ma talvolta anche peggio di Paganini; la stessa cosa potrei dire di Ernst. Questi, che è forse il più grande violinista dei nostri giorni, assomiglia a Paganini non solo nella genialità ma anche nelle manchevolezze. Sivori è nato a Genova; forse, nei carrugi della sua città nativa, tanto stretti che non vi si può evitare, ha incontrato per caso, Paganini; e se ne è proclamato allievo. No, Paganini non ebbe scolari; e non poteva averne, perchè l'eccellenza della sua arte non può essere insegnata, ne appresa». Se dalle testimonianze di questo brillantissimo periodo della concertistica europea passa alla considerazione delle opere d'arte e delle maggiori tendenze, lo Heine mostra lo sue debolezze di conoscitore e di osservatore. Mentr'egli scriveva, a Parigi, era oggetto di fervide discussioni la ripresa del Freischütz all'Accademie royaio de musique (7 giugno 1841), anzi l'avvenimento assunse speciale significazione di fronte al Profeta di Meyerbeer. Di ciò non s'accorse lo Heine. Trascurò del tutto Weber e il romanticismo tedesco, epperò gli Ugonotti gli parvero la più bella opera composta dopo il Don Giovanni. D'altro canto, vide sorgere Berlioz e non lo considerò in relazione all'Opéra e all'Opéra comique, una relazione evidente e chiarificatrice. Si volse poi a Rossini e a Spontini, ma li sfiorò con aneddoti e pettegolezzi, senza intenderne il reale valore, pur avendo sott'occhio le loro opere. Un'osservazione, non nuova nè approfondita, e pertanto notevole, riguarda il falso concetto che si aveva, e si ha, del trattamento speciale dell'argomento religioso. I pittori, egli scrisse, credono che per rendere fedelmente le immagini cristiane occorra rappresentarle con sagome scarnite e diafane, in forme tetre e scolorite. I disegni di Overbeck sono, da questo punto di vista, i loro ideali. Per combattere l'errata tendenza egli ricorda la pittura sacra della scuola spagnuola. «In essa regna l'opulenza delle forme e del colore, eppure non si potrà negare che questi quadri spagnuoli respirino un rigoglioso cristianesimo, e che i loro creatori non siano meno ebbri di fede di quei celebri maestri, che, a Roma, si infatuarono di cristianesimo per dipingere con più immediata ispirazione. Non l'esteriore secchezza e il pallore sono segni di profondo spirito cristiano nell'arte, ma piuttosto certe intime esuberanze che nè nella musica nè nella pittura si ottengono col battesimo o con un diploma». Lo Stabat di Rossini gli parve perciò la rappresentazione del più sublime, crudele martirio, con le più ingenue voci infantili: «Risuonavano ì terribili singhiozzi della Mater dolorosa, ma sgorgavano come da una innocente piccola gola di bambina, e le ali dei cherubini facevano fluttuare mollemente il drappo funebre. La tragedia della morte sulla croce è temperata dalle gioconde zampogne pastorali. Questa è l'eerna beatitudine di Rossini». L'osservazioue andrebbe approfondita per combattere due volgari errori, quello che considera la «musica sacra» come un genere regolato da speciali canoni artistici, come una musica priva di passione, e frigida, scolastica, accademica, e perciò castigatissima (tanta musica «da chiesa» fu ed è composta con tale negazione dell'arte!); e l'altro errore che accetta come espressione di commozione religiosa espressioni d'altro movimento spirituale, profano, erotico, sensuale, eccetera; mentre la questione sta nella specifica espressione d'un momento drammatico sorto con sentimenti, persone, immagini particolari. Chi ha gustato le opere d'argomento sacro di Palestrina, di Bach, di Beethoven, per citare culmini sublimi, ha attinto da esse quella saggezza estetica che è buona guida contro gli annosi errori. Queste e poche altre osservazioni, finemente intuitive, e scarse nella sostanza, sollevano alquanto il tono delle epistole musicali di Heine, troppo spesso futili, pettegole, e appunto per tali qualità gradite e presto dimenticate. Ora, tali divagazioni son da tenere ben distinte dalle pensose, spirituali, commosse espressioni dei romantici, predecessori o coetanei del poeta del Buch der Lieder, i quali scrissero di musica con fervido amore, con religiosa devozione, convinta dignità, e altamente la idealizzarono. Sono insomma da leggere per curiosità, e non da prendere a modello.

Andrea Della Corte ("La Stampa", 3 maggio 1928)