Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, giugno 23, 2014

Schumann: Il paradiso e la Peri, Op.50

Robert Schumann (1810-1856)
Il dilemma della Peri, una divinità esclusa dalla beatitudine celeste che aspira alla redenzione, esprime l’essenza delle inquietudini più profonde dell`artista romantico, pesantemente segnato da un nobile ed irrefrenabile anelito al trascendente. Il testo della prima grande opera sinfonico-corale di Robert Schumann, Il paradiso e Ia Peri op. 50 per voci soliste, coro ed orchestra, e ispirato ad una novella in versi tratta dalla raccolta Lalla Rookh del poeta irlandese Thomas Moore (1779-1852), intimo amico e biografo di Lord Byron.
Il fascino del mito dell’angelo caduto viene ulteriormeme amplificato dall'ambientazione esotica del racconto, che si svolge nelle remote terre d’Oriente, misteriose ed irraggiungibili. A causa della sua originaria funzione dl ancella di Arimane, il diavolo della religione zoroastriana, la Peri e una divinità della mitologia persiana destinata a cercare “il dono più caro al cielo" che le consenta di conquistare l`accesso al paradiso. Questa escursione nelle regioni della poesia orientaleggiante, che ripercorre le orme di numerosi artisti del romanticismo tedesco come Schlegel, Goethe e Rückert, non costituisce un elemento di novità rispetto alla copiosa produzione liederistica di Schumann, il quale negli anni precedenti aveva già musicato numerose liriche legate più o meno direttamente a tale tematica esotica. Combinando sapientemente desiderio di trascendenza e fascino dell’ignoto, Il paradiso e la Peri costituisce pertanto il coronamento di un’inveterata attrazione del compositore verso mondi lontani e sconosciuti.
La traduzione della novella di Moore in lingua tedesca fu realizzata nel 1841 da Emil Flechsig, un compagno di studi con cui il musicista aveva lungamente condiviso il suo entusiasmo nei confronti di quest'opera. Schumann impiegò altri due anni per revisionare il testo, cui apportò numerosi tagli, alterazioni ed aggiunte; il lavoro di composizione delle musiche fu intrapreso e compiuto solo nel 1843. Proprio in quegli anni, dopo aver pubblicato un considerevole numero di lieder e pezzi pianistici, il compositore stava cominciando a muovere i primi cauti passi verso la realizzazione di opere di ampie dimensioni. Stando alle sue dichiarazioni d’intenti, Il paradiso e la Peri, “un oratorio non destinato al luogo di preghiera, ma per gente lieta” avrebbe dovuto rappresen
tare il capostipite di “un nuovo genere per la sala da concerto“. L'adozione della forma musicale dell’oratorio riflette i canoni di una sensibilità visionaria di stampo romantico, poiché la vocazione drammatica del compositore, affrancata dai limiti imposti dalla rappresentazione scenica, e libera di esplicarsi sul piano della pura immaginazione sonora, Gli sforzi di Schumann dovettero incontrare anche il favore dei suoi contemporanei, poiché fin dalla prima esecuzione, avvenuta il 4 dicembre 1843 al Gewandhaus di Lipsia sotto la direzione dell'autore al suo esordio in qualità di direttore, l’opera riscosse un enorme successo di pubblico. La composizione è articolata in tre parti, che corrispondono alle tre dolorose peregrinazioni compiute dalla Peri nella ricerca di un dono gradito al cielo. Nella prima parte vaga per l’India, dove raccoglie l‘ultima goccia di sangue di un giovane patriota vittima della tirannide, Dopo il diniego delle potenze celesti di fronte alla sua prima offerta, la Peri vola verso l’Egitto, ove assiste al sacrificio di una donna che decide di morire accanto al suo amato colpito dalla peste. Solo nell'ultima parte dell‘opera tuttavia, “fra i mille minareti della Siria", la Peri riuscirà a trovare il dono decisivo, le “sante lacrime di profondo pentimento” versate da un peccatore incallito di fronte alla purezza di un bambino assorto in preghiera.
La semplicità e la chiarezza della struttura narrativa sono confortate da una elaborazione musicale che, evitando complicazioni contrappuntistiche e virtuosismi vocali, introduce una s
erie di innovazioni particolarmente significative rispetto alla prassi stilistica dell‘epoca. Superando quella rigida divisione dei ruoli tipica dell'oratorio tradizionale, il compositore ha distribuito le parti narrative fra i varii solisti ed il coro, che diventano alternativamente attori e commentatori della vicenda. La mancanza di recitativi secchi. convenzionalmente destinati alle sezioni narrative, conferisce all'insieme un'impronta lirico-liederistica costante, in cui l'arioso declamato si trasforma impercettibilmente in canto spiegato e viceversa. Non vi è alcuna artificiosa distinzione fra i momenti
dell'azione e quelli della riflessione: l'intera vicenda, conformata alla sfera emozionale della Peri, e vista attraverso i suoi occhi e filtrata attraverso le sofferenze della sua anima. I diversi brani musicali, di dimensioni abbastanza ridotte, si susseguono senza soluzione di continuità, ricalcando il modello della collana di miniature già sperimentato da Schumann nei polittici pianistici composti negli anni precedenti, Una fitta trama di richiami motivici travalica i confini del singolo brano per impreziosire la scrittura orchestrale con una rete di reminiscenze, presagi ed allusioni che anticipano la tecnica del Leitmotiv wagneriano e amplificano l'unità organica della composizione. Il motivo iniziale ad esempio, una sorta di ‘motivo conduttore dell’angelo caduto’, riaffiora con insistenza in corrispondenza dei numeri 10 e 20, a rappresentare emblematicamente la delusione della Peri per l’esito negative delle prime due prove. Il magico monde dell'Oriente e reso attraverso un colore orchestrale caldo
e luminoso, completamente scevro di effetti pittoreschi e banali turcherie. Il coro dei conquistatori che acclamano il tiranno Gazna costituisce l'unico passo pittoresco dell’opera, in cui la deliberata trivialità della scrittura diventa un valido espediente di condanna nei confronti dell'umana mediocrità. In tutti gli altri casi l'ambientazione esotica viene resa attraverso procedimenti molto raffinati, come nel coro delle urì che apre la terza parte dell'opera, in cui l’iterazione delle quinte vuote al basso, l'uso delle sole voci femminili e il potenziamento della strumentazione con triangoli, tamburi e cimbali, concorrono a restituire un effetto di grande fascino sonoro.

Susanna Pasticci (p) 1995

lunedì, giugno 16, 2014

La magia del teatro nel "Rinaldo" di Händel a Reggio Emilia

Reggio Emilia, "Rinaldo di Pierluigi Pizzi"
Trionfale ritorno del Rinaldo di Händel al Valli, nello storico allestimento di Pier Luigi Pizzi che, realizzato a Reggio Emilia nel 1985, ha meritato riconoscimenti internazionali e innumerevoli riprese nei più importanti teatri europei, segnando una pietra miliare nella storia della regia senz’altro, ma anche nella storia dell’opera barocca, tanto che si potrebbe parlare del Rinaldo di Pizzi, in quanto la componente spettacolare, fondamentale nell’opera del Seicento e primo Settecento, rappresenta un vero problema negli allestimenti contemporanei, problema che pochi registi hanno saputo affrontare con l’intelligenza di Pizzi, la sua efficacia e soprattutto l’assoluto rispetto della musica e del senso originario di questo particolarissimo genere teatrale.
Ottavio Dantone a capo dell’Accademia Bizantina e un cast vocale di professionisti del canto barocco ha conferito ulteriore valore alla seconda ripresa reggiana del Rinaldo dopo quella del ’91 che era stata effettuata con un’orchestra di strumenti moderni, e senza la cura filologica oggi imprescindibile nell’esecuzione di questo tipo di repertorio.
La geniale intuizione di Pizzi, caratterizzante questo storico allestimento, consiste nell’esibire le macchinerie teatrali grazie ad uno stuolo di mimi i quali, completamente mascherati di nero e mimetizzati col fondale scuro, muovono piedistalli su cui, statue immote, giganteggiano i singoli personaggi, lontani, irreali, solenni e preziosi nei loro abiti e pennacchi strabilianti, resi vivi e credibili unicamente dalla musica. Si appalesa in tal modo l’elemento sostanziale dell’opera Barocca e del Rinaldo, in particolare, ovvero l’aria, momento statico che racchiude un unico “affetto“ stereotipato (ira, trasporto amoroso, idillio, pena) e in cui si convogliano virtuosismo vocale spinto all’estremo e volute strumentali che ivi gareggiano con la voce. Il libretto di Aaron Hill tradotto da Giacomo Rossi, tratto con molta libertà dalla Gerusalemme liberata del Tasso, assai astutamente confeziona un prodotto che altro non è che una modesta “scaletta” per il rivestimento musicale, giusto prodotto in una Londra che si apriva proprio allora all’opera italiana e il cui pubblico, non comprendendo una parola dell’idioma del belcanto, occorreva stupire con un canto massimamente virtuosistico e una musica invadente e onnicomprensiva. E la musica oltre a porsi in gara con la voce, si accolla il compito di essere mare, tempesta, frastuono di battaglia, cinguettare di uccelli e stormire di fronde. La regia, lo sfarzo di scene e costumi, esibiti quanto le macchinerei (vedi gli strascichi che ondeggiano, mossi pure essi stessi dai mimi), la sorpresa, la meraviglia sono perfettamente funzionali alla musica, assoluta protagonista. E se il cast vocale nel complesso ha dato buona prova di sé, l’Orchestra dell’Accademia Bizantina, diretta con slancio ed energia da Dantone, ha plasticamente invaso la scena, avvolto i personaggi, evocato situazioni, mostrando finalmente il peso che essa assume, fatto assolutamente nuovo e originale, rispetto alla media degli autori italiani, in Händel. Dunque il cast vocale: accanto alle punte di Almirena, Maria Grazia Schiavo; Armida, Roberta Invernizzi e Goffredo, Krystian Adam, il protagonista eponimo, Delphine Galou, in sostituzione della indisposta Marina De Liso, è apparsa non sempre a fuoco con la voce e priva di quella veemenza e autorevolezza virtuosistica che il ruolo impone; di buon impatto l’Argante di Riccardo Novaro; sbiadito il mago, Antonio Vincenzo Serra. Completavano Lavinia Bini da fuori scena come voce di sirena e William Corrò.
Molti gli applausi, non tanto a scena aperta, ma nel finale, come tributo a Pizzi, senz’altro, accolto da una vera e propria ovazione, tributata poi, anche a Dantone e agli interpreti più apprezzati e ancora ai mimi, cui spetta un compito difficilissimo. Ma l’omaggio affettuoso a Pizzi portava con sé il valore aggiunto del ricordo di una stagione straordinaria della vita culturale della nostra città; stagione in cui curiosità verso mondi teatrali inesplorati, apertura ad esperienze nuove, inventiva, lungimiranza, originalità segnavano il progetto culturale nel suo complesso. Un progetto che nasceva a Reggio, qui si sviluppava e definiva per essere se mai esportato; un progetto che non sempre veniva accettato senza riserve, e, dato il carattere innovativo, non sempre andava esente da critiche, ma che alla fine, alla resa dei conti e a fronte del riscontro internazionale, trovava la via del consenso anche tra gli scettici.

Daniela Iotti (“Giornale di Reggio”, 1 maggio 2012)

sabato, giugno 14, 2014

I Musici: i ragazzi che entusiasmarono Toscanini!

Felix Ayo (Sestao, 1933)
L'idea di fondare "I Musici" venne nel 1951 al Maestro Remy Principe, che all'epoca era membro del complesso "I Virtuosi di Roma” e professore di violino al Conservatorio di Santa Cecilia. Si vedevano ancora le macerie della Seconda Guerra Mondiale, ma l'Italia, come del resto tutta l‘Europa, é percorsa da un grande fermento, dove occorreva ricostruire, non solo le mura, ma anche lo spirito degli uomini, spinti dalla necessità di essere ritemprati. La cultura è il motore di questo ”nuovo" rinascimento. E Roma, in Italia, diventa la culla dell'arte.
Remy Principe si trova ad avere, nella sua classe, degli allievi molto dotati: pensò così di formare un nuovo complesso, riunendo questi giovani talenti insieme ad alcuni suoi ex-allievi particolarmente bravi.
Inizialmente il gruppo era formato dai violinisti Franco Tamponi, Luciano Vicari, Walter Gallozzi, Luigi Muratori, Montserrat Cervera ed io; i violisti Bruno Giuranna e Carmen Franco; i violoncellisti Enzo Altobelli e Alfred Stengel; il contrabbassista Francesco Noto e la clavicembalista Isabella Salomon. ln questi primi tempi importantissima fu la collaborazione della compositrice Barbara Giuranna.
Il debutto fu una vera bomba! Tenemmo il primo concerto il 30 marzo 1952 a Roma, nella Sala del Conservatorio di Santa Cecilia. Nel giugno dello stesso anno, mentre registravamo per la RAI a Roma, ci sentì suonare il grande direttore Arturo Toscanini. Lui era ospite di Ada Finzi (colei che divenne la nostra straordinaria agente musicale...), e all'ora di pranzo si presentò di ottimo umore alla porta della casa di via Panama. Il Maestro parlò di musica, anzi, parlò de "I Musici"!
"Sono entusiasta - disse - torno in questo momento da via Asiago, dalla sede della Radio Italiana, dove ho ascoltato dodici ragazzi: bravi, bravissimi; è un'orchestra da camera perfetta. Dodici giovani dai 18 ai 20 anni, che suonano senza direttore. L'ho detto a quei ragazzi: li ho applauditi, li ho ringraziati. No: non muore la musica!"
Toscanini ci regalò poi (nel luglio dello stesso anno) un suo ritratto, con la bellissima dedica che ci aprì la porta di tutti i teatri del mondo. L'entusiasmo di Toscanini, del pubblico e dei critici, era una cosa insperata ma estremamente gratificante e forse anche meritata. Dico questo perché prima di dare il nostro primo concerto studiammo per otto mesi, tutti i giorni della settimana inclusa la domenica. Una preparazione seria, attenta ad ogni particolare. Per riuscire ci vuole talento, sì, ma anche disciplina e tanto lavoro. Quegli otto mesi servirono per questo e anche per formare un repertorio.
Fu un grande esordio e da lì scaturirono concerti, tournées, incisioni e anche delle critiche lusinghiere. Suonammo a Trieste e Bolzano e poi, nel 1953, al Teatro La Scala di Milano, la Wigmore Hall a Londra e la Salle Gaveau a Parigi.
Il nostro era un repertorio che si poneva in netto contrasto con le tendenze dell'epoca, in cui la musica
romantica aveva maggior spazio. Fu una scelta cosciente creare un distacco netto dalla musica romantica; una scelta che animava tutti i componenti de "I Musici". Ricordo ancora la nostra emozione entrando per la prima volta in queste sale storiche, dove vi si sono esibiti i più grandi artisti di tutti i tempi.
Le prime incisioni de "I Musici" -furono effettuate
con la casa discografica Columbia. Uno di questi dischi era interamente dedicato a Vivaldi, un altro comprendeva opere di Gabrieli, Marcello, Albinoni e Vivaldi. Altri ancora erano dedicati a Padre Martini (di cui non si trovava nulla in disco!) e a Pergolesi.
Ricordo con
piacere le sessioni di registrazione dei Concertini Armonici di Pergolesi (all'epoca erano attribuiti anche a Carlo Ricciotti) effettuate a Milano. Ripetevamo alcuni passaggi per consentire al tecnico di montare poi le parti migliori. Su un finale di movimento, che richiedeva un pianissimo ben calibrato, ci eravamo particolarmente soffermati, cercando tutti insieme di ottenere un colore particolare.
Avevamo rifatto più volte quel finale, quando finalmente eseguimmo quello che ci eravamo prefissati. Ma ecco che, appena smorzato il suono, lasciando quell'alone necessario affinché la nota si spenga nell'aria, un rumore contro il portone della chiesa dove stavamo registrando distrugge tutto il nostro lavoro! Furiosi uscimmo a vedere chi fosse il colpevole di questo dispetto.
C’erano dei ragazzini che si erano messi a giocare a pallone e avevano deciso che il portone della chiesa fosse anche la porta contro la quale mandare la palla in goal! Tra loro ne pescammo due a caso e, per intimorirli minacciammo di chiamare i vigili. Chiedemmo così i loro nomi: "Io mi chiamo Sandro, Sandro Mazzola e lui è il mio fratello Ferruccio...".
Facemmo loro una lavata di cupo, poi li lasciammo andare. Anni dopo, quando divennero campioni indiscussi di calcio, ci ricordammo di quei loro “curiosi” esordi!
Tra il l955 e il 1959 "I Musici" videro l'inizio di una incredibile quantità di registrazioni effettuate soprattutto per la casa discografica Philips, e molti di questi dischi, ora in versione CD, sono ancora in vendita. La Philips disponeva di un gruppo di musicologi
dedito alla ricerca di un repertorio desueto, al punto di inviarci le partiture sei mesi prima di entrare in sala d’incisione. Per noi il più importante, di questi producer, è stato Vittorio Negri.
Persona di straordinaria cultura, Negri era nato a Milano nel 1923 e si era appassionato alla musica barocca grazie al sue maestro Antonio Guarnieri, che conobbe a Siena. Ma fu ancor più importante per Negri il frequentare i corsi al Mozarteum di Salisburgo e diventare assistente di Bernhard Paumgartner. ln quella città acquisì il "metodo” per fare della buona musicologia, imparando ad andare alle fonti musicali per le sue ricerche.
Agli inizi degli anni '50 Vittorio Negri partecipa attivamente alla "rinascita" degli studi musicologici in Italia, diventando membro della Società Italiana di Musicologia (diretta nel 1964 da Guglielmo Barblan). A Vittorio Negri fu affidata un'importante collana di pubblicazioni musicali di lavori del barocco (alla quale "I Musici” attinsero a piene mani, grazie proprio al ruolo di produttore che Negri aveva assunto in Philips): la straordinaria Monumenta Italicae Musicae, Come ho detto, noi ricevevamo in anticipo sulla pubblicazione il materiale necessario allo studio e alla registrazione discografica. C'era dunque tutto il tempo per studiare bene lavori poco noti, che spesso, poi, proponevamo in concerto.
La sua scomparsa, avvenuta nel 1995, è per me motivo di grande commozione, e ancora oggi mi sale un nodo alla gola nel ricordare la sua ultima telefonata, avvenuta poche ore prima dalla sua morte. Mi
chiamò e mi disse, con un filo di voce: "Grazie, Felix, per le belle cose che abbiamo fatto assieme. I medici mi hanno detto che forse non passerò la notte. Ecco, valevo sentirti solo per dirti questo". Fu un momento di grande commozione e tristezza...
Grazie al lavoro di Vittorio Negri, andavamo riscoprendo la scuola violinistica italiana del '600 e '700, l'affascinante periodo della musica barocca. Infatti, all'inizio suonavamo quasi esclusivamente musica italiana, sia di autori conosciuti come di quelli meno conosciuti. Fra tutti Antonio Vivaldi aveva un posto senz'altro molto importante. Era il nostro cavallo di battaglia. Sin dall’inizio pensammo al recupero della musica di Vivaldi, soprattutto dal punto di vista interpretativo. Volevamo un Vivaldi più limpido, più cristallino e trasparente, pieno di vitalità negli Allegro e di espressività intensa, ma contenuta, nei tempi lenti.
Incidemmo per Philips un numero vastissimo di concerti di Vivaldi. Il disco più venduto fu quello delle Quattro Stagioni (che io incisi ben due volte, una in versione solo monoaurale del 1955, e - nel 1959 e sull'onda della straordinario successo di vendita - in una versione stereofonica), premiato con il Grand Prix du Disque. Grazie all'enorme successo di quel disco, mi sono ritrovato ad eseguire le Quattro Stagioni vivaldiana centinaia di volte, in tutto il mondo!
Ricordo ancora le nostre tournées in quelli che, negli anni '50 e '60, erano i paesi dell'Est europeo, al di là della cortina di ferro! Polonia, ex-Cecoslovacchia, Ungheria, Romania... Paesi che vivevano una drammatica povertà! C'erano persone che non avevano neppure di che vestirsi e là i musicisti erano sprovvisti dei ricambi per i loro strumenti.
ln Polonia assistetti alla scena pietosa della nostra interprete che quasi ci mollò in piena tournée solo perché la sua bambina aveva subito il furto del suo cappottino! Noi ci arrabbiammo molto, non capendo fino a che punto una tale disgrazia stesse sconvolgendo la vita della donna polacca. Solo col tempo, e chiedendo spiegazioni, comprendemmo che per potersi permettere un altro cappottino per la figlia la nostra interprete avrebbe dovuto lavorare un anno intero!...
Anche Maria Teresa Garatti e suo marito Lucio Buccarella ricordano la situazione di estrema povertà incontrata nel 1956 a Budapest, dove i nostri colleghi ungheresi si commuovevano ai nostri concerti! Erano sprovvisti di tutto, sia dello stretto necessario per sopravvivere che dei mezzi per continuare la loro carriera. E fu così che noi decidemmo di regalare loro le nostre corde di ricambio: era un dono preziosissimo, che per loro poteva rappresentare la possibilità di riprendere lo studio e il lavoro.
Nel 1953 il contrabbassista Francesco Noto lasciò il posto a Lucio Buccarella, mentre sua moglie Maria Teresa Garatti gradualmente sostituì Isabella Salamon. Tra la fine del 1953 e il 1954 ci furono altri cambiamenti nel gruppo; Franco Tamponi e Montserrat Cervera lasciarono via via "l Musici" e Luciano vicari dovette partire per il servizio militare. Il loro posto fu preso, di concerto in concerto, da altri giovani componenti de "I Musici” come Roberto Michelucci, Anna Maria Cotogni e Cesare Casellato.
Infine, a Scheveningen nel luglio del 1954, in occasione di una tournée in Olanda, io divenni il Konzertmeister de "I Musici” al posto di Franco Tamponi. Per me fu un grande onore ma anche una grande responsabilità. Nel 1958 entrò poi nel gruppo il violista Cino Ghedin, al posto di Bruno Giuranna.
Nei miei ricordi ci sono i lunghissimi viaggi (bellissimi quelli nel mio Paese, la Spagna), i tanti concerti, tutti 
coronati da grandi successi, ma anche il gran divertimento, gli scherzi e le goliardate che combinavamo a vicenda!
Ho suonato con "I Musici" dall'esordio, nel 1952, fino al 1968. Da questo complesso io ho avuto molto, ma ho anche dato molto, dedicandogli diciassette anni della mia vita. E, dopo tanti anni e innumerevoli concerti in tutto il mondo, con strepitosi successi, tanti dischi e premi internazionali, ho sentito che in quel campo non potevo dare di più, e decisi di mettermi alla prova seguendo nuove strade.
Anche Enzo Altobelli e Cino Ghedin lasciarono il complesso insieme a me. In que1 momento, tutti noi sentivamo l'assoluta necessità di fare altra musica che non fosse soprattutto quella barocca.
Già da anni sognavamo di costituire un quartetto con pianoforte e alla fine ci riuscimmo perfettamente, insieme con Carlo Bruno, formando nel 1970 il "Quartetto Beethoven di Roma" Da allora ho continuato a suonare per altri quarantacinque anni, con il quartetto, in recitals, da solista e anche come direttore d'orchestra, ma gli anni con "I Musici" rappresentano un periodo straordinariamente importante della mia vita artistica e che ricorderò sempre con grande piacere.

Felix Ayo (Mentana, Roma, settembre 2013)

sabato, giugno 07, 2014

Ciakovski: Prima Sinfonia et alia...

DGG 419 176-2 - (p) 1967 (Marcia slava),
1972 (Eugen Onegin), 1979 (Sinfonia n.1) - (c) 1986
"Non so se Lei conosce questa mia opera. Sebbene da diversi punti di vista sia assai immatura, essa ha, a dire il vero, più sostanza ed è migliore di molte altre più matuxe". Con questo giudizio spinto al paradosso il 15 novembre 1883 Ciaikovski richiama l'attenzione di Nadiezda von Meek sulla sua Prima Sinfonia scritta nel 1866.
“Ho un debole per il peccato della cara giovinezza", “malgrado tutti i suoi grossi difetti", afferma il compositore in una lettera del 17 ottobre 1883 da Kiev all’amico e collega Karl Albrecht.
Nel marzo 1866, spesso in forzato lavoro notturno,
Ciaikovski si dedicò alla composizione della Prima Sinfonia, la prima grande opera dal profilo autonomo scritta dopo la conclusione degli studi al Conservatorio di Pietroburgo; nel mese di giugno cominciò a strumentarla. Questa composizione, che inizia in modo magicamente leggero, rappresentò un pesantissimo lavoro per il suo artefice. Lo portò al “limite della follia", come ebbe a constatare un medico mandato a chiamare dopo uno di quegli attacchi nervosi con allucinazioni, sensi di angoscia e i tormentosi “martelletti” (così Ciaikovski chiamava quelle pulsazioni di natura nervosa che avvertiva alla testa). In seguito non ha mai più osato lavorare di notte.
Quando Ciaikovski presentò la Sinfonia ancora incompiuta ai suoi vecchi insegnanti di Pietroburgo Anton Rubinstein e Zaremba, sperando che questi la inserissero in uno dei concerti della Società musicale russa, dovette accettare la critica poco benevola dei due professori. Il fatto che nel novembre 1866, in seguito ai moniti dei maestri di Pietroburgo egli rielaborò la Sinfonia, dimostra sia
la sua modestia sia la sua insicurezza. Dopo due sfortunate esecuzioni di singoli movimenti (lo Scherzo il 10 dicembre 1866 a Mosca; 1’Adagio e lo Scherzo l’11 febbraio 1867 a Pietroburgo) l’opera venne presentata nella sua versione completa il 3 febbraio 1868 a Mosca sotto la direzione di Nikolai Rubinstein a cui è pure dedicata.
Nel 1874, due anni dopo la composizione della Seconda Sinfonia (prima versione), Ciaikovski fece ancora una volta una profonda revisione della Prima; in questa versione è eseguita, come è ormai consuetudine, anche nella presente registrazione. La nuova versione fu pubblicata nel 1875 dall’editore Piotr Jurgenson, amico di Ciaikovski: a gennaio la partitura, a marzo una riduzione per piano
forte a cura del pianista Eduard Langer, collega di Conservatorio di Ciaikovski. La prima esecuzione della seconda versione ebbe luogo a Mosca il 19 novembre 1883 sotto la direzione di Max Erdmannsdörfer.
La Prima Sinfonia è intitolata Sogni invernali; il primo movimento (in sol minore) si chiama Sogni di un viaggio invernale, il secondo Paesaggio fosco, nebbioso; lo Scherzo (in do minore) e il Finale (in sol minore/ sol maggiore) non recano alcun sottotitolo. La parte A dello Scherzo Ciaikovski la trasse dalla sua Sonata per pianoforte in do diesis minore, composta nel 1865 e pubblicata nell‘anno 1900 come op. post. 80. Allo Scherzo della Sinfonia egli prepose un "sipario" di quattro battute, riscrisse poi del tutto il Trio facendone il suo primo valzer sinfonico, a cui seguirono i valzer della Terza, Quinta e Sesta Sinfonia. Non sappiamo né come siano sorti i titoli programmatici né che significato attribuisse loro i1 compositore. Sicuramente Ciaikovski non ha voluto dipingere un quadro musicale naturalistico dell’inverno; persino la generica atmosfera suggerita dal titolo sembra corrispondere soltanto in modo vago e a tratti alla musica. In questo tipo di musica a programma incentrata sul tema del ‘viaggio invernale’ - un tema caratteristico per tutta l’arte russa dell’Ottocento - non si ha a che fare con visioni, ma con sensazioni associative.
Un tipo completamente diverse di “musica a programma" è rappresentato dalla Marcia slava op. 31, composta nel settembre 1876. Prima di darla alle stampe Ciaikovski era solito chiamarla Marcia serbo-russa. In questo brano in parte cupo (inizia “in modo di marcia funebre”) in parte stridente (in forma ABA') il musicista elaborò due originali canzoni popolari serbe (una elegiaca, 1’alt
ra danzante) nonché l’inno russo per lo Zar. Un gesto al contempo panslavo e patriottico! Questo brano di grande effetto gli era stato commissionato dalla Società musicale russa per un concerto a favore dell’Associazione slava di beneficenza, e già alla prima esecuzione, avvenuta il 5 novembre 1876 a Mosca sotto la direzione di Nikolai Rubinstein, ebbe un grandioso successo. Tre giorni dopo Ciaikovski scrisse alla sorella che la Marcia aveva scatenato “una vera e propria tempesta di entusiasmo patriottico". E si farebbe un torto a questo brano tecnicamente brillante se lo si volesse riabilitare attribuendogli un valore estetico. Ciaikovski stesso non l’ha affatto sopravvalutato. Con un’espressione ironica scrisse in una lettera alla sorella del 22 febbraio 1877, dopo un’esecuzione della Marcia diretta da lui stesso il 13 febbraio precedente: “Ora ho inondato l'infelice Mosca con i prodotti della mia Musa... .".
Ciaikovski è indubbiamente uno dei maggiori compositori di valzer della storia della musica. Nelle sinfonie (dalla Prima alla Sesta), nei balletti e nelle opere, nella musica pianistica e persino nelle romanze ha continuamente reso omaggio a questa danza. Inoltre l'ha posta ai servizi dello psicorealismo della sua drammaturgia operistica. Nel
suo affascinante studio “Eugenio Onieghin di Ciaikovski" (trad. tedesca Potsdam 1948). Assafjew-Glebow compie una ponderata analisi del Valzer dell’opera Eugenio Onieghin (inizio del secondo atto dopo il motivo della nostalgia di Tatjana nell'Entr’acte e con “inserimento del coro" nel valzer). Egli mostra che con questo valzer di breve respiro e non certo elegante, inserito nella scena del ballo a casa di Larina, Ciaikovski non ha in mente un semplice divertissement musicale; al contrario egli offre qui un magistrale studio d'ambiente della vita provinciale dei possidenti “con la loro affacendata confusione, le loro chiacchiere, con tutti quei mezzucci per divertirsi e perdere tempo che fanno trascorrere la vita in modo inutile” (pag. 86). Un mondo completamente diverso evoca la Polonaise della prima scena del terzo atto delle “Scene liriche" Eugenio Onieghin: la società cortigiana nel palazzo del principe Gremin. In questa Polonaise sontuosa Ciaikovski dipinge “il ‘fasto e la boriosa operosità del gran mondo’, dietro cui si cela la vacuità interiore, caratterizzando al contempo la disperata ricerca di distrazione da parte di Onieghin” (pp. cit., pag. 105).

Thomas Kohlhase (Truduzione: Gianmario Borio)