Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, febbraio 27, 2009

Dinamica e psicopatologia dei colpi di tosse nelle sale da concerto

Ovvero il disagio del silenzio nella civiltà contemporanea.

La musica creata per luoghi deputati - sale da concerto, chiese o teatri pubblici - è sempre stata una maniera organizzata di ridefinire uno spazio alternativo a quello della vita di tutti i giorni, cioè al paesaggio sonoro della realtà. In tale paesaggio, attraverso i secoli, si è assistito ad un continuo incremento di rumore, a cui hanno corrisposto sempre meno silenzi; nella musica, per contrasto, si è incrementata una tendenza in cui l'importanza del silenzio ha avuto un rilievo sempre maggiore, fino a giungere, ai nostri giorni, agli esiti cageani, cioè a portare su un palcoscenico e in una sala da concerto null'altro che il silenzio. Insomma, le forbici "spazio della musica" e "spazio della vita" si sono sempre più allargate.
Nel Seicento/Settecento, ad un paesaggio abbastanza silenzioso, corrispondeva una musica con assenza quasi assoluta di pause. Un continuum sonoro che nella nostra epoca ritroviamo, per converso, al di fuori della sala da concerto. Oggi, ai rumori indotti della civiltà industriale, si aggiungono quelli volontari della ambient music, la musica muzak dei grandi magazzini e dei luoghi di lavoro, i walkman, la musica in automobile. Si utilizzano addirittura ulteriori strati di rumore per sovrapporli a quelli sgradevoli delle macchine, creando una sorta di sandwich sonoro multistrato. Ma non è solo questo: il rumore è diventato talmente familiare che ha avuto, in alcuni ambienti di lavoro, un ruolo fondamentale, aumentando il tasso di concentrazione e favorendo la produttività. I giornalisti, ad esempio. abituati a scrivere nelle caotiche redazioni dei giornali, sembra non gradiscano luoghi di lavoro silenziosi. Le nostre conversazioni casalinghe, purtroppo, sono spesso accompagnate dal chiacchiericcio dell'apparecchio televisivo, che copre gli imbarazzanti silenzi dei momenti in cui non si sa cosa dire.
Il "comodo" walkman entra spesso in ballo nella vita di tutti i giorni: riempie le nostre troppo silenziose gite in barca, le solitarie corse in windsurf, le discese con gli sci fra l'imbarazzante silenzio delle nevi di alta montagna. Chi non ha mai avuto la sgradita sorpresa, dopo aver pregustato il profondo silenzio di un paesaggio nevoso, del ritrovarsi vicino ad una stazione sciistica con gli altoparlanti a tutto volume che diffondono il martellante basso-batteria della Disco-Music?
Si potrebbe continuare nell'enumerazíone delle componenti che creano la "crosta acustica" del nostro mondo civile, ma entriamo nel nostro argomento, i colpi di tosse, nella loro ambientazione, la sala da concerto.
Il compositore di oggi, rispetto al passato, dà molta importanza ai silenzi, alle pause cariche di tensione, la stessa importanza che attribuisce ai suoni. Basterebbe pensare a Webern, alle sue strutture rarefatte che navigano in un mare di sonoro silenzio, a, Ligèti, che nelle sue Bagatelle per pianoforte prevede pochissimi interventi sonori: quattro o cinque note in tutto, a Sciarrino, che utilizza sonorità "dal nulla al pianissimo al nulla", ai 4'e 33" di silenzio del brano di Cage, che hanno messo a dura prova, nelle sale da concerto di tutto il mondo, i polmoni di molti spettatori nel trattenere i colpi di tosse.
Il momento del silenzio musicale è un trasalimento, un trapasso in cui noi riaffioriamo in qualche modo come protagonisti, paritariamente ai musicisti che ci stanno di fronte, un momento che interrompe l'abbandono e ci obbliga a pensare, ci riporta all'Hic et nunc.
Si potrebbe affermare che, tramte i silenzi, la musica del Novecento inneschi una propensione alla riflessione, mentre la musica del passato tende all'astrazione, ci fa sognare, ci trasporta, e non ha interesse a interrompere un flusso, assecondando quella tendenza ad ascoltare come si guarda lo scorrere dell'acqua di un fiume.
Sappiamo che i silenzi musicali sono come gli spazi bianchi sulla tela, il ritorno a capo che isola la parola nel verso, i silenzi teatrali che circondano certe parole drammaticamente importanti : ... morire... dormire... forse sognare... . Il silenzio le rende pesanti, pregnanti, le sottolinea, ed è come se volesse dirci: riflettete, queste parole hanno bisogno di un pensiero collettivo che le riempia di significato!
Si noterà come nel teatro non si tossisca quasi mai: il significante è un elemento familiare ed entriamo subito in empatia.
La pulsione alla rottura del silenzio potrebbe concretizzarsi in vari modi: il grido, il rumore, il chiacchiericcio, l'invettiva e tutte quelle manifestazioní che solitamente accompagnano gli stati di impazienza o di insofferenza. Il civile spettatore della sala da concerto, troppo educato e intimorito dalla reverenziale mistica del luogo, ne sceglie uno incolpevole, che lo libera da ogni responsabilità, che appartiene alla categoria giustificabilissima delle necessità fisiologiche: il colpo di tosse. Tale "necessità" non la esplica mai però nei "fortissimo", come sarebbe ovvio, non attende il fatidico "colpo di piatti" (come evidenzia un celeberrimo film hitchcockiano): sempre negli intervalli fra un movimento e l'altro, spesso nei pianissimi, altrettanto spesso nelle sospensioni cadenzali prolungate, nelle lunghe pause, come per incanto, tramite un sincronismo che sembra lungamente concordato, s'ode a destra un colpo di tosse che, a guisa di segnale, fa partire una miriade di giochi sonori splendidamente frammentati nello spazio, che sembrano previsti dal musicista come elemento musicale. Per converso, sono radi e con altre intenzioni i colpi di tosse liberatori durante il momento degli applausi finali, quando sarebbero certamente coperti ed innocui.
Al primo solitario colpo di tosse viene subito manifestato un misto fra complicità e consenso: una mutua manifestazione di intenzioni comuni, di eleganti pulsioni di dissenso. I Buuh ..., i fischi, appartengono ad un altro genere di spettatore, al loggionista, all'incivile contestatore. Quest'ultimo non tossisce, ulula, semmai. Non è una questione di categorie sociali e intellettuali, poiché il nostro colpo di tosse investe tutti i ceti, a volte anche il critico musicale. Se Freud si fosse occupato di musica, avrebbe certamente trattato il problema nella sua Psicopatologia della vita quotidiana, magari accanto al tic, al moto di riso o al motto di spirito.
Manifesta disagio quel colpo di tosse? Siamo sicuri di si, ma è anche un momento in cui il liberarsi dell'espressione provoca un successivo rilassamento che dà carica per le prevedibili vessazioni a venire.
Si potrebbe stilare una classifica dei compositori più "tossiti". Beethoven non si "tossisce", Mozart e Bach meno che mai (è capitato di sentire dei colpi di tosse durante la Matthäus-Passion, tra la fine di un recitativo e l'inizio di un'aria, ma erano provocati da una viola da gamba realmente raffreddata, data l'umidità della chiesa). Ci sarebbe da precisare che le esecuzioni con strumenti originali, anche se non scatenano il colpo di tosse (c'è sempre un certo riguardo per i musicisti defunti), provocano qualche sfogo laringeo, qualche schiarimento glottideo.
Cronologicamente, secondo ipotesi non suffragate da testimonianze dirette, il nostro ascoltatore moderno comincia a non controllare la sua compostezza laringea all'incirca dall'assolo del corno inglese del terzo atto del Tristan und Isolde.
Il colpo di tosse, però, si libra, prepotente e senza pudori, durante l'esecuzione dei brani di musica contemporanea, in quegli stessi brani che trent'anni fa erano "incivilmente" fischiati, contestati, considerati come provocatori. Oggi, gli ascoltatori che resistono alla tentazione di rinunciare ai concerti nei quali sono inseriti tali brani, sono molto più tolleranti, intellettualmente più aperti: ascoltano fino alla fine senza protestare e, quando non ne possono fare a meno, tossiscono. Il già citato Webern, Xenakis, Boulez, Sciarrino, Varése e tanti altri, ne sono le vittime principali. Luciano Berio, che ha forse compreso i meccanismi del colpo di tosse, ne sfugge abilmente nelle sue composizioni più recenti attraverso l'uso di pedali, di suoni continui (il compositore ligure, fra l'altro, ha inserito colpi di tosse "musicali" all'interno della sua composizione A-Ronne).
Ci sono poi altri compositori che, sicuramente per difendersi da questo male endemico, immettono strutturalmente una fitta rete di "tic" nelle loro composizioni, inibendo cosi, quelli degli spettatori: Franco Donatorií ne è l'esempio tipico, anzi, l'archetipo, con un'operazíone che spesso si rivela, però, a vantaggio del fatto musicale. Altri, come Mauricio Kagel, li neutralizzano tramite i motti di spirito, altri ancora, come Stockhausen, tramite l'estrema sacralizzazione, ed il sacro, come si sa, ha per sua natura la patente del mistero. I neoromantici, sprovvisti costituzionaltriente di ironia, non si pongono il sottile problema del colpo di tosse: loro appartengono all'universo delle certezze. I loro brani, senza inquietanti pause, sono pieni di punti esclamativi, di cadenze perfette, di fasce melodiche compostamente piene di pucciniani unisoni (altro che solitari assoli!), con ogni cosa che ritorna al suo posto: insomma, un toccasana per le vie respiratorie!
Abbiamo qualche notizia su come tossivano gli ascoltatori del passato? Sembra di no, ma possiamo fare qualche supposizione. In un teatro pubblico settecentesco era usuale chiacchierare, compiere transazioni d'affari e misfatti, intessere tresche amorose. Il silenzio era lasciato fuori dalla sala da concerto, come si accennava prima. In tale contesto il colpo di tosse non aveva ragione di esistere. In suo luogo si contestava sonoramente, come avviene, ancora oggi, con le soprano o i tenori non ritenuti all'altezza della situazione. Non ci si sognerebbe di tossire dopo la "berciatura" di un acuto del nostro personaggio preferito: lo amiamo e non deve tradirci! Se l'oggetto sonoro ci è però sconosciuto, non ce la sentiamo di contestare: non ci sentiamo intellettualmente all'altezza. A quel punto il nostro inquieto inconscio, combattuto fra il senso di colpa dell'impotenza a comprendere e la paura dell'ignoto, scatena dei piccoli tic fisiologici che si concretizzano in tutti i movimenti oro-laringei di cui è capace.
Il colpo di tosse, a volte, colpisce anche quelli che ci stanno di fronte: i musicisti, gli strumentisti. Anche loro, affetti da intolleranza e disagio per ciò che stanno suonando, quando non assumono il tipico "straniamento professionale", tossiscono o, come è capitato di vedere durante l'esecuzione di un brano di Sciarrino, in una scena degna delle Prove d'orcbestra felliniane, non si trattengono dal ridere, manifestando complicità a quella parte di spettatori insofferenti.
Nell'apologia del colpo di tosse potremmo arrivare ad affermare che questa ginnastica della glottide è il segno distintivo dell'era contemporanea, la manifestazione sottile dell'odierno disagio della civiltà.
Ma si può tentare di considerare il colpo di tosse "inter musica" al di fuori dell'ironia, analizzare il disagio che lo provoca.
La dinamica del comportamento dello spettatore nella moderna sala da concerto, come si diceva all'inizio, è ridotta a una sorta di acquiescenza psico-fisica rispetto a ciò che gli viene proposto.
Ma come in un gioco di incastri, da un lato lo spettatore sa perfettamente che non saranno tradite le sue aspettative, dall'altro il concertista sa cosa vuole il suo pubblico. E il gioco funziona fino a quando nel sistema non si immettono elementi destabilizzanti. La destabilizzazione è provocata dalla "novità", da qualcosa a cui, in quanto nuova, non è riconosciuta alcuna legittimità e autorevolezza. Si è disponibili ad ascoltare qualcosa di non previsto? E perché mai? Con tanta buona musica a cui siamo avvezzi! Il disappunto, mitigato dalla buona educazione del cittadino-bene, si esprime attraverso quel piccolo "tic".
La castrazione delle manifestazioni di disappunto, cioè l'acquiescenza a qualcosa che non si condivide, ingenera noia. E spesso la noia a farci ricordare della nostra fisicità, dei nostri malanni: quando siamo insofferenti diventiamo rumorosi. Un coraggioso dà il la... gli altri seguono!
Ecco che il colpo di tosse è giustificato dal punto di vista antropologico, psíco-sociologico, neurologico. La nostra è una società in cui vanno soddisfatte le aspettative, e la musica è diventata in tal senso un servizio sociale. Cosi anche la sala da concerto lo è diventata: frequentarla è come andare in palestra o a farsi fare un massaggio. La riduzione al silenzio è un modo di sfuggire al mondo, di rilassarci da noi stessi. Al nostro silenzio, però, deve corrispondere qualcosa che ci distolga con continuità. La continuità è del resto la tecnica della comunicazione odierna: il disc-jockey ha il compito di non lasciare "buchi" tra i brani, la TV, ormai da parecchi decenni, "copre" con la pubblicità gli intervalli fra una trasmissione e l'altra, la stessa carta stampata, specialmente la più popolare, non concede neanche il più piccolo spazio non inchiostrato.
Il quadro bianco di Rauschenberg, il silenzio di Cage, la linea sconfinata dell'orizzonte... sono, sempre più, i demoni del nostro sovraffollato paesaggio quotidiano: essi ci dicono che potremmo vivere senza tutto quello che riteniamo indispensabile.

di Francesco Leprino da "L’orecchio del mercante. Scritti intorno alla musica nel mercato della comunicazione” con la prefazione di Gillo Dorfles (EurArte, 2003)

sabato, febbraio 21, 2009

Luigi Nono: biografia

Luigi Nono, (Venezia, 29.1.1924 - Venezia, 8.5.1990)

Vita e opere.
Cresciuto in una famiglia di artisti - il nonno Luigi era pittore, lo zio Urbano scultore - Nono comincia già da presto a interessarsi alla storia dell'arte e della cultura. L'avvicinamento alla musica avviene attraverso i genitori che suonavano amatorialmente il repertorio classico e possedevano una discreta collezione di dischi. Dal 1943 al 1945 Nono studia composizione con Gian Francesco Malipiero presso il Conservatorio di Venezia. Questo studio è rivolto soprattutto alla polifonia vocale e alla tradizione madrigalistica, anche se non privo di riferimenti alla musica della Scuola di Vienna, di Igor Stravinskij e Béla Bartók. L'esperienza della guerra, dell'occupazione nazista e della Resistenza sono fondamentali per la formazione di Nono. Musicalmente l'incontro decisivo è quello con Bruno Maderna, con il quale dal 1946 comincia un profondo sodalizio: a Venezia nasce una piccola comunità di musicisti che attraverso lo studio del passato - dei fondamenti contrappuntistici, armonici e formali della musica d'arte europea - mira alla costituzione di un nuovo linguaggio musicale. Luigi Dallapiccola, con il quale Nono stringe nel 1947 un rapporto di reciproca stima e amicizia, costituisce il punto di riferimento nella precedente generazione di compositori italiani; comune è l'esigenza di scoprire e comprendere la Scuola di Vienna. Nel 1948 Nono e Maderna partecipano al corso di direzione d'orchestra tenuto a Venezia da Hermann Scherchen, diventando poi collaboratori della casa editrice Ars Viva. Per alcuni anni il musicista tedesco diventa la loro guida: durante corsi privati (Rapallo, 1952-53) Nono approfondisce le conoscenze della tecnica compositiva di Bach, Beethoven, Schönberg e Webern. Sotto segnalazione di Scherchen viene accettato come studente agli Internationale Ferienkurse für Neue Musik di Darmstadt del 1950, dove la prima esecuzione delle sue Variazioni canoniche sulla serie dell'op. 41 di Schoenberg scatena contrastanti reazioni. A Darmstadt segue i corsi di Edgard Varèse, la cui influenza diviene progressivamente percettibile nella sua produzione. Fino al 1959 - anno della polemica conferenza «Geschichte und Gegenwart in der Musik von heute» - partecipa continuativamente ai corsi (dal 1957 come docente), nell'ambito dei quali vengono eseguite per la prima volta molte delle sue composizioni e avvengono le discussioni e gli incontri più importanti. A Darmstadt entra in rapporto con i componenti della Scuola di Schönberg, in particolare con il violinista Rudolf Kolisch con cui collabora durante la gestazione di Varianti; nel 1955 sposa la figlia di Schönberg, Nuria. I Ferienkurse sanciscono la posizione assolutamente primaria di Nono che, insieme a Pierre Boulez e Karlheinz Stockhausen, diventa capostipite dell'avanguardia europea.
La tecnica musicale e il pensiero artistico di Nono si sviluppano non solo in seno alla comunità internazionale di musicisti, ma anche a contatto con le opere e le personalità del mondo culturale del suo tempo. Fondamentali in quegli anni sono l'amicizia e più tardi collaborazione con il pittore Emilio Vedova, lo studio delle concezioni teatrali di Vsevolod Mejerchol'd, Erwin Piscator e Josef Svoboda, il confronto con il pensiero filosofico e politico di Antonio Gramsci e Jean Paul Sartre, le letture delle poesie di Federico Garcìa Lorca, Pablo Neruda, Paul Eluard, Cesare Pavese e Giuseppe Ungaretti. Da questi poeti Nono trae i testi delle opere vocali degli anni cinquanta: Tre epitaffi per Federico Garcìa Lorca, La victoire de Guernica, La terra e la compagna e Cori di Didone. Nelle ultime due composizioni citate e nel capolavoro assoluto del primo decennio della sua produzione, Il canto sospeso (1955-56) su testi di condannati a morte della Resistenza europea, Nono inaugura un nuovo stile di canto basato sulla frammentazione del testo e la sua ricodificazione in strutture musicali che vanno dalla singola linea a diversi tipi di aggregato. Un profondo coinvolgimento nelle vicende umane e sociali del proprio tempo gli fa maturare una concezione della musica che prende posizione, mediante un'esperienza globale di suono e testo, nella realtà, diventandone testimonianza storica. Testi con riferimenti politici si moltiplicano nella produzione di Nono, che già nel 1952 si era iscritto al Partito Comunista Italiano. L'azione scenica Intolleranza 1960, che alla sua prima esecuzione a Venezia (1961) scatena contestazioni e tafferugli, rappresenta una cesura non solo perché in essa si concretizza per la prima volta il progetto di un nuovo teatro musicale che era andato maturandosi negli anni cinquanta, ma anche perché emerge l'intero orizzonte della conflittualità politica in cui il compositore si sente coinvolto: l'intolleranza razziale, la violenza fascista, lo sfruttamento della classe lavoratrice, la lotta per la libertà e l'indipendenza nei Paesi in via di sviluppo.
Nono deve avere sentito l'insufficienza dei mezzi musicali fino ad allora sviluppati a esprimere tali contenuti e a fondare al contempo un diverso modo di creare e comunicare musicalmente, se subito dopo questa esecuzione si confronta in modo sempre più profondo con gli strumenti elettronici per la produzione e la trasformazione del suono. Comincia a lavorare nello Studio di Fonologia della RAI di Milano a una nuova composizione per le scene, che si modificherà in continuazione dando origine a diverse opere non collocabili in alcun genere specifico. La prima è La fabbrica illuminata (1964) per nastro magnetico e voce femminile: sul nastro, con cui interagisce la voce dal vivo, sono registrati rumori di fabbrica, voci di operai, un coro e parti della solista stessa (Carla Henius). Su questa linea si collocano A floresta é jovem e cheja de vida (1966) e Y entonces comprendió (1969-70) che fissano fondamentali aspetti del pensiero musicale di Nono: il lavoro sul materiale vocale di cantanti e attori scelti ad hoc per il loro particolare timbro e la loro gestualità, l'interazione tra voci dal vivo e il loro alter ego su nastro, l'impiego del microfono per rendere manifesti aspetti del suono difficilmente percettibili altrimenti, la diffusione del suono in diversi punti dello spazio e – non ultimo - l'impiego di testi che documentano l'attuale fase storica. In queste opere si delinea l'ideale di una musica d'avanguardia che, al di fuori di ogni narratività e senza concessioni alla sintassi tradizionale, coniuga l'esigenza di un progresso dei mezzi artistici con lo smascheramento delle strutture del potere politico. Gli anni sessanta sono un periodo di intenso confronto con la teoria e la prassi del marxismo internazionale. Nel 1965 Nono realizza un nastro magnetico per lo spettacolo teatrale Die Ermittlung di Peter Weiss; nel 1966 lavora su materiali del Living Theatre; nel 1967 intraprende il suo primo lungo viaggio in America latina dove incontra le maggiori personalità dell'opposizione culturale e politica; nel 1968 è a Parigi dove raccoglie materiali della contestazione studentesca (che convogliano in Musica-manifesto n. 1). I testi impiegati in questi anni disegnano una carta geografico-storica della cultura socialista: da Fidel Castro, Che Guevara, Karl Marx, Rosa Luxemburg, Bertolt Brecht, Malcolm X fino a documenti di rivoluzionari dei vari continenti. L'«azione scenica» Al gran sole carico d'amore (1972-74) rappresenta la sintesi e al contempo la conclusione di questa fase di aperta presa di posizione politica: un'opera per il teatro in cui si intrecciano vicende di diverse epoche accomunate dal tema della donna nelle lotte di liberazione.
Il quartetto per archi Fragmente - Stille, an Diotima segna l'inizio di una fase della produzione di Nono in cui si profilano nuove tematiche, senza che questo significhi l'abbandono delle maggiori questioni estetiche e tecnico-compositive affrontate nei decenni precedenti. La forma discontinua fatta di frammenti collegati tra di loro in modo non lineare e non narrativo, che Nono aveva abbozzato per la prima volta alla fine degli anni cinquanta nella composizione orchestrale Diario polacco '58, viene ora esaltata con una considerevole riduzione temporale e dinamica di quelle che si possono definire isole sonore in un paesaggio di silenzi. Permane la concezione dell'esecutore come fonte di un materiale peculiare che concresce in stretta collaborazione e interscambio con il compositore (negli anni settanta approfonditasi nel lavoro con Maurizio Pollini per Como una ola de fuerza y luz e ...sofferte onde serene...). Intatta è la convinzione dell'imprescindibile funzione delle tecnologie nella creazione musicale. Infine i temi della violenza, dell'oppressione e della tensione utopica non sono più colti a livello storico-documentario, bensì proiettati a livello individuale, assumendo una valenza quasi ontologica o perlomeno cosmico-storica. Due fattori determinano gli orientamenti di questo periodo: l'incontro con il filosofo Massimo Cacciari e il lavoro all'Experimentalstudio der Heinrich-Strobel-Stiftung a Freiburg. Il pensiero eclettico di Cacciari - in cui svolgono un ruolo determinante Friedrich Hölderlin, Friedrich Nietzsche, Rainer Maria Rilke e Walter Benjamin e che è alimentato da studi sulla mistica ebraica e sul mondo dei miti - diventa un'inesauribile fonte di ispirazione. I testi delle opere di Nono si configurano ora come un montaggio di frammenti di scritti letterari e filosofici concordati con Cacciari. Nello studio di Freiburg Nono lavora a stretto contatto con un team che padroneggia le più avanzate tecniche per la trasformazione del suono in tempo reale e per la sua diffusione nello spazio. Il concetto di composizione musicale si allarga: Nono compone il suono nella sua evoluzione interna e nelle sue traiettorie spaziali. Il più importante progetto sorto dalla collaborazione con Cacciari e dalle sperimentazioni di Freiburg è Prometeo (1984), un'opera di grandi dimensioni che avrebbe dovuto costituire un nuovo passo nell'evoluzione di quella particolare forma di teatro musicale che, a partire da Intolleranza 1960, Nono definiva «azione scenica». Senonché nel corso della gestazione di Prometeo viene eliminato ogni elemento narrativo, scenico e visivo; rimane solo una gigantesca struttura di legno, la cui forma ricorda la chiglia di una barca ma la cui funzione è quella di una gigantesca cassa di risonanza, che l'architetto Renzo Piano progetta per lo spazio della chiesa di San Lorenzo a Venezia. Nono definisce Prometeo come «tragedia dell'ascolto», termine che da un lato allude alla tragedia greca con i suoi stasimi e cori, dall'altro segnala che il dramma si svolge all'interno del suono stesso. Nel periodo di Prometeo Nono scrive diverse composizioni per voci e pochi strumenti con l'impiego dei live electronics: Quando stanno morendo, Diario polacco n. 2, Guai ai gelidi mostri e Risonanze erranti. In questo decennio vedono la luce anche due importanti opere per grande orchestra - A Carlo Scarpa architetto, ai suoi infiniti possibili e No hay caminos, hay que caminar... Andreij Tarkowskij - in cui le concezioni del suono precisatesi significativamente con l'uso delle apparecchiature informatiche vengono ripensate su un organico puramente acustico.
Pensiero e pratica compositiva.
La produzione di Nono è caratterizzata da una continuità che va al di là di clamorose svolte avvenute nel 1959 (polemica contro il circolo di Darmstadt) e nel 1980 (approfondimento della dimensione interiore); è lo sviluppo assolutamente coerente della tecnica compositiva a dimostrarla. L'interesse per il suono come evento complesso dotato di un'interna mobilità, che emerge in maniera esplicita nell'ultimo decennio, anima già le sue prime composizioni. Con esse Nono entra a pieno diritto nel quadro internazionale della nuova musica, dando un sostanziale contributo a quella tendenza del comporre che è passata alla storia con il nome di serialità integrale. Lo studio delle tecniche contrappuntistiche della scuola franco-fiamminga e delle loro ripercussioni sui canoni dodecafonici di Webern e Dallapiccola stanno all'origine di questa impostazione. Il titolo della sua prima opera, Variazioni canoniche, esprime il programma di combinare i principi dell'omofonia e della polifonia: il canone viene variato a tal punto che non risulta più percettibile ma agisce come struttura del profondo; la variazione viene ridefinita nei suoi procedimenti e nei suoi fini, da progressiva trasformazione del contenuto motivico diventa variazione strutturale. Già in questa prima opera si realizza un superamento della dodecafonia che conduce a una nuova concezione del suono: alla base sta una serie di Schönberg che viene continuamente trasformata secondo diversi principi di permutazione; la dimensione ritmica viene coinvolta nel processo costruttivo al pari delle altezze. Negli anni seguenti Nono approfondisce l'idea della serie come materiale di partenza di sempre nuove costellazioni melodico-armoniche. In Tre Epitaffi per Garcìa Lorca, Due espressioni e La victoire de Guernica elabora serialmente ritmi tratti dalle tradizioni popolari (soprattutto quella spagnola). Questa tendenza viene però presto abbandonata in quanto rischia di condurre a una disparità tra principi compositivi e materiale usato che, sebbene frammentato e ricombinato, lascia trasparire in superficie la sua origine figurale. Incontri segna il passaggio alla costruzione globale del suono: durate e dinamica sono associate serialmente; timbri, registri e densità diventano dimensioni fondamentali della composizione. Nella concezione eminentemente fisica dei complessi sonori, nella continua mutazione della loro costituzione interna e nella forza trainante di un macroritmo della materia si colgono significative tracce dell'influenza di Varèse. Il canto sospeso rappresenta il punto di arrivo del processo di maturazione di Nono; nei nove pezzi che lo compongono il materiale è sempre rigorosamente organizzato secondo principi seriali, il dosaggio e la combinazione degli elementi muta però di brano in brano. Da un nucleo iniziale limitato - una Allintervallreihe e la serie di Fibonacci - derivano situazioni sonore molto diverse il cui carattere dipende direttamente dai significati dei singoli testi e dalla drammaturgia globale dell'opera. Emerge qui un nuovo tipo di canto, che infrange la continuità della melodia con forti contrasti registrici e dinamici, istituendo un nuovo orizzonte di significato misto di parola e suono. Nelle composizioni strumentali e vocali immediatamente successive - Varianti, Cori di Didone, La terra e la compagna, Diario polacco '58, Sarà dolce tacere, «Ha venido», Canciones para Silvia - le tecniche seriali smettono la loro funzione di generazione del materiale e vengono impiegate per articolare internamente gli aggregati sonori. In una sorta di Klangfarbenmelodie in miniatura, una singola altezza può venire (come all'inizio di Varianti) differenziata su più strumenti e con diverse dinamiche; si crea una polifonia all'interno del suono che gli conferisce una straordinaria energia. Questi procedimenti costituiscono la lontana origine di quelle ultime composizioni orchestrali degli anni Ottanta in cui Nono lavora su un'unica altezza, differenziandola mediante relazioni microtonali, combinazioni timbriche, relazioni di densità e movimenti spaziali.
Un'insaziabile curiosità per punti di vista e procedimenti di altri generi artistici (teatro, letteratura, pittura, architettura e cinema) e uno spiccato interesse per tutte le forme comunicative dell'uomo (dal lavoro alla prassi politica, dalla pensiero filosofico e alla sfera mitico-religiosa) appartengono alla concezione umanistica di Nono: l'arte non si esaurisce in capacità tecniche, ma in essa si rispecchia la totalità dell'esperienza umana. La sua intera produzione a partire da Il canto sospeso può essere vista come il tentativo di dare una risposta vincolante al quesito di Sartre «perché si scrive?»; la risposta, pur nella variabilità della sua fenomenologia musicale nel corso dei decenni, è stata sartrianamente quella di «produrre il mondo come compito». Questa è la fonte dell'assoluta diverstà delle creazioni musicali di Nono nei confronti di tutta la musica impegnata sul piano sociale del passato e del presente (da Hanns Eisler a Hans Werner Henze): non si tratta di riprodurre musicalmente le emozioni di sofferenza, sdegno, collera, ribellione, desiderio e amore di cui parlano i testi o a cui fanno riferimento i titoli di composizioni strumentali; bisogna invece sapere formulare sul piano musicale, nell'irriducibile unicità del suono, le domande rispetto alle quali l'umanità richiede un'impellente risoluzione. Ascoltare è conoscere; e la conoscenza sensibile dei sopprusi e delle ristrettezze che determinano la sofferenza dell'uomo pone il presupposto del loro superamento nella realtà.
La produzione di Nono è animata dalla convinzione che ogni attività artistica ha un necessario correlato etico-politico; un intervento nella realtà che contribuisca alla sua trasformazione può avere luogo solo se il compositore si è assicurato dello stadio più avanzato dei mezzi musicali della propria epoca. Per questo la sperimentazione con l'ausilio della tecnologia è spinta al massimo in quelle opere in cui Nono tratta esplicitamente temi politici. In A floresta é jovem e cheja de vida le voci di una soprano e di diversi attori, lastre di rame percosse e i multifonics di un clarinetto vengono elaborati in studio con diversi modulatori e filtri; queste fonti sonore intevengono poi anche dal vivo creando situazioni di tensione ed equilibrio che ridefiniscono a un nuovo livello di semanticità i testi di Fidel Castro, Patrice Lumumba, un anonimo studente di Berkeley, un soldato sudvietnamita, un guerrigliero angolano e operai italiani. In Quando stanno morendo, Diario polacco n.2 sono testi di poeti russi come Aleksandr Blok e Velemir Chlebnikov a fare da catalizzatori delle esperienze di prigionia ed esilio nei paesi a regime sovietico; questa è però anche la prima opera importante in cui Nono impiega un sistema coordinato di elaborazione in tempo reale del suono emesso da voci e strumenti durante l'esecuzione - sistema costituito da strumenti per il trattamento del segnale live mediante dispositivi di ritardo, di riverberazione, di modificazione dello spettro armonico e per il controllo del movimento del suono nello spazio.
L'idea del positivo ruolo delle tecnologie in vista di una emancipazione culturale, premonizione di quella sociale, si è approfondita nell'ultimo decennio della produzione di Nono, che invece molti critici giudicarono come periodo dell'individualismo e della metafisica. La figura dell'utopia si precisa ora nei concetti di «altri ascolti» e di «infiniti possibili». Le sue ultime opere non provocano solo un nuovo modo di ascoltare il suono, ma pongono anche l'esigenza di cambiare gli spazi di ascolto, la notazione, l'atteggiamento dell'interprete e tutta quanta la concezione del lavoro compositivo. Il rapporto frontale tra esecutori e ascoltatori viene superato mediante la disposizione di singoli strumentisti o gruppi orchestrali in diversi punti della sala. La mobilità interna del suono, dal canto suo, può essere ora pienamente controllata mediante i programmi informatici realizzati grazie alla collaborazione dei tecnici: il suono prodotto da strumentisti e cantanti viene captato da microfoni e distribuito su diversi altoparlanti; gli strumenti elettronici permettono di regolare il movimento del suono nello spazio e di modificarlo durante la sua emissione. La programmazione deve essere adeguata a ogni diversa sala da concerto, questo costringe ad abbozzare una nuova notazione, esigenza comunque posta dalla qualità del suono che Nono richiede agli strumentisti: l'altezza è instabile o da variare continuamente, la dinamica e il timbro sono minuziosamente differenziati. Nelle ultime opere di Nono non vi è più alcun interprete in primo piano, ma ogni componente dell'ensemble disegna un tassello di un mosaico più ampio che acquista senso nella loro azione reciproca. All'interprete è richiesto virtuosismo, ma non nel tradizionale senso di una prestazione atletica che consiste nell'eseguire il più rapidamente possibile numerose note e complesse figure ritmiche; si tratta invece di un virtuosismo «statico» che impone all'esecutore concentrazione, autocontrollo nel realizzare le più sottili oscillazioni del suono e capacità di interagire con gli altri membri dell'ensemble e con i tecnici. L'opera non è più il prodotto di una solitaria fatica del compositore a tavolino, ma risultato di un continuo scambio di nozioni che si svolge nel triangolo compositore-interprete-tecnico. I tecnici, che pilotano le trasformazioni del suono in tempo reale, assumono la funzione di coesecutori, diventando responsabili del risultato nella stessa misura degli interpreti. Nel suo itinerario artistico, caratterizzato da una coerente evoluzione e un'instancabile ricerca, Nono ha affrontato questioni salienti del linguaggio musicale e aperto nuovi orizzonti della composizione. Nella storia della musica del Novecento egli occupa una posizione di primissimo piano.

di Gianmario Borio (www.luiginono.it)

sabato, febbraio 14, 2009

James Tyler: "La Mantovana"

Tutti i brani scelti per la presente registrazione possono essere classificati sotto la voce «musica popolare italiana», volendosi però indicare, con il termine «popolare», non solamente che tale musica era cantata e suonata nelle vie e nelle taverne dell'italia del XVII secolo, ma - fatto senza dubbio di notevole interesse - che era altresì ben nota ed apprezzata a tutti i livelli della società italiana. Questi brani, la cui popolarità si estendeva in molti casi ben oltre i confini dell'Italia, fino all'Europa orientale e al Nuovo Mondo, compaiono in centinaia di fonti differenti con i loro motivi adattati a tutte le possibili e immaginabili combinazioni di strumenti e di voci, dai grandi complessi orchestrali e vocali al solo xilofono. Alcuni di questi motivi, oltre ad esser restati famosi ai loro tempi per più di cent'anni, sono familiari perfino al pubblico degli odierni concerti, grazie ad Ottorino Respighi, il quale, all'inizio del nostro secolo, elaborò per orchestra alcuni brani liutistici del Seicento e del Settecento nelle sue tre suites «Antiche arie e danze per liuto». Nella presente registrazione non solo sono state adottate versioni originali delle musiche del XVI e del XVII secolo, ma anche autentici strumenti d'epoca.

LATO I
  1. «La Mantovana»
    «La Mantovana», conosciuta anche come «Ballo di Mantova», ebbe le sue origini nei primi anni del XVII secolo alla corte di Mantova, divenendo immediatamente il simbolo musicale della città. Ma nonostante fosse associata e identificata con Mantova, la melodia non tardò ad imporsi in tutt'Europa, sotto titoli diversi e in forme differenti, ivi comprese una versione per liuto del compositore polacco Bartholomij Pekiel ed un'altra per chitarra del compositore spagnolo Gaspar Sanz. In Inghilterra divenne addirittura nota in una sorta di «contaminatio» con un'antica danza inglese ed era così conosciuta come il «"Rant" italiano». Nel 1645 Gaspare Zannetti pubblicò un'opera che, sotto la parvenza di una guida per lo studio del violino, conteneva, oltre ad alcune istruzioni di scarso valore per tale strumento, una stupenda raccolta di musica italiana popolare e di danza, in una versione a quattro parti, che, secondo lo stesso Zannetti, potevano essere eseguite su ogni sorta di strumenti. «La Mantovana», l'«Aria del Gran Duca», «Fuggi, fuggi» e «La Lisfeltina», tutte e quattro presenti in questo album, sono tratte da tale importante raccolta, senz'altro paragonabile a quella famosissima di «arie di danze» di Michael Praetorius intitolata «Terpsichore».

  2. «Spagnoletta»
    Questo titolo si riferisce ad un basso ostinato italiano armonizzato - o, come anche si potrebbe dire oggi, ad una progressione di accordi - che apparve per la prima volta a stampa in un testo francese per chitarra del 1551, di Adrian Le Roy, e, per l'ultima volta, in un testo italiano per xilofono del 1706 di Giuseppe Paradossi. Non posso ovviamente azzardare alcuna ipotesi su come detto brano fosse eseguito e conosciuto molti anni prima e dopo tali date. Un manoscritto fiorentino per mandola degli inizi del XVII secolo (Magl. XIX. 29), contiene una semplice versione della «Spagnoletta», sulla quale mi sono basato per la presente registrazione. Secondo la normale prassi esecutiva del primo barocco ho realizzato e aggiunto vari abbellimenti e ho altresì dato rilievo al basso impiegando una tiorba e un'arpa come strumenti di continuo.

  3. «So ben mi ch'hà bon tempo»
    Questa canzone si trova nella «Selva di varia ricreatione...» di Orazio Vecchi, del 1590, una raccolta di musiche e di «canzoni a ballo» popolari, «canzoni» che possono essere considerate come le dirette antenate delle canzonette moderne, anch'esse cantate e, all'occasione ballate. Nella fattispecie la melodia fu in seguito elaborata da più di un musicista in versioni per singoli strumenti e per organici di varia consistenza. Una di tali elaborazioni si trova in «The First Booke of Balletts to Five Voyces» (Londra, 1595) del compositore inglese Thomas Morley, il quale, tuttavia, non menziona Vecchi.

  4. «La Bertazzina»
    Questa popolarissima melodia doveva avere con tutta probabilità un testo, che, sfortunatamente, è andato perduto. In una versione per chitarra (Stefano Pesori c. 1645) è descritta come un'«arietta» del Duca di Mantova. Secondo la prassi esecutiva del tempo storicamente ricostruibile, ho provveduto ad aggiungere anche a questa accattivante melodia - qui eseguita da una viola - un buon numero di abbellimenti.

  5. «Pavaniglia»
    La «Pavaniglia» apparve per la prima volta a stampa in un'intavolatura spagnola per «vihuela» di Alonso Mudarra (1546) e, subito dopo, in un'intavolatura italiana per liuto di Melchiorre de Barberiis (1549). La melodia, un basso ostinato armonizzato, ebbe probabilmente le sue origini in Italia, e infatti un'altra fonte spagnola (Cabezón, 1578) la chiama «Pavana italiana». E' poi incontrovertibile il fatto che le innumerevoli fonti nelle quali essa è contenuta, fino alla sua ultima comparsa in una pubblicazione per chitarra del Ricci nel 1677, sono tutte italiane. Le tre versioni consecutive che si ascoltano in questo disco furono realizzate dal compositore tedesco Michael Praetorius, e sono contenute nella sua famosa raccolta del 1612 di danze di corte francesi: una serie di brani di successo veramente internazionale.

  6. «Aria del Gran Duca»
    Il tema originale dell'«Aria del Gran Duca» (nota anche come «Aria di Firenze») fu composto da Emilio de' Cavalieri in occasione dei festeggiamenti per le nozze di Ferdinando de' Medici, Granduca di Toscana, con Cristina di Lorena, nel 1589. Come la «Mantovana» divenne subito anch'esso il simbolo musicale della sua città d'origine, Firenze.

  7. «Fuggi, fuggi»
    Questa è un'altra versione della «Mantovana» con uno dei vari testi popolari che erano stati adattati alla melodia, secondo un uso che ricorda quanto avveniva frequentemente anche nella ballata inglese della medesima epoca. Il testo, davvero caustico, scelto per questa registrazione, si pone in netto contrasto con la tradizione italiana dei soliti versi da "ardente innamorato".
LATO II
  1. «Sonata sopra l'Aria Musicale del Gran Duca»
    Ecco un'altra versione, in ostinato, del tema originale di Emilio de' Cavalieri, particolarmente apprezzata dal Banchieri, che ne fece ulteriori arrangiamenti in almeno cinque diverse circostanze, una delle quali riguardava un'elaborazione per la messa. Questo breve pezzo è tratto da una raccolta dei Banchieri del 1626, «Il Virtuoso ritrovo...», nella quale è espressamente indicata la strumentazione per due violini, trombone e continuo, come nella presente esecuzione.

  2. «Anchor che col partire»
    Questo famosissimo madrigale fu pubblicato per la prima volta nel 1547 da Cipriano de Rore, un compositore fiammingo che operava in Italia, e servì in seguito da base, durante tutto il resto del XVI secolo e per buona parte del XVII, ad un numero incredibile di elaborazioni strumentali e vocali con ogni sorta di abbellimenti. Riccardo Rogniono, del quale si sa molto poco era al servizio del Governatore Generale di Milano e, secondo quanto si può leggere sul frontespizio di un suo lavoro del 1592 (che dà esempi su come «diminuire»), era stato «esiliato dalla Val Tavegia». La sua versione di «Anchor che col partire» presenta la voce superiore dell'originaie madrigale a quattro parti con gli abbellimenti realizzati per esteso. Le tre voci inferiori sono invece immutate, come furono scritte da Cipriano de Rore.

  3. «La Lisfeltina»
    «La Lisfeltina» era probabilmente, all'origine, un pezzo per liuto solo del famoso compositore e virtuoso di liuto Santino Garsi, che operava alla corte dei Duca di Parma. Poiché appare nella raccolta di musica e danza popolare dello Zannetti (di cui si è detto sopra), è difficile stabilire se questa versione per complesso strumentale sia del Garsi o dello Zannetti.

  4. «Va pur superba va»
    Ci troviamo qui di fronte ad una canzone evidentemente notissima, il cui testo però è andato perduto. Una delle sue varie versioni è questa per liuto, tratta da un manoscritto iniziato nel 1615 e redatto, da Ascanio Bentivoglio. Attualmente si trova nell'archivio dello State College di San Francisco.

  5. «Pavana»
    Nato a Mantova, Carlo Farina è stato uno dei più importanti compositori di musica per archi del primo Seicento. Fu violinista alle dipendenze di Heinrich Schütz a Dresda e, a partire da quel periodo, è databile la sua enorme mole di imponenti composizioni per il solo violino e per vari gruppi di strumenti ad arco (anche se egli in genere precisava, secondo una consuetudine dei tempo: «per ogni sorta di strumenti»).

  6. «Pargoletta, che non sai»
    In Italia, nel primo barocco, i suoni e i timbri dell'accompagnamento a basso continuo erano ricchi e multiformi. Per la musica popolare e di genere leggero un tipo di sonorità particolarmente gradita era quella che si otteneva con gli accordi strappati della chitarra, come si può ascoltare in questa canzone, pubblicata dallo Stefani nel 1618, con la melodia appunto accompagnata da una serie di accordi della chitarra e dal continuo.

  7. «La Nizzarda»
    Fra le più notevoli caratteristiche della «Nizzarda» vanno annoverate le impressionanti serie di cambiamenti ritmici e la melodia particolarmente scorrevole. Una delle fonti del brano è il trattato sulla danza «Le Gratie d'Amore...» (1602), di Cesare Negri, nel quale esso è riportato in una riduzione per liuto. Nella presente registrazione è stata ricostruita la versione a quattro parti ed affidata all'esecuzione di un complesso comprendente molti strumenti sia melodici che di continuo: proprio il tipo di complesso descritto da un contemporaneo del Negri, il compositore e teorico Agostino Agazzari.
GLI STRUMENTI
  • il violino, la viola e il violoncello dell'età barocca hanno, in genere, lo stesso aspetto dei corrispondenti strumenti moderni, ma le loro corde, interamente di minugia, sono più corte e molto più vicine alle relative casse, e producono così, con un minor tiraggio, un suono più cristallino. Pure l'arco, per la forma diversa e per il minor peso, reagisce, al contatto con le corde, in maniera differente dagli archi moderni. La tecnica esecutiva infine e le diteggiature degli strumenti barocchi sono anch'esse, chiaramente, del tutto particolari. Per ulteriori informazioni si può consultare: David D. Boyden, «The History of Violin Playing from its Crigins to 1761», Oxford University Press, 1965.

  • La viola da gamba è uno strumento ad arco dotato in genere di sei corde di minugia armate su un manico con traversine. Si suona tenendola fra le ginocchia (donde il termine italiano «da gamba») ed ha un timbro più chiaro e delicato di quello dei moderni strumenti della famiglia del violino. Due dei vari modelli di viola da gamba sono stati usati nella presente registrazione: il tenore, con accordatura sol3 - re3 fa2 - do2 - sol1; e il basso, con accordatura re3 - la2 - mi2 - do2 - sol1 - re1.

  • Il trombone antico (chiamato in Inghilterra «sackbut») è molto simile, a prima vista, al trombone moderno, ma, grazie alla sua struttura considerevolmente più leggera, può essere suonato con molta più delicatezza, e non è raro trovare nel repertorio del primo barocco opere scritte espressamente per trombone e archi.

  • La dulciana (chiamata in Inghilterra «curtal») è uno strumento a fiato ad ancia doppia ed è la diretta antenata del fagotto, ma, rispetto a quest'ultimo, ha un timbro pù chiaro e meno sonoro. Nel rinascimento e nel primo barocco la famiglia della dulciana comprendeva una vasta gamma di strumenti di vari ambiti e misure; in questa registrazione è stata impiegata una dulciana bassa.

  • Il flauto diritto del primo barocco non si discosta dal classico modello ririascimentale. E' ricavato cioè da un unico blocco di legno completamente traforato ed è caratteristico per i forti suoni fondamentali. Soltanto molto più tardi venne a modificarsi e a trasformarsi nel flauto conosciuto da Bach e da Telemann.

  • Il liuto rimase in Italia nel primo barocco sostanzialmente uguale al liuto del primo rinascimento, con la sola differenza dell'aggiunta di più corde gravi. Vi sono armate sei coppie di corde principali, dette «ordini» o «cori con la seguente accordatura: sol3 - re3 - la2 - fa2 - do2 - sol1. Molto spesso l'ordine più acuto comprendeva una sola corda e si vennero poi man mano aggiungendo altre corde al grave, accordate sotto l'ultimo ordine. C'erano liuti di varie dimensioni ed ambiti dall'acuto al basso, con corde di minugia che venivano pizzicate con le dita. Nella presente registrazione si può ascoltare un liuto basso con il primo ordine accordato a re3.

  • La tiorba è un membro a sé stante nella famiglia dai liuti e colpisce, a prima vista, per il vistoso e caratteristico allungamento della cassa, ciò che consente allo strumento di armare un numero di corde basse accordate ancor più al grave, e «a vuoto», cioè non tastate dalla mano sinistra. La differenza più importante fra l'accordatura del liuto e quella della tiorba consiste nel fatto che i primi due ordini della tiorba sono accordati un'ottava sotto rispetto a quelli del liuto, dando così luogo ad un'accordatura (tipicamente italiana) che permetteva di ottenere accordi molto sonori e corposi, adattissimi al basso continuo barocco. Le corde gravi a vuoto (non tastate) si estendono fino al basso sol-1, e raggiungono il fa-1, con quattro tagli sotto il rigo della chiave di basso.

  • La mandola è uno dei membri di tessitura più acuta nella famiglia dei liuti, e, come tale, ha funzioni essenzialmente melodiche. L'accordatura delle sue quattro o cinque coppie di corde di minugia - suonate, in Italia, con un plettro - era in genere la seguente: sol4 - do4 - sol3 - do3 (sol2).

  • La chitarra barocca è generalmente più piccola e stretta della moderna consorella ed arma cinque coppie di corde di minugia con la seguente accordatura (tipicamente italiana): mi3 - si2 - sol2 - re3 (raddoppiato da una corda più spessa accordata un'ottava sotto) - la2.
    La chitarra di questo periodo era uno strumento di tessitura contralto, a differenza della chitarra moderna (il cui ambito è più esteso verso il basso), ed era apprezzata, nella realizzazione del continuo, per la vitalità ritmica dei suoi accordi strappati. Per ulteriori informazioni si può consultare: James Tyler, «The Early Guitar», Oxford University Piress, 1970.

  • La cister è uno strumento a plettro, la cui popolarità durò dal rinascimento fino alla metà del XVIII secolo. L'accordatura delle sue sei coppie di corde di acciaio e ottone è la seguente: mi3 - re3 - sol2 - si2 - do3 - la2. Nonostante il suo repertorio, come quello della chitarra, fosse eminentemente solistico, era anche impiegata in tutt'Europa in funzione di continuo.

  • L'arpa del primo periodo barocco era un piccolo strumento il cui ambito si estendeva generalmente dal re4 al fa-1, ed era priva dei pedali per gli innalzamenti o abbassamenti semitonali. Per le note alterate (corrispondenti ai tasti neri dei pianoforte) era impiegato un secondo ordine di corde fissato, a fianco del primo, al listello, sulla tavola armonica. Questo tipo di arpa - il più diffiuso per la realizzazione del continuo - era di conseguenza conosciuto con il nome di «arpa doppia». Per la presente registrazione, non essendo disponibile uno strumento di tal genere, si è fatto ricorso ad un'appropriata arpa piccola, con singole leve per le alterazioni disposte in prossimità dei cavicchi. Insieme alla tiorba l'arpa era uno dei più importanti strumenti di continuo del primo barocco.

  • Il lirone, uno strumento molto usato come continuo nella prima età barocca, è forse, oggi, fra il meno conosciuti di quel periodo. E' uno strumento ad arco, dalle dimensioni di una piccola viola da gamba, con una larga tastiera con traversine sulla quale erano armate almeno undici corde. Con una sola arcata si potevano suonare con facilità gruppi di note di tre o quattro accordi, grazie ad una accordatura che - pur sembrando bizzarra al giorno d'oggi - permetteva di raggiungere altrettanto bene sia gli accordi nelle tonalità più lontane che quelli nelle tonalità più usuali. Tale accordatura, dalla prima corda all'undicesima, è la seguente: do3 - fa3 - si2 - mi3 - la2 - re3 - sol2 - do3 - do2 - sol2 - sol1.

  • Il clavicembalo italiano di questo periodo aveva una sola tastiera ed era, con la tiorba, l'arpa e l'organo, un importante strumento di continuo, in special modo per la musica «colta» e per quella che richiedeva grandi organici. In quest'epoca, tuttavia, non era adoperato con la frequenza della più tarda età barocca (almeno non quanto i moderni studiosi hanno asserito).
The London Early Music Group - James Tyler, dir.

Paul Elliott (tenor), Duncan Druce (violin), Roderick Skeaping (violin), Ian White (viola), Oliver Brookes (cello, viola da gamba), Alan Lumsden (trombone, tenor recorder), Andrew van der Beek (bass dulcian), Kevin Mason (theorbo), Peter Tent (lute, guitar, viola da gamba), Joseph Skeaping (lirone), David Watkins (harp), Nicholas Kraemer (harpsichord), James Tyler (bass lute, mandora, viola da gamba, guitar, cittern)
Recording site and date: Kingsway Hall, London; 17-18 August 1978

James Tyler (traduzione di Paolo Rossi Randone, RCA RL 25199 (lp), (p) 1979)

sabato, febbraio 07, 2009

Gustav Mahler: VIII Sinfonia

Siamo nel giugno 1906, Mahler è nella sua residenza estiva di Maiernigg per perfezionare la strumentazione della Settima. E' invece investito, stando alle sue parole, dallo Spirito Creatore ed inizia a lavorare all'Ottava in uno stato di esaltazione tale da dargli l'impressione che la nuova opera non nasca da lui ma che gli "venga dettata" dall'alto. Nascono due diversi schemi preparatorii, ambedue aperti dall'inno medievale Veni, creator spiritus. Ben presto l'idea si completa con l'intenzione di musicare quale seconda parte della Sinfonia l'ultinia scena del Faust II di Goethe. Due testi, dunque, lontani quasi un millennio nel tempo, apparentemente incompatibili, ma in realtà legati, come Mahler intuisce, da precisi luoghi teologici. Il concetto di grazia ("Imple superna gratia"), l'aspirazione all'amore ("Infunde amorem cordibus"), l'idea d'una illuminazione divina ("Accende lumen sensibus"), esaltati nell'inno pentecostale attribuito a Rabano Mauro, tornano in altra veste nella lettura che Mahler dà della scena conclusiva del Faust. E d'altra parte una profonda unità spirituale si costruisce fra le due parti attraverso mezzi puramente musicali: sorta di Leitmotiv e di significative formulazioni tematiche s'intrecciano attraversando tutta la composizione, e costituendo anzi un'impressionante esegesi dei due testi.
Il dato fondamentale del Veni, creator risiede nell'integrazione della polifonia a carattere religioso, di ascendenza qui barocca, con la forma-sonata. Ove l'esposizione terminerebbe, dopo l'interludio orchestrale di disperata gaiezza, successivamente all'intonazione, di carattere straordinarianiente "malato", dell'"Infirma nostri corporis", e lo sviluppo si concluderebbe con la bellicosa parte in contrappunto avviata dalla doppia fuga del "Ductore praevio te". L'intero movimento è consegnato ad un ritmo di marcia che contrasta con l'effetto statico dovuto al permanere dell'armonia sempre nell'area di mi bemolle maggiore, infranta però già nel preludio orchestrale che avvia lo sviluppo, uno straordinario passaggio in cui il inateriale motivico viene letteralmente disgregato, tanto da far pensare più ad un processo di distruzione che di creazione: e una seconda volta poi, clamorosamente, nell'autentico colpo di scena che accoglie l'"Accende lumen sensibus", con un andamento che diverrà sempre più determinato, quasi minaccioso. E' il tema che più frequentemente tornerà nella seconda parte, con l'idea che maggiormente sta a cuore a Mahler, quella dell'illuminazione divina e quindi dell'amore.
Tanto il primo movimento appare serrato e può far pensare ad una sinfonia con voci e coro, quanto la seconda parte rinvia ad una serrata forma teatrale, scenico-drammatica. Dove la molteplicità delle soluzioni stilistiche mette assieme il brano strunientale, il corale, l'opera romantica, la cantata, l'oratorio ed il lied sinfonico. Dopo l'estesa introduzione strumentale (fra i momenti più affascinanti dell'intero lavoro) che disegna il silenzioso scenario di rupi e di santi anacoreti distribuiti su per il monte immaginato da Goethe, il coro apre l'immensa pagina con indicibile senso di mistero e con il fervore di semplici incastri delle voci. Prendono la parola il Pater ecstaticus, con appassionata sofferenza, ed il Pater profundus, secondo un canto irto di salti ascendenti, segnato da un cromatismo singolare in quest'opera sostanzialmente diatonica, ed assai vicino ad una temperie espressionista.
Nel primo coro degli Angeli, su cui si aprirebbe una ideale seconda parte di questo movimento, è indicata la chiave della salvezza: "Colui che insonne lotta per ascendere, / noi lo possiamo redimere". La redenzione di Faust è dunque nel suo Streben, nell'irrefrenabile tensione vitale. Mahler tuttavia non dà alcun risalto musicale a queste parole, ignorando così quello che per Goethe è il coronamento della vicenda di Faust. Il coro degli Angeli novizii che si apre con "Jene Rosen aus den Händen" contiene probabilmente il tema più infantile che Mahler abbia mai concepito, quasi una regressione ad una semplicità narcisistica. Mentre il coro degli Angeli compiuti, che parlano di un residuo terreno, riprende il tema dell'"Infirma nostri corporis", accomunando i due passi sul motivo della materialità che impedisce una piena disponibilità alla grazia.
L'ingresso del personaggio centrale del Doctor Marianus, a chiusura d'una possibile seconda parte, è preceduto dal coro dei Fanciulli beati che possiede accenti non lontani dal clima del Wunderhorn, con il suo sapore di allegrezza ingenua e visionaria. Ma la loro innocenza è troppo inconsapevole per valere quale via all'amore supremo, ed essi mostrano sul volto della beatitudine una sorta di enigmatico sorriso. Nel Doctor Marianus si personifica il 'soggetto etico' del pensiero di Goethe, il quale ne fa il personaggio più vicino, nella sua visione estatica, alla contemplazione della felicità celeste. Mahler tuttavia lo tratta come una sorta di esaltato tenore amoroso, di provenienza dichiaratamente operistica e primo-wagneriana.
Il suo tema d'amore, che svolge un ruolo fondamentale nel finale, è interamente ripreso ai violini nel momento in cui si avvicina la Mater gloriosa, in una tenue atmosfera disegnata dagli arpeggi delle arpe e dagli accordi tenuti dell'harmonium. A lei, "intatta e intangibile", si rivolge con candido fervore un coro maschile, nella tonalità celestiale di mi maggiore. In questa si nasconderebbe il simbolismo di ciò che è inattingibile, mentre il mi bemolle maggiore rappresenterebbe quanto può essere raggiunto. A lei rendono omaggio le tre Penitenti, che dopo aver cantato da sole in una soave leggerezza di accenti, si uniscono in una mozartiana innocenza seguendo un itinerario d'imitazioni in canone da cantare "come un bisbiglio". Un'altra Penitente, "chiamata un tempo Gretchen", canta con disarmante pudore sul tema della Mater gloriosa il suo dolcissimo "Neige, neige ("Deh, posa"). Si completa così un'altra delle idee fondamentali del finale goethiano: il crescere ed il divenire, attraverso gesti di mutuo soccorso, in una sorta di moto a spirale. Ma anche a questa concezione Mahler sembra rimanere estraneo.
La Mater gloriosa si rivolge all'ultima Penitente sul proprio tema all'arpa e ai flauti, ma sulla tonalità di Gretchen, mi bemolle maggiore: il tutto in un brillio ammantato di lustrini. Siamo, dopo l'ultimo intervento del Doctor Marianus, alle soglie del conclusivo coro mistico. E qui l'orchestra fa ascoltare la pagina forse più stupefacente dell'opera: una singolarissima musica delle sfere, in cui harmonium, arpe, celesta, pianoforte, ottavino generano un timbro che suona come un'eco vitrosa di glassharmonica. Una pagina immobile. Mahler pensava ad un "risuonare e vibrare dell'universo", ma qui non vi sono né pianeti né soli che ruotano: tutto prelude invece, con grande senso di teatralità, alla rivelazione carica di mistero, solenne ed intraducibile, del Chorus mysticus, che fa il suo ingresso in pianissimo. Questo interludio ce ne dà il senso assai più dell'immensa apoteosi che segue, dove autentiche ondate di sonorità sembrerebbero sommergere tutto. Ma è un brano di musica composta con precisi intenti simbolici. E' ciò che resta, fra altri temi ignorati, del Paradiso immaginato in modi estetico-formali da Goethe. Vi si agita ancora, per l'ultima volta, il tentativo di ribadire all'estremo il desiderio di totalità, l'idea dell'amore come spirito generatore che pervade tutta l'opera. Il tema dell'"Accende lumen sensibus" ricompare, mentre trombe e tromboni fuori scena ripropongono, secondo un titanico intento di ciclicità, la trionfale esaltazione del Veni, creator.
di Ernesto Napolitano (1995, note nel box DG 445 843-2, Mahler, VIII Sinfonia, dirige Claudio Abbado)

domenica, febbraio 01, 2009

Paul Badura-Skoda: pioniere e collezionista

Paul Badura‑Skoda ci accoglie in una sala di Villa Medici Giulini, a Briosco in Brianza, tra i pianoforti antichi di una delle collezioni più importanti d'Europa. L'occasione è un corso di perfezionamento, pochi giorni dopo un recital milanese. Dell'interpretazione sul pianoforte d'epoca Badura-Skoda è da considerarsi un pioniere. Quando ha incominciato ad occuparsene, più di mezzo secolo fa, a nessuno o quasi passava per la mente l'idea di eseguire Mozart e Beethoven sui pianoforti viennesi del Settecento e del primo Ottocento. La sua ampia discografia comprende tante integrali: i Concerti e le Sonate beethoveniane (queste ultinie registrate tra il 1969 e il 1970 su un Bösendorfer Imperial), le Sonate di Schubert eseguite su strumenti d'epoca, le Sonate di Mozart e i Concerti mozartiani (quest'ultirna in corso di realizzazione). Nella sua collezione di pianoforti antichi si trovano molti pezzi pregiati, come i diciotto strumenti conservati nel Castello di Krenisegg, a Kremsmünster (Alta Austria), uno dei migliori musei al mondo per gli strumenti d'epoca.

Come è andato il concerto a Milano?
Molto bene, perché la Società dei Concerti riesce quasi sempre ad avere la sala piena, nonostante un po' in tutta Italia si continui a parlare di crisi del pubblico. La cosa che mi fa più piacere è aver visto i giovani, mentre in altre città, anche in Austria, il pubblico diventa ogni anno un po' più vecchio. Sono molto soddisfatto anche perché mi sono sentito in buona forma e alla mia età, ottant'anni, è un miracolo riuscire ancora ad avere il controllo necessario per suonare.
Quanti concerti tiene all'anno?
Dipende. L'anno scorso, in occasione del mio ottantesimo compleanno, ho viaggiato più del solito, suonando in quattro continenti, per un totale di circa quaranta concerti tra America Latina, Stati Uniti, Russia, Giappone, Francia, Germania, Italia, Austria, Svizzera: davvero non si può fare di più. La cosa ancora più importante, però, sono le nuove incisioni, che alla mia età ormai considero una sorta di testamento: voglio pensare al futuro, ai dischi da lasciare dopo di me. L'importante è poter lavorare in completa libertà, curando ogni dettaglio, come è avvenuto per le due sonate di Schubert che usciranno proprio a fine maggio per un'etichetta tedesca, la Genuin, la Sonata in La minore D 784 e la Sonata in La maggiore D 959. Avevo inciso tutto in due giorni di lavoro intenso, poi riascoltando le registrazioni mi sono accorto che c'era qualcosa che non andava con uno dei due pianoforti utilizzati ‑ mancava la pienezza del suono ‑ così la settimana successiva ho inciso nuovamente una delle sonate sul mio grancoda Bösendorfer, che ha un suono orchestrale. Tra i miei dischi c'è un'eccellente versione dei cinque Concerti di Beethoven, registrati più di cinquant'anni anni fa con Scherchen e l'Orchestra dell'Opera di Stato di Vienna e che permette un confronto interessante tra l'interprete che sono adesso e quello che ero allora: è un confronto ‑ devo dire ‑ che posso sostenere, perché senza dubbio da giovane, con una maggiore forza fisica, facevo meglio alcune cose, ma oggi credo di avere superato la qualità delle mie prime incisioni. poi c'è il discorso sulla qualità sonora, che ai nostri giorni è fantastica.
Di Schubert ha appena registrato anche l'Arpeggione con il violoncellista Nicolas Deletaille per l'etichetta Fuga Libera...
Sì, con un vero arpeggione e con un pianoforte viennese dell'epoca, un Conrad Graf. Naturalmente il pianoforte viennese è meno potente di quello moderno, ma è l'ideale per accompagnare l'arpeggione, che non possiede il suono pieno di un violoncello: con il pianoforte moderno avrei dovuto suonare sempre pianissimo. E' una registrazione di cui sono molto soddisfatto.
Quindi ha scelto un moderno Bösendorfer per le sonate e un pianoforte viennese d'epoca per l'Arpeggione...
Il Bösendorfer è uno strumento del 1962, rimesso completamente a nuovo. L'ho acquistato negli Stati Uniti e che ora fa parte della mia collezione: davvero un ottimo strumento. Vede, io non sono un fanatico del pianoforte antico, perché il pianoforte antico e quello moderno hanno entrambi pregi e difetti. Lo strumento antico ha più rumori, dalla ginocchiera agli smorzatori (perfino le stesse corde fanno rumore), mentre sul pianoforte moderno, quando è messo bene a punto, tutto risulta molto più regolare, anche se i bassi sono più cupi e meno trasparenti. Sul pianoforte moderno è più facile da rendere il cantabile, una parola chiave per Mozart e per Beethoven, che comunque si può suggerire anche su un buon pianoforte d'epoca con l'intensità degli accenti.
Horowitz, quando lo incontrai poco prima della morte, mi disse: «Perché devo suonare su uno strumento antico se posso ottenere il suono di Haydn sullo stesso Stenway sul quale suono Scriabin, con le mani e con il pedale?». Naturalmente è un'affermazione esagerata, ma in un certo senso Horowitz aveva ragione, perché ogni pianoforte possiede una gamma di colori quasi illimitata. Così per i Concerti di Mozart ho realizzato una sola incisione su un pianoforte d'epoca, per un'eccellente etichetta francese, Arcana, che è stata appena acquistata dall'italiana Jupiter, mentre per i Concerti che sto realizzando ora per la Transart utilizzo uno strumento moderno.
Il suono ideale?
Il matrimonio tra il suono moderno e quello antico. Mi piacciono la chiarezza, la grande individualità e la ricchezza di colori degli strumenti antichi, ma naturalmente a loro manca il volume e la potenza, importanti soprattutto in Schubert, perché Schubert più di Beethoven è andato oltre la possibilità dei suoi strumenti, in alcune sonate è andato addirittura oltre l'estensione della tastiera di allora.
Lo strumento più bello della sua collezione?
E' come chiedere a un padre quale sia il figlio preferito. Ne ho alcuni di straordinari, come un Anton Walter acquistato a Vienna. Walter era il migliore costruttore di pianoforti all'epoca di Mozart e ogni suo strumento possiede qualcosa di inimitabile, difficile da esprimere a parole: una bellezza di suono che ha lasciato ammirato, recentemente, anche il migliore tecnico della Stenway. Una perfezione dalla prima all'ultima nota. Poi ho avuto la grande fortuna di trovare l'ultimo pianoforte posseduto da Beethoven, che adesso è conservato a Kremsmünster, in uno dei migliori musei al mondo non solo per i pianoforti antichi ma anche per gli strumenti a fiato. Si immagini avere sotto le proprie mani uno strumento che è stato suonato da Beethoven! A Kremsmünster si trovano i pezzi più importanti della mia collezione, una ventina di strumenti, mentre nella mia casa di Vienna (vivo tra Vienna, Parigi e Dallas) possiedo sei strumenti, due storici e quattro moderni. Il problema è che tutti questi strumenti portano via molto spazio... Comunque vorrei utilizzare l'Anton Walter per una nuova registrazione, probabilmente alcune sonate di Haydn ‑ visto che il prossimo anno sarà il duecentesimo anniversario della morte ‑ alcune sonate che ho già inciso su un altro pianoforte dell'epoca, uno Schanz.
Passando da un pianoforte moderno ad un fortepiano Lei cambia l'articolazione della frase?
In realtà non cambio il fraseggio, cerco piuttosto di riprodurre sul pianoforte moderno, attraverso una tecnica particolare, l'effetto dello strumento antico. Questo vale anche per gli stacchi di tempo: sul pianoforte moderno, con le note che rimangono più a lungo, i tempi lenti si possono staccare più lentamente, ma io preferisco non farlo.
Oggi ci sono molti pianisti che usano il pianoforte antico, ma quando Lei ha iniziato era uno dei pionieri...
E' stata la curiosità a spingermi verso i pianoforti antichi: per esempio si diceva che alcune indicazioni di pedale beethoveniane sul pianoforte moderno non si possono realizzare. E quando ho avuto l'occasione di verificare come veramente suonavano i pianoforti antichi per me è stata una rivelazione. Già negli anni cinquanta ho incominciato a formare la mia collezione, quando a Vienna ‑ era una fortuna ‑ c'erano tanti strumenti antichi a un prezzo accessibile. Studiando i pianoforti antichi ho anche scoperto che molti di questi pedali sono in realtà più facili da realizzare sullo strumento antico che non su quello moderno: chi affermava il contrario non aveva mai suonato un pianoforte antico!
Quindi il famoso pedale nel primo movimento della Sonata op. 31 n. 2 di Beethoven in realtà è difficile da realizzare sul pianoforte antico?
No, non questo passaggio. Penso piuttosto al terzo movimento della Sonata op. 53, dove il pedale deve coprire più armonie e questo funziona solo quando le armonie siano suonate con la più grande delicatezza, nel pianissimo. Ed è molto più facile realizzare un pianissimo sugli strumenti moderni che sugli strumenti antichi. Sul pianoforte moderno un'armonia rimane per circa dieci secondi, su quello antico per circa la metà, solo che cinque secondi sono un'eternità in musica. Questa sovrapposizione di armonie era proprio l'effetto previsto da Beethoven, come ci conferma la testimonianza Czerny che parla di una sorta di nebbia. E' come Amleto, quando vede il fantasma del padre.
Lei ha studiato con Edwin Fischer. Cosa ricorda di lui?
Era un genio. Fischer sapeva commuovere il suo pubblico e la cosa più bella è che riesce ancora a commuovere attraverso i dischi. Pianisti come Clifford Curzon, Benno Moiseiwitsch e Solomon non sono rimasti ‑ ed è ingiusto ‑ nel ricordo del grande pubblico, ma Fischer è rimasto proprio per la sua capacità di commuovere. Gli altri erano pianisti migliori, in un certo senso, ma non hanno saputo tirare fuori l'anima della musica. La musica non deve solo cantare, deve anche parlare. Anzi, come diceva Mendelssohn, la musica è «troppo eloquente per le parole». E questo è anche il mio motto.

intervista di Luca Segalla (Musica, giugno 2008, n.197)