Stradivarius STR 37097 - (p) (c) 2018 |
L’avvio di questo viaggio lascia alle spalle un travaglio formativo che nel naturale confronto dialettico non ha tuttavia neutralizzato nelle prime prove compositive certi residui, sia di quelle prime attrazioni, lui ancora studente al Conservatorio milanese, ”neoclassiche e stravinskijane”, che delle successive influenze che lo stesso Castiglioni riassumerà con lucido distacco: “da un lato mi sono sentito attratto dal mondo dell’espressionismo tedesco e della dodecafonia, dall’altro mi sono lasciato prendere dalla moda di fare un po’ di battaglia ideologica, musica engagée, musica con titoli politici.”
Scorie che sembrano dissolversi con il premere di più sottili tensioni, intrinseche alla tecnica appuntita di cui possedeva i segreti e che gli consentiva di dar forme sensibilissime ai propri fantasmi, sempre aleggianti tra un lirismo trattenuto e una ironia un po’ sibillina da indurre a pensare ai favolosi viaggi intrapresi sul piccolo foglio da Klee o ai più liberi intrichi ricreati da Wols con il suo bulino dai tratti infinitesimali. Sono gli indizi che troviamo in Inizio di movimento per pianoforte, un brano del 1957-1958 eseguito dallo stesso autore a Darmstadt nell’ambito dei concerti finali del corso di composizione di Nono e Maderna. E' lo stesso Castiglioni a scrivere la presentazione indicando che “il materiale di questa composizione non è organizzato serialmente, ma è tutto derivato da una cellula originaria”, precisando poi che il materiale si presenta "come se fosse in movimento”, quasi col carattere di un’improvvisazione pianistica. Materiale sempre attivo se pochi mesi dopo l’autore ne prolungò il destino allargando più avventurosamente la trama ad un ensemble di undici strumenti: e nato così per gemmazione Movimento continuato che lo stesso autore eseguì a Milano il 21 marzo 1959 con l’Orchestra dei Pomeriggi Musicali diretta da un già affermato Boulez. Un confronto tra il pianoforte e gli undici strumenti che rivela ”una verve agile e spavalda”, scriveva Bortolotto suggerendo la suggestiva, non improbabile ipotesi di "una ritrovata Aufschwung romantica“. Risplendeva la chiarezza del suono, quella ”bontà naturale” che sosteneva un musicista del settecento, pensava Castiglioni, quale modo di ”svincolarsi dall’umor nero espressionistico” per ”ritrovare una strada all’aria aperta, alla luce del sole, ossigenata dalla freschezza di una riscoperta piacevolezza sonora”. Il processo non si fermerà qui, ché lo stesso materiale troverà nuovi esiti in Sequenze, una composizione per orchestra che sarà presentata nel marzo 1959 nella stagione sinfonica del Terzo Programma, con l'orchestra RAI di Roma diretta da Hans Rosbaud. Per dire come Castiglioni allargando la tela dalla sola tastiera a quella strumentale pratichi con originalità l’esperienza del puntilismo, sottraendosi al clima un po’ talebano che aleggiava in quella stagione. Ne aveva colto il senso Massimo Bogianckino nel recensire su La fiera letteraria gli Impromptus 1-4 per orchestra da camera che precedono di qualche mese Inizio di movimento, osservando come ”l’apparente frantumazione sonora, suggerita dalle ormai cosmiche sottigliezze seriali e dai richiami di un consumato tecnicismo orchestrale, si ricompone proprio in forza di un sincero, ingenuo candore che l’autore conserva con commovente freschezza“, Sulla più ristretta prospettiva della tastiera Castiglioni opera con mano sensibile nel tendere a fugaci aggregazioni figurali che tolgono alla frequente presenza dell’arabesco ogni compiacimento ornamentale per lasciar intuire una più aleggiante tensione espressiva, quando la figura trapassa dalla tastiera agli altri strumenti con avvolgente complicità; oppure quando il profilo elegante si blocca nell’iterazione o si sedimenta in più decisi accumuli armonici, fino all’esasperazione di quei clusters che probabilmente il giovane frequentatore di Darmstadt aveva ascoltato con stupefazione dalle eccitanti, stralunate esibizioni di David Tudor.
Nella sequenza cronologica del CD ci troviamo di fronte ad un’opera del 1976, Quodlibet (titolo già impiegato in Figure del 1965, secondo quel ricorrente ricorso a suggestioni medioevali, Tropi, Sequenze, cantus planus e via dicendo che contrassegna il percorso del nostro compositore). Un quindicennio separa Quodlibet ”piccolo concerto per pianoforte e orchestra da camera” (prima esecuzione a Parigi nel maggio 1978, con l’Ensemble Intercontemporain diretto da Michel Tabachnick) dal precedente Movimento continuato, un lasso di tempo enorme che trova riscontri nella vita del compositore. Significativi, come il periodo trascorso tra il 1966 e il 1970 negli Stati Uniti quale visiting professor of composition, ma anche come storico della musica rinascimentale, nelle Università del Michigan, San Diego e Washington: "un'esperienza molto piacevole umanamente - dirà Castiglioni - ma ho avuto la sensazione di aver perso del tempo. Tornato in Italia mi sono reso conto che si era un po’ calmato il fanatismo avanguardista che aveva contraddistinto gli anni precedenti la mia partenza e questo era una bene, perché l'attenuarsi di quello che in alcuni momenti aveva preso le sembianze di un vero e proprio terrorismo psicologico consentiva a ciascuno di trovare la propria linea, di esprimere la propria personalità”. Una ricerca che Castiglioni compie sospinto da una curiosità verso la storia testimoniata da quel singolare libretto che è Il linguaggio musicale dal Rinascimento a oggi, uno specchio del proprio mondo in realtà, come ben aveva colto Lele d’Amico dicendo che non si trattava di “una storia, bensì l'esposizione d’una poetica attraverso una storia di comodo”. Che in effetti è la condizione con cui il compositore, dopo il ritorno dall’America, si confronta con la storia, in maniera visionaria, un po’ stralunata, nel senso di fantasmi che riappaiono attraverso la lente di un'esperienza, come quella compiuta dal giovane milanese, spinta fino ai limiti di un'espressività esasperata, mahleriana, che poi si è decantata nell'opposto, in quella della ”leggerezza” calviniana.
Nella sequenza cronologica del CD ci troviamo di fronte ad un’opera del 1976, Quodlibet (titolo già impiegato in Figure del 1965, secondo quel ricorrente ricorso a suggestioni medioevali, Tropi, Sequenze, cantus planus e via dicendo che contrassegna il percorso del nostro compositore). Un quindicennio separa Quodlibet ”piccolo concerto per pianoforte e orchestra da camera” (prima esecuzione a Parigi nel maggio 1978, con l’Ensemble Intercontemporain diretto da Michel Tabachnick) dal precedente Movimento continuato, un lasso di tempo enorme che trova riscontri nella vita del compositore. Significativi, come il periodo trascorso tra il 1966 e il 1970 negli Stati Uniti quale visiting professor of composition, ma anche come storico della musica rinascimentale, nelle Università del Michigan, San Diego e Washington: "un'esperienza molto piacevole umanamente - dirà Castiglioni - ma ho avuto la sensazione di aver perso del tempo. Tornato in Italia mi sono reso conto che si era un po’ calmato il fanatismo avanguardista che aveva contraddistinto gli anni precedenti la mia partenza e questo era una bene, perché l'attenuarsi di quello che in alcuni momenti aveva preso le sembianze di un vero e proprio terrorismo psicologico consentiva a ciascuno di trovare la propria linea, di esprimere la propria personalità”. Una ricerca che Castiglioni compie sospinto da una curiosità verso la storia testimoniata da quel singolare libretto che è Il linguaggio musicale dal Rinascimento a oggi, uno specchio del proprio mondo in realtà, come ben aveva colto Lele d’Amico dicendo che non si trattava di “una storia, bensì l'esposizione d’una poetica attraverso una storia di comodo”. Che in effetti è la condizione con cui il compositore, dopo il ritorno dall’America, si confronta con la storia, in maniera visionaria, un po’ stralunata, nel senso di fantasmi che riappaiono attraverso la lente di un'esperienza, come quella compiuta dal giovane milanese, spinta fino ai limiti di un'espressività esasperata, mahleriana, che poi si è decantata nell'opposto, in quella della ”leggerezza” calviniana.
Fantasmi che sono gesti, vocaboli, suggestioni, come la tonalità che riaffiora fugacemente senza forza costruttiva, come colore piuttosto e forse ancor di più elemento che opera come un rovello lungo il sofferto percorso della creazione; difficile negli anni settanta a giudicare dal rarefarsi di opere dovuto alla fragilità esistenziale che sembra oscurare l'orizzonte del nostro compositore. La chiarezza Castiglioni sembra ritrovarla in una stupefatta semplicità che conforta la sua predilezione per la montagna, dove si era trasferito lasciando Milano (”una città di provincia, indolente e presuntuosa”) per Bressanone: semplicità che si sostanzia nella stessa rilettura della storia musicale: “L'eredità di Webern è stata soprattutto un appello alla purificazione. In questo senso Webern richiama Franz Josef Haydn e soprattutto Edward Grieg” scrive all’amico Paolo Castaldi, come a rafforzare le scelte che guidano la sua scrittura, tutta tesa verso la conquista del ”bianco”, il bianco dell'inverno, del paesaggio amato, del freddo, lo scintillio della neve gelata, elementi che Castiglioni ha fissato quasi emblematicamente in quel piccolo capolavoro che è Inverno in-ver, ”undici poesie musicali per piccola orchestra", e che ritroviamo in Quodlibet, nella raffinata filigrana intessuta dagli arabeschi pianistici emancipati dalla istigazione puntilistica, avvolgente tessuto al color bianco nei filtri di una dinamica tutta decantata nei pianissimi, bruscamente bucato da sgraziati accordi acciaccati, come uccelli fastidiosi - inevitabile il pensiero all’ornitologia musicale di Messiaen, autore amato da Castiglioni che apprezzava in lui ”quel suo modo di esporre per un notevole lasso di tempo un materiale sonoro senza svilupparlo” - che guastano l’illusione sonora, con il sognante abbandono di quelle poche battute del pianoforte, spia della naturale vocazione lirica, che indugia come un tenero intermezzo schumanniano, ”molto poeticamente”, ”armoniosissimo”, ”sospirando”, ”dolcissimo” chiede Castiglioni premendo il pedale "una corda”. E' lo stesso filo che ci conduce a Fiori di ghiaccio, ”concerto per pianoforte e orchestra” scritto tra il 1982 e il 1983 e presentato a Milano nel gennaio 1984, solista Anna Maria Paganini. Il titolo è lo stesso di uno dei brani, quello d’apertura, che compongono Inverno in-ver, ripresa che il compositore in una nota intervista giustificherà come "il massimo bisogno di purificazione verso il limpido“. Limpidezza, appunto, il termine che più diventa rivelatore della visione poetica di Castiglioni, come approdo ad una visione non turbata da quei fantasmi che operano nella penombra della sua interiorità. E "limpido" è uno dei tre generi che Castiglioni enumera in una divertente lettera a Paolo Castaldi, compagno di viaggio con cui divideva sul filo di un'arguzia surreale le proprie ansie, come sintesi della sua personalità, incasellando in ognuno dei settori le opere di appartenenza: vi è il genere "Schoenberghiano” (che in un’altra lettera diventerà ”melenso”), il genere “giocoso” e quello "limpido" che Castiglioni dice essere il preferito. E' quello in cui figura il ”piccolo concerto” Fiori di ghiaccio, articolato in quattro momenti che il compositore mette in sequenza ”storica”, si potrebbe pensare, come rivisitazioni di movenze: il sapore operistico della Cavatina, il rigore logico del Preludio e Fuga che Castiglioni dirama estrosamente tra gamme strumentali di sottilissimo pimento, la dichiarata evocazione lisztiana di Au bord d’une source, oasi preziosa in cui fiorisce la estrosa felicità del pianismo del nostro autore, sempre originale nel prescrivere che tale slancio fantastico sulla tastiera virtuosa abbia come sottofondo una figurazione ostinata del clavicembalo; infine il Walzer intonato dal primo violino ad aprire un pulsante quadro sonoro di cui il pianoforte decreterà drasticamente la fine. Fiori di ghiaccio è dedicato a Ligeti, un atto di stima e di affetto per il grande musicista transilvano con cui divideva la consapevolezza sulle insidie omologanti di un puntilismo vissuto in troppo stretta osservanza; una dedica che si radica nella stessa partitura, in quel fondale a canone all’unisono degli archi che apre Cavatina, evidente allusione ad Atmosphères.
Altro senso la dedica, a Bruno Maderna, dell'opera che segue, Gorgheggio per pianoforte e otto strumenti, scritto nel 1988, prima esecuzione a Milano l’11 novembre 1989 nell’ambito della bella rassegna promossa da Mario Messinis, prima significativa monografia dedicata al musicista veneziano scomparso nel 1973. Un omaggio ad un grande collega e maestro, dunque, a un musicista anche lui insofferente alla istigazione dei rigori darmstadtiani, attratto dagli infiniti interrogativi di fronte al mistero del suono; un senso avventuroso che forse Castiglioni ha voluto sottolineare con questo brano singolare dei cui caratteri lo stesso autore mette in guardia l’ascoltatore: "Un gorgheggio è una libera espansione canora della voce. Il gorgheggio non intona una melodia, non esegue un motivo o un tema: si limita a presentare il mezzo canoro nella sua virtuosisticità. Qui, al posto della voce ci sono degli strumenti; ma il fenomeno è analogo: presentazione del materiale sonoro in stato di effervescenza, o per meglio dire di euforia...". Per dire di una certa fisicità del suono che Castiglioni pretende nel rimarcare: ”Dinamica = sempre fff” e nel chiedere al pianista di produrre un suono ”sempre molto squillante e rigorosamente nel ritmo”. Un pianoforte che gorgheggia, dunque, a gola spiegata, navigando sempre nella zona alta, con tagli nitidi, dimentichi delle infinitesimali sfumature proprie del pianismo di Castiglioni, un pianoforte tutto solo, anche, per un lungo tratto, quasi l’intero brano, prima che arrivino gli strumenti che con un accordo strappato impongono alla voce il silenzio: un accordo ripetuto per cento volte! ”L’ascoltatore - sempre Castiglioni nel preambolo - deve lasciarsi permeare, affascinare e anche per cosi dire intontire dall’ostinazione del ritmo. Poi, a un tratto, il ritmo ostinato cessa: la musica non conclude, non cadenza. Si può dire soltanto che LA MUSICA SMETTE". Può essere il gusto del paradosso a innescare questo strano gioco “concertante”, forse un pizzico di quell’ironia che nell’opera come nella vita di Castiglioni seguiva percorsi carsici, fatto sta che il pianoforte di Gorgheggio offre una fisionomia più decisa, che in parte ritroveremo nella più tarda Fantasia concertata composta nel 1991 ma presentata al Festival veneziano solo nel 2005, pianista Roberto Prosseda. Un pianoforte brillante che nel primo movimento, ”Ottavario” stende sotto il chiacchierio degli strumentini una sollecitante fascia all’unisono, per poi partecipare nella ”Prosopopea” ad un dialogo più avvolgente, rotto bruscamente da un'accordalità che nella ”ripresa” si fisserà in una condizione di staticità, anche qui un insottraibile richiamo al Messiaen ornitologo. Torna a circolare l’aria nel terzo movimento, "Aria" appunto, un "Andantino soave" dove il pianoforte sembra cedere il passo alla malia timbrica degli impasti delle percussioni, con celesta e crotali, per poi rivendicare una sua presenza ostinata. La sorpresa viene dalla ”Romanza” finale, "Molto adagio con molta poesia, dolcissimo", pagina brevissima in cui tutto il fervore sonoro dei tre movimenti precedenti sembra spegnersi in un trepido lirismo.
In una conversazione con Luigi Pestalozza, a Reggio Emilia nell’ottobre del 1995 , uno sguardo retrospettivo spassionato sulla propria attività del musicista che neppure un anno dopo avrebbe lasciato questa terra, Castiglioni giustificava con quel pudore che era un tratto incarnato profondamente nella sua personalità quell’”atteggiamento espressivo” che talora affiora dal trasparente tessuto della sua invenzione: ”... perché dobbiamo rifiutarlo? insomma, senza problematizzare troppo, senza farci su filosofie inestricabili, io ho scritto anche questi pezzi che sono di carattere più espressivo e dove riaffiora un Webern che è un Webern molto diverso da quello ufficiale dell’avanguardia, un Webern che è piuttosto allievo di Schoenberg, un Webern schoenberghiano /.../ Webern secondo me era un compositore tipicamente viennese, che porta nel nostro secolo tutta una tradizione plurisecolare della grande esperienza musicale viennese. E' stato l’ultimo dei viennesi”. Una dichiarazione che è una confessione, una “professione di fede”, come aveva detto essere per lui Inverno in-ver sintesi dello straordinario universo poetico di Castiglioni, chiave per entrare nel suo mondo fantastico, il fascino dell’infanzia, la forbitezza del segno incarnato senza scorie né compiacimenti in un virtuosismo di rara sottigliezza, ma soprattutto quella dimensione di raccolta intimità, di gemütlichkeitaustriaca, da Schubert a Mahler a Webern, cui Castiglioni era fortemente legato. Si capisce allora il senso dell’ultima poesia di Inverno in-ver, “Il rumore non fa bene. Il bene non fa rumore".
In una conversazione con Luigi Pestalozza, a Reggio Emilia nell’ottobre del 1995 , uno sguardo retrospettivo spassionato sulla propria attività del musicista che neppure un anno dopo avrebbe lasciato questa terra, Castiglioni giustificava con quel pudore che era un tratto incarnato profondamente nella sua personalità quell’”atteggiamento espressivo” che talora affiora dal trasparente tessuto della sua invenzione: ”... perché dobbiamo rifiutarlo? insomma, senza problematizzare troppo, senza farci su filosofie inestricabili, io ho scritto anche questi pezzi che sono di carattere più espressivo e dove riaffiora un Webern che è un Webern molto diverso da quello ufficiale dell’avanguardia, un Webern che è piuttosto allievo di Schoenberg, un Webern schoenberghiano /.../ Webern secondo me era un compositore tipicamente viennese, che porta nel nostro secolo tutta una tradizione plurisecolare della grande esperienza musicale viennese. E' stato l’ultimo dei viennesi”. Una dichiarazione che è una confessione, una “professione di fede”, come aveva detto essere per lui Inverno in-ver sintesi dello straordinario universo poetico di Castiglioni, chiave per entrare nel suo mondo fantastico, il fascino dell’infanzia, la forbitezza del segno incarnato senza scorie né compiacimenti in un virtuosismo di rara sottigliezza, ma soprattutto quella dimensione di raccolta intimità, di gemütlichkeit
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