Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

martedì, luglio 16, 2019

Spoleto: progetto L'Arte della Fuga...

Quando penso a Mozart a Wagner o a Debussy, evoco nella mia mente opere precise, collocate in una prospettiva di valori e di interessi che mi sono propri. Quando penso a Bach, invece, non mi sento indotto a porre le singole sue opere in una prospettiva cronologica lineare e sembra acquistare un valore simbolico il fatto che il catalogo ufficiale dell'opera bachiana (BWV, Bach Werke Verzeichnis) appaia talvolta in conflitto col calendario. Tendo a pensare a Bach come nozione, come entelechia, come organismo della mente i cui caratteri globali paiono trascendere le sue proprietà locali. Bach come idea, per ragioni che in parte ancora mi sfuggono, non si lascia illustrare completamente dalle sue opere né lo si può collocare completamente in esse. La dimensione Bach mi appare talvolta come una intricata proiezione al pantografo delle strutture autoriflessive delle opere: dalle Toccate alle Passioni, dalle Cantate al Clavicembalo, dalle Trio-Sonate all'Offerta Musicale, dall'opera organistica all'Arte della Fuga. Tutte le sue opere, dalle prime alle ultime, sembrano coesistere. Dentro la vasta e granitica organicità sintattica dell'opera bachiana agisce senza sosta un intreccio dialettico di rapporti, un'armonia di conflitti, un guardarsi da fuori e da dentro, un comporre il comporre e un trascendere ogni idea di stile (concetto peraltro inesistente in quell'epoca). E' per questo che le analisi scolastiche dell'armonia, della melodia, della polifonia, della metrica, della retorica e delle forme bachiane non approdano a nulla di significativo quando sono valutate separatamente. Le stesse tecniche vocali vanno osservate nella prospettiva barocca delle tecniche strumentali, ma l'apparato strumentale e le concezioni strumentali dell'epoca, con le loro tecniche specifiche, vanno a loro volta osservate anche alla luce di una meta-strumentalità ideale e universale. Così come le forme sacre vanno osservate alla luce delle forme profane (le cantate sembrano spesso animate da una drammaturgia "operistica"), la religiosità di Bach deve diventare anche un terreno d'analisi della sua laicità. La stessa tradizione tedesca in Bach deve essere osservata anche alla luce delle tradizioni e degli eventi musicali italiani e francesi: Vivaldi, Pergolesi, Couperin, Rameau. La musica di Bach - così poco viaggiatore - si nutre della conoscenza di tutta la musica europea. La trascrizione diventa funzione della creazione, l'arcaismo diventa funzione dell'evoluzione e della sintesi e il rigore funzione della libertà. Non solo. Il contrappunto di Bach è anche una meditazione sulla pluralità del mondo: è uno sguardo che sembra penetrare profondamente e trascendere il passato e il futuro. Ed è anche per questo che ancora oggi Bach vive dentro di noi in tutta la sua vastità e con tutti i suoi poteri, dicevo, di autoriflessione: come quel profondo lago di un racconto indiano, che si mette in cerca delle sue stesse sorgenti lontane. Lontane, vorrei aggiungere, anche nel tempo, passato e futuro.
Luciano Berio (2001)
 
All'Arte della Fuga, monumentale testimonianza di scienza musicale, J.S. Bach lavorò per tutto l'ultimo decennio della sua vita, dal 1740 - anno a cui risalgono i primi quattro brani - al 1749, quando vennero apprestati per la stampa i primi undici numeri dell'opera, fino all'ultimo anno di vita. L'Arte della Fuga presenta 18 Contrappunti o Canoni o Fughe, chiudendosi su una Fuga a tre soggetti rimasta incompiuta; tutti circondati dallo steso enigma interpretativo. La classificazione delle Fughe varia a seconda degli storici e per il progetto "L'Arte della Fuga" abbiamo tenuto conto della classificazione dell'edizione Bärenreiter (1956) curata da Hermann Diener, che conta 18 Contrappunti, cui seguono il Corale "Vor deinen Thron tret ich heirmit" (Dinanzi al tuo trono mi presento) e l'Appendice n° 19 "Fuga a specchio" sul tema variato e sul suo inverso per due pianoforti (variante al n°13).
L'organizzazione musicale è assolutamente artificiosa: la natura di questa musica "assoluta" è schiva da tentazioni profane, ascetica, quasi impossibile. Nella prima edizione dell'Arte della Fuga, uscita a Lipsia all'inizio del 1751 a cura di Carl Philipp Emanuel Bach, l'incompiuta Fuga a 3 soggetti era seguita dal corale "Vor deinen Thron tret ich hiermit", ultima pagina di Bach, che l'autore ormai cieco e allo stremo delle forze aveva dettato sul letto di morte al genero Johann Christoph Altinkol. Spoglia di ornamenti, come tutta l'Arte della Fuga, priva di drammaticità, questa pagina ci stupisce e rapisce ugualmente, allo stesso modo di quella stupefacente architettura contrappuntistica che l'aveva preceduta.
Questo lavoro sembra essere il seguito de L'Offerta musicale, che Bach ha appena finito di scrivere. Anche in questo caso c'è una serie di variazioni contrappuntistiche tutte basate sullo stesso tema e sulla medesima tonalità, ma se nell'Offerta musicale dominava l'idea di canone, in questa composizione vengono analizzate tutte le possibilità di scrittura della Fuga. L'Arte della Fuga doveva ricoprire, allo stesso modo dell'Offerta musicale e delle Variazioni canoniche, la funzione di "comunicazione scientifica" per la Società di Mizler. E' possibile che il progetto iniziale di Bach comprendesse ventiquattro Fughe, ovvero sei gruppi di quattro, ognuno dei quali contenesse due volte due Fughe costruite su soggetto esposto sotto un doppio aspetto, rectus e inversus. L'Arte della Fuga è costruita su di un tema sviluppato in quattro battute in re minore. La Fuga XII ad esempio è a "specchio": il rectus è una variante ritmica del tema principale, mentre l'inversus è l'immagine rovesciata della Fuga precedente. Il principio della Fuga è relativamente semplice: un motivo melodico o soggetto, esposto da una delle voci (discantus, altus, tenor o bassus) è ripreso, "imitato" dalle altre. Questo motivo imitato può essere identico al modello, oppure più alto o più basso, più lento o più veloce, e così via. Le combinazioni sono infinite. A seconda della complessità della Fuga possono esserci due, tre o quattro soggetti. Nell'Arte della Fuga il tema è esposto e capovolto, le voci e i soggetti si moltiplicano, si rispondono all'infinito giungendo, appunto, sino alle famose Fughe XII e XIV nelle quali si riflettono come un raggio in uno specchio; Fughe doppie, triple, quadruple; canoni di tutti i tipi combinazioni e intrecci di soggetti e controsoggetti sotto tutte le possibili forme, costruiscono un'architettura le cui linee sembrano perdersi verso il cielo, in una spirale senza fine pur nel suo continuo rinnovarsi. Da ultimo la Fuga XVIII, la maestosa Fuga interrotta dall'avvicinarsi della morte. Come se si rendesse conto dell'irreparabile, Bach appone la sua firma. Il tema che appare nella musica (alla battuta 193) è composta dalle lettere del suo nome: B.A.C.H. (si bemolle, la, do, si bequadro), un doloroso cromatismo in progressione ascendente.
Una tradizione ben radicata sostiene che la frase che compare alla fine della Fuga XVIII incompiuta sia di mano di Philipp Emanuel: "Su questa Fuga, in cui il nome di Bach appare in controsoggetto è morto l'autore". In realtà Bach non è morto scrivendo questa Fuga. L'ha lasciata interrotta già molto malato, per una ragione che ignoriamo. La più plausibile pare essere che, essendo quasi totalmente cieco dalla fine del 1748, avrebbe considerato impossibile dettare ad altri la fine di un'opera così complessa. La Fuga incompiuta sarebbe stata nelle intenzioni di Bach la penultima del progetto, poiché l'ultima doveva essere una Fuga quadrupla.
Incerta è la destinazione strumentale dell'opera, che a motivo della sua scrittura a quattro parti (discantus, altus, tenor e bassus) pare concepita per organo. Bach infatti non ha indicato il mezzo esecutivo (tranne per due Fughe, destinate al Klavier, cioè a una imprecisata "tastiera"): orchestra, organo, complessi cameristici? Bach ha invece voluto sottolineare l'assolutezza, la spiritualità di quello che considera il suo supremo testamento spirituale, la risposta musicale al suo credo: il fine ultimo del basso continuo e dei Contrappunti, dei Canoni, delle Fughe e di tutta la musica è la gloria di Dio.
 
Il progetto "L'Arte della Fuga" nato dalla collaborazione tra il Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto "A. Belli" e alcuni conservatori musicali europei, è stato presentato a Bruxelles, alla Commissione Europea nel 1999 nell'ambito del Programma dell'Unione Europea "Azioni Sperimentali in vista del programma quadro europeo - Cultura 2000". Il progetto stabiliva che "in vista delle celebrazioni, nel 2000, del 250° anniversario della morte di J.S. Bach, fossero stanziate sovvenzioni volte al co-finanziamento di progetti che prevedessero la diffusione delle opere del grande musicista". Scelto tra oltre 70 progetti provenienti dalle massime istituzioni culturali internazionali, il progetto "L'Arte della Fuga" è stato riconosciuto Evento Speciale Europeo dell'Anno 2000.
Coordinato artisticamente da Luciano Berio e da Michelangelo Zurletti, direttore artistico del Teatro Lirico Sperimentale e per la parte tecnico operativa da Claudio Lepore, direttore organizzativo dell'Istituzione spoletina, il progetto si propone di "contribuire alla riscoperta in Italia e all'estero del repertorio bachiano e di stabilire un punto di contatto fra il repertorio del XVIII secolo e la musica contemporanea".
Il Progetto prevede che i diciotto Contrappunti dell'Arte della Fuga vengano trascritti con un organico cameristico variabile indicato da Luciano Berio, affidando il lavoro di trascrizione e rielaborazione ad alcuni dei più noti compositori contemporanei europei, oltre che a docenti ed allievi di composizione di cinque conservatori europei: Londra, L'Aia, Lione, Torino e Lipsia.
Dopo l'approvazione della Commissione Europea, il Teatro Lirico Sperimentale ha avviato la prima fase operativa del progetto con la sua presentazione, nel dicembre 1999, in una Conferenza Stampa svoltasi a Roma presso la sede della Stampa Estera alla presenza di Luciano Berio, dei rappresentanti dell'Istituzione e dei rappresentanti del Comune di Spoleto.
La seconda fase operativa si è svolta con il Convegno Internazionale di Studi "L'Arte della Fuga" di J.S. Bach, realizzato a Spoleto il 23 marzo 2000, presso la Sala Ermini del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo. Al convegno hanno partecipato studiosi dell'opera bachiana di levatura internazionale quali Alberto Basso, Hans-Eberhard Dentler, Alexander Lonquich, Alessandro Zignani e Riccardo Risaliti. Il volume degli atti del convegno è stato pubblicato dal Teatro Lirico Sperimentale nel febbraio 2001.
La terza fase ha riguardato la vera e propria trascrizione dei diciotto Contrappunti secondo la numerazione dell'edizione critica Bärenreiter (Johann Sebastian Bach, Die Kunst der Fuge, BWV 1080, a c. di H. Diener, Kassel 1956) con differenti organici strumentali, dai più tradizionali strumenti dell'orchestra classica, alla chitarra, al mandolino, alle voci e agli strumenti elettroacustici.
I Contrappunti I-XVII sono stati affidati a compositori quali: Louis Andriessen, Luis De Pablo, Aldo Clementi, Betsy Jolas, Fabio Vacchi, Fabio Nieder, Michele Tadini; ad allievi e docenti dei conservatori europei prescelti, quali: Christian Kram e Christoph Göbel, allievi della "Hochschule für Musik und Theater" di Lipsia; Diderik Wagenaar e Adam Falkiewicz, rispettivamente docente e allievo del "Koninklijk Conservatorium" de L'Aia; Chrostopher Branch, Nathan Williamson, Adam Melvin allievi e Andrew Schultz, docente della "Guildhall School of Music & Drama" di Londra; gli studenti Marcella Tessarin, Corrado Margutti, Andrea Ferrero Merlino e il docente Gilberto Bosco del Conservatorio "Giuseppe Verdi" di Torino; gli studenti Arnold Bretagne, Arhaud Boukhitine e il docente Lois Mallié. Luciano Berio ha riservato per sé l'incompiuto Contrapunctus XVIII.
L'organico orchestrale che eseguirà l'integrale dei diciotto Contrappunti, costitutosi con la sigla O.E.T.Li.S. (Orchestra Europea del Teatro Lirico Sperimentale), sarà composto da giovani strumentisti provenienti dai Conservatori europei che hanno partecipato al progetto. Il Centro Culturale Tempo Reale di Firenze curerà e realizzerà le parti destinate ai live-electronics.
Ai due concerti inaugurali in prima mondiale al Teatro Caio Melisso di Spoleto, seguiranno altre esecuzioni a L'Aia, Londra, Lione, sedi delle scuole musicali partecipanti.
 
L'ARTE DELLA FUGA
- Contrapunctus I - Louis Andriessen
- Contrapunctus II - Luis De Pablo - Bach 1626
- Contrapunctus III - Christian FP Kram
- Contrapunctus IV - Betsy Jolas
- Contrapunctus V - Fabio Vacchi
- Contrapunctus VI - Diderik Wagenaar - Halo
- Contrapunctus VII - Adam Falkiewicz
- Contrapunctus VIII - Christopher Branch, Nathan Williamson, Adam Melvin
- Contrapunctus IX - Andrew Schultz - Ash Fire
- Contrapunctus X - Aldo Clementi
- Contrapunctus XI - Marcella Tessarin, Corrado Margutti, Andrea Ferrero Merlino
- Contrapunctus XII - Rectus - Arhaud Boukhitine
- Contrapunctus XII - Inversus - Arnold Bretagne
- Contrapunctus XIII - Rectus/Inversus - Loic Mallié
- Contrapunctus XIV - Fabio Nieder - Das ewig Liecht
- Contrapunctus XV - Christoph Göbel
- Contrapunctus XVI - Gilberto Bosco
- Contrapunctus XVII - Michele Tadini - O Lamm Gottes unschuldig
- Contrapunctus XVIII - Luciano Berio - A Giuseppe Sinopoli, in memoriam
 
Esecuzioni:
- Spoleto - Teatro Caio Melisso - Prima assoluta - 31/5 - 1/6/2001
- Lyon - 4/6/2001
- Den Haag - 6/6/2001
- London - 8/6/2001


martedì, luglio 02, 2019

Niccolò Castiglioni: Quodlibet

Stradivarius STR 37097 - (p) (c) 2018
Che Niccolò Castiglioni fosse un pianista eccellente lo attestano i colleghi che ebbero occasione di ascoltarlo; ricordando in particolare l’abilita con cui eseguiva quei suoi Cangianti, da lui presentati a Darmstadt nel settembre del 1959, un brano di estremo impegno non solo per l’acrobatico impiego della tastiera ma per la mobilità della tavolozza timbrica che lasciava trasparire una sensibilità acuta per le prerogative dello strumento, approfondite dal giovane milanese durante i corsi salisburghesi con Gulda e con Zecchi. Un pianismo consapevole ma soprattutto “naturale”, nel senso chopiniano, sfiorato da quel fermentare madreperlaceo del timbro che non è più compiacimento ornamentale ma sorprendente quanto misterioso scarto inventivo. Un filo che si sarebbe allungato con Debussy, l’ultimo Debussy e che non sarebbe sfuggito alle mani prensili di Castiglioni quando venne attratto dalla malia dei labirinti weberniani, come colse prontamente Heinrich Strobel, il grand patron dei Donaueschinger Musiktage, parlando di "du Webern sonnant comme du Debussy" Si era infatti integrato tale pianismo nei recessi del laboratorio segreto di Castiglioni costituendo una riserva e uno stimolo ad alimentare quel suo immaginario sonoro così variegato e originale, ingrediente il pianoforte di cui Castiglioni fa un uso sensibile, calibrato al millimetro sia che lo inserisca nel tessuto timbrico degli organici cameristici più singolari o in quelli orchestrali, spesso ridondanti quanto inconsueti, o che lo ponga in posizione più esposta, da solista, come mostrano le cinque testimonianze di questo CD, significative nell’attraversare un paesaggio straordinariamente variato e fascinosamente isolato quale quello di Castiglioni, giungendo con Fantasia concertata del 1991 quasi "al limite della terra fertile", e nello svelare l’unicità di un’esperienza poetica che il tempo è andato decantando con indiscussa nitidezza.
L’avvio di questo viaggio lascia alle spalle un travaglio formativo che nel naturale confronto dialettico non ha tuttavia neutralizzato nelle prime prove compositive certi residui, sia di quelle prime attrazioni, lui ancora studente al Conservatorio milanese, ”neoclassiche e stravinskijane”, che delle successive influenze che lo stesso Castiglioni riassumerà con lucido distacco: “da un lato mi sono sentito attratto dal mondo dell’espressionismo tedesco e della dodecafonia, dall’altro mi sono lasciato prendere dalla moda di fare un po’ di battaglia ideologica, musica engagée, musica con titoli politici.”
Scorie che sembrano dissolversi con il premere di più sottili tensioni, intrinseche alla tecnica appuntita di cui possedeva i segreti e che gli consentiva di dar forme sensibilissime ai propri fantasmi, sempre aleggianti tra un lirismo trattenuto e una ironia un po’ sibillina da indurre a pensare ai favolosi viaggi intrapresi sul piccolo foglio da Klee o ai più liberi intrichi ricreati da Wols con il suo bulino dai tratti infinitesimali. Sono gli indizi che troviamo in Inizio di movimento per pianoforte, un brano del 1957-1958 eseguito dallo stesso autore a Darmstadt nell’ambito dei concerti finali del corso di composizione di Nono e Maderna. E' lo stesso Castiglioni a scrivere la presentazione indicando che “il materiale di questa composizione non è organizzato serialmente, ma è tutto derivato da una cellula originaria”, precisando poi che il materiale si presenta "come se fosse in movimento”, quasi col carattere di un’improvvisazione pianistica. Materiale sempre attivo se pochi mesi dopo l’autore ne prolungò il destino allargando più avventurosamente la trama ad un ensemble di undici strumenti: e nato così per gemmazione Movimento continuato che lo stesso autore eseguì a Milano il 21 marzo 1959 con l’Orchestra dei Pomeriggi Musicali diretta da un già affermato Boulez. Un confronto tra il pianoforte e gli undici strumenti che rivela ”una verve agile e spavalda”, scriveva Bortolotto suggerendo la suggestiva, non improbabile ipotesi di "una ritrovata Aufschwung romantica“. Risplendeva la chiarezza del suono, quella ”bontà naturale” che sosteneva un musicista del settecento, pensava Castiglioni, quale modo di ”svincolarsi dall’umor nero espressionistico” per ”ritrovare una strada all’aria aperta, alla luce del sole, ossigenata dalla freschezza di una riscoperta piacevolezza sonora”. Il processo non si fermerà qui, ché lo stesso materiale troverà nuovi esiti in Sequenze, una composizione per orchestra che sarà presentata nel marzo 1959 nella stagione sinfonica del Terzo Programma, con l'orchestra RAI di Roma diretta da Hans Rosbaud. Per dire come Castiglioni allargando la tela dalla sola tastiera a quella strumentale pratichi con originalità l’esperienza del puntilismo, sottraendosi al clima un po’ talebano che aleggiava in quella stagione. Ne aveva colto il senso Massimo Bogianckino nel recensire su La fiera letteraria gli Impromptus 1-4 per orchestra da camera che precedono di qualche mese Inizio di movimento, osservando come ”l’apparente frantumazione sonora, suggerita dalle ormai cosmiche sottigliezze seriali e dai richiami di un consumato tecnicismo orchestrale, si ricompone proprio in forza di un sincero, ingenuo candore che l’autore conserva con commovente freschezza“, Sulla più ristretta prospettiva della tastiera Castiglioni opera con mano sensibile nel tendere a fugaci aggregazioni figurali che tolgono alla frequente presenza dell’arabesco ogni compiacimento ornamentale per lasciar intuire una più aleggiante tensione espressiva, quando la figura trapassa dalla tastiera agli altri strumenti con avvolgente complicità; oppure quando il profilo elegante si blocca nell’iterazione o si sedimenta in più decisi accumuli armonici, fino all’esasperazione di quei clusters che probabilmente il giovane frequentatore di Darmstadt aveva ascoltato con stupefazione dalle eccitanti, stralunate esibizioni di David Tudor.
Nella sequenza cronologica del CD ci troviamo di fronte ad un’opera del 1976, Quodlibet (titolo già impiegato in Figure del 1965, secondo quel ricorrente ricorso a suggestioni medioevali, Tropi, Sequenze, cantus planus e via dicendo che contrassegna il percorso del nostro compositore). Un quindicennio separa Quodlibet ”piccolo concerto per pianoforte e orchestra da camera” (prima esecuzione a Parigi nel maggio 1978, con l’Ensemble Intercontemporain diretto da Michel Tabachnick) dal precedente Movimento continuato, un lasso di tempo enorme che trova riscontri nella vita del compositore. Significativi, come il periodo trascorso tra il 1966 e il 1970 negli Stati Uniti quale visiting professor of composition, ma anche come storico della musica rinascimentale, nelle Università del Michigan, San Diego e Washington: "un'esperienza molto piacevole umanamente - dirà Castiglioni - ma ho avuto la sensazione di aver perso del tempo. Tornato in Italia mi sono reso conto che si era un po’ calmato il fanatismo avanguardista che aveva contraddistinto gli anni precedenti la mia partenza e questo era una bene, perché l'attenuarsi di quello che in alcuni momenti aveva preso le sembianze di un vero e proprio terrorismo psicologico consentiva a ciascuno di trovare la propria linea, di esprimere la propria personalità”. Una ricerca che Castiglioni compie sospinto da una curiosità verso la storia testimoniata da quel singolare libretto che è Il linguaggio musicale dal Rinascimento a oggi, uno specchio del proprio mondo in realtà, come ben aveva colto Lele d’Amico dicendo che non si trattava di “una storia, bensì l'esposizione d’una poetica attraverso una storia di comodo”. Che in effetti è la condizione con cui il compositore, dopo il ritorno dall’America, si confronta con la storia, in maniera visionaria, un po’ stralunata, nel senso di fantasmi che riappaiono attraverso la lente di un'esperienza, come quella compiuta dal giovane milanese, spinta fino ai limiti di un'espressività esasperata, mahleriana, che poi si è decantata nell'opposto, in quella della ”leggerezza” calviniana.
Fantasmi che sono gesti, vocaboli, suggestioni, come la tonalità che riaffiora fugacemente senza forza costruttiva, come colore piuttosto e forse ancor di più elemento che opera come un rovello lungo il sofferto percorso della creazione; difficile negli anni settanta a giudicare dal rarefarsi di opere dovuto alla fragilità esistenziale che sembra oscurare l'orizzonte del nostro compositore. La chiarezza Castiglioni sembra ritrovarla in una stupefatta semplicità che conforta la sua predilezione per la montagna, dove si era trasferito lasciando Milano (”una città di provincia, indolente e presuntuosa”) per Bressanone: semplicità che si sostanzia nella stessa rilettura della storia musicale: “L'eredità di Webern è stata soprattutto un appello alla purificazione. In questo senso Webern richiama Franz Josef Haydn e soprattutto Edward Grieg” scrive all’amico Paolo Castaldi, come a rafforzare le scelte che guidano la sua scrittura, tutta tesa verso la conquista del ”bianco”, il bianco dell'inverno, del paesaggio amato, del freddo, lo scintillio della neve gelata, elementi che Castiglioni ha fissato quasi emblematicamente in quel piccolo capolavoro che è Inverno in-ver, ”undici poesie musicali per piccola orchestra", e che ritroviamo in Quodlibet, nella raffinata filigrana intessuta dagli arabeschi pianistici emancipati dalla istigazione puntilistica, avvolgente tessuto al color bianco nei filtri di una dinamica tutta decantata nei pianissimi, bruscamente bucato da sgraziati accordi acciaccati, come uccelli fastidiosi - inevitabile il pensiero all’ornitologia musicale di Messiaen, autore amato da Castiglioni che apprezzava in lui ”quel suo modo di esporre per un notevole lasso di tempo un materiale sonoro senza svilupparlo” - che guastano l’illusione sonora, con il sognante abbandono di quelle poche battute del pianoforte, spia della naturale vocazione lirica, che indugia come un tenero intermezzo schumanniano, ”molto poeticamente”, ”armoniosissimo”, ”sospirando”, ”dolcissimo” chiede Castiglioni premendo il pedale "una corda”. E' lo stesso filo che ci conduce a Fiori di ghiaccio, ”concerto per pianoforte e orchestra” scritto tra il 1982 e il 1983 e presentato a Milano nel gennaio 1984, solista Anna Maria Paganini. Il titolo è lo stesso di uno dei brani, quello d’apertura, che compongono Inverno in-ver, ripresa che il compositore in una nota intervista giustificherà come "il massimo bisogno di purificazione verso il limpido“. Limpidezza, appunto, il termine che più diventa rivelatore della visione poetica di Castiglioni, come approdo ad una visione non turbata da quei fantasmi che operano nella penombra della sua interiorità. E "limpido" è uno dei tre generi che Castiglioni enumera in una divertente lettera a Paolo Castaldi, compagno di viaggio con cui divideva sul filo di un'arguzia surreale le proprie ansie, come sintesi della sua personalità, incasellando in ognuno dei settori le opere di appartenenza: vi è il genere "Schoenberghiano” (che in un’altra lettera diventerà ”melenso”), il genere “giocoso” e quello "limpido" che Castiglioni dice essere il preferito. E' quello in cui figura il ”piccolo concerto” Fiori di ghiaccio, articolato in quattro momenti che il compositore mette in sequenza ”storica”, si potrebbe pensare, come rivisitazioni di movenze: il sapore operistico della Cavatina, il rigore logico del Preludio e Fuga che Castiglioni dirama estrosamente tra gamme strumentali di sottilissimo pimento, la dichiarata evocazione lisztiana di Au bord d’une source, oasi preziosa in cui fiorisce la estrosa felicità del pianismo del nostro autore, sempre originale nel prescrivere che tale slancio fantastico sulla tastiera virtuosa abbia come sottofondo una figurazione ostinata del clavicembalo; infine il Walzer intonato dal primo violino ad aprire un pulsante quadro sonoro di cui il pianoforte decreterà drasticamente la fine. Fiori di ghiaccio è dedicato a Ligeti, un atto di stima e di affetto per il grande musicista transilvano con cui divideva la consapevolezza sulle insidie omologanti di un puntilismo vissuto in troppo stretta osservanza; una dedica che si radica nella stessa partitura, in quel fondale a canone all’unisono degli archi che apre Cavatina, evidente allusione ad Atmosphères.
Altro senso la dedica, a Bruno Maderna, dell'opera che segue, Gorgheggio per pianoforte e otto strumenti, scritto nel 1988, prima esecuzione a Milano l’11 novembre 1989 nell’ambito della bella rassegna promossa da Mario Messinis, prima significativa monografia dedicata al musicista veneziano scomparso nel 1973. Un omaggio ad un grande collega e maestro, dunque, a un musicista anche lui insofferente alla istigazione dei rigori darmstadtiani, attratto dagli infiniti interrogativi di fronte al mistero del suono; un senso avventuroso che forse Castiglioni ha voluto sottolineare con questo brano singolare dei cui caratteri lo stesso autore mette in guardia l’ascoltatore: "Un gorgheggio è una libera espansione canora della voce. Il gorgheggio non intona una melodia, non esegue un motivo o un tema: si limita a presentare il mezzo canoro nella sua virtuosisticità. Qui, al posto della voce ci sono degli strumenti; ma il fenomeno è analogo: presentazione del materiale sonoro in stato di effervescenza, o per meglio dire di euforia...". Per dire di una certa fisicità del suono che Castiglioni pretende nel rimarcare: ”Dinamica = sempre fff” e nel chiedere al pianista di produrre un suono ”sempre molto squillante e rigorosamente nel ritmo”. Un pianoforte che gorgheggia, dunque, a gola spiegata, navigando sempre nella zona alta, con tagli nitidi, dimentichi delle infinitesimali sfumature proprie del pianismo di Castiglioni, un pianoforte tutto solo, anche, per un lungo tratto, quasi l’intero brano, prima che arrivino gli strumenti che con un accordo strappato impongono alla voce il silenzio: un accordo ripetuto per cento volte! ”L’ascoltatore - sempre Castiglioni nel preambolo - deve lasciarsi permeare, affascinare e anche per cosi dire intontire dall’ostinazione del ritmo. Poi, a un tratto, il ritmo ostinato cessa: la musica non conclude, non cadenza. Si può dire soltanto che LA MUSICA SMETTE". Può essere il gusto del paradosso a innescare questo strano gioco “concertante”, forse un pizzico di quell’ironia che nell’opera come nella vita di Castiglioni seguiva percorsi carsici, fatto sta che il pianoforte di Gorgheggio offre una fisionomia più decisa, che in parte ritroveremo nella più tarda Fantasia concertata composta nel 1991 ma presentata al Festival veneziano solo nel 2005, pianista Roberto Prosseda. Un pianoforte brillante che nel primo movimento, ”Ottavario” stende sotto il chiacchierio degli strumentini una sollecitante fascia all’unisono, per poi partecipare nella ”Prosopopea” ad un dialogo più avvolgente, rotto bruscamente da un'accordalità che nella ”ripresa” si fisserà in una condizione di staticità, anche qui un insottraibile richiamo al Messiaen ornitologo. Torna a circolare l’aria nel terzo movimento, "Aria" appunto, un "Andantino soave" dove il pianoforte sembra cedere il passo alla malia timbrica degli impasti delle percussioni, con celesta e crotali, per poi rivendicare una sua presenza ostinata. La sorpresa viene dalla ”Romanza” finale, "Molto adagio con molta poesia, dolcissimo", pagina brevissima in cui tutto il fervore sonoro dei tre movimenti precedenti sembra spegnersi in un trepido lirismo.
In una conversazione con Luigi Pestalozza, a Reggio Emilia nell’ottobre del 1995 , uno sguardo retrospettivo spassionato sulla propria attività del musicista che neppure un anno dopo avrebbe lasciato questa terra, Castiglioni giustificava con quel pudore che era un tratto incarnato profondamente nella sua personalità quell’”atteggiamento espressivo” che talora affiora dal trasparente tessuto della sua invenzione: ”... perché dobbiamo rifiutarlo? insomma, senza problematizzare troppo, senza farci su filosofie inestricabili, io ho scritto anche questi pezzi che sono di carattere più espressivo e dove riaffiora un Webern che è un Webern molto diverso da quello ufficiale dell’avanguardia, un Webern che è piuttosto allievo di Schoenberg, un Webern schoenberghiano /.../ Webern secondo me era un compositore tipicamente viennese, che porta nel nostro secolo tutta una tradizione plurisecolare della grande esperienza musicale viennese. E' stato l’ultimo dei viennesi”. Una dichiarazione che è una confessione, una “professione di fede”, come aveva detto essere per lui Inverno in-ver sintesi dello straordinario universo poetico di Castiglioni, chiave per entrare nel suo mondo fantastico, il fascino dell’infanzia, la forbitezza del segno incarnato senza scorie né compiacimenti in un virtuosismo di rara sottigliezza, ma soprattutto quella dimensione di raccolta intimità, di gemütlichkeit austriaca, da Schubert a Mahler a Webern, cui Castiglioni era fortemente legato. Si capisce allora il senso dell’ultima poesia di Inverno in-ver, “Il rumore non fa bene. Il bene non fa rumore".
Gian Paolo Minardi