Gravesano, nel Canton Ticino, è un paesotto semplice e modesto: poche case sparse qua e là, senza caratteristica alcuna. Un oscuro caffeuccio di tipo piuttosto italiano che svizzero occhieggia timidamente su una piazzetta; più in là, le insegne di due o tre minuscoli negozi di commestibili: null'altro. Niente su cui l'occhio possa posarsi con soddisfazione estetica; il paesaggio è grigio e incolore salvo in un punto, lassù, dove ravvivata dal sole, brilla una macchia scarlatta: la bandiera rossa crociata che sventola su un tetto.
Qui abita, quasi fosse un buon fattore di campagna, il Maestro Hermann Scherchen e noi veniamo da Milano, invitati da lui, per incidere quassù dei dischi. Dopo una scarrozzata di oltre due ore, dopo aver attraversato una frontiera, eccoci dunque alla ricerca di una sala da incisione (nota c famosa grazie al «Gravesaner Blätter» che ne è la cronaca), sala che, in un simile ambiente, con la sola nostra fantasia, senza preciso indirizzo, non sapremmo proprio dove sistemare. Scendiamo dalla macchina e chiediamo a destra e a sinistra ai rari passanti, piuttosto scontrosi, notizie sull'abitazione del Maestro; finalmente, in un gruppo di case che ci indicano di malavoglia, la troviamo. Dobbiamo superare una breve salita e passare di fianco a una grossa vasca rudimentale che, dicono, serve in estate da piscina mentre ha tutta l'aria di essere un abbeveratoio per le mucche, un lavatoio o giù di lì. Lasciata la vasca e fatti pochi passi ancora, eccoci all'ingresso di una veranda sulla quale occhieggia una serie di porte che, presumibilmente, immettono nelle stanze terrene dell'edificio-fattoria: la casa del Maestro.
Al nostro arrivo da quelle stanze esce una nidiata di bimbi biondi di varie età, (tanti piccoli Scherchen!). Appoggiati al muro ci osservano silenziosi con infantile curiosità. Mentre tentiamo di fraternizzare appare il Maestro, vestito alla Campagnola, sorridente e frettoloso il quale, senza preamboli, ci riceve e si introduce nella sala da incisione. E' una bella sala davvero, moderna ricca di apparecchiature tecnico-acustiche di microfoni, di leggii e di tant'altre cose. I pannelli isolanti, dai disegni romboidali, le danno un aspetto fra il magico e il futurista e la luce diffusa aiuta l'immaginazione a creare geometriche visioni.
Ci sistemiamo secondo la sezione degli strumenti, con i soliti riti per la ricerca del posto necessario e, alzati gli occhi, troviamo sul leggio diversi pezzi di musica che, seduta stante, studieremo e registreremo: il nostro lavoro per oggi.
In fondo è la comune prassi delle sedute di incisione alla quale siamo abituati da lunghi anni; unica stranezza e la inconsueta sede e lo stuolo dei bimbi che hanno invaso la sala e che, con occhi sgranati color lapislazzuli e acquamarina, seguono ogni nostro movimento, incantati, fin quando, tutto e tutti a posto, il padre li congeda. Allora, come uno stormo di uccelletti ubbidienti s'involano cincischiando parole in tedesco, italiano, francese e scompaiono al di là della porta. Iniziamo il lavoro. Scherchen ci ha invitati come « gruppo da camera›› per fare dischi "in proprio" nella duplice veste di direttore e produttore: un ciclo pratico e redditizio data la notorietà dell'artista. Il Maestro ci offre un certo compenso e inoltre, durante la pausa di riposo, una abbondante razione di «sandwiches›› con acqua fresca. Trattamento pratico e sano che non mette in pericolo la nostra lucidità mentale né il ritorno automobilistico serale in patria.
Scherchen ha sempre fretta, e non solo nel caso presente nel quale deve egli stesso sborsare un compenso orario. Quando arriva alla Scala per una prova è trafelato; suda come se avesse compiuto il viaggio da Gravesano a Milano a piedi e di corsa, viaggio che invece fa comodamente in automobile, andata e ritorno, poiché non vuole assolutamente trascorrere la notte fuori casa e bisogna andarlo a prendere e riaccompagnarlo di volta in volta. Giunto che sia, sale sul podio e sgrana un affrettato discorsetto di saluto (cos'ha detto? Mah!) e poi si mette al lavoro. Quando si ferma per correggere o spiegare, le sue osservazioni crepitano scalpitanti in un italiano impossibile pronunciato con tale vertiginosa rapidità da mozzare il respiro. E' molto difficile comprendere ciò che dice se non si è fatto l'orecchio e l'abitudine. Non ha ancora finito di parlare che subito riprende la prova, senza lasciare il tempo necessario per la ricerca del punto d'attacco. Metà orchestra ha capito e suona, l'altra metà cerca ancora e tace. Quando poi avrà trovato si unirà in qualche modo agli altri.
Squilibri, inesattezze, errori, non fa nulla purché si vada avanti ché il tempo manca e bisogna leggere leggere
Ciò detto, sembrerebbe impossibile arrivare con questo strano sistema, non certo ortodosso, a una buona e seria esecuzione. E invece assistiamo a questo miracolo: un Concerto diretto da Scherchen, un'opera presentata da lui, sono manifestazioni ammiratissime di indiscutibile valore artistico. Basti ricordare Faust di Busoni, Mosè e Aronne di Schönberg, Nozze di Figaro di Mozart, Macbeth di Verdi, Rienzi di Wagner rappresentati negli ultimi anni alla Scala e i Concerti sinfonici da lui diretti. E allora?
Dal punto di vista orchestrale tentiamo di descrivere come il Maestro costruisca le sue esecuzioni con una tecnica del tutto personale, forse violenta, ma senza dubbio efficace.
Letto il pezzo o il brano musicale da eseguire, corretti alla meglio gli errori, decifrate a rompicollo le note (sempre piuttosto difficili se si tratti di musica moderna o dodecafonica) tracciata per sommi capi la linea architettonica dell'esecuzione, tutto senz'ordine prestabilito e fra una tempesta di parole più o meno comprensibili, Scherchen, con la formidabile energia che sprizza dalla persona atletica con il possente gesto del suo braccio destro, con la mano senza bacchetta stretta talvolta a pugno, si alza, «afferra» l'orchestra (mi si passi l'espressione) e incitandola mentre segna con impeto il tempo, cancella le residue incertezze, annulla gli ultimi squilibri e ottiene un assieme dapprima incolore e un poco rozzo ma tecnicamente corretto, salvo creare poi, con altro gesto e con adeguate intenzioni, l'atmosfera necessaria e le oasi espressive che la musica via via richiede. Così i grandi blocchi e le piccole tessere del mosaico sonoro entrano quasi inavvertitamente nel loro alveo e l'esecuzione, senza alcun dubbio solida e valida, è costruita.
Se i risultati che Scherchen ottiene sono quelli che solitamente ammiriamo dobbiamo convenire che questa tecnica ha i suoi lati buoni e possiamo accettarla, anche se in qualche cosa non siamo d'accordo con lui e per esempio su certi arbitrari ritocchi alla strumentazione originale e sui tagli talvolta eccessivi che sforbiciano qua e là la musica con mutilazioni paurose.
Sono trascorse un paio d'ore: abbiamo inciso tre pezzi di Albinoni: musica di stile, tecnicamente facile. Buona esecuzione, fresca, chiara e fedele. Sarà certamente un disco di successo. Ora siamo in riposo alle prese con i «sandwiches›› e con l'acqua pura. Nella sala ecco irrompere nuovamente i bimbi, accompagnati questa volta da due giovanissimi cinesi, figli che Scherchen ha avuto dalla prima moglie. Meraviglioso antitetico miscuglio di sangue di pelle di occhi di capelli, evidente trionfo dell'antirazzismo! Non riesco a sentire in quale lingua parlano fra loro i due cittadini dell'ex celeste impero, vedo però che sono vestiti con l'inconfondibile giubba grigiastra dei seguaci di Mao. Guardandoli, nella mia mente si fa luce il ricordo improvviso di un lontano episodio: una cena offertami da Scherchen nel 1946 (avevo preparato per lui, che doveva arrivare in ritardo alle prove per un Concerto alla Scala, il Quartetto di Verdi trascritto per tutti gli Archi), cena cui partecipavano, oltre al Maestro, una esotica signora in kimono con la quale non si sapeva come parlare e poi Ada Finzi e Nicolò Carosio. La signora era certamente la madre dei due che, forse dalla Cina, erano venuti a salutare il padre nel cuore dell'Europa.
Siamo in auto, alla frontiera, annoiati per la lunga sosta dovuta alle molte macchine che ci precedono. Penso alla trascorsa giornata di lavoro, ricca di impressioni di avvenimenti di sorprese, di ricordi...
Abbiamo fatto tardi. Il Maestro, nell'entusiasmo creativo, ci ha chiesto un'ora in più dell'orario stabilito e così ora siamo costretti a rientrare col buio. Un agente si affaccia al finestrino e ci rivolge la domanda di rito sull'eventuale contrabbando. No, nulla, non abbiamo nulla. Allora ci avviamo lentamente, a fari accesi, nella scia serpeggiante delle automobili che, a perdita d'occhio, si snodano sulla strada del ritorno.
Questo voleva essere il ricordo di una giornata di lavoro trascorsa con Scherchen, un ricordo scritto quando lui era vivo, vivissimo. Purtroppo ora anch'egli è scomparso. Abbiamo perso un altro direttore di prima grandezza, un altro Maestro che non sarà facile sostituire.
Enrico Mínetti
("Rassegna Musicale Curci", anno XXI n. 3 settembre 1968)
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