Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, novembre 25, 2010

Bruckner: Sinfonia n.2 in do minore

La Seconda Sinfonia di Bruckner, la più ardente e per certi aspetti la più profetica delle sue prime Sinfonie, fu iniziata nell'autunno del 1871, un mese circa dopo il quarantasettesimo compleanno del compositore. Bruckner aveva passato l'agosto del 1871 a Londra, dove era stato molto festeggiato per le sue maestose improvvisazioni sull'organo della nuova Royal Albert Hall. Uno scandalo concernente una baruffa con alcune insegnanti del Collegio di S. Anna, a Vienna, aveva temporaneamente offuscato il suo ritorno nella città dove stava prendendo forma la sua carriera, ma sarebbe imprudente supporre che la nota angosciosa che contraddistingue l'ampia esposizione della Sinfonia abbia un'origine così immediata e parrocchiale.
La Sinfonia è, per la più gran parte, meravigliosamente serena e fiduciosa, con uno slancio suo particolare che le deriva, in modo tipicamente bruckneriano, dalla capacità che hanno i suoi temi di germogliare, fiorire e dar frutti. Lo struggente primo tema, enunciato in modo eloquente dai violoncelli nel registro acuto, è, da questo punto di vista, in tutto tipico del genio di Bruckner: il ritmo, l'armonia e la lunghezza variabile delle frasi contribuiscono insieme a un esteso sviluppo. I metri misti, un altro accorgimento caro a Bruckner, sono anch'essi in prima linea in questa esposizione, e si sentono per la prima volta nelle trombe, alla ventesima battuta. Il primo Gesangsperiode (passaggio cantabile) di rilievo è affidato di nuovo all'eloquenza dei violoncelli, questa volta in mi bemolle maggiore, ma la figura d'ostinato che segue è tutta anapesti geniali e rustici trilli, finché l'oboe e il corno non ricavano ulteriori ricchezze melodiche alla fine dell'esposizione. Qui, dopo un inizio meditabondo in minore, la musica si volge a zone più aperte. I temi vengono trattati in nuovi registri e in nuove tonalità, con uno humour secco e impassibile. Di fatto, Bruckner non mette quasi mai un piede in fallo, fino a quando non equivoca sull'arrivo della coda. Fra il 1873 (l'anno in cui la Sinfonia fu eseguita per la prima volta con successo) e il 1877, il lavoro fu sottoposto a revisioni da parte di Bruckner e del direttore musicale di corte di Vienna, Johann Herbeck. Forse nella revisione la ricaduta nella tonica è un tantino brusca; ma un'esecuzione intelligente del testo del 1877 può evitare il senso di un indebito iato a questo punto.
Il secondo movimento, che è in gran parte in la bemolle maggiore, è memorabile per la sua serenità (nella prima parte, ad esempio, manca un tutti conclusivo) e per i primi indizi che ci dà della speciale abilità di Bruckner nel raccogliere le forze intorno a momenti culminanti che sono tanto estatici quanto splendidi. Nel principale di essi, i violini creano un trasparente velo di suono attraverso il quale si sentono espandersi maestosamente legni e ottoni. Difficile da realizzare, questo passaggio fa nondimeno un effetto straordinario nelle mani di abili esecutori, al pari del seguito, profondamente immaginoso. In tutto il movimento, la parte delle viole è particolarmente ricca. E' forse un peccato che Bruckner abbia eliminato l'assolo di corno nella pagina finale, ma il taglio della ripresa ornata dei primo tema (edizione di Nowak: "vi-de" cfr. da C a E) è un raro esempio, in Bruckner, di un taglio che migliora il senso, invece di storpiarlo.
Lo Scherzo, haydniano nello spirito benchè orchestrato con formidabile ostentazione, è integrato da un Trio vistosamente indolente, nel quale le viole hanno di nuovo un ruolo dominante, e il Finale ha un carattere magnificamente impetuoso. Si osservi come la stridente entrata degli ottoni alla trentatreesima battuta venga trasformata in modo da assumere carattere motorio. Tutta questa attività viene controbilanciata ma metà del pezzo da un mirabile e precoce esempio di quel genere di enorme cadenza centrale (che qui ci trasporta verso mi bemolle) in cui sembra che Bruckner rivaluti il concetto stesso di tempo, trasformando il fare in essere, il chronos in kairos. Il materiale della cadenza, che è imparentato con il Kyrie della Messa in fa minore, ritorna nella coda - gratificante per gli archi, ed uno dei momenti migliori di tutta la Sinfonia - insieme ad una reminiscenza del tema di apertura della Sinfonia. Anche questo passaggio fu tagliato nella revisione del 1877, un taglio infelice, che viene restaurato nella presente esecuzione, e dà così alla Sinfonia quella fine estatica ed esuberante che ben merita.

Richard Osborne (Traduzione: Silvia Gaddini, note al CD DGG 415 988-2)

giovedì, novembre 18, 2010

Gavazzeni: un saluto al Trio di Trieste

In anni vicini - nel decennio anteguerra '30-40 - tre eventi musicali fecero balzare con spinta fulminea il concertismo italiano e la direzione d'orchestra a un livello europeo ed extra-continentale: il Trio di Trieste, Arturo Benedetti Michelangeli e Franco Ferrara.
Dopo quasi sessant'anni gli strumentisti sono ancora sulla breccia, il grande pianista anche, il direttore d'orchestra non più, con la carriera iniziata gloriosamente, ma interrotta, per crudelissime ragioni fisiche, ancor prima della morte. Era come fosse sorta una cometa, nei cieli felici della musica, a indicare una palingenesi di gran luce.
Ricordo bene la sorpresa, l'accoglimento stupito, per la rivelazione dei tre ragazzi del Trio di Trieste; dal '33, sino alla piena affermazione pochi anni dopo: De Rosa, Zanettovich, Lana. Insieme al fatto nuovo dell'eseguire "a memoria " in trio. Talvolta la memoria, sia pur sempre ammirevole, resta un fatto esornativo, esterno; talvolta anche un'esibizione. Ma in altri casi significa la sicurezza spinta a limiti estremi; significa approfondimento, appropriazione di un testo musicale nei suoi segreti più fondi. Il caso appunto dei giovanissimi triestini.
I primi incontri con loro, nelle mie perdute stagioni triestine. Il "timbro" di Trieste che ti circuiva con suggestioni quasi fisiche. La femminilità di Trieste e il suo tessuto letterario, senza soluzioni a dividerle. Come se Edda Marty del racconto di Giani Stuparich (il suo capolavoro) e la Bianca dell'Anonimo triestino le incontrassimo in "Corso" o al Caffè Tommaseo, o agli Specchi, con il suono e gli incanti della pronuncia parlata dialettale.
I primi anni del Trio, gli stessi dei miei incontri, quando appunto il "timbro" triestino mi si svelava in un'acustica non somigliante ad altre... Insieme alla bora che avventandosi dall'altipiano faceva più pronto l'udito e più attizzate le energie dello spirito. Mentre crescevano le fortune del Trio mi si arricchivano gli incontri nella città: una caccia a saziare l'inguaribile inseguimento di conoscenza.
Gli incontri, adesso, guardati attraverso il vetro opaco della morte. Erano Giani Stuparich, Saba (le poche volte, arcigno, ironico, nella Libreria di San Nicolò), Virgilio Giotti con Pierantonio Quatantotti Gambini, verso sera nel piccolo caffè, nella strada stretta accanto al Vecchio Ospedale, quando il poeta usciva dall'Economato; Stelio Crise, Anita Pittoni... lunghe conversazioni sui temi del libro tipico L'anima di Trieste, i ricordi di "zio Valentin", le delusioni triestine, i suoi innocui veleni («Quelo xe furbo .. »), persino una mia lettera a Irneri, per tentare invano la sospensione dello sfratto da Via Cassa di Risparmio. Troppi morti alle spalle, sempre, nei ritorni ai luoghi della vita. I triestini sradicati, al Conservatorio di Milano: Romeo Bartoli, identificabile nel maestro di canto de La coscienza di Zeno; Giusto Zampieri, storico geniale e sciamannato, amico di Busoni, carico di racconti. Ecco: a un mio ritorno triestino, dopo anni (autunno '91), resto solo; ripasso soltanto le strade e le memorie. Alcuni morti anche nei miei lontani intelligentissimi cugini. Alcuni sopravvivono: attenti alle letture, ai fatti, alle etnìe frammischiate: i Grego, i Filippi, i Poillucci, i Roli. Spazi vuoti dovunque, nei solchi della morte. Resto solo, a Trieste. Senza cercare i viventi: Magris, Mattioni, Tomizza, Giorgio Voghera... Con il gran patriarca carismatico Vito Levi (mi ha dedicato il suo icastico ritratto di Richard Strauss), appelli di saluto, affettuosità per interposta persona... Forse, nel ritorno dell'autunno '91, si chiudeva la mia temperie triestina. Insieme ad altre. Persiste invece, per fortuna di tutti, il tempo glorioso del Trio di Trieste. Credo che nessun altro complesso cameristico abbia mantenuto durata tanto lunga, anche dopo l'entrata di Amedeo Baldovino al posto di Lana. I tre ragazzi entravano dunque in un tempo anagrafico che a mia memoria non ha altri precedenti, entravano in una storia musicale triestina alzandosi presto in volo fuori della Città, verso il Mondo. Partivano da una tradizione locale di ben alta qualità, in area cameristica, sinfonica, teatrale. Pensiamo al contesto cameristico e sinfonico - mitteleuropeo e germanico -, alla duplice tradizione operistica - tedesca e italiana -, al Quartetto Triestino nella sua prima formazione, alla qualità dell'orchestra, ben accetta nella seconda metà del secolo scorso e nei primi decenni del nostro da direttori primari. La lingua musicale austrogermanica era d'uso, tale da includere Trieste in una geografia europea; senza strettoie regionali o provinciali.
Da ricordare che triestino era uno dei più grandi direttori d'orchestra, Victor De Sabata, mentre in campo creativo l'operismo di Antonio Smareglia realizzava il singolare incrocio e incontro di culture diverse, cioè un crocicchio nevralgico tra naturalismo italiano, slavismo (si pensi a Smetana, Dvorák, il primo Janacek), residui germanizzanti. In una linea di eclettismo agiranno altri, nei tempi successivi: Illersberg, Giulio Viozzi, Bugamelli - oggi dimenticati - e dimenticato, in campo sinfonico, Mario Zafred, che si era però tolto di dosso la "triestinità". Neppure fuori tema è notare che per un musicista come Luigi Dallapiccola l'essere nato in Istria, a Pisino, e l'averci vissuto anni adolescenti, ha pur contato qualche cosa. Si veda infatti nel volume di suoi scritti Parole e musica (Milano, Il Saggiatore 1980, pag. 399 sgg.) un frammento autobiografico inerente al periodo infantile e della prima adolescenza.
Non vorrei aver divagato, nel rendere omaggio affettuosamente amichevole al Trio. Perché nonostante il glorioso cammino dovunque venga praticato l'ascolto cameristico, nei tre "ragazzi" l'etnìa culturale ebbe determinazione primaria. E l'aggancio è continuato, nella fermezza e nella durata. Non mi occorre dire molto sui caratteri interpretativi, sui risultati. I documenti contenuti in questo volume parlano meglio e più di qualunque frase elogiativa. La ricerca aggettivale o lo spreco di avverbi sarebbero oziosi, inutili, di fronte al concreto testimoniale. Basti dire che l'analisi sui testi della letteratura specifica e la maturità furono tanto alte e compiute, sin dai primi anni, da rendere l'atto esecutivo un atto di vita. Interpretazione come vita; come vita dello spirito e realtà sonora coordinata, organizzata. Appunto, l'elaborato tecnico e la vita segreta annidata nei testi; il piacere dell'offerta all'ascolto e il velo calato sui misteri creativi, il volto nascosto della bellezza estetica scoperto e rivelato nell'acutezza esecutiva.
Infine devo ricordare le due occasioni di incontro in concerto con il Trio. Nel '47 concludevo la stagione operistica al Teatro Verdi. Mi venne offerto il primo concerto sinfonico (in programma un brano di un altro nobile compositore triestino, Zuccoli), con i tre giovani per il Triplo di Beethoven. C'era una settimana vuota, prima delle prove orchestrali. Rimasi a Treste. In casa dell'ingegner Negri, suocero di Zanettovich, si poteva disporre di due pianoforti. Per una settimana lavorammo insieme, io sul secondo pianoforte per la parte orchestrale. Giornate che non ho dimenticato. Ho così potuto conoscere, capire, vivere il loro modo studioso ed elaborativo. Cioè entrare nei segreti d'officina. Un'esperienza unica, nella mia vita musicale. Non l'ho più dimenticata. Assisteva talvolta un ragazzo che sarebbe diventato, molti anni dopo, "operatore musicale", e al quale rivolsi poche parole e nessuna attenzione: Giorgio Vidusso.
Passa altro tempo; l'altra occasione insieme: il Concerto dell'albatro di Ghedini (a me dedicato) a Roma, all'Accademia di S. Cecilia. Nel Trio c'è Amedeo Baldovino (che avevo ascoltato in calzoni corti al Conservatorio di Milano); insieme avevamo eseguito Scelomo di Ernst Bloch al Comunale di Bologna; insieme, lungo gli anni, sere di conversazioni a Roma; con lui e con l'intelligente sua consorte, pittrice.
Le siderali suggestioni dell'Albatro ghediniano, con la loro estrema serietà del far musica, senza bellurie. Due sole occasioni, ecco. Troppo, e troppo a lungo invischiato nelle sciaguratezze operistiche, senza dialogo - con uomini e donne -, due momenti di salvezza, questi, non cancellati.

Gianandrea Gavazzeni (Bergamo, ottobre 1992)

giovedì, novembre 11, 2010

Bruckner: Sinfonia n.3 in re minore

Nella storia della musica non si è quasi mai verificato che le radici di composizioni altamente significative fossero così anacronistiche come è avvenuto per Bruckner. Il suo sinfonismo infatti non nasconde affatto la sua origine: l'ambito congenito a Bruckner era quello della musica sacra, il suo strumento era l'organo. Ma la grande tradizione organistica era in via di estinzione già intorno al 1750, la musica sacra diveniva alcuni decenni dopo una zona musicalmente provinciale (fatta eccezione per alcune grandi composizioni). Il fatto che Bruckner idolatrasse Wagner e che dedicasse la Terza Sinfonia "All'illustrissimo Signor Richard Wagner, all'ineguagliabile, famosissimo e sublime Maestro dell'arte poetica e musicale in profondissima riverenza", fece sorgere l'equivoco che la musica di Bruckner seguisse le orme tracciate da Wagner. Per quanto ciò fosse errato, Bruckner ne soffri notevolmente; egli si trovò ad essere sospinto senz'altro nel campo wagneriano e lisztiano. L'autorevole critico viennese Eduard Hanslick, dopo la prima esecuzione della Terza Sinfonia nel 1877, ebbe la visione di "come la 'Nona' di Beethoven stringa amicizia con la 'Walchiria' di Wagner e finalmente vada a finire sotto gli zoccoli dei suoi cavalli". Come la musica di Wagner, così anche il sinfonismo di Bruckner fu accusato di mancanza di forma, e per molto tempo non si comprese che Bruckner non voleva esser valutato secondo misure wagneriane, e neanche secondo il metro classicistico.
La Terza Sinfonia (che non certo per caso è in re minore, la tonalità della 'Nona' di Beethoven) è ritenuta con un certo diritto come l'opera in cui Bruckner ha definitivamente trovato la sua via quale compositore sinfonico. Essa pone tuttavia dei problemi particolari. Una prima versione fu vompiuta nel 1873. Ad essa dopo i primi ritocchi (1874), seguirono ancora due rifacimenti (1877 e 1888/89). Di questa Sinfonia esistono così almeno tre versioni; Bruckner lavorò a questa composizione per un periodo superiore a 17 anni. Si è considerato a lungo la terza versione come quella definitivamente valida. Oggi si tende sempre più a riconoscere che anche alla seconda versione (1877), da cui Bruckner tra l'altro eliminò le citazioni wagneriane, spettano i medesimi diritti che non alla terza versione. Il procedimento sinfonico bruckneriano ammette evidentemente, entro certi limiti, diverse possibilità di una valida configurazione. Ciò significa senz'altro che quel principio compositivo orientato alla musica del classicismo viennese necessita d'una revisione. Il modello della 'Nona' beethoveniana è però evidente all'inizio (quel sorgere da uno 'stato sonoro originario') e alla fine del primo movimento (figura di ostinato). Il primo complesso tematico è costituito da un tema ampio ed elementare affidato alla tromba, unitamente al secondo nucleo tematico che sgorga come in un'eruzione sonora. Nel carattere di frammento che hanno le figure tematiche sono racchiuse le loro capacità di svilupparsi sinfonicamente. Un complesso cantabile e meditativo, quindi un imponente dispiegamento timbrico che si addensa in un tema con carattere di corale (Bruckner vi annota: Choral marcato): questo sono ulteriori fasi dell'esposizione. Ma lo schema tradito di esposizione, sviluppo, ripresa, coda viene per così dire colmato da una nuova "tecnica di mutazione" tematica (Werner Korte), che risulta da elementari eventi ritmici e timbrici. Che le visioni sonore di Bruckner sono tratte da una rielaborazione della tradizione di musica sacra, è un fatto chiaramente avvertibile nel movimento lento, mentre nello Scherzo quell'accento di ländler (danze caratteristiche dell'Austria e della Germania meridionale), che da lungo tempo era assurto a nobiltà d'arte, emerge con una veemenza ingenua e al pari demonica. Il Finale, che si solleva di nuovo da una configurazione sonora quasi roteante su se stessa (il nucleo è costituito dall'intervallo primigenio di una quinta), è concepito nei suoi estatici addensamenti timbrici come il coronamento, il riepilogo della Sinfonia. Essa sfocia coerentemente nell'apoteosi del tema affidato alla tromba, che ne aveva costituito l'inizio.

Stefan Kunze (Traduzione: Gabriele Cervone, note al CD DGG 413 362-2)

venerdì, novembre 05, 2010

Stefan Zweig: "Ho visto Mahler per l'ultima volta"

Nascita e morte del grande musicista austriaco:un ritratto inedito del suo mondo di ieri secondo Stefan Zweig

Gustav Mahler non fu mai così vivo e vivificatore per questa città come ora che è lontano, e quella che ingrata abbandonò il creatore ora gli è patria per sempre. Quanti lo amavano hanno atteso questo momento, ma ora che è arrivato non ci rende lieti. Perché i nostri desideri sono mutati: finché fu attivo, il nostro desiderio era vedere ben viva la sua opera, le sue creazioni. Ora che queste hanno raggiunto la fama, abbiamo di nuovo nostalgia di lui, che non tornerà più. Perché per noi, per un’intera generazione, fu più che un musicista, un maestro, un direttore d’orchestra, più che semplicemente un artista: fu ciò che la nostra giovinezza non può dimenticare. [...]
A quell’epoca noi giovani abbiamo imparato da lui ad amare la perfezione, abbiamo compreso grazie a lui che alla volontà intensa, demoniaca, è sempre possibile, nel mezzo del nostro mondo frammentario, costruire per un’ora o due l’eterno e senza macchia dal fragile materiale terreno, e ci ha così insegnato ad attenderlo sempre. È stato per noi un educatore e un sostenitore. Nessuno, nessun altro all’epoca ha avuto altrettanto potere su di noi.
E questo demone della sua natura interiore era così forte che penetrava come un dardo in fiamme attraverso lo strato sottile del suo essere esteriore: egli era tutto ardore, difficile da trattenere nella fragile scorza carnale. Lo si poteva conoscere bene vedendolo una sola volta. Tutto in lui era tensione, era eccesso, passione debordante; intorno a lui vi erano lampi come le scintille intorno alla bottiglia di Leida. Il furore era il suo elemento, l’unico adeguato alla sua forza; a riposo appariva sovreccitato e se restava fermo emanava come scariche elettriche. Non si poteva immaginarlo ozioso, a passeggiare tranquillo; il surriscaldarsi di una caldaia interna richiedeva sempre forza per fare, per portare avanti qualcosa, per essere attivo. Era sempre in movimento, verso un obiettivo, come trascinato da una grande tempesta, e ogni cosa era per lui troppo lenta; forse odiava la vita reale perché era fragile, stentata, indolente, una massa dotata di forza di gravità e resistenza, mentre egli mirava a quell’altra vita reale dietro alle cose, sulle nevi eterne dell’arte, dove questo mondo tocca il cielo. [...]
È impossibile descrivere che cosa rappresentasse per noi giovani, che sentivamo fermentare dentro di noi la volontà di fare arte, lo spettacolo fiammeggiante, che qui si offriva a tutti, di un uomo del genere. Sottometterci a lui era il nostro desiderio; ci impediva di avvicinarci a lui un timore, incomprensibile e misterioso, come non si osa accostarsi al bordo di un cratere e guardare la lava in ebollizione. Non cercammo mai di creare un contatto stretto con lui: il suo semplice essere, il suo esistere, la consapevolezza della sua esistenza accanto a noi, in mezzo al nostro comune mondo esteriore era sufficiente a renderci felici. Averlo visto per strada, al caffè, in teatro, sempre da lontano, era già un evento, tanto lo amavamo e lo ammiravamo. Ancor oggi la sua immagine è viva in me come quella di poche persone; ricordo ogni singola volta in cui lo vidi da lontano. Era sempre diverso e sempre lo stesso, perché sempre animato dalla veemenza dell’espressione del suo spirito. Lo vedo durante una prova: iroso, tremante, urlante, stizzito, sofferente per tutte le imperfezioni come per un dolore fisico; lo vedo un’altra volta chiacchierare allegro da qualche parte per strada, ma anche là in modo istintivo, di una allegria così naturalmente infantile, come Grillparzer descrive quella di Beethoven (e di cui è punteggiata qualche pagina delle sue sinfonie). Era sempre in un certo qual modo trascinato da una forza interiore che lo animava totalmente.
Ma per me resterà indimenticabile una volta, l’ultima in cui lo vidi, perché non avevo ancora mai percepito in modo così profondo, con tutti i sensi, l’eroismo di un uomo. Tornavo dall’America e lui era sulla stessa nave, affetto da una malattia incurabile, in fin di vita. Una primavera precoce era nell’aria, la traversata procedeva tranquilla in un mare blu, increspato da deboli onde; avevamo costituito un piccolo gruppo, Busoni faceva omaggio a noi amici della sua musica. Tutto ci spingeva a essere lieti, ma sotto, da qualche parte nel ventre della nave lui sonnecchiava, vegliato dalla moglie, e per noi era come un’ombra sulla leggerezza delle nostre giornate. A volte, mentre ridevamo, qualcuno diceva: «Mahler! Il povero Mahler!» e diventavamo muti. Lui giaceva là sotto, un uomo perduto, arso dalla febbre, e solo una piccola fiamma luminosa della sua vita guizzava sopra sul ponte, all’aperto: sua figlia, che giocava spensierata, felice e inconsapevole. Noi, però, noi lo sapevamo: sentivamo la sua presenza là sotto, sotto i nostri piedi, come se fosse stato nella tomba. E poi all’arrivo a Cherbourg, nel rimorchio che ci trasportò, alla fine lo vidi: giaceva immobile, di un pallore mortale, con le palpebre chiuse. Il vento gli aveva spostato di lato i capelli ormai grigi, la fronte arrotondata sporgeva alta e ardita; sotto, il mento severo, dove risiedeva la forza della sua volontà. Le mani emaciate giacevano incrociate sulla coperta, piegate dalla stanchezza; per la prima volta quell’uomo ardente mi apparve debole. Il suo profilo – indimenticabile, indimenticabile! – si stagliava su un’infinità grigia di cielo e mare; in quella scena vi era una tristezza sconfinata, ma anche un qualcosa che, trasfigurato dalla grandezza, risuonava per spegnersi nel sublime come musica. Sapevo che lo vedevo per l’ultima volta. La commozione mi spingeva ad avvicinarmi, la timidezza mi tratteneva; non potei fare altro che continuare a guardarlo da lontano, come se in quello sguardo avessi potuto ancora ricevere qualcosa da lui ed essergli grato. In me risuonava cupamente una musica, dovetti pensare a Tristan, mortalmente ferito, che ritorna a Kareol, la rocca paterna, ma era diverso, più profondo ancora, più bello, più radioso. Finché poi trovai la melodia e le parole nella sua composizione scritta molto tempo prima, ma che solo in quell’istante giungeva a compimento, la melodia quasi divina, segnata dalla beatitudine della morte, di Das Lied von der Erde sulle parole: «Ich werde niemals in die Ferne schweifen. / Still ist mein Herz und harret seiner Stunde» ([Vado verso la mia terra ..]e non me ne allontanerò mai più. / Silenzioso il mio cuore / Ansiosamente aspetta la sua ora). [...]
Questo fu l’effetto del suo demone su di noi, su un’intera generazione. La nuova generazione che lo incontra ora, senza conoscere la sua biografia, e che può amare solo quanto del suo fuoco misterioso si è sublimato in musica, non conosce tutto il suo essere. Per loro l’opera di Mahler risuona già dall’irreale, dagli alti cieli dell’arte tedesca; per noi è sempre presente il modo esemplare con cui strappò alle cose terrene la loro infinitezza. Quelli conoscono soltanto l’essenza, il profumo del suo essere, mentre noi abbiamo conosciuto ancora il colore ardente che circondava questo calice.

Stefan Zweig