Le parole del celebre aforisma mozartiano di Ferruccio Busoni potrebbero benissimo servire, sebbene con significato e scopo diversi da quelli d'origine, a definire l'espressionismo: corrente di pensiero e d'arte nella quale fin troppo si è voluto vedere la calata nel "regno delle Madri", 1'espressione dell'irrazionale, l'esasperata tensione verso un impossibile e sfuggente "assoluto", anziché la coscienza dei tempi, coscienza e problematica della realtà.
Allorché l'espressionismo della Wiener Schule proiettò nella rovente tensione cromatica del linguaggio, cioè concretamente nel processo di costituzione della forma sonora, la sua carica critica, non dovette essere difficile avvedersi di come i problemi di cultura musicale sul tappeto nei primi decenni del nostro secolo (e poi ancora oltre), non fossero esclusivamente di natura "artistica" (almeno nel senso limitativo che tale termine sembra assumere nel parlare corrente), ma coinvolgessero l'individuazione di una crisi esistenziale che fatalmente approdava, nei suoi esiti estremi, alla visione di una notturna solitudine, a un doloroso e struggente senso di straniamento nei confronti dell'organizzazione della vita sociale. Nei paesi germanici il movimento che fa capo ad Arnold Schönberg venne quasi subito messo in relazione con l'ideologia contestataria ed eversiva, e malgrado l'avversione dell'apparato dirigente culminante nelle persecuzioni naziste, esercitò un richiamo anticonformista e innovatore; tra i più pronti e giovani aderenti alle istanze dell'espressionismo furono Ernst Krenek, che nel 1927 si era stabilito a Vienna entrando in contatto con la scuola schönberghiana; il musicologo e compositore Egon Wellesz, Wladimir Vogel (soprattutto nelle opere composte dopo il '37); per tacere di K. Weill e del suo particolarissimo mondo linguistico, parzialmente ascrivibile ad una visione espressionistica. Tutti questi compositori, sia pure in misura difforme, proponevano una sorta di modificazione contestuale operata dall'uomo di fronte a una realtà incerta, avvertita come falsa e falsificante.
In Italia l'atteggiamento di musicisti e critici, prima del secondo dopoguerra, fu di rifiuto netto delle istanze eversive sul piano linguistico, e per lo più i motivi di siffatta chiusura furono addotti sulla base dell'enunciazione di un vitalismo mediterraneo estraneo a radicali pessimismi, col conseguente rifiuto di vedere una condizione umana, storicamente determinata, comune a tutta la cultura europea; il processo di trasformazione del linguaggio sonoro, incentrato sul culto modernista della tecnica e dell'attivismo motorio, veniva ad essere «prevaricato dall'ideologia che esautorava nella musica la problematica linguistica, avvilendola nell'agnosticismo per il quale è magari richiesto l'alibi crociano››. Il «modernismo›› fu perciò sinonimo, nell'Italia tra le due guerre, di neo-modalismo, poli-diatonismo, ripristino delle forme proto-barocche e barocche opportunamente vitalizzate da un moderato apporto dissonante, monumentalità costruttiva, affermazione di superbi privilegi etnici.
Nel 1913 Carlo Somigli aveva mosso le acque con un saggio, apparso sull'autorevole Rivista Musicale Italiana, favorevole all'espressionismo tedesco, e Ildebrando Pizzetti aveva immediatamente avvertito l'urgenza di rintuzzare l'impressione positiva determinata dallo scritto del Somigli con un intervento polemico e stroncatorio compreso nel libro Intermezzi critici. Dunque il dibattito sull'atonalismo negli anni immediatamente precedenti la prima guerra era già aperto anche da noi, anche se pochi si sentivano di affrontare compiutamente un argomento cosi nuovo, scottante e in divenire. Bisognerà attendere il 1923 per registrare sul fronte della pubblicistica musicale italiana un nuovo contributo che vada oltre la semplice recensione, e precisamente l'articolo di Attilio Cimbro sulla Atonalità, impostato con serietà obiettiva anche se di contenuto critico non eccezionale; il Cimbro coglieva un aspetto saliente del nuovo linguaggio, e cioè il rifiuto di una convergenza di tutto il discorso musicale e dei nessi linguistici verso un unico centro di attrazione tonale, con relativa sospensione (totale o parziale, questo è da vedersi volta per volta a contatto con le singole opere), del succedersi regolare di tensione e di riposo. Il linguaggio atonale perseguito dagli espressionisti era visto esattamente come superamento della sensibilità classica rispondente alla sostanza viva del tematismo, come ultimo anello di quella tendenza, avviata dai romantici, volta alla mobilità e all'irrequietezza, fino a rompere poco alla volta gli argini della tonalità, "apparentemente per ampliarla, ma in realtà per liberarsene e uscirne". Questa acuta annotazione avrebbe dovuto indurre il Cimbro ad affrontare il problema delle ragioni di così radicale e progressivo straniamento linguistico, e anziché insistere sull'evoluzione astrattamente «biologica» del materiale sonoro e delle sue forme, a registrare quel «dramma del linguaggio invaso dal non-linguaggio» di cui Fedele D'Amico ha riferito da par suo. Nel 1924, tramite l'attivismo in questo senso meritorio di Alfredo Casella, il mondo musicale italiano ebbe modo di avvicinare un'opera fondamentale dell'espressionismo schönberghiano: il Pierrot lunaire. La benemerita rivista Il Pianoforte confermò il tempismo e la sensibilità culturale all'insegna del quale i suoi dirigenti e redattori svolgevano la loro missione, proponendo ai lettori un articolo di presentazione del Píerrot, appunto come introduzione all'ascolto in occasione di varie esecuzioni annunciate in importanti città italiane. L'autore dell'articolo, Erwin Stein, allievo del compositore viennese e profondo conoscitore della sua opera, non andava per la verità molto oltre la semplice descrizione del pezzo in rapporto ai testi poetici di Albert Giraud.
Le cronache delle varie esecuzioni italiane del Pierrot sono tumultuose: a Torino il pubblico si divertì, durante l'esecuzione, a imitare i numerosi «glissandi›› della voce; a Napoli le acclamazioni dei musicisti «progressisti›› scatenarono, nella seconda parte, una violenta reazione di segno contrario; a Firenze, come ricorda Luigi Dallapiccola, «gli studenti del Conservatorio esibivano, con latina gaiezza, il regolamentare fischietto prima che l'esecuzione avesse inizio: il pubblico dal canto suo, scalpitò, tumultuò, rise. Ma Giacomo Puccini, quella sera, non rideva. Ascoltava l'esecuzione con attenzione estrema, seguendo il testo sulla partitura, e, alla fine del concerto, volle essere presentato a Schönberg››. I giudizi critici si mossero in un tono di cautela, ma furono piuttosto scettici e finirono per riflettere un generalizzato malumore; si parlò con rispetto del musicista austriaco, ma forti dubbi furono sollevati sulla validità dello «sprechstimme›› espressionista, che veniva a scuotere e a problematizzare una nozione di «vocalità›› affidata al canto spiegato e alla vitalizzazione del «melos››, e sul cromatismo atonale, che disorientava ascoltatori abituati a cullarsi in una più o meno casta diatonicità. Il Cimbro, in una cronaca da Torino, si occupò nuovamente di Schönberg in occasione dell'ascolto del Pierrot lunaire, e ne rilevò ancora i legami con il più tormentato romanticismo facendo esplicito riferimento al particolarissimo melos schönberghiano, in fondo al quale esisteva, secondo il critico, «un non so che di dolciume, che accusava vecchio sangue romantico tedesco nelle vene››.
D'altronde le voci che si levavano a difendere Schönberg e l'atonalismo, difficilmente coglievano, di questo movimento, le radici profonde, e piuttosto prevaleva l'idea astratta di «stile» particolare, di pura novità sintattico-sonora, di un'esperienza puramente immaginativa. L'ambiente culturale italiano, attestato sulla piattaforma estetica del più rigoroso e intransigente idealismo, era poco disposto a mettere in relazione l'evoluzione del linguaggio cromatico e la conseguente rottura degli schemi tradizionali legati alla dialettica formale dei nuclei tonali, con la comparsa delle più dense ombre esistenziali caratterizzanti il loro (e nostro) tempo. Sul piano della pura invenzione artistica, invece, c'era qualcuno disposto a fare delle concessioni fuori del gusto imperante; il giovane compositore e critico Renzo Massarani, ad esempio, riferendo sul Festival Internazionale di Praga del 1924, scriveva addirittura, dopo aver ascoltato il monodramma schönberghiano L'Attesa: «si potrà essere lontani da quest'arte disperata e forse senza via d'uscita neanche per il suo autore, ma non si potrà ascoltarlo indifferenti, né si potrà non riconoscere la genialità di Arnold Schönberg; aver saputo concepire L'Attesa nel 1908 è poi un miracolo forse senza pari in tutta la storia della musica». Anche se non mancava, a chiusura di articolo, l'azzardo di una previsione: quella, cioè, che sarebbe stata l'altra via a prevalere, la via orientata verso la «musica per la musica››, senza programmi, fatta di semplicità e chiarezza, brevità e concisione, di armonie piane e diatoniche, di strumentazioni leggere e brillanti.
La contrapposizione astratta di diatonismo e cromatismo e il dibattito sull'atonalismo (più ancora che sull'espressionismo quale corrente di pensiero) dettero luogo a polemiche continue: famoso è il saggio di Guido Pannain, nel quale Schönberg, «musicista tormentato e tormentatore», veniva rifiutato sulla scorta del più intransigente metro di «poesia e non poesia» in quanto ingegno astratto e impegnato in un'ulcerata esperienza senza approdo («E' un ruminare che non diventa mai nutrizione. Schönberg, giovane, è un musicista d'una finezza e d'una sensibilità stranamente prodigiose. Ma resta sempre allo, stesso posto. E' un puledro che non riesce a trasformare in galoppo il suo scalpitare››. E ancora, sul Pierrot lanaire: «Ne vien fuori un senso di millanteria fantasiosa; la più vuota delle ingegnosità e la più ingegnosa delle pedanterie; il paradosso provocante e tagliente; la visione immaginativa di un lunatico››; e infine: «Schönberg è tutto tecnica armonica. Tutte le sue attività egli polarizza in quella specie di scommessa che è la distruzione della tonica. Perviene, quindi, ad una mobilità di piani tonali che fa venire il capogiro. Una formidabile costruzione alla quale manca il glutine lirico perché manca una personalità storicamente determinata››).
Nel 1935 la Rassegna Musicale ospitò un intervento di Herbert Fleischer nel quale, a dispetto delle idee circolanti allora in Italia, veniva posto in luce un aspetto fondamentale della poetica espressionista, sintetizzabile con la frase hegeliana non a caso apposta da Adorno, a modo di epigrafe, all'inizio della sua Filosofia della musica moderna: «Poiché nell'arte non abbiamo a che fare con un gioco meramente piacevole e utile, ma con un dispiegarsi della verità». La «bellezza», secondo la conseguente tesi esposta da Fleischer, deve essere il risultato, ma ciò che l'artista è portato sempre a cercare coscientemente e a comunicare e qualcosa d'altro, è uno slancio di verità, un impulso dell'uomo a rappresentarsi, una confessione cui non si può rifiutare a priori il ricorso ad alcun «medium» e cui non si può mettere la palla al piede della malintesa «tradizione››.
D'altronde argomenti non sempre «innocenti» si affiancavano a quelli della pura critica idealistica nell'opporre una decisa resistenza al propagarsi del clima morale, prima ancora che musicale, mutuato dalla denuncia espressionista: essi battevano, naturalmente, il tamburo dell'autarchia nazionalistica e appunto perciò la congestione contenutistica dell'espressionismo, con le sue acutizzate fratture formali in funzione di stravolte allegorie di più profonde lacerazioni umane, non potevano che apparire all'opposto di quel costruttivismo massiccio e ostentatamente ottimistico postulato dall'ideologia fascista. Non a caso Alfredo Casella, in un articolo nel quale pure polemizzava molto opportunamente contro una apologetica superficiale, proclamava poi però la necessità di un'arte che portasse le impronte dell'epoca «di ferro e di eroismo››, salutando con favore la tendenza dei giovani musicisti italiani ad abbandonare le forme brevi, venendo alla conclusione che da tutti era sentita la vocazione per un'arte grandiosa, monumentale. Ma la parte più importante dello scritto caselliano viene dopo: «e se negli ultimi vent'anni l'Italia non ha concesso che un'attenzione relativa al fenomeno tanto importante dell'atonalità schönberghiana, questo fenomeno non deve essere interpretato come prova di reazione, ma come logico risultato del profondo, incrollabile attaccamento del nostro popolo al senso tonale. Basta confrontare l'evoluzione di Verdi con quella di Wagner per constatare immediatamente che il cromatismo tedesco non è stato assorbito affatto - o per lo meno in misura limitata - dalla musica italiana, e che per conseguenza questa doveva di necessità seguire un giorno un cammino completamente divergente da quello dei musicisti dell'Europa centrale››. In effetti i compositori italiani si tenevano a notevole distanza dal torrido e dilaniato clima dell'espressionismo; solo Gian Francesco Malipiero era addivenuto, dall'iniziale arcaismo, ad uno stile fatto di introspettiva cupezza, di una grigia e quasi «svagata» malinconia emergente dall'ambiguo modo di trattare un materiale cui pure non mancava il contrassegno di fedeltà al diatonismo. Quanto alla circolazione di musiche della scuola di Vienna, essa era limitata alquanto, tanto che per sei anni di seguito il Festival di Venezia, nato per informare sulle più recenti ricerche dell'avanguardia, aveva ignorato Schönberg; né sorte molto migliore era riservata ad Alban Berg e Anton Webern. Un capolavoro come l'opera teatrale Wozzeck, composta da Berg nel 1922 e rappresentata alla Staatsoper di Berlino nel '25, dovrà attendere il '42 prima di venire presentato in Italia (a Roma), e l'atteggiamento dei compositori e musicisti italiani sarà, generalmente, di incomprensione.
Naturalmente anche in Italia voci controcorrente si alzavano per rivendicare una diversa linea di condotta e soprattutto un diverso atteggiamento critico: Alberto Mantelli, nel '36, pubblicava delle eccellenti note su Alban Berg in cui veniva rilevata la configurazione polemica dell'espressionismo, nel cui «aspetto negativo si delinea il valore, il rilievo e la funzione dell'atonalismo››. Ma già l'anno prima il Ballo aveva scritto coraggiosamente che «la polemica dell'arte moderna è quindi, nel suo carattere più praticamente evidente, una lotta di contenuti... i pittori dipingono gli ambienti della loro estrema miseria, la critica alla società può diventare un tema musicale». Sia pure lentamente i limiti intransigentemente posti dalle poetiche neoclassiche e dall'estetica idealistica, venivano superati: critici giovani e aperti quali Fedele D'Amico, Massimo Mila e Luigi Rognoni si inserivano autorevolmente, per merito principalmente della Rassegna Musicale, nell'arengo musicologico e pubblicistico con contributi decisivi per un rinnovamento autentico; musicisti del livello di Luigi Dallapiccola e di Goffredo Petrassi rompevano, sia pure per vie differenti, con il Novecentismo nazionalistico: il primo, sensibile da sempre al filone dell'espressionismo viennese, componeva nel 1940-41 i Canti di Prigionia, esempio mirabile di protest music in cui la forza morale fa tutt'uno con l'inesorabile procedere dell'arcata formale, con la coerenza del linguaggio; il secondo si apriva alla ricerca timbrica con il Magnificat (1939-40), ma soprattutto con il Coro di morti (1940-41) offriva un esempio di drammatico discorso su due piani: da una parte il coro, rievocante moduli di lontana origine monteverdiana, e dall'altra un duro ,aggregato strumentale impegnato a contestarne la possibilità di melos, ad inquietarne il senso.
La lenta frana della cultura d'anteguerra portava inevitabilmente ad un nuovo corso storico, e coloro i quali mostravano di esserne maggiormente sensibilizzati erano, naturalmente, i giovani. La guerra doveva fare il resto. Nel 1952 il Mila annotava: «Il sipario del ventennio tra le due guerre s'era chiuso sopra un'incontrastata convinzione dell'egemonia stravinskiana; si riaprì nel 1946, e Schönberg era là, formidabile competitore a questa egemonia. Dietro a lui non stavano solo due grandi scomparsi, Berg e Webern, ma, soprattutto, in ogni paese, una pleiade di giovani compositori le cui posizioni non erano ancora chiare all'inizio della guerra, e che ora ne emergevano con una fede musicale precisa... E' stata la riscossa della serietà contro il gioco; dell'impegno contro la ponziopilateria; del coraggio di guardare in faccia la realtà del male e del dolore... contro l'elegante evasione nell'ironia››. Dato come punto fermo che la realtà tecnica della dodecafonia è nata dietro la spinta della Weltanschauung espressionista, era però facile prevedere che il nuovo metodo compositivo, allargandosi nel dopoguerra a zone culturali in precedenza rimaste estranee al travaglio evolutivo, avrebbe subìto una sorte di parziale riduzione a fenomeno puramente «tecnico» (sebbene senza smentire un'affermazione di costume). L'evidente reazione al dogmatismo neoclassico non si trasformò in Italia in un'assunzione dell'espressionismo in quanto tale, ma piuttosto dell'organizzazione dodecafonica dello spazio sonoro. Il progressivo estenuarsi della congestione contenutistica coincise con una propagazione della tecnica dei dodici suoni a un livello di storicità sentita come un «fare diverso›› al fine di reperire nuovi mezzi musicali; l'espressività più tesa che ne derivava veniva il più delle volte riportata nell'alveo degli schemi classici e ne conseguiva una sorta di contemperamento di atonalismo e diatonismo. Tanto è vero che non pochi tra i giovani e meno giovani appartenenti alla schiera dodecafonica, avevano aderito in passato, sia pure con intenti personali, ai dettami dell'imperante moda neoclassica: pensiamo in particolare ad Antonio Veretti, a Riccardo Nielsen, a Mario Peragallo (partito addirittura da posizioni veriste), ad Adone Zecchi. Quanto all'esordio di Guido Turchi, affacciatosi al Festival veneziano del 1946 con un Trio, esso era avvenuto all'insegna di una lucida fattura esente da tumulti espressionistici, mentre gli iniziali cimenti dodecafonici del giovanissimo Mario Zafred dovevano rappresentare un momento isolato di ricerca del triestino, transfuga subito dal campo atonale. Ancora ricordiamo come il milanese Bruno Bettinelli, mai allineato in precedenza tra i neoclassici di stretta osservanza, acquisisse pacatamente dalle nuove tendenze quanto poteva vitalizzare il suo scabro e teso linguaggio contrappuntistico. Più vicini alla matrice ideale e insieme ai moduli stilistici dei maestri viennesi, erano invece Roman Vlad, Riccardo Malipiero, Gino Contilli, Camillo Togni, per non parlare di Bruno Maderna, cui è toccato di avviare in Italia l'ultima grossa battaglia avanguardistica, quella del post-webernismo: ma qui siamo già ad un altro discorso, da cui deriva addirittura la più stretta attualità.
Armando Gentilucci
("Rassegna Musicale Curci", anno XX n. 3 settembre 1967)
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