Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, aprile 24, 2010

Olivier Messian: il ritmo lento...

Centenario della nascita di Olivier Messiaen, il 10 dicembre: libri, concerti, siti, documentano la sua sfida spirituale ai confini del pensiero musicale occidentale.

Il centenario della nascita sta dimostrando quanto la musica di Olivier Messiaen (Avignone 10 dicembre 1908 - Clichy 27 aprile 1992) sia amata nel mondo e dimostra anche, purtroppo, un certo ritardo che c'è qui da noi, almeno sotto il profilo delle occasioni,di "musica viva'. Esce in questi giorni l'importante traduzione italiana (a cura di Francesco Cilluffo e Daniele Torelli) di un cospicuo volume di saggi (Olivier Messiaen dai canyons alle stelle; edizione originale Faber & Faber The Messiaen Companion, 1995) che contribuirà senz'altro, almeno musicologicamente, a colmare la grave lacuna grazie all'impegno del Festival MITO-Settembre Musica e al Saggiatore nella cui collana, "La cultura" (642), il libro viene pubblicato. Il pianista e musicologo inglese Peter Hill, che ha conosciuto e studiato sia con Messiaen che con la sua seconda moglie Yvonne Loriod (celebre interprete dell'opera pianistica del compositore), è curatore attento di questo tributo al poliedrico artista francese.
Messiaen si è conquistato un certo rispetto come maestro di Boulez, Xenakis, Stockhausen, Kurtag, tanto per citare solo alcuni nomi che costituiscono il "biglietto da visita" con cui egli si presenta alla contemporaneità, ma in compenso ha ricevuto anche molte facili etichette tra loro di segno contrario (come "primitivismo" e contemporaneamente "integralismo costruttivista") che ne adombrano la reale e complessa dimensione poetica ed estetica che si collega alla tradizione classica sviluppandone le premesse principali: l'autonomia del linguaggio musicale dalle altre arti (ciò che non esclude, in Messiaen, la loro riapparizione dall'interno della musica), l'utopia della musica come sistema di segni atto alla comunicazione universale. Per ciò Messiaen accetta nel suo secolo la sfida del paradosso e delle apparenti contraddizioni coniugando una certa qual sfiducia nella scienza - incapace a detta del compositore di vincere "l'incertitude" dell'uomo contemporaneo - con un estremo tentativo di razionalizzazione del metodo compositivo. Per un allargamento del sistema musicale occidentale egli concepisce una singolare formulazione teorica basata sul disvelamento dei limiti del sistema, rintracciando gli elementi primi, dotati, come egli dice, di "charme des impossibilités", accostabili ad altri elementi derivati dalle culture extracuropee (India, Giappone, America precolombiana).
Nel 1944 Messiaen espone nel libro-pamphlet Technique de mon langage musical proprio articolato ed eversivo progetto compositivo: "Noi non rifiuteremo le vecchie regole dell'armonia.
e della forma: ricordiamocene costantemente sia per osservarle, sia per ampliarle, sia per aggiungeme delle altre più antiche ancora (quelle del canto piano gregoriano e della ritmica Indù) o più recenti (quelle suggerite da Debussy e dalla musica contemporanea). Un punto fisserà la nostra attenzione, il fascino delle impossibilità. E' una musica carica di choc che noi cerchiamo dando all'udito dei piaceri voluttuosamente raffinati. [...] modi che non si possono trasportare al di là di un certo numero di trasposizioni poiché si ricade sempre sulle medesime note, i ritmi che non si possono retrogradare poiché ci si ritrova sempre nel medesimo ordine di valori: ecco due impossibilità decisive. [...] Pensiamo all'ascoltatore [...] egli sentirà suo malgrado il fascino strano dell'impossibilità: un certo effetto di ubiquità tonale nella non trasposizione, una certa unità di movimento (dove l'inizio e la fine si confondono perché identici) nella non retrogradabilità dei ritmi, cose che lo condurranno tutte progressivamente a quella sorta di arcobaleno teologico che vuole essere il linguaggio di cui cerchiamo edificazione e teoria".
L'ordine totale in cui Messiaen dispone il proprio universo creativo ignora non solo i confini delle diverse culture, ma anche quelli delle diverse arti: scrive quasi tutti i testi poetici delle sue opere vocali, professa la sinestesia e una sua particolare specie di ornitologia culminante nei sette libri del Catatogue d'oiseaux per pianoforte pubblicati tra il 1956 e il 1958.
Nei Poèmes pour Mi (scritti in due versioni: nel 1936 per soprano e pianoforte, nel 1937 per soprano e. orchestra) Messiaen esercita già ampiamente la sua sensibilità poetica ai valori fonici della parola per dipingere con chiare ascendenze simboliste e surrealiste, l'aura rituale e magica di quadri di vita quotidiana famigliari ispirati dalla figura ferriminile (Mi, è il confidenziale soprannome della prima moglie del compositore, Claire Delbos).
A partire dal 1940 Messiaen muove passi decisivi verso la radicalizzazione dei suoi, principali assunti tecnici, estetici e poetico-filosofici, per sette anni, durante la guerra, è prigioniero nel campo nazista di Görlitz in Slesia dove scrive il Quatuor pour la fin du temps ispirandosi all'Apocalisse; durante la tragica malattia della moglie Claire, che penosamente si protrarrà fino alla morte nel 1959, compone una trilogia profana che dà uno speciale rilievo al tema profano di Amore e Morte e che per molti aspetti si può considerare come una straniante parodia del Tristan wagneriano. In ordine di tempo, viene per prima alla luce una composizione intitolata Harawi (1945) per voce di soprano e pianoforte che funziona chiaramente come atto introduttivo all'intera trilogia. E vengono poi Turangalila symphonie (1948) per grande orchestra, forse l'opera più celebre di Messiaen, e infine i Cinq rechants per 12 voci a cappella (1948). In tutte e tre il mito wagneriano è trattato come un archetipo che prescinde dalle origini storiche del modello. E il principio di straniamento, cui alludevo, deriva dalla sovrapposizione, apparentemente del tutto arbitraria, di leggende proprie delle culture americane pre-colombiane, in particolare quelle che costituiscono il repertorio della antica tradizione peruviana del canto Yaravì (la parola harawi, usata da Messiaen, è approssimativa traslitterazione di un vocabolo quechua). In questa tradizione il tema dell'amore e della morte è presente, ma insieme all'espressione di altri dolorosi sentimenti quali il sacrificio della nazione Inca e di popoli impotenti di fronte al genocidio e all'estinzione della propria cultura: Messiaen riapre dunque il mito a tutto un sistema di sottili interferenze riferite a circostanze biografiche e storiche vissute (la guerra, la prigionia, la malattia della moglie): tanto in Harawi che nei Cinq rechants, Messiaen sperimenta una diversa funzionalità dei testi di poesia che ora non recano più solo l'impronta surrealista, ma nella stessa loro struttura fonosimbolica l'intuizione-invenzione dell'iminagine di un linguaggio oscillante tra le categorie del preverbale e del verbale-primordiale. Così anche la parola diviene per minime strutture veicolo della stessa utopia della musica: dar forma ad un livello di comunicazione universale anche a costo della rinuncia ad un'implicazione semantica, logica, immediatamente decrittabile e precisamente definita delle parole. Nel sesto canto di Harawi - per fare solo un piccolo esempio di come Messiaen prefiguri un bisogno drammaticamente avvertito; nella poesia del Novecento che si intitola Répétition planetaire, la voce ripete a lungo un misterioso richiamo di tre sole sillabe apparentemente senza senso ("Mapa-nama-lila" ma innanzitutto, a ben vedere, oggi possiamo verificame la perfetta congruenza con i sistemi di opposizione consonantica descritti, nella linguistica di Jakobson come prime manifestazioni nella fase delle lallazioni infantili. In secondo luogo però è vero che in queste catene di suoni Messiaen ha certamente occultato anche un significato sillabico esoterico ("mapa-nama" in quechua rimanda all'idea -di sepoltura e/o "essere ricoperto di terra", "lila" in sanscrito a quello di "movimento" o "gioco divino" di Shiva).
Al tema della trilogia tristanica si rifanno ancora le parole del compositore che aprono il libro dell'Hommage pubblicato a Parigi per i suoi settant'anni (1978): "Le ricerche scientifiche, le prove matematiche, le esperienze biologiche accumulatesi, non ci hanno salvato dall'incertezza. Al contrario, esse hanno aumentato la nostra ignoranza, mostrando sempre nuove realtà sotto ciò che si credeva essere la realtà. Infatti la sola realtà è di altro ordine: si situa nel dominio della Fede. E' attraverso l'incontro con l'altro che noi possiamo comprenderla. Ma bisogna passare per la morte e la Resurrezione, ciò che, implica un salto al di fuori del tempo cui stranamente la musica può prepararci come immagine, come riflesso, come simbolo. Infatti la musica è un dialogo perpetuo tra lo spazio e il tempo, tra il suono e il colore, dialogo che tende ad un'unificazione: il tempo è uno spazio, il suono è un colore, lo spazio è un complesso di tempi. sovrapposti, i complessi di suoni esistono simultaneamente come complessi di colore.
Nella bella raccolta del Saggiatore c'è appunto un articolo intitolato semplicemente "Colore" del fine musicologo americano Jonathan W. Bernard: "Sarebbe un grave errore - egli scrive - per chiunque sia interessato alla musica di Messiaen, accantonare subito l'idea del colore come attributo del suono come se fosse semplicemente un'illusione del compositore o una prova del suo carattere eccentrico". La sinestesia in Messiaen non è meramente riferita alle tonalità, come in Skrjabin, ma precisamente agli accordi, agli impasti di suono-colore: una tavolozza mobile e sfuggente, in perpetuo cambiamento. Bernard, lavorando sulle interviste date dal compositore, sulle prefazioni alle opere e le partiture stesse, è giunto a classificare le associazioni fino a fornire una tabella molto precisa ed utile cui aggiungerci però che anche nei testi poetici scritti dal compositore si svela la visone del colore del suono, e nel punto e preciso in cui, secondo Messiaen, la musica la produce.
A Venezia sono stato recentemente testimone di un'esecuzione di Harawi che mi sembra aver realizzato pienamente un originale progetto interpretativo intrinseco alla poetica di quest'autore. Una lirica e sensuale vocalità di soprano (Susanna Armani) sostiene emotivamente il testo con tutto il suo carico di excursus semantici e musicali, una sensibile lettura della complessa articolazione pianistica da parte del contemporaneista Aldo Orvieto, il fascino aggiunto dell'interpretazione del colore dei suoni data dal pittore e scenografo Antonio Panzuto seguendo il testo di Messiaen (la performance verrà ripresa il 28 novembre nella duecentesca chiesa sconsacrata di San Nicolò in Chioggia nella stagione lirico-sinfonica clodiense). Penso che in questo tipo di progetti la musica di Messiaen si disponga simultaneamente a molteplici interessanti approcci interpretativi e creativi. Senza nulla togliere, si badi, alla possibilità di ciascuno di conservare la propria percezione soggettiva della sinestesia, differenze di cui Messiaen stesso era perfettamente cosciente: "Credo che le percezioni possano concordare in generale. Non si può vedere un giallo invece del rosso, o un blu invece di un verde. Tuttavia ci sono piccoli dettagli: io, per esempio, vedo grigio, mauve e toni oro nella seconda trasposizione del terzo modo, che mi piace particolarmente. Altre persone possono percepirlo in modo diverso, ma qualsiasi cosa avvenga, vedranno qualcosa di grigio e viola, non sarà magari esattamente mauve e oro, ma al tempo stesso sarà un colore simile e non sarà sicuramente rosso".

Paolo Catellani ("il giornale della musica", Anno XXIV n.252, ottobre 2008)

sabato, aprile 17, 2010

Intervista a Jorma Panula, uno dei più grandi insegnanti di direzione: l'importanza dell'atteggiamento sul podio, il valore di una carriera costruita passo dopo passo.

Quando arrivo al Teatro dal Verme, trovo una decina di ragazzi intenti a guardare uno schermo sul quale vengono proiettate le immagini delle loro prove con l'Orchestra dei Pomeriggi Musicali di Milano: in mezzo a loro, silenzioso ma solerte nel comunicare coi gesti quali cose andassero bene e quali no, un vecchio signore ancora arzillo che gli studenti guardano con ammirazione. E' lui il guru dell'insegnamento della direzione d'orchestra, un uomo sotto la cui egida sono nate stelle del podio come Esa-Pekka Salonen e Jukka-Pekka Saraste, venuto dal freddo della Finlandia per inculcare un po' di sano pragmatismo nord-europeo nelle menti degli esuberanti aspiranti direttori italiani: sto parlando di Jorma Panula, classe 1930, direttore e compositore che oggi (dopo avere-insegnato per anni alla Sibelius Academy di Helsinki) gira il mondo per organizzare masterclass, come quella tenutasi qui a Milano tra il 9 e il 14 giugno. I ragazzi del corso sono coinvolti nella discussione perché il maestro ha voluto che assistessero all'intervista, come se si trattasse di una sorta di prolungamento della lezione giornaliera: molti di loro hanno studiato o studiano ancora composizione, proprio come il loro maestro che ha sempre dedicato una parte della sua carriera a scrivere musica per il teatro o da camera, «solo che io ho cominciato dopo aver intrapreso gli studi di direzione - mi dice Panula - mentre qui da voi mi si racconta che per accedere al corso di direzione d'orchestra in conservatorio bisogna aver fatto almeno sette anni di composizione. E' assurdo: così si inizia a dirigere che si è già diventati vecchi! Più che la composizione, credo sia importante conoscere a fondo le tecniche di strumentazione per saper infondere quel giusto equilibrio sonoro quando si concerta».

Quindi quali studi consiglia di compiere prima di iniziare a, dedicarsi alla direzione?
«Sicuramente non il pianoforte! E' uno strumento a percussione, non va bene: preferisco che si studi uno strumento ad arco, perché si possa capire veramente cosa si intende, per esempio, con 'spiccato' o 'punta d'arco'. In generale, l'ideale è aver già suonato in orchestra: pensi che da noi in Finlandia si inizia a suonare in ensemble da quando si ha circa 6 anni; è ovvio che in questo modo uno arriva alla maturità avendo già letto e studiato una grandissima quantità di repertorio».
E' importante stabilire un buon rapporto umano con l'orchestra?
«Se sei simpatico e conosci bene la partitura, questo basta e avanza. Non mi piacciono i direttori troppo autoritari: niente Karajan o Solti, perché l'epoca dei dittatori del podio è superata e ora si preferisce lavorare di squadra».
E cosa può essere dannoso per un direttore alle prime armi?
«Fare troppo spettacolo o credere di fare i solisti del podio per far contento il pubblico è quanto di più sbagliato uno studente possa pensare. Bisogna suonare coi musicisti, non col pubblico».
E' più importante una buona tecnica o una spiccata sensibilità musicale?
«Sicuramente è meglio essere musicali: mentre siamo con l'orchestra noi facciamo da tramite tra il messaggio del compositore e il pubblico. Fare esattamente quello che è scritto in partitura è fondamentale, ma è altrettanto importante saper interpretare il testo».
Si dirige con le braccia o con gli occhi?
«Gli occhi sono la parte del corpo più importante: certo, abbiamo bisogno delle mani, ma è con lo sguardo che si cattura l'attenzione degli orchestrali. Ogni volta che incontro un'orchestra, la prima cosa che mi dicono è: «questi giovani direttori non ci guardano, hanno la testa fissa sulla partitura».
Esiste un metodo unico che vada bene per tutti per insegnare direzione d'orchestra?
«Direi che uno è meglio di niente! L'importante non è tanto il metodo, quanto il tempo dedicato a dirigere una vera orchestra: in Finlandia il corso di direzione dura quattro anni, e ci si trova con l'orchestra due volte alla settimana. A Vienna, l'orchestra prova dieci volte in un semestre: e poi dicono che sia la Mecca dell'insegnamento!».
Con quale repertorio è meglio cominciare?
«Sicuramente gli autori del classicismo viennese: Haydn, Mozart, anche Schubert. Poi si passa ai romantici, quindi agli impressionisti, per giungere ai contemporanei. C'è da dire, però, che iniziare subito con composizioni di musica d'oggi può essere utile per controllare il gesto: in Finlandia abbiamo chiesto agli studenti di composizione di collaborare con le classi di direzione, in modo tale che i direttori siano obbligati a confrontarsi con partiture nuove, e che gli autori possano avere un feedback sulle loro opere tale da poter controllare meglio l'orchestrazione».
Negli ultimi anni è cresciuta una nuova-generazione di giovani direttori che hanno fatto carriera in brevissimo tempo. Che ne pensa?
E' pericoloso diventare subito direttori principali di una grande orchestra: manca esperienza, contatto con altre compagini, e tutto ciò che può contribuire ad ispessire la cultura e la forza di un direttore. Ho visto che a Los Angeles, al posto del mio ex-allievo EsaPekka Salonen, è arrivato quel venezuelano... come si chiama ... »
Gustavo Dudamel?
«Sì, lui! E' molto talentuoso ed ha anche un bel gesto, ma è troppo giovane, deve ancora leggere molto repertorio. Ci vogliono almeno vent'anni prima di diventare direttori stabili. E, soprattutto, bisogna bandire la visione di dvd e il tentativo di imitare i grandi maestri: è già tutto indicato in partitura. Cinquant'anni fa queste cose non esistevano, eppure c'erano grandissimi direttori».

Per il maestro Panula è gia tempo di riprendere a fare lezione: con la sua aristocratica flemma ricorda agli astanti che «il gesto deve essere piccolo, ma chiaro... le due mani devono essere indipendenti: troppe volte vedo la destra dare il tempo in modo marziale, mentre la sinistra rimane inutilizzata... Mi sembrate Toscanini! Lo volete capire che è la sinistra che fa musica?»

intervista di Carlo Lanfossi ("il giornale della musica", Anno XXIV n.252, ottobre 2008)

sabato, aprile 10, 2010

Intervista ad Alessandro Baricco, regista del film Lezione 21, sulla Nona e gli stereotipi sul mito del compositore. Nelle sale dal 17 ottobre 2008.

Esce nelle sale venerdì 17 ottobre (senza alcun timore scaramantico) il film Lezione 21 di Alessandro Baricco, con John Hurt, Noah Taylor, Leonor Watling, dove si intrecciano varie storie: la prima esecuzione della Nona di Beethoven, un violinista che muore assiderato...
«Nel film - spiega Baricco - un professore geniale e un po' matto, Mondrian Killroy, spiega la sua teoria (che non è necessariamente la mia) secondo la quale la Nona, come altri 143 capolavori tipo il Partenone, l'Ulisse di Joyce, la Gioconda, è sopravvalutata: cioè la storia della cultura ha aggiunto a quelle opere un valore che se poi uno cerca di rintracciare nell'opera stessa, non trova. Racconto anche cosa è successo quel 7 maggio 1824 quando la Nona venne eseguita per la prima volta. Ma quello che mi interessava veramente analizzare è come nasce uno stereotipo, perché serve a spiegare un pezzo della nostra cultura. Perché Beethoven è diventato un eroe, il protomartire dell'arte romantica? Perché dai primi romantici a Wagner ci è stata tramandata questa figura? Capire perché a un certo punto si è sentito il bisogno di costruire una figura eroica serve a capire un pezzo della nostra storia. E' stato il primo artista al quale sia stato dedicato un monumento, prima si innalzavano ai condottieri e ai santi, non certo agli artisti».

Così nel film ci sono anche i suoi contemporanei che lo raccontano...
«Sì, diciamo che sono tre gruppi, tre fasce sociali che parlano di lui, sono testimoni d'epoca, collocati come se fossero in un quadro: i musicisti che hanno sempre uno strumento in mano; i borghesi, ovvero il pubblico nuovo che Beethoven ha portato ai concerti, che mangiano sempre e gli aristocratici al tramonto, ai quali sono rimaste solo le parrucche. Beethoven piaceva a tutti, agli ultimi e ai primi, e loro ne parlano non come se fosse un dio, ma come un contemporaneo che potevano incontrare per strada - come se noi vedessimo Francis Ford Coppola - e quindi hanno anche un tono irrispettoso. Quel rispetto sacrale per la sua figura, la costruzione del mito è avvenuta dopo».
Parliamo della colonna sonora, fondamentale in un film come questo, che interpretazioni hai scelto?
«La Nona che si ascolta nel film è quella diretta da Claudio Abbado con i Berliner Philharmonilker nell'ultima integrale che ha registrato: per me è la Nona più bella, la più moderna, è classica ma c'è anche tanta modernità. Sono andato da Abbado e l'ho supplicato che ci concedesse di usarla, lui ha chiesto di leggere la sceneggiatura, di vedere un pre montato, e poi è, stato così gentile da darci il permesso! Poi ci sono gli ultimi due minuti del Quarto movimento della Settima sinfonia di Beethoven diretti da Daniel Harding - questa è proprio una scena del film - la sua è un'esecuzione molto ritmica, molto spigolosa, 'hardinghiana'. A Mario Brunello ho chiesto che coinvolgesse altri tre musicisti per incidere per noi la Canzona dal Quartetto op. 132 di Beethoven, lui mi ha subito risposto che è il sogno di ogni strumentista ad arco quello di incidere il Quartetto op. 132! Cosi ha chiamato i violinisti Marco Rizzi e Fabio Paggioro, il violista Danilo Rossi e in uno studio di Castelfranco Veneto hanno registrato la Canzona, suonandola divinamente e nel film ce ne sono circa sette minuti: cosa che per un film è un assurdo totale. Tutte le musiche della colonna sonora usciranno in un cd della Deutsche Grammophon che comprende anche 'Nacqui all'affanno` dalla Cenerentola di Rossini canzato dalla Bartoli, un song di Nina Simone ... ».
Ma quale sarà il pubblico che andrà a vedere questo film? Chi ama la classica, chi non ne sa nulla?
«lo non penso a un pubblico nemmene quando scrivo i libri. Ho pensato a questa idea, l'ho lavorata come un artigiano e poi è diventata un prodotto commerciale: sono curioso di vedere come andrà a finire. E' difficile apire quale possa essere il pubblico: tutti e nessuno. Chi già segue i concerti non ne esce annoiato, c'è "da mordere" anche per lui, chi non ne sa nulla scopre delle cose. Mi piacerebbe che fosse come Shrek, che piace al nonno, al papà e al bambino, ognuno sceglie il suo livello di lettura e si ritaglia il suo strato diverso di torta».
di Susanna Franchi ("il giornale della musica", Anno XXIV n.252, ottobre 2008)

sabato, aprile 03, 2010

Davide Livermore sull'Idomeneo

Idomeneo è il primo capolavoro di Mozart. Ebbe un deciso successo quando fu rappresentata la prima volta, poi sporadiche riprese. Una lunga eclisse, terminata solo a metà del Secolo passato, quando l'opera è entrata gradualmente nel repertorio.
Con Idomeneo Mozart inizia a forzare l'architettura formale dell'opera seria settecentesca, ovvero, questa serie potenzialmente infinita di recitativi e arie col "da capo". Sperimenta nuove possibilità di drammaturgia musicale, molte arie non rispettano la classica forma A-B-A1 e non possono essere considerate chiuse, sfociando naturalmente nel recitativo successivo; ciò vuol dire una cosa importantissima: Mozart sperimenta e prova, con estremo successo, a scardinare la "forma" per privilegiare il fluire della drammaturgia e degli affetti in musica. Idomeneo è grande avanguardia.
Cosa intende per drammaturgia musicale?
Armonia al servizio della poesia, come da "Seconda prattica" monteverdiana, quest'incrocio straordinario tra partitura e libretto. Lo studio della partitura, quindi diventa per me momento di ricerca drammaturgico registica fondante ed il luogo da cui sorge ogni agito scenico.
Credo che Idomeneo veicoli, nella sua drammaturgia, temi fondamentali del XVIII secolo. Il pensiero illuminista ha pervaso l'alta società, le corti, ma non solo, anche la società proto-borghese. Il tempo dell'Idomeneo, 1781 meno di otto anni dalla Rivoluzione francese e dieci dalla morte di Mozart, investe l'uomo della responsabilità nella propria vita civile e sociale: responsabilità e diritto alla felicità (come afferma la Costituzione Americana 1776).
Nettuno, Idomeneo, il Mostro, La Voce, sono i soggetti straordinari di questa vicenda; il rapporto tra l'uomo la deità, gl'inferi e la verità, sta alla base della cultura occidentale pre e post freudiana. Il tempo di Mozart ci dice che l'uomo è il centro, l'uomo ha la responsabilità, è il creatore di deità, di inferi e di mostri. È Idomeneo che deve trovare la strada per capire ed è per ciò che La Voce in questo allestimento si manifesterà dentro Idomeneo. Solo l'uomo può pensare di assolversi e di far emergere la verità profonda da dentro. La Voce non è la voce di Nettuno (non c'è scritto mai su libretto!), è la Voce della verità della vita, oggettiva eterna e votata alla vita stessa che esiste in ogni cosa e in noi. Questo apre a tutta una serie di interessantissime chiavi di lettura: Idomeneo ha compreso che per andare verso la felicità (in questo caso far sì che un destino d'amore si compia, quella di suo figlio nei confronti di Ilia) è necessario che un destino di vita si compia, che la vita basta a se stessa e non serve un sacrificio. L'unico grande sacrificio è quello di perdere il proprio piccolo "io" e abbandonarsi profondamente alla propria deità, e che questa consapevolezza possa portare attraverso azioni concrete a liberare l'uomo, il suo mondo, dalla sua oscurità fondamentale, liberare Idomeneo dal "voto tremendo" di uccidere suo figlio Idamante.
Questo aspetto si ricollega al grande tema padre e figlio e quello del sacrificio.
Partendo dal fatto che Idomeneo, come ogni uomo, è possessore di deità e di inferi, si arriverà anche a capire che il mostro è Idomeneo, il mostro è l'effetto di una causa messa dall'uomo. Si pensi a che tipo di valenze psicanalitiche straordinarie prende quindi l'uccisione del mostro da parte del figlio Idamante. Ogni figlio ha bisogno di uccidere un padre per poter esistere, per affermare la propria vita e tentare di dirottarne il destino. L'Idomeneo ha una portata tematica immensa anche per le implicazioni psicologiche intrinseche alla vicenda e chiaramente comprensibili ormai per una società "psicanalizzata" come la nostra. Insieme allo scenografo Santi Centineo e alla costumista Giusi Giustino, abbiamo utilizzato come riferimento visivo David La Chapelle, straordinario artista visivo dei nostri tempi capace di rendere mitica la contemporaneità.
Nello scambio epistolare fra Leopold e Amadeus emerge un forte legame/dipendenza fra i due, quasi come quello fra Idomeneo e Idamante?
Il rapporto Idomeneo-Idamante sovrapposto a quello Leopold-Amadeus è stato studiato a lungo: ma qui siamo di fronte alla grandezza di Mozart nel rendere anche i drammi delle nostre umane fragilità alti, mitici, universalmente condivisi e riconoscibili. Nella vita di Mozart l'emancipazione dal padre, coincide anche con l'affermazione completa della personalità artistica e della sua creazione. Ma questo capita a tutti noi. Una paternità è da superare psicologicamente, da uccidere in una parte di noi, per amarla in modo adulto e consapevole. Lo dico da padre: spesso vivo alcune cose di mio figlio come un'uccisione del mio Sé ed è invece un'affermazione del suo.
Nettuno, il mostro e la Voce sono potenzialità o possibilità della nostra vita e in quella di Idomeneo. Quindi Idamante uccidendo il mostro uccide una parte del padre per scegliere poi il suo destino, scegliere di morire per il padre e per Creta: Idamante è figlio di re capace anche di assolvere con la morte le responsabilità di uomo di Stato.
Altri tempi. Altre morali.
Il teatro è materia plastica, deve continuamente rappresentare una società esserne lo specchio. La grande difficoltà nel mettere in scena Idomeneo sta anche in un'azione scenica ridotta e in un dramma prevalentemente interiore che si consuma nell'arco della rappresentazione. Per questo trovo, nei turbamenti emotivi e nel profondo contrasto di ogni personaggio, la straordinaria modernità di quest'Opera.
Parliamo dei due personaggi femminili: la trojana Ilia e la greca Elettra.
Ilia e Elettra rappresentano due possibilità di scegliere dove dirigere l'amore, nel senso che hanno le stesse pulsioni, la stessa energia, ma le vivono a latitudini morali lontane: una volge tutta questa energia verso l'autodistruzione, Elettra; l'altra, Ilia, sceglie la vita comunque anche a costo della propria. Il desiderio di Elettra di autodistruggersi avviene alla fine di un percorso dove possiamo vedere una collezione tragica di tutto quello che può incarnare la donna di oggi. La donna "rifatta" che ricerca di essere riconosciuta per lo status, il fisico, l'apparenza, il potere. Non è certo la "bontà in trionfo".
Entrambe sono donne piene di contraddizioni. Ilia vive una serie di contrasti interiori impressionanti: ama il figlio dell'uomo che ha contribuito a sterminare la propria famiglia. Nella prima aria ("Padre, germani") sembra soccombere al terribile senso di colpa. L'amore per il padre, per la famiglia assassinata, il volto di Idamante che ha lo stesso sangue di chi ha ucciso il proprio padre. Ilia accetta di essere campo di battaglia di questi sensi di colpa, rischia di soccombere ma lotta. La vita di Elettra si chiude, in tutto quello che porta come istanze drammaturgiche. La cosa straordinaria è che comunque entrambe sono servite dalla partitura in maniera mirabile, anche l'isteria di Elettra in Mozart non abdica mai all'eleganza.
Altro protagonista dell'opera è il mare – cito una frase bellissima di Massimo Mila – "il personaggio più imprevisto che si possa pensare nell'opera settecentesca; presenza costante incombente come un paesistico basso continuo; dopo Monteverdi una delle prime apparizioni della Natura profondamente sentita del teatro d'opera". È d'accordo?
Sì, assolutamente. Il mare, in quest'Opera, diventa termine di amplificazione e incarnazione naturale del nostro umano sentire; inoltre è un elemento altro, un confine. In ogni caso vedremo una presenza costante dell'acqua, intesa come limite anche della nostra percezione della vita. È un mondo che si viene a creare proprio per mano di Idomeneo. Una specie di contenitore di vita, una scatola d'acqua: è il nostro mondo e allo stesso tempo è il mondo in cui si svolge questa vicenda. È la vita, il limite umano di Idomeneo, che viene a crearsi durante l'ouverture. Questo limite sarà superato solo con l'accettazione del fatto di essere in grado di poter far emergere la parte più illuminata del Sé. E quindi dopo la Voce, dopo l'aria di Elettra tutta la scena crollerà, oltre il limite troveremo la vittoria della luce.
Mila diceva anche che l'acqua era una sorta di grande metafora delle nostre umane fragilità. Noi in balia delle onde, della nostra emotività. Noi che godiamo di mari calmi che in qualche modo ci fanno sperare nel futuro. Noi completamente incapaci di gestire le tempeste del nostro cuore, della nostra anima. D'altronde il mare per esempio ha permeato anche una delle tipificazioni musicali utilizzate in tutta l'opera seria, come l'aria di tempesta.
In quale tempo storico ha ambientato la vicenda?
La classicità e ciò che il mito rappresenta parlano a noi oggi come parlavano alla vita degli uomini del XVIII secolo.
Il mito ha in se un'atemporalità che ne sottintende il valore universale, per questo la vicenda sarà in un non tempo, con elementi classici e di altre epoche, come per abbracciare idealmente le esperienze umane, gli sforzi di ogni uomo in ogni tempo verso la verità, verso la scoperta della propria deità, l'accettazione e superamento del mostro per lasciar emergere con la luce la Voce che tutto scioglie, anche le nostre paure più ancestrali, così come avviene in quest'opera e nel cuore di Idomeneo.

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