Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, giugno 15, 2016

In memoriam Mario Delli Ponti...

Mario Delli Ponti (1931-2010)
Quando morì un grande direttore d’orchestra, Mario Delli Ponti mi disse: “se dovessi commemorarlo io, mi presenterei e resterei in silenzio.” Lo vorrei fare anch’io. Vorrei lasciare il tempo a chi l’ha ascoltato per ricordare qualche suo momento in cui la luce d’una verità nuova si è rivelata, e a chi l’ha conosciuto anche personalmente quella calda fiducia, quel sentirsi a posto, quella intelligente felicità che si provavano in sua compagnia.
Come pianista, Mario Delli Ponti possedeva una tecnica granitica e una qualità rarissima di conoscere e rivelare l’indomabile ricchezza del suono. Ascoltarlo dava linee forti d’interpretazione, riascoltarlo portava a scoprire continuamente compresenze segrete, come risonanze, emozioni, idee che poco a poco prendevano forza e si riunivano in una nuova semplicità.
Non era carrierista, amava un poco la pigrizia e troppo la libertà. Non si voleva imporre. Non era facile avere confidenze sul suo lavoro. Lo scrittore Riccardo Bacchelli, che gli era amico, una volta gli disse, sorridendo: “Delli Ponti, lei come personaggio pubblico è reticente”.
Una volta leggemmo su un giornale che il calciatore Zoff si sentiva estraneo al mondo d’oggi perché, parole sue, “prima di sapere di che cosa parlare fanno una tavola rotonda”. Commentò: “Come lo capisco”.
Se si entrava nella sua amicizia, rivelava cose sottilissime del suo atteggiamento d’artista. Come, suonando, ascoltasse il diverso, toccante silenzio del pubblico, nei concerti ufficiali a Tokyo o a New York ma più ancora in quelli più alternativi, nei kibbutz o nelle sedi sperdute della Gioventù Musicale.
Era imprevedibile. Quando non esisteva ancora la segreteria telefonica, raccomandava agli amici più vicini di dire il loro nome quando telefonavano e non impressionarsi se, per evitare gli importuni, lui avrebbe risposto: “Pronti. Fiaschetteria Basletti. Chi è che cerca? Il maestro Delli Ponti? Vado a vedere, sarà uno della banda”. Era il suo aspetto fantasioso e brillante. Poi c’era quello pensoso, da uomo di fede.
Quando gli chiesi in che momento sentiva che la sua scelta interpretativa di Brahms, di cui era specialista, doveva essere giusta, rispose: “Quando sento che comincia a rendermi migliore”.
Non si lasciava condizionare, dalle mode, dalle amicizie, dal successo e dalla voglia di averne di più. “Coraggioso”, mi lasciai sfuggire un giorno. Mi corresse: “Cocciuto”.
Aveva le sue felicità, la moglie Liliana, la figlia Sissi, il ricordo della madre e delle persone care incontrate, le letture vaste, fonde e accurate, il piacere dell’insegnamento. Del dolore, dei crucci, delle delusioni sugli altri, delle tormentose conquiste di se stesso nel mondo duro e distratto d’oggi non parlava. Si sentiva che attraversava costantemente queste realtà per come suonava. Penso a Schubert, l’Adagio della Sonata in Si bemolle, postuma. Delli Ponti l’eseguiva con attesa, più che con ansia. C’è un tema breve, un canto che s’affatica a dispiegarsi, struggente, sull’armonia inquieta; al culmine, una prima volta s’arricchisce di una specie di commozione cara, ma la seconda, sfocia in una miracolosa modulazione in do maggiore, pacificata, sacra, segreta, e pare che sprigioni la luce, tutta la luce. Dev’essere stata così la sua morte.
 
Lorenzo Arruga in memomiam Mario Delli Ponti

domenica, giugno 12, 2016

Alieni, Big-Bang, musica e molecole...

Ricordo che a metà degli anni Ottanta, in tv, presentarono una maratona di film dedicata allo spazio e ai marziani. Allora avevo poco meno di 14 anni ma quell’attrazione fatta di miti, leggende o anche semplicemente di invenzioni fantascientifiche mi catapultò in un’esperienza felicissima: quella dell’immaginazione senza spazio né tempo. Il passaggio dall’immagine alla colonna sonora fu più che naturale, così come quello che mi portò dalla musica classica a quella «cosmica»: Jean Michel Jarre, Vangelis, Klaus Schulze, Popol Vuh, Pink Floyd, Grateful Dead. Rarefazione spaziale e galleggiamenti armonici al servizio dell’attività onirica. Musica e immagine, gesto e spettacolarizzazione tra spazialità del suono e motion capture, live digital painting ed esplorazione del rapporto tra le metamorfosi dei suoni e la reattività chimica: sono queste le armi che sono state messe a disposizione dalla Scuola di Musica Elettronica – Dipartimento di Nuove Tecnologie e Linguaggi Musicali, da SaMPL (Sound and Music Processing Lab) e dal Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Padova per la realizzazione delle performance messe su DVD da Stradivarius. I titoli sono due: «Finito Illimitato» (viaggio temporale cosmologico dello sviluppo dell’universo) e «Chemical Free (?)», scorpacciata di chimica che tenta di capire se potrà mai esistere una condizione per cui un qualsiasi prodotto possa essere libero da componenti chimiche.
La spazialità del suono
Immaginatevi Venezia tra Rinascimento e primo Barocco: la musica era ciò che meglio raccontava l’uomo. Le sue miserie, le sue grandezze, le sue paure. Ma come trascinare il pubblico nelle emozioni di questi trionfi o di queste cadute? La musica, alleata dello spazio, avrebbe vinto. La scena cambia e si fa prospettica con musicisti dietro le colonne, dietro gli altari, lontani e vicini per gruppi a giocar con riverberi, pietre e architetture lignee. La spazialità del suono, quando incontra la tecnologia di ultima generazione e la multimedialità, non ha confini: sarà anche per questo che i due DVD emanano un alone di trascendenza apocalittica? Invero, è il live electronics (produzione e manipolazione dei suoni in tempo reale) e i sistemi di motion capture per il rilevamento e l’acquisizione dei movimenti degli strumentisti a fare di queste rappresentazioni un salto in assenza di gravità. E` questo che agita il cuore degli strumentisti, dotati di polsiere e di guanti interattivi che, anche se traduttori dei gesti in algoritmi, sono anch’essi strumenti. Eccolo l’interprete «marziano» che comanda all’Universo sbriciolando ciò che è stato composto per ricomporlo e inventarlo tra distorsioni, graffi, evaporazioni, escoriazioni timbriche. E luce accecante, colori d’arlecchino, atomi di lapislazzulo e corone di stelle. Luciano Berio, Ivan Fedele, Giovanni Albini e Nicola Sani – loro le composizioni nei due DVD – sono gli scrittori di una nuova epoca. Quella in cui la realtà non è un concetto fisso e immutabile: qui l’arte non si accontenta di amplificare ciò che viviamo ma di generare ciò che l’uomo – stanco di immaginare – realizza in tempo reale sotto i propri occhi.

Finito illimitato
Il progetto è dedicato al Big-Bang, esplosione chimica, per raccontarlo nelle sue diverse fasi. Ma è un Big-Bang prima ancora che cosmico, musicalizzato. A modo loro, gli autori delle musiche in programma sembrano rincorrere ciò che per Giovanni Keplero era l’Harmonices Mundi, il libro nel quale lo studioso tentò di descrivere le consonanze tra percezioni ottiche, forme geometriche, musica e armonie planetarie. In «Finito Illimitato» c’è tutto ciò che i sensi dell’uomo permettono di percepire e capire: l’occhio che si perde nelle linee fluorescenti, grasse e stilizzate del live digital painting, l’orecchio scosso dalla vellutatezza delle note singole, scagliate nel vuoto, volteggianti nell’infinito e il tatto, quasi in simbiosi con gli accessori del motion capture che anticipano, ma confermano, il pericolo di musicisti-automi. Ad oggi non è così, e i bravi interpreti di questi progetti dimostrano che la migliore membrana di risonanza della musica è ancora l’uomo. Musica per un Universo che «non è statico ma dinamico, che parte da un’ipotetica iniziale fluttuazione e che in seguito si è andato espandendo dando origine ad atomi, stelle, pianeti ed esseri viventi». Una «nuova grammatica del racconto scientifico», ecco ciò che sono i tre momenti di «Finito Illimitato» con la partenza sottile di Linea di Luciano Berio, brano del 1973 che si concentra sulla prima fase della storia dell’Universo: meno di un miliardesimo di secondo dopo il Big Bang si forma una bolla molto più piccola di una frazione di atomo. E proprio l’atomo è il singhiozzo di quello che siamo. Come ad un singhiozzo somiglia la semplice melodia che Berio «atomizza» nel lungo andare della sua composizione. Una melodia che si trasforma e si rigenera in gassose variazioni, in sparizioni, in nuovi ritrovi quasi fosse denudata e rivestita. Pulse and Light di Ivan Fedele si ispira alla terza fase nella quale, formatisi gli atomi neutri, la luce comincia a viaggiare nel buio. Allacciate le cinture: non c’è tentativo di imitazioni o descrizione, in questa musica, ma solo quello di interpretare ciò che accadde in quell’evoluzione materica così ben afferrata dal senso di rallentamento e immobilismo evocato dal compositore. Dove lo spazio – inteso anche come pausa tra più note – si dilata e si schiarisce nelle curvature di una musica che è, a tutti gli effetti, cosmica secondo la tradizione di Fedele. Cioè seguendo una coerenza espressiva che si avvale di un suono che l’artista dice essere una «metafora d’invenzione»: l’idea che esso stesso ha del Big-Bang. Terza algebra del tempo di Giovanni Albini è il godimento cadenzato nel tempo grazie alla corporalità dei percussionisti, all’eleganza dei gesti, alla mimica e al movimento che porta gli esecutori a muoversi come materia nello spazio. Ispirata alla quarta e quinta fase della storia dell’Universo (formazione delle stelle e poi pianeti, vita e uomo) la composizione prende il via dall’ideogramma cinese Tian che, in sè, dà vita ad un piccolo mondo di significati: cosmo, cielo, astri, natura, testa. Albini è un acuto costruttore dell’infinito ed è per questo che battuta dopo battuta, ti accorgi di esserti perso nell’entità più segreta del suono, cioè la sua inconsistenza e variabilità.

Chemical Free (?)
Ecco la materia fatta di atomi e molecole. Ecco l’aria, l’acqua, il fuoco, il cibo: chi pensa di poter vivere senza chimica, sbaglia si dice nel secondo DVD. Il progetto, che rifugge l’utilizzo mistificatorio della definizione «chemical free» utilizzata anche da alcune multinazionali per promuovere i loro prodotti è in parte anch’esso mistificatorio perché la ricerca, la sperimentazione e le macchine sono mitizzate nel ruolo che attribuisce loro la quotidianità. Tutto vero, così come vera è la musica di Nicola Sani impreziosita dai video di David Ryan. Qui si raccontano «le migrazioni di atomi e frammenti da una molecola ad un’altra, mettendo in evidenza il rapporto di metamorfosi dei suoni – che viaggiano nello spazio – e la reattività chimica delle molecole per creare altre molecole». Le parole chiave del progetto sono due, anche se da considerarsi possibili sinonimi: trasformazione e metamorfosi. Sani ne aggiunge un’altra, perché è qui che si gioca la prospettiva delle sue composizioni: la spazialità del suono. E` quella che il compositore definisce come «decostruzione del suono nello spazio, cioè aprire letteralmente il suono come se fossimo davanti ad una scatola magica e dentro questo suono prelevare gli elementi e distribuirli nello spazio». Ed è qui che il motion picture messo a punto dal SaMPL di Padova esplora la chimica con una musica che è tutto fuorchè banale: intriga muove, trasporta, insiste, stimola una visione inedita del mondo attraverso una continua refrazione del suono su sé stesso e su ciò che lo circonda. Dentro e fuori, ai lati, in senso obliquo oppure senza alcun riferimento spaziale: un nuovo territorio, un luogo-non-luogo timbrico, una sorgente dell’inesistente nella quale i tre strumenti solisti – contrabbasso, pianoforte e flauto iperrbasso – si muovono secondo i diversi stati di natura: all’occorrenza pietrificati, fossili, ariosi, lignei, metallici. La chimica, qui, è prima di tutto quella corporea dell’interprete che entra in contatto con altra chimica: le corde, i bicchieri, le mazze. Oggetti e quindi molecole. Si squittisce, si scricchiola, si romba, si graffia, si batte. L’effetto del suono si fa nello stesso tempo in cui lo si immagina. Tra frasi di Giulio Natta, Marie Curie, Primo Levi e tanti altri l’ascoltatore/spettatore si rende conto che anche lui – in quanto filtro dell’arte e al pari dello scienziato, del compositore e del musicista – è come «un fanciullo posto di fronte ai fenomeni naturali che lo impressionano come una fiaba».

Davide Ielmini (“Musica”, n.273, febbraio 2016)