Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, luglio 27, 2013

Memoria di Ernest Bloch

Ernest Bloch (1880-1959)
Il 15 di luglio del 1960 è già scorso un anno da quando in una clinica di Portland nell’Oregon si è spento Ernest Bloch. Pareva quasi che avesse smesso di scrivere musica da parecchio tempo - e non era vero se quest’anno un discepolo di Yehudi Menuhin, Albert Lysy, ha eseguito a Londra in prima assoluta una. sua ancora inedita e recente Suite per violino solo. Certo che il nome di Bloch figurava con molto minor frequenza nei programmi di concerto e poteva apparire come di un compositore dimenticato e superato - ma non lo era. La produzione del musicista è, relativamente al tempo che gli fu concesso per lavorare, scarsa, ma di rilievo. Aveva cominciato a comporre a 15 anni in Svizzera, dove era nato nel 1880, come figlio di un modesto orologiaio. Da principio pensava di fare il violinista - e questo spiega che poi si sia recato a perfezionarsi in questo strumento a Bruxelles dove fu allievo di Eugène Ysaye - ma dopo alcune incertezze si decise per la più pericolosa carriera del compositore. E' stato detto e scritto che la sua formazione musicale fu prevalentemente francese - ma non é esatto, perché oltre allo studio compiuto nei Conservatori svizzeri e alla scuola di Ysaye, fu di grande importanza il lavoro di preparazione e di approfondimento compiuto da Bloch ai conservatori di Francoforte sul Meno e di Monaco. ll musicista passava dall’una all’altra delle capitali del gusto europee del suo tempo e cosi il suo stile giovanile rivela influssi di Debussy da una parte, di Strauss e di Mahler dall’altra, anche se si dimostra particolarmente solido.
Fu quello il periodo della sua "prima maniera" - se così possiamo chiamarla - e a rappresentarla si può senz’altro prendere l’opera Machbet (ricavata dall’omonima tragedia shakesperiana) rappresentata con successo a Parigi nel novembre del 1910, che meritò all’autore la prima fama internazionale grazie all’intervento di critici illustri come Pierre Lalo e Romain Rolland con cui Bloch si doveva poi legar di profonda amicizia. Anche in Italia l’opera non restò senza eco: lldebrando Pizzetti ne parlò con entusiasmo nel fiorentino Marzocco; scrisse tra l’altro: "Bloch è un drammaturgo musicale: ciò che più vale e più importa, nella sua arte drammatica, è l’assenza di musica soltanto musica e l’esistenza di molte pagine (ma sarebbe lo stesso se fossero anche poche) nelle quali ogni più piccolo elemento musicale presenta, come espressione del dramma, carattere di necessità". Ma le speranze del musicista parmense di avere scoperto un futuro maestro di quel dramma musicale che egli vagheggiava da tempo, dovevano andare presto deluse: dopo il tentativo di Jezabel, che è del 1918, Bloch non scrisse mai più per il teatro d’opera.
Cominciava invece quella che si potrebbe dire la sua "seconda maniera", o, per meglio dire, un successivo periodo, in cui Bloch passò attraverso a una esperienza religiosa e insieme artistica, che doveva essere capitale per il suo stile: il ritorno alle fonti ebraiche, non intese, come ebbe a chiarire a suo tempo il compositore, come un fatto "archeologico" e neppure come una ricerca di "colorito" particolare, ma piuttosto come trepidante ascoltazione di una intima voce che gli suggeriva ritmi e accenti durante la lettura del Vecchio Testamento. Nacquero così le sue composizioni più fortunate: i Tre Poemi Ebraici (1915), la sinfonia Israel (1916), la rapsodia per violoncello e orchestra Schélomo (1916) e il trittico per violino intitolato Baal-Shem (1923). In queste musiche - e in altre all’incirca dello stesso periodo - Bloch concentra la sua attenzione sulla recitazione, che è altamente drammatica e assume toni di declamato vocale, anche nelle composizioni esclusivamente strumentali, né più né memo come capiterà poi alcune volte a Pizzetti. Comune ai due creatori è questa capacità di concentrazione drammatica nella recitazione e anche il pericolo di cadere, a lungo andare, in forme di magniloquenza, di grandiosità solo esteriore.
Massimo Mila ha giustamente osservato: "Bloch aveva pochi riguardi verso l’ascoltatore: lo afferrava e lo inchiodava passivo, gli diceva tutto quel che gli passava per la testa e pretendeva superbamente un'attenzione assoluta, rassegnata, priva d’inquietudini. Non sempre, cominciando a scrivere, Bloch sapeva cosa avrebbe detto alla fine del pezzo. Spesso l’ultima nota di una frase e la prima di un nuovo codicillo. Bloch conclude a malincuore, e non sempre sa abbandonare un’idea musicale quand'è esaurita: questa viene piuttosto ancora una volta tentata, ripresa, risollevata in un gesto inutile di perorazione". Ma queste giuste riserve vengono dopo la affermazione del valore di quelle opere di Bloch che resteranno ormai nel tempo a determinare la figura di questo musicista. Parve che anche lui volesse sottolineare un valore "particolare" della sua opera quando dichiaro, molti anni or sono: "L'arte deve essere una parte necessaria della vita di un popolo e non una cosa di lusso; e deve avere le sue radici profonde nel terreno che la produce. Inutile dire che essa non può essere la produzione diretta della folla. Ma, se pure indirettamente, la folla deve aver contribuito alla sua esistenza. Un’opera d’arte è l’anima di una razza che parla con la voce del profeta in cui si è incarnata". Con queste parole egli si riconosceva chiaramente come un tale interprete "profetico" - e di qui vennero alcune esaltazioni eccessive, e poi come capita, delle svalutazioni ugualmente esagerate e, da parte di alcuni compositori contemporanei, un oblio, un disprezzo ostentato e fuori luogo.
Come esempio delle prime possiamo prendere queste parole con cui Guido Pannain salutava nel 1952, in Italia, il compositore svizzero: "Bloch è il principe dei musicisti moderni. E' il maggior punto di conquista del nuovo secolo musicale, nell’arte di superare la sensualità ed attingere un nuovo spirito di religione. Gli israeliti hanno molto conferito alla musica, nella storia, ma in realtà un israelitismo musicale, in senso vero e proprio, non si era avverato. I musicisti ebrei finirono sempre con l'inquadrarsi nelle file della civiltà musicale tradizionale e fecero numero come musicisti, non più come ebrei. Per Bloch la cosa va diversamente. Egli è un israelita che fa la musica in ispirito di Vecchio Testamento. Ha la visione d’un mondo biblico ancora al di qua del Messia. E' un poeta d’oggi al quale palpita un cuore Vecchio di secoli. Perciò la musica di Bloch ci è cosi contemporanea e vicina. Perché in essa v’è il senso drammatico di una umanità reietta. Una musica tutta pervasa dal senso di isolamento dell’anima ebraica, nell’Universo; presaga del suo destino, che è di attendere e di errare. Umanità fusa nell’unità dello spirito e frantumata negli inganni della carne e del peccato; a cui sembrerà angusta la terra sulla quale è condannata a vagare e non sosterà mai tra confini che siano suoi e sarà, come in perpetuo esilio, senza dimora e senza pace. Ed avrà sempre dinanzi a sè la visione fiammeggiante di quel Dio terribile, che non si nomina col suo nome, immagine di possanza e di vendetta. Questo stato d'animo storico del popolo d’Israele, che sempre si rinnova nel peccato, è il simbolo dello stato d’animo della umanità contrastata fra lo spirito e la carne. La bellezza dell’arte musicale di Bloch sta nell’aver intuito questo dissidio al di qua del misticismo, ma in forma di dramma umano e concreto". Sono parole grosse, che esprimono l'entusiasmo di uno spirito, forse deluso del mondo musicale contemporaneo e teso verso una apparizione quasi "messianica" nell’arte. Comunque, se anche sottolineano l’aspetto di una certa arte di Bloch, ne rinnegano completamente un altro e forse, oggi, lo stesso Pannain non si sarebbe sentito di scrivere quelle parole esaltatrici. A proposito invece della indifferenza o del disprezzo di certi critici che, col loro silenzio, vogliono lasciar intendere che l’autore di Schélomo non va neppure più preso in considerazione, non val la pena di insistere.
La verità è che tanto gli uni a loro tempo, come gli altri, oggi, prospettano la possibilità di un musicista che esista come un anacronismo, cioè completamente al di fuori della sua epoca - il che non solo è molto difficile a credersi, ma va anche contro le intenzioni precise dell’autore. A un cerro momento insomma bisognerebbe conceder diritto di esistenza a un certo Bloch, cancellando completamente l’altro; più precisamente a quello "profetico" e più specificamente "ebraico", a danno de1l’altro. Ora non credo che una critica illuminata che esamini a fondo, senza preconcetti, l’opera di Bloch dai suoi inizi all’ultima Suite per Violino solo possa compiere una scelta in base a un criterio, in fondo, estraneo al valore musicale di una composizione. Perché a un certo punto si dovrebbe buttare a mare non solo il Concerto grosso, la sinfonia Helvetia e quella intitolata Amerika, ma anche il Quintetto (col pianoforte), i due Quartetti e perfino certe semplici composizioni infantili (per piano) intitolate Frohe Kinder, in cui senza una ispirazione particolarmente "biblica" Bloch riesce ad affermare pienamente la sua personalità musicale. A guardar bene lo stile del compositore si rivela tanto in Machbet (cui non si vorrà attribuire una ispirazione "biblica") come nelle opere dell’ultimo periodo. Solo che qualche volta, trascinato forse dalle insistenze di coloro che gli erano vicini, per apparire "moderno" tentò di far sue le tecniche compositive che si succedevano nella moda musicale (esiste purtroppo anche questa) da quella politonale a quella dodecafonica. Ma furono tentativi, esperienze a volte negative, da cui però non si può trarre un giudizio su tutta l’opera del musicista. La sua caratteristica più spiccata rimarrà, come già si era notato nelle opere della "prima maniera", sia pure a tratti, un particolare declamato, un recitativo drammatico, che si manifestava con ugual forza tanto nelle opere vocali come in quelle strumentali, con inflessioni spesso, prevalentemente, ma non sempre, necessariamente, disperate.
Prima di dare un giudizio completamente negativo su opere come la sinfonia Amerika, composta nel 1919, occorrerebbe ricordare che Bloch emigrò negli Stati Uniti durante la prima guerra mondiale. Non attese il nazismo per crearsi una nuova patria di là dall’Oceano. E non è un caso che egli si sia spento, appunto, in America, ove fu insegnante per parecchi anni presso diversi istituti, sino all’Università, formando colla sua personalità alcuni allievi divenuti abbastanza celebri come Roger Sessions e Randall Thompson. L'omaggio alla sua nuova patria non era un fatto puramente esteriore; Bloch tornò diverse volte in Europa, anche in alcuni giri di concerti, ma la sua casa, la sua home restò quella americana, a cui si deve esser sentito ancor più attaccato durante la seconda guerra mondiale. Nel fragore del conflitto e poi dopo, il suo norne non destò più la eco che aveva nell’interval1o tra le
due guerre. C’è da credere che Bloch ne abbia sofferto, perché era una personalità troppo sensibile per non accorgersi che le nuove correnti musicali tendevano a tagliarlo fuori e, quanto meno, a isolarlo. Ma ora che egli è scomparso, si procederà forse con maggior equanimità a una valutazione obbiettiva della sua opera.
I musicisti "nuovi", come si è già detto, non lo hanno degnato della minima attenzione. Se si scorre la lista degli autori d'avanguardia esaminati dai nostri musicologi, fatta eccezione per Mila, si spera invano di trovare un accenno, meno che vago, per Bloch. Egli ebbe il suo momento di fortuna nel 1932 e sotto questo aspetto lo scritto di Pannain è sintomatico. Vi è inoltre da segnalare anche un intero volumetto dedicato a Bloch da Mary Tibaldi Chiesa che e del 1933 di tono prevalentemente biografico ed encomiastico, ma pieno di indicazioni interessanti. Poi vi furono anni e anni di silenzio. C’è da sperare che il tempo ristabiliti l'equilibrio. E questo anche perché - la cosa può parer strana - non si sono ripetute per Bloch le rivendicazioni proposte invece con insistenza per altri, esclusi dai programmi dei concerti per ragioni razziali durante l’ultimo periodo del fascismo. Si sono a volte riesumati lavori giovanili di autori noti, che forse non meritavano tanta attenzione, ma nessuno si e incaricato di far rivivere Bloch dinanzi ai giovani delle ultime generazioni, che non ne avevano forse mai sentito parlare. Con intenti commemorativi c’è stata una ripresa del Macbeth; ma non è forse nel campo della musica d’opera che va cercato il messaggio artistico più valido di Ernest Bloch.
Cogli anni quel che di veramente vivo è nell’opera di Bloch affiorerà con più chiarezza, certamente. E si sentirà che al di là di qualsiasi impostazione particolarmente "biblica" o "profetica" è la voce di un autentico artista quella che si rivela in alcune composizioni, anche non molte. Perché nel mondo della musica, come in generale in quello dell’arte, non è la quantità, che conta, ma la qualità. E basta un solo pezzo a mantener viva la memoria di un musicista per dei secoli.

Rodolfo Paoli ("L'Approdo Musicale", n.10, Aprile-Giugno 1960)

lunedì, luglio 22, 2013

Giuseppe Pugliese: "Gustav Mahler ...il mio tempo verrà"

Giuseppe Pugliese
(1916-2010)
Questo libro nasce da un ciclo radiofonico di diciannove trasmissioni, realizzato per il III Programma della Rai, da marzo a luglio del 1975. E di tale origine esso  ha mantenuto le caratteristiche, i limiti, i difetti, non ostante che le due successive stesure alle quali ho sottoposto il testo, prima della pubblicazione sulla Rivista !Discoteca-Alta Fedeltà" e, soprattutto, prima di consegnare all'editore la versione definitiva, contenessero notevoli aggiornamenti, numerose varianti di contenuto e di forma, sostanziali mutamenti e approfondimenti di giudizio.
In entrambe le stesure, la fatica maggiore l'ho compiuta nel tentativo, solo in parte riuscito, di colmare il vuoto lasciato dalla mancanza dell'ascolto radiofonico degli episodi scelti e dei rispettivi confronti, con gli esempi musicali qui riprodotti e con la citazione del numero delle pagine e delle battute relative a ciascun episodio fatto ascoltare nel ciclo radiofonico.
E’ rimasta egualmente una non piccola lacuna. Per colmarla del tutto, e farla scomparire, sarebbe stato necessario poter aggiungere al testo, gli esempi musicali fatti ascoltare durante il ciclo; soluzione, questa, resa impossibile dalla cieca esosità con la quale talune case discografiche difendono i loro diritti editoriali. Una seconda soluzione sarebbe stata quella di riscrivere il testo interamente.
A parte la fatica e il tempo che avrebbe richiesto tale nuovo impegno, ne sarebbe uscito un libro molto, troppo diverso da questo lungamente pensato e, alla fine, con tutta probabilità, estraneo all'assunto originario.
Veniamo a questo libro. Rispondere che gli scopi che, con esso mi sono proposto e ho creduto di realizzare, se sono chiari e chiaramente espressi, il lettore saprà trovarseli per suo conto, è fin troppo facile. In ogni caso mi sento in obbligo di qualche chiarimento.
Da quando, molti anni or sono, ebbi a constatare che lo studio dell'interpretazione musicale di un'opera, mi consentiva, più e meglio dei diversi metodi usati in precedenza, di impossessarmi delle caratteristiche compositive di una partitura, senza sviste o errori, di capirne i particolari più complessi e sottili, mi dedicai con sempre maggiore frequenza e interesse alla analisi di singole opere, sviluppandola sempre su due piani pressoché paralleli e simultanei, quello dei contenuti poetici, e quello della loro interpretazione musicale.
La conferma più importante dell'efficacia di questo metodo, l'ho avuta proprio con lo studio delle Sinfonie di Mahler. Infatti, benché da anni andassi studiando l'opera di Mahler, e fossi persuaso di conoscerla bene, è stato soltanto attraverso l'analisi interpretativa di ciascuna Sinfonia, condotta con la metodologia comparata su tutti i documenti sonori disponibili, che ho potuto capire e valutare, ritengo in termini definitivi, comunque prima appena intuiti, talune fondamentali caratteristiche dei temi poetici del mondo di Mahler, dello svolgimento del suo linguaggio, e cominciare a riflettere con una chiara conoscenza dei loro termini, su alcuni dei maggiori problemi della critica mahleriana che per tanto tempo mi avevano tenuto lontano dal proposito di scrivere il libro che poi ho scritto.
Due fra i più complessi e importanti sono i seguenti: gli squilibri di valore fra le parti autenticamente grandi e le parti irrimediabilmente negative (autentiche fratture, brutali cadute, frastornanti divagazioni) che avevo ravvisato in misura diversa in ciascuna Sinfonia di Mahler, ma sempre di una compromettente ampiezza. (Fu proprio lo studio analitico dell'interpretazione a farmi capire quanto meno numerosi fossero questi squilibri e quanto minore ampiezza avesse l'area delle parti negative). Il secondo problema riguardava la diversità dei criteri interpretativi, che, nella storia dell'interpretazione delle Sinfonie di Mahler, si presentava con una ampiezza mai riscontrata in nessun altro autore, e che rendeva estremamente ardua una analisi unitaria, coerente. Rimaneva, comunque, un problema che andava almeno chiarito.
Se e in quale misura sia riuscito a risolvere, in modo soddisfacente, questi e tutti gli altri problemi riguardanti l'opera di Gustav Mahler, risulterà soltanto dalla lettura delle pagine che seguono. Quello, invece, a cui posso rispondere subito  che, non ostante i dubbi, le preoccupazioni, gli interrogativi che mi assillavano, volli egualmente tentare uno studio che fosse, in parte, una analisi del mondo musicale di Mahler, quale si configura nelle Sinfonie e, nello stesso tempo, una analisi della interpretazioni di ciascuna di esse, anche attraverso il confronto di tutte le versioni esistenti.
E' stata per me una esperienza fondamentale, e per due ragioni. La prima è che essa mi ha consentito, come ho già detto, di giungere alla vera, completa conoscenza dell'opera di Mahler, di capire la coerenza dello svolgimento, la ricchezza poetica, la sapienza strumentale la anticipatrice modernità, la grandezza autentica di quest'opera, con una compiutezza e una limpidezza prima ignorate.
La seconda ragione che ha reso questa esperienza indimenticabile, è la rigorosa chiarezza con la quale oggi credo di conoscere tutti i problemi interpretative delle Sinfonie di Mahler, e la storia di questa interpretazione: fraintendimenti, errori, limiti, storture, conquiste, tradimenti, illuminazioni, difficoltà, delusioni.
La conclusione di questa preziosa esperienza è il presente studio. So che, probabilmente, ne è uscito un ibrido: a metà strada fra lo studio critico e lo studio sull'interpretazione delle Sinfonie di Mahler.
Pure, proprio in questo aspetto credo vadano ricercati, se esistono, il pregio, l'originalità dell'opera. E forse proprio in questa pretesa di una simultanea duplicità di analisi (devo ricordare che lo stesso metodo ho usato, con risultati ritenuti validi da tutta la critica, per i miei saggi su un Ballo in maschera, La forza del destino e, parzialmente, Rigoletto, pubblicati nei Bollettini dell'Istituto di Studi Verdiani) è da individuare il contributo che ho tentato di dare ad una più seria, meditata conoscenza dell'opera di Gustav Mahler. E' un'opera che, ancora oggi, paradossalmente, attende di essere liberata dall'ostile isolamento in cui è stata sempre rinchiusa, per essere immersa nel grande fiume della storia della music, nella posizione e con il diritto che spetta alle opere protagonistiche. Solo allora alla previsione che l'autore fece circa il destino della sua opera "Il mio tempo verrà", potremo rispondere con la frase di Leonard Bernstein: "Il suo tempo è venuto".

premessa di Giuseppe Pugliese al proprio libro
"Gustav Mahler... il mio tempo verrà", Nuove Edizioni, 2a ed. maggio 1977
Incsa Valdarno, agosto 1976

sabato, luglio 06, 2013

Romain Rolland: le sabbie mobili di Jean-Cristophe...

Romain Rolland (1866-1944)
"Dopo quella prova, Cristoforo, ritornato a casa, pensò di rileggere le opere dei musicisti "consacrati". Rimase costernato, accorgendosi che alcuni fra i maestri che amava di più avevano mentito. Si sforzò di dubitarne, dapprima, di credere che s'ingannava. - Ma no, non c'era verso... Era colpito dall'insieme di mediocrità e di menzogna, che costituisce il tesoro artistico di un gran popolo. Ben poche pagine resistevano all'esame!
D'allora in poi,  solo più con un battito di cuore egli affrontò la lettura di altre opere, che gli erano care... Ahimè! Era come stregato; dovunque, la medesima disillusione. Per certi maestri, ebbe uno schianto al cuore; era come se perdesse un amico diletto, come se s'accorgesse d'un tratto che quell'amico, nel quale aveva riversato tutta la sua fiducia, lo ingannava da anni. Ne piangeva. La notte non dormiva più; continuava a tormentarsi. Incolpava se stesso: che non sapesse più giudicare? Che fosse diventato del tutto idiota?... No, no, più che mai vedeva la fulgida bellezza del giorno, con più freschezza ed amore che mai sentiva la pienezza generosa della vita: il suo cuore non lo ingannava...
Per un pezzo ancora, non osò toccare quelli che erano per lui i rmigliori, i piu puri, il Santo dei Santi. Tremava all’idea di intaccare la fede che aveva in essi. Ma come resistere allo spietato istinto di un'anima ardita e veritiera, che vuole giungere fino in fondo e veder le cose come sono, checché ne debba soffrire? - Aprì dunque le opere sacre, fece avanzare l'ultima riserva, la guardia imperiale... Fin dalle prime occhiate, vide che non erano più immacolate delle altre. Non ebbe il coraggio di proseguire. ln certi momenti, si fermava, chiudeva il libro: come il figlio di Noè, gettava un mantello sulla nudità di sua padre...
Restava, dopo, prostrato, in mezzo a quelle rovine. Avrebbe preferito perdere un braccio, piuttosto che intaccare le sue sante illusioni, Era un lutto del cuore. Ma tale linfa era in lui, tale rinnovarsi di vita, che la sua fede nell'arte non ne restava scossa. Con la presunzione ingenua dei giovani, egli ricominciava la vita, come se nessuno l’avesse vissuta prima di lui. Nell'ebbrezza della sua forza nuova, sentiva - non senza ragione, forse - che fatte poche eccezioni non c'è quasi alcun rapporto tra le passioni vive e l'espressione che l'arte s'è ingegnata di darne. Ma s'ingannava pensando
di essere lui più fortunato o più vero quando le esprimeva. Siccome era tutto pieno delle sue passioni, gli era facile ritrovarle attraverso a ciò che scriveva; ma nessun altro se non lui le avrebbe riconosciute, sotto il linguaggio imperfetto in cui le esprimeva, Molti artisti che egli conclamava erano nel medesimo caso. Avevano avuto e tradotto sentimenti profondi; ma il segreto della loro lingua era morto con essi.
Cristoforo non era per niente psicologo, e non si dava pensiero di tutte queste ragioni: quello che per lui era morto lo era sempre stato, Riesaminava tutti i suoi giudizi sul passato con l'ingiustizia sicura di sé e la ferocia propria della giovinezza. Metteva a nudo le anime più nobili, senza pietà per le loro ridicolaggini. Era la melanconia ricca, la fantasia elegante, il nulla ben pensante di Mendelsshon. Erano le conterìe e l'orpello di Weber, la sua aridità di cuore, la sua commozione cerebrale. Era Liszt, padre nobile, scudiero da circo equestre, neo-classico e ciarlatano, miscuglio in dosi eguali di nobiltà vera e di nobiltà falsa, d'idealismo sereno e di virtuosità stomachevole. Era Schubert, sommerso sotto la sua sentimentalità come sotto chilometri d'acqua trasparente e insipida, I vecchi delle età eroiche, i semidei, i profeti, i padri della Chiesa, non si salvavano. Perfino il grande Sebastiano, l’uomo due o tre volte secolare. che portava in sé il passato e l'avvenire; - Bach - non era scevro da ogni menzogna, da ogni scempiaggine della moda, da ogni cicaleccio scolastico. Quell'uomo che aveva veduto Dio, quell'uomo che viveva in Dio sembrava talora a Cristoforo di una religione insipida e inzuccherata, stile gesuita, rococò. Si trovavano nelle sue cantate arie di languore amoroso e bigotto - (dialoghi dell'Anima che civetta con Gesù). - Cristoforo ne era nauseato: gli pareva di vedere dei cherubini paffuti, con rotondità di gambe e drappeggi svolazzanti. Poi, aveva la sensazione, che il geniale Cantor scrivesse sempre tappato nella sua camera; roba che puzzava di rinchiuso; non c'era nella sua musical quell'aria forte del di fuori che spira in altri, musicisti forse meno grandi, ma uomini più grandi - più uomini - come Beethoven o Haendel. Quello che lo feriva pure nei classici, era la loro mancanza di libertà: quasi tutto nelle loro opere era "costruito". Talora un'impressione era amplificata con tutti i luoghi comuni della retorica musicale, talora era un semplice ritmo, un disegno ornamentale, mentale, che si ripeteva, rigirava, combinava in tutti i sensi meccanicamente. Quelle costruzioni simmetriche ed a ripetizione - sonate e sinfonie - esasperavano Cristoforo, poco sensibile, in quel momento, alla bellezza dell'ordine, dei piani vasti e ben concepiti. Gli sembravano opera di muratori piuttosto che di musicisti.
Non bisogna credere che fosse meno severo per i romantici. Cosa strana, e di cui era lui il primo a stupirsi, - non c'erano musicisti che l'irritassero più di quelli che avevano preteso di essere (che erano stati realmente) i più liberi, i più spontanei, i meno costruttori - quelli che, come Schumann, avevano versato, a goccia a goccia, e minuto per minuto, nelle loro innumerevoli operette, la loro vita intera. Egli s'accaniva contro di essi con tanta più ira, quanto più riconosceva in essi la sua anima adolescente e tutte le scempiaggini, che si era giurato di svellerne. Certo il candido Schumann non poteva essere tacciato di falsità: non diceva pressoché mai nulla che non avesse veramente sentito. Ma, per l'appunto, il suo esempio conduceva Cristoforo a capire che la peggiore falsità dell'arte tedesca non era quando i suoi artisti volevano esprimere sentimenti che non sentivano, ma molto più quando volevano esprimere sentimenti che sentivano - e che erano falsi. La musica è uno specchio implacabile dell'anima. Quanto più un musicista tedesco è ingenuo ed in buona fede, tanto più mostra le debolezze dell'anima tedesca, il suo fondo malcerto, la sua sentimentalità molle, la sua mancanza di franchezza, il suo idealismo un po' sornione, la sua incapacità a veder se stesso, a osare di guardarsi in faccia. Questo falso idealismo era la piaga, perfino dei maggiori, - di Wagner. Rileggendo le opere di Wagner, Cristoforo digrignava i denti. Il Lohengrin gli sembrava d'una falsità da far gridare. Egli odiava quella cavalleria di paccottiglia, quel pietismo ipocrita, quell'eroe senza paura e senza cuore, incarnazione d'una virtù egoista e fredda che s'ammira e s'ama con predilezione. Egli lo conosceva anche troppo, l'aveva visto nella realtà, questo tipo di fariseo tedesco, che fa il vanesio, impeccabile e duro, in adorazione davanti alla sua propria immagine, al cui nume non ha certo difficoltà di sacrificare gli altri. L'Olandese Volante lo opprimeva con la sua sentimentalità massiccia e la sua cupa noia. I barbari decadenti della Tetralogia erano, in amore, d'una scipitezza nauseante. Siegmondo, nel rapire sua sorella, tenorizzava una romanza da sala. Sigfrido e Brunilde, da buoni coniugi tedeschi, nella Goetterdaemmerung, ostentavano agli occhi l'uno dell`altra, e specialmente del pubblico, la loro passione coniugale, pomposa e loquace. Tutti i generi di menzogna s'eran dati convegno in quelle opere: falso idealismo, falso cristianesimo, falso gotismo, falso leggendario, falso divino, falso umano. Mai convenzionalismo più enorme s'era messo in mostra come in quel teatro, che pretendeva di rovesciare tutte le convenzioni. Né gli occhi, né lo spirito, né il cuore potevano restarne ingannati, anche un momento solo; perché lo fossero, bisognava che volessero esserlo. - E lo volevano. La Germania si divertiva di quel1'arte vecchiotta ed infantile, arte di bruti scatenati e di ragazze mistiche e smorfiose.
E Cristoforo aveva un bel fare: appena udiva quella musica, era ripreso, come gli altri, più degli altri, dal torrente e dalla volontà diabolica dell`uomo che l'aveva scatenate, Egli rideva, e tremava, ed aveva le gote accese, sentiva passare in lui cavalcate d'eserciti; e pensava che tutto era permesso a chi portava in sé quegli uragani. Che gridi di gioia alzava, quando, nelle opere sacre che sfogliava solo più tremando, ritrovava la sua commozione di un tempo, sempre altrettanto ardente, Senza che nulla venisse ad appannare la purezza di ciò che egli amava. Erano gloriosi resti che salvava dal naufragio. Che felicità! Gli sembrava di salvare una parte di se stesso. E non era proprio se stesso? Quei grandi tedeschi, contro i quali s'accaniva, non erano forse il sue sangue, la sua carne, il suo essere più prezioso? Era così severe con loro soltanto perché lo era con sé.
Chi li amava meglio di lui? Chi sentiva più di lui la bontà di Schubert, l'innocenza di Haydn, la tenerezza di Mozart, il gran cuore eroico di Beethoven? Chi s'era rifugiato più religiosamente di lui nel fremito delle foreste di Weber, e nelle grandi ombre delle cattedrali di Gian Sebastiano, che alzano nel cielo grigio del Nord, sopra la pianura tedesca, la loro montagna di pietra e le loro torri gigantesche con le guglie traforate? - Ma egli soffriva delle loro menzogne, e non poteva scordarle. Attribuiva queste alla razza, e la loro grandezza ad essi. Aveva torto. Grandezza e debolezza appartengono ugualmente alla razza il cui pensiero possente e torbido scorre come il più largo fiume di musica e di poesia, cui l`Europa venga a bere... E presso quale altro popolo avrebbe egli trovato la purezza ingenua, che gli permetteva in quel momento di conclamarlo così duramente? Egli non se ne accorgeva. Con l'ingratitudine d'un bimbo viziato, rivolgeva contro sua madre le armi che ne aveva ricevute. Più tardi, più tardi doveva sentire tutto quello che le doveva, e quanto gli era cara...
Ma attraversava un periodo di cieca reazione contro gli idoli della sua infanzia. Ce l'aveva con sé e ce l'aveva con quelli per aver creduto in loro con abbandono appassionato. - Ed era bene che fosse così. C'è un'età della vita in cui bisogna osare di essere ingiusti, in cui bisogna osare di far piazza pulita di tutte le ammirazioni e di tutti i rispetti imparati, e negar tutto - menzogne e verità - tutto quello che non si è riconosciuto vero da noi stessi. Per effetto di tutta la sua educazione e di tutto ciò che vede e sente attorno a sé, il fanciullo assorbe una tal quantità di menzogne e di sciocchezze mescolate alle verità essenziali della vita, che primo dovere d’un adolescente, il quale voglia essere un uomo sano, è di rivomitar tutto."

tratto da "Gian-Cristoforo" (Jean-Christophe), IV. La Rivolta, di Romain Rolland, ed. Sonzogno