Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, novembre 21, 2021

Gli 80 anni di Igor Stravinsky

"Se la maggiore conquista del romanti
cismo tedesco - scrive Antonio Capri - era stata l'esplorazione e la scoperta del potere espressivo dell'armonia, dell'emozione armonica, del cromatismo, la conquista iniziata dall'arte russa e compiuta dall'impressionismo francese fu invece la graduale penetrazione dei magici reami del colore, delle atmosfere e degli ambienti sonori. da cui nacque tutta una nuova estetica, interprete dei più fuggevoli moti dell'animo, delle più arcane sfumature di vita interiore. Ma, anche quando con Debussy il predominio musicale passò alla Francia, alla Russia restarono due artisti altamente significativi che, assimilando tutti gli apporti della cultura occidentale, hanno vigorosamente incarnato ed espresso nella loro arte gli aspetti contrastanti del carattere e dell'anima russa: il misticismo e il materialismo, lo spiritualismo ardente e l'energia vitale, l'anelanza al divino e la sete del terrestre. Questi artisti sono Skriabin e Stravinsky."
Si è voluto stralciare dagli scritti di Antonio Capri questo giudizio di sintesi su uno degli aspetti della musica europea a cavallo fra i due secoli, perché non ci sembra inutile ricordare che, malgrado la presenza, in Russia, di due musicisti della importanza di Skriabin e di Stravinsky, i trenta anni che uniscono, o dividono, l'Ottocento e il Novecento - anni pieni di fermenti novatori e consci drammaticamente della grave crisi delle coscienze europee - vedevano, in Russia, quali musicisti rappresentativi proprio compositori epigoni, vaganti in un anonimato stilistico fatuamente classicheggiante ed accademico, come Alexander Glazounov, Nikolai Medtner e Sergey Vassilievich Rakhmaninov.
Dopo il «Gruppo dei Cinque» - e, a parte, Tchaikowsky - la Russia, viceversa, aveva ancora un suo inserimento «europeo›› con le opere originali e precorritrici di Skriabin - prematuramente scomparso - e con le altre poderose e geniali, sbalorditive e sconvolgenti, talune volte anche duramente aggressive, di Igor Stravinsky. Il quale, sia per l'altezza dei raggiungimenti estetici conseguiti, sia per la poliedricità e mutevolezza assolutamente inedite della sua personalità, sia, infine, per la lunga «presenza» anche fisica nel nostro tempo, verrà giustamente ad imporsi come un dominatore del gusto. Il più forte - quando non prepotente -, il più audace e il più discusso del 1900.
Compie egli ottant'anni, oggi, e ancora sorprende e affascina, e qualche volta disorienta e delude. Ma, la forza della sua personalità è tuttavia incisiva e tagliente, se pur scarnita, con sempre salda una ragione morale del suo manifestarsi.
Igor Stravinsky, il compositore più fortunato e seguito del Novecento, è anche quello sulla cui opera si sono esercitate, a seconda con competenza e non, spassionatamente e con spirito agiografico, stupidamente ostili e poveramente inani, le penne di tutti i critici e musicisti del secolo. Anche in reazione agli scritti da Stravinsky stesso licenziati alle stampe come la Poetica della musica, troppo personale per essere presa criticamente sul serio da un punto di vista di conquista obiettiva, e i più interessanti volumi delle Cronache della mia vita.
Scritti, andrebbe detto una volta per tutte, inevitabili e preziosi - discutibili, magari, quanto si voglia - perché Stravinsky è uomo e musicista moderno, nel senso più vasto e comprensivo dei termini. «E, mo-
derno - ci suggerisce Franco Abbiati - vuol anche dire spietatamente nudo, confesso, propagandistico.››
La musica e gli scritti di Stravinsky han dato adito ad una serie di formulazioni critiche tutte mutevoli e tutte all'un tempo valide: e, più che valide, legittime, perché di volta in volta originate dalla nuova posizione del Maestro, dalla nuova conquista sua e di esse indicative.
Orientale ansioso di ricerche e inebriato di movimento; barbaro dalla coscienza asiatica temprato al calore della tradizione letteraria storica e culturale d'Europa; slavo mistico; esteta elegante cristallino e profanatore; musicista neoclassicamente orientato; artista cosmopolita, europeo russo-parigino; retore antiretorico; antiromantico antisentimentale e antipatetico. Ancora: antipoesia e disumanizzazione; misticismo e primitivismo; elementarietà di una fantasia intimamente russa; istinto religiosità e verginità dell'anima slava accomunati al più raffinato prodotto di una cultura estetica occidentale che gli si oppone; oggettivismo creativo; raffinatezza moderna; ritmica polimorfica e travolgente; arte musicale cubista; linguaggio musicale incoerente, beffardo e cinico; anima infiammata che non esita a manomettere e a far suo tutto ciò che gli aggrada.
Volendo, si potrebbe proseguire. E, riserve a parte per quanto di eccessivo esclusivo ed assolutistico ogni giudizio contiene, nessuno degli assiomi qui sparsamente riportati andrebbe sconfessato, ognuno rispecchiando un aspetto della personalità stravinskyana.
Una personalità che conosce una sua autoeducazione quant'altre mai profonda e volitiva se pure apparentemente instabile e capricciosa.
Dalle emozioni iniziali del canto sfiatato e gutturale d'un contadino russo sordomuto alle prime letture di spartiti d'opera al pianoforte. Dalla conoscenza appassionata, negli anni verdi, di Glinka e Tchaikowsky alla scoperta di Glazounov e di Gounod, di Bizet e di,Delibes, di Chabrier e di Rimsky Korsakov. Dalle assimilazioni di Musorgskji a quelle wagneriane e debussyane; dal barocco händeliano al rigore della plastica linea bachiana. Dalla potenza seducente di Mozart alle acquisizioni di Pergolesi. Dal fascino dell'ethnos russo ai capziosi ritmi negro-americani. Dalla tradizione vocale e polifonica italiana delle scuole romana veneziana e napoletana all'incanto dell'opera verdiana. Da Borodin a Weber da Schubert a Chopin. Poi, dal serialismo a Schönberg.
E, tutte le forme di danza e tutte le combinazioni ritmiche.
Il genio potentemente assimila da ogni dove e dall'incontro delle due culture - quella russa e l'altra europea e, più ancora, parigina - l'urto dei due mondi. Diaghilev e Cocteau, Picasso e Gide e Ramuz: per non dire che dei protagonisti.
Questo artista eclettico e cangiante, che ad ogni opera nuova sembra avallare il giudizio miope di quanti, non potendo né sapendo dire altro, lo accusano di incoerenza e di mancanza di potere stilistico unitario, è viceversa uno dei compositori più coerenti e schietti che abbia avuto ed abbia il nostro secolo. Se, per coerenza si intende il saper essere sempre sé stessi e, per onestà, dire solo ciò che si sente, giustamente o no, più o meno felicemente.
«Quando i suoi ammiratori credono di seguire la sua direzione, egli la muta. Stravinsky cammina infallibilmente verso un assoluto che si sposta di continuo. Di là i zig zag, la civetteria scheletrica della sua andatura, e l'apparenza occasionale delle sue opere.›› Così Bruno Barilli, il quale aggiunge: «Considerato il capo delle teste di traverso, la sua invece sta ben dritta sulle spalle. Egli ha messo di traverso le teste di una gioventù che non saprebbe che farsene della fronte alta. Costoro lanciano fra le gambe del clavicembalo dei petardi umidi e pieni di noia - sotto le fetide esplosioni la Sorte rimane inerte. Stravinsky, al contrario, inganna risolutamente la noia: contorno netto, aria preziosa, freschezza di minerale, spirito di casta aristocratico, equilibrio liberatore, grandezza greca e coraggio di leone... Ecco i doni di questo Orfeo in pigiama.››
Con la testa ben dritta sulle spalle, dunque, ogni nuovo lavoro Stravinsky considera «come un incitamento alla differenziazione della tecnica, per cui egli ricerca sempre nuovi effetti espressivi e volta per volta, collegati con questi, nuovi tentativi nella struttura della forma e nell'amalgama degli strumenti.››
Ecco, spinta emozionale a parte, la premessa «musicale» di ogni manifestazione della poetica di Stravinsky. Esemplificata, dunque, questa premessa - dallo stesso Musicista chiaramente denunziata - su un piano di legittimità musicale, resta giustificata ogni posizione di Stravinsky, cui va fatto un solo addebito: quando occorre, di non cogliere nel segno. Del che, naturalmente, la ragione non è nel mutato atteggiamento formale. Formale, notisi, e non stilistico, perché il potere dello stile nel Maestro russo è assoluto e chiaro, alto e sintetizzatore, anche quando non sembri.
Uno stile che saprà unire una tematica tra le più varie e poliedriche, tutta riflessa in un «iter » musicale che va dai Feax d'artifice all'Oiseau de ƒeu, dal Petruchka al Sacre da Primtemps, dal Renard a Les Noces e che arriverà, con una dialettica vigorosa quando non polemica, alla Histoire du Soldat e ad Oedipus Rex, all'Apollon Musagete ed alla Sinfonia di Salmi, incessantemente, sino al The Rake's Progress, al Canticum, ai Threni ed oltre.
Dalle irresistibilmente inedite combinazioni timbriche dei Feux d'artifice, dunque, alla potente dinamica strumentale ed al colorismo orientale dell'Oiseau de feu. Dalla lineare tagliente plastica del Petrouchka alla rivoluzionaria e travolgente vita ritmica armonica e timbrico-orchestrale del Sacre du Primtemps. "Il senso musicale di Stravinsky è vita ritmica", scrive il Pannain, e, qui, nel Sacre, il ritmo, ancora coloristico in Petrouchka, è ormai sostanza soluta, sintesi e sostegno di realtà estetica, «un battito pulsante, soggiunge Abbiati, su cui si erige il blocco gigantesco dell'opera.» La quale, prosegue, nel suo barbarico e istintivo contenuto ideale, conserva un oscuro aspetto, tragico, com'è di gran parte della produzione stravinskyana intonata al pessimismo russo.
Quel pessimismo che era già la ragione della sgraziata ironia della beffa grottesca e del carnevalesco di Petrouchka: dove, come sempre nel migliore Stravinsky, tutto è risolto in musica. Una musica dagli «scurrili segni sonori››, dei quali la radice è, tuttavia, radice amara.
«E' l'estremo dolore dell'uomo d'Asia - così pensò il Fleischer - delineato in arabeschi, il dolore russo primitivo che si esprime nell'odierno linguaggio europeo: il punto interrogativo che la marionetta russa Petrouchka pone sulla vita, sulla propria esistenza asservita e derubata. S'annuncia per la prima volta in Petrouchka quella tragica scurrilità che ha più tardi, nella seconda Suite, la sua estrema impronta. L'uso di marcia, valzer, polka, galoppo, svela il tragico aspetto di un passato ormai in disfacimento.››
Dopo il Sacre, il mondo russo è ancora nell'ethnos stravinskyano, e sarà la volta de Les Noces: sacralità ed umanità, semplicità e brutalità, poesia e dolore, ansia, altezza quasi sublime e religiosità misteriosa sostanziate d'istinto e d'assurdo, in una sconfinata grandezza di contrasti primigenii: le ragioni morali di quest'altra grande opera stravinskyana.
L'«iter›› è proseguito, inesauribilmente: l'Histoire du Soldat, opera come Les Noces profondamente umana, nella quale, osservò il Fleischer, «il violino del Soldato impersona la cantante anima dell'individuo, spiaccicata dal brutale diabolico nudo rumore ritmicizzato di un'orchestra a percussione.›› Qui, il Soldato sembra anticipare Tom Rakewell del posteriore Progress, per quella comune immanenza drammatica, quando non tragica, di una realtà più forte della propria natura che angoscia e opprime e procede, autonoma, irriguardosa dell'amore e del dolore dell'uomo.
Poi, Oedipus Rex: opera eticamente cruciale, musicalmente composita e teatralniente allucinante, miticamente rivissuta in prima persona dopo una trasposizione moderna della tragica vicenda ellenica. Ancora: chiarezza strumentale e ritmica dello Apollon Musagete e la nobile lucidità religiosa, puramente arcana, della Sinfonia di Salmi. Il sentimento di elevazione ha, qui, un ritmo costantemente ascensionale e purificatore, sorretto dall'arte del Maestro, che riduce al minimo i mezzi di espressione, sempre sedotto dalle antiche emozioni timbriche. Quasi a riflettere, anche nella parsimonia strumentale, l'umiltà di un'anima in anelanza del divino.
L'attività creatrice stravinskyana non conosce soste, anche se non ignora le cadute. Dopo la Sinfonia di Salmi, riallacciandosi al Pater noster del 1926, è la volta del Credo e dell'Ave Maria, per voci sole; della Perséphone e di Jeux de cartes, e, mano a mano, traverso una evoluzione costantemente mutevole della poetica e traverso la composizione di opere sinfoniche e orchestrali tipicamente classiche, dopo l'Orpheus, il Maestro russo sarà alla sua prima vera opera di teatro: The Rake's Progress.
Prima ed unica, sinora, perché - Mavra e Histoire du Soldat a parte - qui il Musicista è alle prese, per la prima volta, con un vero e proprio «libretto››, che egli rivive melodrammaticamente: cioè, rifacendosi agli spiriti dell'opera settecentesca, tutta arie recitativi e concertati.
Tutto e nulla, si disse a suo tempo del Progress: forse a ragione. Tutto, per i raggiungimenti estetici, per le ragioni morali e per l'umanità - sia pur beffarda ed equivocamente oscura - dei personaggi. Nulla per l'esasperazione del subiettivo oggettivismo della poetica stravinskyana, carattere formale costante del lavoro, qui sconfessato dai risultamenti musicali.
Comunque, con o senza ciò, Tom Rakewell, a parer nostro, è da ritenersi un personaggio acquisito al teatro musicale del Novecento: quel Tom Rakewell che è già nel Soldato ormai lontano. L'immanenza ineluttabile di una condizione di dramma, il quale, a sua volta, registra ancora una sconfitta della esistenza del singolo, schiacciata dalla vita collettiva, in tragico divenire.
Comunque, in ogni dove nella produzione stravinskyana, la presenza di questa condizione è premessa di una realizzazione di inconfondibile significato e di esistenziale ansia: che si risolve in valori di una musica sempre modernamente atteggiata e drammaticamente e attualmente viva, anche quando non sembri. Una musica dalla più chiara radice russa, talune volte più per i requisiti etici che per quelli strettamente musicali.
«Je ne vis ni dans le passé ni dans l'avenir. Je suis dans le présent››: così ebbe a scrivere Stravinsky, e, l'affermazione ormai lontana - che valeva a troncare alcune delle più miopi endiadi sofistiche, pseudo-critiche, formulate sulla problematica personalità dell'artista russo - sembra reiterarsi senza posa e senza uguaglianza, di volta in volta, ad ogni nuova stagione musicale del Maestro, ad ogni sua nuova creazione.
Artista sommo, di scattante genialità, di polimorfica fantasia, di inesauribile estro, Igor Stravinsky tocca il traguardo degli ottanta anni, proseguendo ininterrotta la sua pratica di compositore.
Egli, musicista, unico nel XX secolo, che sembra divertirsi ancora oggi, come da sempre, ad abusare della sua posizione di «primo della classe»: una classe, ahinoi!, ormai quasi deserta.
Tragicamente beffardo, gagliardamente conscio di sé e d'altrui, testardo, polemico, pochi volutamente gli strumenti del suo mestiere, umile artigiano attraversato da aneliti mistici e fremiti di religiosità non vaga.
Come un punto interrogativo ormai sulla sua produzione. Ma in testa a tutti, ancora, con buona pace dei suoi detrattori, cui vorremmo sommessamente ricordare l'impresa delle armi di un Nobile di Spagna: "più gli togli, più è grande".
Manlio La Morgia
("Rassegna Musicale Curci", anno XVI n. 5-6 ottobre-dicembre 1962)

giovedì, novembre 11, 2021

L'Espressionismo in Italia

Le parole del celebre aforisma mozartiano di Ferruccio Busoni potrebbero 
benissimo servire, sebbene con significato e scopo diversi da quelli d'origine, a definire l'espressionismo: corrente di pensiero e d'arte nella quale fin troppo si è voluto vedere la calata nel "regno delle Madri", 1'espressione dell'irrazionale, l'esasperata tensione verso un impossibile e sfuggente "assoluto", anziché la coscienza dei tempi, coscienza e problematica della realtà.
Allorché l'espressionismo della Wiener Schule proiettò nella rovente tensione cromatica del linguaggio, cioè concretamente nel processo di costituzione della forma sonora, la sua carica critica, non dovette essere difficile avvedersi di come i problemi di cultura musicale sul tappeto nei primi decenni del nostro secolo (e poi ancora oltre), non fossero esclusivamente di natura "artistica" (almeno nel senso limitativo che tale termine sembra assumere nel parlare corrente), ma coinvolgessero l'individuazione di una crisi esistenziale che fatalmente approdava, nei suoi esiti estremi, alla visione di una notturna solitudine, a un doloroso e struggente senso di straniamento nei confronti dell'organizzazione della vita sociale. Nei paesi germanici il movimento che fa capo ad Arnold Schönberg venne quasi subito messo in relazione con l'ideologia contestataria ed eversiva, e malgrado l'avversione dell'apparato dirigente culminante nelle persecuzioni naziste, esercitò un richiamo anticonformista e innovatore; tra i più pronti e giovani aderenti alle istanze dell'espressionismo furono Ernst Krenek, che nel 1927 si era stabilito a Vienna entrando in contatto con la scuola schönberghiana; il musicologo e compositore Egon Wellesz, Wladimir Vogel (soprattutto nelle opere composte dopo il '37); per tacere di K. Weill e del suo particolarissimo mondo linguistico, parzialmente ascrivibile ad una visione espressionistica. Tutti questi compositori, sia pure in misura difforme, proponevano una sorta di modificazione contestuale operata dall'uomo di fronte a una realtà incerta, avvertita come falsa e falsificante.
In Italia l'atteggiamento di musicisti e critici, prima del secondo dopoguerra, fu di rifiuto netto delle istanze eversive sul piano linguistico, e per lo più i motivi di siffatta chiusura furono addotti sulla base dell'enunciazione di un vitalismo mediterraneo estraneo a radicali pessimismi, col conseguente rifiuto di vedere una condizione umana, storicamente determinata, comune a tutta la cultura europea; il processo di trasformazione del linguaggio sonoro, incentrato sul culto modernista della tecnica e dell'attivismo motorio, veniva ad essere «prevaricato dall'ideologia che esautorava nella musica la problematica linguistica, avvilendola nell'agnosticismo per il quale è magari richiesto l'alibi crociano››. Il «modernismo›› fu perciò sinonimo, nell'Italia tra le due guerre, di neo-modalismopoli-diatonismo, ripristino delle forme proto-barocche e barocche opportunamente vitalizzate da un moderato apporto dissonante, monumentalità costruttiva, affermazione di superbi privilegi etnici.
Nel 1913 Carlo Somigli aveva mosso le acque con un saggio, apparso sull'autorevole Rivista Musicale Italiana, favorevole all'espressionismo tedesco, e Ildebrando Pizzetti aveva immediatamente avvertito l'urgenza di rintuzzare l'impressione positiva determinata dallo scritto del Somigli con un intervento polemico e stroncatorio compreso nel libro Intermezzi critici. Dunque il dibattito sull'atonalismo negli anni immediatamente precedenti la prima guerra era già aperto anche da noi, anche se pochi si sentivano di affrontare compiutamente un argomento cosi nuovo, scottante e in divenire. Bisognerà attendere il 1923 per registrare sul fronte della pubblicistica musicale italiana un nuovo contributo che vada oltre la semplice recensione, e precisamente l'articolo di Attilio Cimbro sulla Atonalità, impostato con serietà obiettiva anche se di contenuto critico non eccezionale; il Cimbro coglieva un aspetto saliente del nuovo linguaggio, e cioè il rifiuto di una convergenza di tutto il discorso musicale e dei nessi linguistici verso un unico centro di attrazione tonale, con relativa sospensione (totale o parziale, questo è da vedersi volta per volta a contatto con le singole opere), del succedersi regolare di tensione e di riposo. Il linguaggio atonale perseguito dagli espressionisti era visto esattamente come superamento della sensibilità classica rispondente alla sostanza viva del tematismo, come ultimo anello di quella tendenza, avviata dai romantici, volta alla mobilità e all'irrequietezza, fino a rompere poco alla volta gli argini della tonalità, "apparentemente per ampliarla, ma in realtà per liberarsene e uscirne". Questa acuta annotazione avrebbe dovuto indurre il Cimbro ad affrontare il problema delle ragioni di così radicale e progressivo straniamento linguistico, e anziché insistere sull'evoluzione astrattamente «biologica» del materiale sonoro e delle sue forme, a registrare quel «dramma del linguaggio invaso dal non-linguaggio» di cui Fedele D'Amico ha riferito da par suo. Nel 1924, tramite l'attivismo in questo senso meritorio di Alfredo Casella, il mondo musicale italiano ebbe modo di avvicinare un'opera fondamentale dell'espressionismo schönberghiano: il Pierrot lunaire. La benemerita rivista Il Pianoforte confermò il tempismo e la sensibilità culturale all'insegna del quale i suoi dirigenti e redattori svolgevano la loro missione, proponendo ai lettori un articolo di presentazione del Píerrot, appunto come introduzione all'ascolto in occasione di varie esecuzioni annunciate in importanti città italiane. L'autore dell'articolo, Erwin Stein, allievo del compositore viennese e profondo conoscitore della sua opera, non andava per la verità molto oltre la semplice descrizione del pezzo in rapporto ai testi poetici di Albert Giraud.
Le cronache delle varie esecuzioni italiane del Pierrot sono tumultuose: a Torino il pubblico si divertì, durante l'esecuzione, a imitare i numerosi «glissandi›› della voce; a Napoli le acclamazioni dei musicisti «progressisti›› scatenarono, nella seconda parte, una violenta reazione di segno contrario; a Firenze, come ricorda Luigi Dallapiccola, «gli studenti del Conservatorio esibivano, con latina gaiezza, il regolamentare fischietto prima che l'esecuzione avesse inizio: il pubblico dal canto suo, scalpitò, tumultuò, rise. Ma Giacomo Puccini, quella sera, non rideva. Ascoltava l'esecuzione con attenzione estrema, seguendo il testo sulla partitura, e, alla fine del concerto, volle essere presentato a Schönberg››. I giudizi critici si mossero in un tono di cautela, ma furono piuttosto scettici e finirono per riflettere un generalizzato malumore; si parlò con rispetto del musicista austriaco, ma forti dubbi furono sollevati sulla validità dello «sprechstimme›› espressionista, che veniva a scuotere e a problematizzare una nozione di «vocalità›› affidata al canto spiegato e alla vitalizzazione del «melos››, e sul cromatismo atonale, che disorientava ascoltatori abituati a cullarsi in una più o meno casta diatonicità. Il Cimbro, in una cronaca da Torino, si occupò nuovamente di Schönberg in occasione dell'ascolto del Pierrot lunaire, e ne rilevò ancora i legami con il più tormentato romanticismo facendo esplicito riferimento al particolarissimo melos schönberghiano, in fondo al quale esisteva, secondo il critico, «un non so che di dolciume, che accusava vecchio sangue romantico tedesco nelle vene››.
D'altronde le voci che si levavano a difendere Schönberg e l'atonalismo, difficilmente coglievano, di questo movimento, le radici profonde, e piuttosto prevaleva l'idea astratta di «stile» particolare, di pura novità sintattico-sonora, di un'esperienza puramente immaginativa. L'ambiente culturale italiano, attestato sulla piattaforma estetica del più rigoroso e intransigente idealismo, era poco disposto a mettere in relazione l'evoluzione del linguaggio cromatico e la conseguente rottura degli schemi tradizionali legati alla dialettica formale dei nuclei tonali, con la comparsa delle più dense ombre esistenziali caratterizzanti il loro (e nostro) tempo. Sul piano della pura invenzione artistica, invece, c'era qualcuno disposto a fare delle concessioni fuori del gusto imperante; il giovane compositore e critico Renzo Massarani, ad esempio, riferendo sul Festival Internazionale di Praga del 1924, scriveva addirittura, dopo aver ascoltato il monodramma schönberghiano L'Attesa: «si potrà essere lontani da quest'arte disperata e forse senza via d'uscita neanche per il suo autore, ma non si potrà ascoltarlo indifferenti, né si potrà non riconoscere la genialità di Arnold Schönberg; aver saputo concepire L'Attesa nel 1908 è poi un miracolo forse senza pari in tutta la storia della musica». Anche se non mancava, a chiusura di articolo, l'azzardo di una previsione: quella, cioè, che sarebbe stata l'altra via a prevalere, la via orientata verso la «musica per la musica››, senza programmi, fatta di semplicità e chiarezza, brevità e concisione, di armonie piane e diatoniche, di strumentazioni leggere e brillanti.
La contrapposizione astratta di diatonismo e cromatismo e il dibattito sull'atonalismo (più ancora che sull'espressionismo quale corrente di pensiero) dettero luogo a polemiche continue: famoso è il saggio di Guido Pannain, nel quale Schönberg, «musicista tormentato e tormentatore», veniva rifiutato sulla scorta del più intransigente metro di «poesia e non poesia» in quanto ingegno astratto e impegnato in un'ulcerata esperienza senza approdo («E' un ruminare che non diventa mai nutrizione. Schönberg, giovane, è un musicista d'una finezza e d'una sensibilità stranamente prodigiose. Ma resta sempre allo, stesso posto. E' un puledro che non riesce a trasformare in galoppo il suo scalpitare››. E ancora, sul Pierrot lanaire: «Ne vien fuori un senso di millanteria fantasiosa; la più vuota delle ingegnosità e la più ingegnosa delle pedanterie; il paradosso provocante e tagliente; la visione immaginativa di un lunatico››; e infine: «Schönberg è tutto tecnica armonica. Tutte le sue attività egli polarizza in quella specie di scommessa che è la distruzione della tonica. Perviene, quindi, ad una mobilità di piani tonali che fa venire il capogiro. Una formidabile costruzione alla quale manca il glutine lirico perché manca una personalità storicamente determinata››).
Nel 1935 la Rassegna Musicale ospitò un intervento di Herbert Fleischer nel quale, a dispetto delle idee circolanti allora in Italia, veniva posto in luce un aspetto fondamentale della poetica espressionista, sintetizzabile con la frase hegeliana non a caso apposta da Adorno, a modo di epigrafe, all'inizio della sua Filosofia della musica moderna: «Poiché nell'arte non abbiamo a che fare con un gioco meramente piacevole e utile, ma con un dispiegarsi della verità». La «bellezza», secondo la conseguente tesi esposta da Fleischer, deve essere il risultato, ma ciò che l'artista è portato sempre a cercare coscientemente e a comunicare e qualcosa d'altro, è uno slancio di verità, un impulso dell'uomo a rappresentarsi, una confessione cui non si può rifiutare a priori il ricorso ad alcun «medium» e cui non si può mettere la palla al piede della malintesa «tradizione››.
D'altronde argomenti non sempre «innocenti» si affiancavano a quelli della pura critica idealistica nell'opporre una decisa resistenza al propagarsi del clima morale, prima ancora che musicale, mutuato dalla denuncia espressionista: essi battevano, naturalmente, il tamburo dell'autarchia nazionalistica e appunto perciò la congestione contenutistica dell'espressionismo, con le sue acutizzate fratture formali in funzione di stravolte allegorie di più profonde lacerazioni umane, non potevano che apparire all'opposto di quel costruttivismo massiccio e ostentatamente ottimistico postulato dall'ideologia fascista. Non a caso Alfredo Casella, in un articolo nel quale pure polemizzava molto opportunamente contro una apologetica superficiale, proclamava poi però la necessità di un'arte che portasse le impronte dell'epoca «di ferro e di eroismo››, salutando con favore la tendenza dei giovani musicisti italiani ad abbandonare le forme brevi, venendo alla conclusione che da tutti era sentita la vocazione per un'arte grandiosa, monumentale. Ma la parte più importante dello scritto caselliano viene dopo: «e se negli ultimi vent'anni l'Italia non ha concesso che un'attenzione relativa al fenomeno tanto importante dell'atonalità schönberghiana, questo fenomeno non deve essere interpretato come prova di reazione, ma come logico risultato del profondo, incrollabile attaccamento del nostro popolo al senso tonale. Basta confrontare l'evoluzione di Verdi con quella di Wagner per constatare immediatamente che il cromatismo tedesco non è stato assorbito affatto - o per lo meno in misura limitata - dalla musica italiana, e che per conseguenza questa doveva di necessità seguire un giorno un cammino completamente divergente da quello dei musicisti dell'Europa centrale››. In effetti i compositori italiani si tenevano a notevole distanza dal torrido e dilaniato clima dell'espressionismo; solo Gian Francesco Malipiero era addivenuto, dall'iniziale arcaismo, ad uno stile fatto di introspettiva cupezza, di una grigia e quasi «svagata» malinconia emergente dall'ambiguo modo di trattare un materiale cui pure non mancava il contrassegno di fedeltà al diatonismo. Quanto alla circolazione di musiche della scuola di Vienna, essa era limitata alquanto, tanto che per sei anni di seguito il Festival di Venezia, nato per informare sulle più recenti ricerche dell'avanguardia, aveva ignorato Schönberg; né sorte molto migliore era riservata ad Alban Berg e Anton Webern. Un capolavoro come l'opera teatrale Wozzeck, composta da Berg nel 1922 e rappresentata alla Staatsoper di Berlino nel '25, dovrà attendere il '42 prima di venire presentato in Italia (a Roma), e l'atteggiamento dei compositori e musicisti italiani sarà, generalmente, di incomprensione.
Naturalmente anche in Italia voci controcorrente si alzavano per rivendicare una diversa linea di condotta e soprattutto un diverso atteggiamento critico: Alberto Mantelli, nel '36, pubblicava delle eccellenti note su Alban Berg in cui veniva rilevata la configurazione polemica dell'espressionismo, nel cui «aspetto negativo si delinea il valore, il rilievo e la funzione dell'atonalismo››. Ma già l'anno prima il Ballo aveva scritto coraggiosamente che «la polemica dell'arte moderna è quindi, nel suo carattere più praticamente evidente, una lotta di contenuti... i pittori dipingono gli ambienti della loro estrema miseria, la critica alla società può diventare un tema musicale». Sia pure lentamente i limiti intransigentemente posti dalle poetiche neoclassiche e dall'estetica idealistica, venivano superati: critici giovani e aperti quali Fedele D'Amico, Massimo Mila e Luigi Rognoni si inserivano autorevolmente, per merito principalmente della Rassegna Musicale, nell'arengo musicologico e pubblicistico con contributi decisivi  per un rinnovamento autentico; musicisti del livello di Luigi Dallapiccola e di Goffredo Petrassi rompevano, sia pure per vie differenti, con il Novecentismo nazionalistico: il primo, sensibile da sempre al filone dell'espressionismo viennese, componeva nel 1940-41 i Canti di Prigionia, esempio mirabile di protest music in cui la forza morale fa tutt'uno con l'inesorabile procedere dell'arcata formale, con la coerenza del linguaggio; il secondo si apriva alla ricerca timbrica con il Magnificat (1939-40), ma soprattutto con il Coro di morti (1940-41) offriva un esempio di drammatico discorso su due piani: da una parte il coro, rievocante moduli di lontana origine monteverdiana, e dall'altra un duro ,aggregato strumentale impegnato a contestarne la possibilità di melos, ad inquietarne il senso.
La lenta frana della cultura d'anteguerra portava inevitabilmente ad un nuovo corso storico, e coloro i quali mostravano di esserne maggiormente sensibilizzati erano, naturalmente, i giovani. La guerra doveva fare il resto. Nel 1952 il Mila annotava: «Il sipario del ventennio tra le due guerre s'era chiuso sopra un'incontrastata convinzione dell'egemonia stravinskiana; si riaprì nel 1946, e Schönberg era là, formidabile competitore a questa egemonia. Dietro a lui non stavano solo due grandi scomparsi, Berg e Webern, ma, soprattutto, in ogni paese, una pleiade di giovani compositori le cui posizioni non erano ancora chiare all'inizio della guerra, e che ora ne emergevano con una fede musicale precisa... E' stata la riscossa della serietà contro il gioco; dell'impegno contro la ponziopilateria; del coraggio di guardare in faccia la realtà del male e del dolore... contro l'elegante evasione nell'ironia››. Dato come punto fermo che la realtà tecnica della dodecafonia è nata dietro la spinta della Weltanschauung espressionista, era però facile prevedere che il nuovo metodo compositivo, allargandosi nel dopoguerra a zone culturali in precedenza rimaste estranee al travaglio evolutivo, avrebbe subìto una sorte di parziale riduzione a fenomeno puramente «tecnico» (sebbene senza smentire un'affermazione di costume). L'evidente reazione al dogmatismo neoclassico non si trasformò in Italia in un'assunzione dell'espressionismo in quanto tale, ma piuttosto dell'organizzazione dodecafonica dello spazio sonoro. Il progressivo estenuarsi della congestione contenutistica coincise con una propagazione della tecnica dei dodici suoni a un livello di storicità sentita come un «fare diverso›› al fine di reperire nuovi mezzi musicali; l'espressività più tesa che ne derivava veniva il più delle volte riportata nell'alveo degli schemi classici e ne conseguiva una sorta di contemperamento di atonalismo e diatonismo. Tanto è vero che non pochi tra i giovani e meno giovani appartenenti alla schiera dodecafonica, avevano aderito in passato, sia pure con intenti personali, ai dettami dell'imperante moda neoclassica: pensiamo in particolare ad Antonio Veretti, a Riccardo Nielsen, a Mario Peragallo (partito addirittura da posizioni veriste), ad Adone Zecchi. Quanto all'esordio di Guido Turchi, affacciatosi al Festival veneziano del 1946 con un Trio, esso era avvenuto all'insegna di una lucida fattura esente da tumulti espressionistici, mentre gli iniziali cimenti dodecafonici del giovanissimo Mario Zafred dovevano rappresentare un momento isolato di ricerca del triestino, transfuga subito dal campo atonale. Ancora ricordiamo come il milanese Bruno Bettinelli, mai allineato in precedenza tra i neoclassici di stretta osservanza, acquisisse pacatamente dalle nuove tendenze quanto poteva vitalizzare il suo scabro e teso linguaggio contrappuntistico. Più vicini alla matrice ideale e insieme ai moduli stilistici dei maestri viennesi, erano invece Roman Vlad, Riccardo Malipiero, Gino Contilli, Camillo Togni, per non parlare di Bruno Maderna, cui è toccato di avviare in Italia l'ultima grossa battaglia avanguardistica, quella del post-webernismo: ma qui siamo già ad un altro discorso, da cui deriva addirittura la più stretta attualità.
Armando Gentilucci
("Rassegna Musicale Curci", anno XX n. 3 settembre 1967)

lunedì, novembre 01, 2021

Una giornata con Scherchen

Gravesano, nel Canton Ticino, è un paesotto semplice e modesto: poche case sparse qua e là, senza caratteristica alcuna. Un oscuro caffeuccio di tipo piuttosto italiano che svizzero occhieggia timidamente su una piazzetta; più in là, le insegne di due o tre minuscoli negozi di commestibili: null'altro. Niente su cui l'occhio possa posarsi con soddisfazione estetica; il paesaggio è grigio e incolore salvo in un punto, lassù, dove ravvivata dal sole, brilla una macchia scarlatta:  la bandiera rossa crociata che sventola su un tetto.
Qui abita, quasi fosse un buon fattore di campagna, il Maestro Hermann Scherchen e noi veniamo da Milano, invitati da lui, per incidere quassù dei dischi. Dopo una scarrozzata di oltre due ore, dopo aver attraversato una frontiera, eccoci dunque alla ricerca di una sala da incisione (nota c famosa grazie al «Gravesaner Blätter» che ne è la cronaca), sala che, in un simile ambiente, con la sola nostra fantasia, senza preciso indirizzo, non sapremmo proprio dove sistemare. Scendiamo dalla macchina e chiediamo a destra e a sinistra ai rari passanti, piuttosto scontrosi, notizie sull'abitazione del Maestro; finalmente, in un gruppo di case che ci indicano di malavoglia, la troviamo. Dobbiamo superare una breve salita e passare di fianco a una grossa vasca rudimentale che, dicono, serve in estate da piscina mentre ha tutta l'aria di essere un abbeveratoio per le mucche, un lavatoio o giù di lì. Lasciata la vasca e fatti pochi passi ancora, eccoci all'ingresso di una veranda sulla quale occhieggia una serie di porte che, presumibilmente, immettono nelle stanze terrene dell'edificio-fattoria: la casa del Maestro.
Al nostro arrivo da quelle stanze esce una nidiata di bimbi biondi di varie età, (tanti piccoli Scherchen!). Appoggiati al muro ci osservano silenziosi con infantile curiosità. Mentre tentiamo di fraternizzare appare il Maestro, vestito alla Campagnola, sorridente e frettoloso il quale, senza preamboli, ci riceve e si introduce nella sala da incisione. E' una bella sala davvero, moderna ricca di apparecchiature tecnico-acustiche di microfoni, di leggii e di tant'altre cose. I pannelli isolanti, dai disegni romboidali, le danno un aspetto fra il magico e il futurista e la luce diffusa aiuta l'immaginazione a creare geometriche visioni.
Ci sistemiamo secondo la sezione degli strumenti, con i soliti riti per la ricerca del posto necessario e, alzati gli occhi, troviamo sul leggio diversi pezzi di musica che, seduta stante, studieremo e registreremo: il nostro lavoro per oggi.
In fondo è la comune prassi delle sedute di incisione alla quale siamo abituati da lunghi anni; unica stranezza e la inconsueta sede e lo stuolo dei bimbi che hanno invaso la sala e che, con occhi sgranati color lapislazzuli e acquamarina, seguono ogni nostro movimento, incantati, fin quando, tutto e tutti a posto, il padre li congeda. Allora, come uno stormo di uccelletti ubbidienti s'involano cincischiando parole in tedesco, italiano, francese e scompaiono al di là della porta. Iniziamo il lavoro. Scherchen ci ha invitati come « gruppo da camera›› per fare dischi "in proprio" nella duplice veste di direttore e produttore: un ciclo pratico e redditizio data la notorietà dell'artista. Il Maestro ci offre un certo compenso e inoltre, durante la pausa di riposo, una abbondante razione di «sandwiches›› con acqua fresca. Trattamento pratico e sano che non mette in pericolo la nostra lucidità mentale né il ritorno automobilistico serale in patria.
Scherchen ha sempre fretta, e non solo nel caso presente nel quale deve egli stesso sborsare un compenso orario. Quando arriva alla Scala per una prova è trafelato; suda come se avesse compiuto il viaggio da Gravesano a Milano a piedi e di corsa, viaggio che invece fa comodamente in automobile, andata e ritorno, poiché non vuole assolutamente trascorrere la notte fuori casa e bisogna andarlo a prendere e riaccompagnarlo di volta in volta. Giunto che sia, sale sul podio e sgrana un affrettato discorsetto di saluto (cos'ha detto? Mah!) e poi si mette al lavoro. Quando si ferma per correggere o spiegare, le sue osservazioni crepitano scalpitanti in un italiano impossibile pronunciato con tale vertiginosa rapidità da mozzare il respiro. E' molto difficile comprendere ciò che dice se non si è fatto l'orecchio e l'abitudine. Non ha ancora finito di parlare che subito riprende la prova, senza lasciare il tempo necessario per la ricerca del punto d'attacco. Metà orchestra ha capito e suona, l'altra metà cerca ancora e tace. Quando poi avrà trovato si unirà in qualche modo agli altri.
Squilibri, inesattezze, errori, non fa nulla purché si vada avanti ché il tempo manca e bisogna leggere leggere
Ciò detto, sembrerebbe impossibile arrivare con questo strano sistema, non certo ortodosso, a una buona e seria esecuzione. E invece assistiamo a questo miracolo: un Concerto diretto da Scherchen, un'opera presentata da lui, sono manifestazioni ammiratissime di indiscutibile valore artistico. Basti ricordare Faust di Busoni, Mosè e Aronne di Schönberg, Nozze di Figaro di Mozart, Macbeth di Verdi, Rienzi di Wagner rappresentati negli ultimi anni alla Scala e i Concerti sinfonici da lui diretti. E allora?
Dal punto di vista orchestrale tentiamo di descrivere come il Maestro costruisca le sue esecuzioni con una tecnica del tutto personale, forse violenta, ma senza dubbio efficace.
Letto il pezzo o il brano musicale da eseguire, corretti alla meglio gli errori, decifrate a rompicollo le note (sempre piuttosto difficili se si tratti di musica moderna o dodecafonica) tracciata per sommi capi la linea architettonica dell'esecuzione, tutto senz'ordine prestabilito e fra una tempesta di parole più o meno comprensibili, Scherchen, con la formidabile energia che sprizza dalla persona atletica con il possente gesto del suo braccio destro, con la mano senza bacchetta stretta talvolta a pugno, si alza, «afferra» l'orchestra (mi si passi l'espressione) e incitandola mentre segna con impeto il tempo, cancella le residue incertezze, annulla gli ultimi squilibri e ottiene un assieme dapprima incolore e un poco rozzo ma tecnicamente corretto, salvo creare poi, con altro gesto e con adeguate intenzioni, l'atmosfera necessaria e le oasi espressive che la musica via via richiede. Così i grandi blocchi e le piccole tessere del mosaico sonoro entrano quasi inavvertitamente nel loro alveo e l'esecuzione, senza alcun dubbio solida e valida, è costruita.
Se i risultati che Scherchen ottiene sono quelli che solitamente ammiriamo dobbiamo convenire che questa tecnica ha i suoi lati buoni e possiamo accettarla, anche se in qualche cosa non siamo d'accordo con lui e per esempio su certi arbitrari ritocchi alla strumentazione originale e sui tagli talvolta eccessivi che sforbiciano qua e là la musica con mutilazioni paurose.
Sono trascorse un paio d'ore: abbiamo inciso tre pezzi di Albinoni: musica di stile, tecnicamente facile. Buona esecuzione, fresca, chiara e fedele. Sarà certamente un disco di successo. Ora siamo in riposo alle prese con i «sandwiches›› e con l'acqua pura. Nella sala ecco irrompere nuovamente i bimbi, accompagnati questa volta da due giovanissimi cinesi, figli che Scherchen ha avuto dalla prima moglie. Meraviglioso antitetico miscuglio di sangue di pelle di occhi di capelli, evidente trionfo dell'antirazzismo! Non riesco a sentire in quale lingua parlano fra loro i due cittadini dell'ex celeste impero, vedo però che sono vestiti con l'inconfondibile giubba grigiastra dei seguaci di Mao. Guardandoli, nella mia mente si fa luce il ricordo improvviso di un lontano episodio: una cena offertami da Scherchen nel 1946 (avevo preparato per lui, che doveva arrivare in ritardo alle prove per un Concerto alla Scala, il Quartetto di Verdi trascritto per tutti gli Archi), cena cui partecipavano, oltre al Maestro, una esotica signora in kimono con la quale non si sapeva come parlare e poi Ada Finzi e Nicolò Carosio. La signora era certamente la madre dei due che, forse dalla Cina, erano venuti a salutare il padre nel cuore dell'Europa.
Siamo in auto, alla frontiera, annoiati per la lunga sosta dovuta alle molte macchine che ci precedono. Penso alla trascorsa giornata di lavoro, ricca di impressioni di avvenimenti di sorprese, di ricordi...
Abbiamo fatto tardi. Il Maestro, nell'entusiasmo creativo, ci ha chiesto un'ora in più dell'orario stabilito e così ora siamo costretti a rientrare col buio. Un agente si affaccia al finestrino e ci rivolge la domanda di rito sull'eventuale contrabbando. No, nulla, non abbiamo nulla. Allora ci avviamo lentamente, a fari accesi, nella scia serpeggiante delle automobili che, a perdita d'occhio, si snodano sulla strada del ritorno.
Questo voleva essere il ricordo di una giornata di lavoro trascorsa con Scherchen, un ricordo scritto quando lui era vivo, vivissimo. Purtroppo ora anch'egli è scomparso. Abbiamo perso un altro direttore di prima grandezza, un altro Maestro che non sarà facile sostituire.
Enrico Mínetti
("Rassegna Musicale Curci", anno XXI n. 3 settembre 1968)