Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, luglio 23, 2020

Walter Chinaglia: la reinvenzione dell'organo di legno

(Foto: Dr. Luca Fattorini)
Per quanto una parte del pubblico (e, a dirla tutta, anche una parte degli addetti ai lavori) consideri ancora la ricerca sugli strumenti antichi un concetto che si trova a metà tra l’oziosa curiosità e l’inutile perversione, c’è da tenere in considerazione che lo studio delle caratteristiche timbriche e sonore degli strumenti in possesso di un determinato autore può fornire spiegazioni molto evidenti relativarnente a determinate scelte compositive, oppure chiarire la scelta esecutiva da applicare nel momento in cui la scrittura non fornisce informazioni sufficientemente evidenti. Lo studio di questa rnusica e delle "istruzioni per l’uso secondo le fonti antiche" ha ormai un secolo abbondante di storia, sin dagli studi seminali di Dolmetsch, passando per le incisioni pionieristiche di Eduard Müller e di August Wenzinger per arrivare, finalmente, alla prima generazione che ha proposto questo approccio al grande pubblico, centralizzata su due figure giganti come Nikolaus Harnoncourt e Gustav Leonhardt. Nel frattempo, visto che la musica barocca è sempre stata più viva che mai, abbiamo dovuto assistere, pur di permettere certe esecuzioni sugli strumenti moderni, a scelte che definire bizzarre è dire poco: escludendo le volte in cui la mano santa del tecnico del suono ha ricreato il bilanciamento sul mixer, abbiamo avuto frequenti esempi nelle esecuzioni del Secondo brandeburghese di Bach (dove violino, tromba, flauto diritto e oboe devono dialogare) che in alcune esecuzioni del passato veniva realizzato mettendo il trombettista molto lontano dalla posizione degli altri strumentisti, per compensare la differenza dei volumi naturali degli strumenti. Straordinaria per la sua semplicità ed eloquenza anche la nota con cui Nikolaus Harnoncourt accompagnava l’incisione della Messa in si minore del 1968: usando le dimensioni dell’orchestra indicate da Bach, i volumi dell'orchestra erano perfettamente bilanciati, tanto da poterli registrare con una sola coppia di microfoni, mentre usando le dimensioni di un’orchestra moderna era necessario un enorme lavoro di bilanciamento tra le singole parti. Certo, di tanto in tanto si troverà sempre chi affermerà "ma se Bach avesse avuto il pianoforte... ", frase che però andrebbe completata con "...avrebbe scritto altra musica".
Tuttavia, per quanto gli studi in materia (e le loro applicazioni pratiche) abbiano fatto progressi enormi sulla comprensione sia degli aspetti organologici che della comprensione della prassi esecutiva, molti problemi restano aperti, e uno è certamente quello dell’utilizzo dell’organo nel basso continuo. Leviamoci di dosso l’impressione, tipicamente italiana, per cui l’organo sia esclusivamente strumento da chiesa e quindi da utilizzare solo in contesti sacri: basterebbe andare a leggere le molte note dedicate all’organo sul "Corago, o vero alcune osservazioni per mettere bene in scena le composizioni", un trattatello anonimo (forse di Pierfrancesco Rinuccini, figlio di quell’Ottavio, autore dei libretti della Dafne e dell’Euridice), scritto nella Firenze del 1630, laddove la Camerata de’ Bardi aveva appena inventato il melodramma.
Gli organi che vediamo comunemente nei concerti di musica antica sono strumenti in legno, facilmente trasportabili e accordabili, che possono essere dotati di uno o più registri e, pertanto, contenere al loro interno una o più file di canne. Trattandosi di strumenti che generalmente vengono affittati, o appartengono al luogo del concerto (chiesa, teatro o altro), devono avere caratteristiche di flessibilità timbrica (perché possono essere usati con gruppi - vocali, strumentali o misti - grandi o piccoli, e quindi aver bisogno di volumi sonori differenti) e di maneggevolezza, specie se è necessario spostarli frequentemente. Inoltre, poiché - a seconda del programma - può essere necessario variare il temperamento, devono avere la possibilità di modificare l'accordatura della singola canna. Per ottenere tutte queste cose, il compromesso migliore è sempre stato l’utilizzo dei cosiddetti "organi a cassapanca", che utilizzano canne di legno tappate, corrispondenti al registro di Bordone: infatti, una canna di questo genere ha una lunghezza pari alla metà rispetto a una corrispondente canna aperta, con conseguente risparmio di peso e di spazio: il tappo della canna, inoltre, è mobile e spostarne la posizione, modificandone la lunghezza, ritocca l'accordatura.
Come in tutte le situazioni, però, è necessario sottostare a compromessi che, in determinate condizioni possono non risultare accettabili: in questo caso, e specificamente per la musica italiana, esiste un problema evidente inerente il timbro dell'organo con canne di Bordone. Infatti, i nostri antenati conoscevano certamente questo tipo di registro: uno dei più autorevoli trattati in materia ("Regola, e breve raccordo per far render agiustati, e regolati ogni sorta di Istrornenti da vento, cioè Organi, Claviorgani, Regali, e simili, e contengono le vere maniere per formare detti Istrornenti delli più buoni, belli, e ben compartiti", di Antonio Barcotto, edito a Padova nel 1652) ne riconosce la praticità in termini di spazio ("tangano poco luogo, e possino dapire nelle Chiese piccole e anguste") ma boccia senza mezzi termini questo genere di timbro; "è da sapere, che tal voce è artificiosa, e non naturale, come quella delle Canne aperte. E se da qualche Maestro ne vengono fatte, questo sarà per il sparagno della materia [...] onde chi opera viene ad avvantaggiarsi della metà della robba. E per tal effetto ove possono capire Canne di tutta grandezza, si devono far fare, essendo di voce più perfetta, e buona". Il riferimento è al timbro del registro di Principale, tipico dell’organo italiano, ma che in relazione agli strumenti oggi esistenti è legato in primo luogo a canne di metallo. E qui sorge il dubbio cardine, poiché Claudio Monteverdi, Ludovico da Viadana, Emilio de’ Cavalieri parlano di organi di legno, ma con il timbro del Principale: non sono pochi gli appellativi volti ad elogiarne l’effetto di tali organi, definiti "soavi", "dolci", "pietra di paragone per le buone voci", "voce dolcissima per i recitativi". Inoltre, nelle testimonianze che possediamo relativamente alle messe in scena dei primi melodrammi troviamo riferimenti espliciti a queste tipologie di organo: basta andare a leggere la partitura dell’Orfeo di Monteverdi, che si premura di segnalarne la presenza in vari punti.
Il problema non era certo ignoto, anzi: nel Corso degli anni, alcune registrazioni che cercavano un suono autentico erano state realizzate su piccoli strumenti (con canneggio in metallo) conservati in chiese o musei. Questo approccio, pur certamente più autentico rispetto all’uso delle canne tappate, poneva tuttavia compromessi logistici non sempre aggirabili: in primo luogo, le condizioni di manutenzione dello strumento potevano non essere sempre ottimali; in secondo luogo, non è detto che lo strumento avesse il diapason o il temperamento corretti e ritoccare ad hoc l’intonazione di un organo non è sempre possibile. Senza contare che organi del genere hanno spesso collocazioni ben specifiche e non sono fatti per essere spostati, costringendo l’organista (e non solo) a lavorare in condizioni proibitive.
Per molti anni si è attesa la soluzione che in tanti auspicavano: avere finalmente a disposizione quegli strumenti di legno di cui parlano i testi antichi, che fossero trasportabili e con il timbro del Principale italiano. Ma le difficoltà non erano poche, perché nelle fonti storiche le indicazioni per la costruzione di questi strumenti sono veramente minime e a oggi sono sopravvissuti due soli strumenti con tali caratteristiche, quello conservato nella Silberne Kapelle, a Innsbruck,  e quello della cattedrale di Montepulciano (Siena).
Partendo da questi presupposti, l’organaro comasco Walter Chinaglia alcuni anni fa un percorso di ricerca, tra fisica e organologia, che l’ha portato a realizzare alcuni strumenti dal risultato davvero molto apprezzabile. Il progetto è culminato nella realizzazione dei "duoi organi per Monteverdi", due strumenti che cercano di ricalcare quelli che il compositore cremonese usò nella sua audizione a San Zorzi. Presentati al pubblico per le celebrazioni del 450esirno della nascita del compositore cremonese, nel 2017, hanno costruito un vero punto di partenza per un nuovo approccio all’esecuzione: infatti non solo gli strumenti sono stati impiegati in concerto, presentati in conferenze e utilizzati in varie incisioni discografiche recenti, ma lo stesso Chinaglia ha iniziato una collaborazione come Research Fellow con il Deutsches Museum di Monaco di Baviera per sviluppare il progetto di un grande organo di legno rinascimentale italiano.
Chinaglia, classe 1971, da molti anni noto per la qualità dei suoi strumenti, unisce la sua attività organologica a una laurea in fisica (con un passato da ricercatore universitario). Proprio questo connubio lo ha portato ad approcciare il problema analizzandolo in modo estremamente radicale, non basato quindi solo su un approccio empirico, ma anche e soprattutto cercando una soluzione scientifica.
Facciamo una necessaria premessa: uno strumento a fiato può essere scomposto in due parti fondamentali: un risonatore (la parte dove l'aria immessa entra in vibrazione, creando un’onda con determinate caratteristiche, ossia con un determinato timbro) e un tubo sonoro (dove l’onda acquisisce la propria lunghezza e, pertanto, l’altezza del suono): pensando a un semplice flauto diritto, la lunghezza del corpo (il tubo sonoro) viene modulata dalla posizione delle dita, permettendo quindi di produrre note diverse, mentre il timbro viene imposto dalla testata (e da come in essa viene immessa l’aria). Nell’organo la situazione è molto simile poiché ogni registro (che ha un certo timbro) consiste in una canna per ogni tasto (quindi di dimensioni variabili per produrre frequenze legate alle varie altezze): le canne di un certo registro, quindi, cambiano di dimensione ma mantengono la stessa geometria, scalata in proporzione.
Durante gli studi per questo lavoro, Chinaglia si è accorto del fatto che il pensiero comune, secondo cui una canna di legno avrebbe dovuto avere necessariamente un timbro più dolce, "flautato", rispetto a una di metallo non era completamente vero, infatti gli armonici che si possono sviluppare in una canna di legno non sono necessariamente inferiori a quelli di una di metallo, poiché la dotazione armonica del timbro dipende essenzialmente dalla geometria del risonatore e non dal materiale con cui è costruito.
Pertanto, lavorando opportunamente sui dettagli della forma della canna, Chinaglia è riuscito a raggiungere un risultato davvero straordinario che sembra rispettare tutte le caratteristiche estetiche così come possiamo desumerle dalle fonti storiche.
Il risultato ha immediatamente riscosso l’interesse sia del mondo organistico che di quello della musica antica, poiché ha di fatto aperto una porta nuova su quella che sembrava una strada senza uscita: per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento dal punto di vista più specifico, sul sito dello stesso Walter Chinaglia (www.organa.it) sono disponibili molti degli articoli - anche scientifici - sinora pubblicati, ma non mancano (e non mancheranno) le occasioni (discografiche e concertistiche, oltre a conferenze e lezioni) per potersi rendere conto del risultato con le proprie orecchie. Da quello che si è sentito sinora, se dal punto di vista organologico possiamo davvero parlare di un momento rivoluzionario, c'è soprattutto da assaporare l'autentica ventata di aria fresca sprigionata da questo "nuovo" strumento: certamente si apre un ambito di possibilità per la comprensione di questa musica su cui ancora tanto deve essere investigato e scoperto.
E tutto quello che era stato fatto finora? Da buttare? Non direi proprio: oggi sappiamo qualcosa di più di quanto non sapevamo ieri, e probabilmente domani sapremo un po’ di più di quanto non sappiamo oggi. La storia dell'interpretazione musicale è fatta di approssimazioni successive, di tentativi, di scoperte: ognuna di esse e figlia del suo tempo e del suo tempo ci parla. La musica è un mondo vivo, anche se vogliamo limitarci alla letteratura scritta all'interno di un lasso di tempo chiuso, e la cosa migliore che possiamo fare per esso è mantenerla viva e consegnare il nostro contributo a chi verrà dopo di noi, così come l’abbiamo ricevuto: operazioni come quella svolta da Chinaglia non solo ci fanno capire meglio il passato, ma portano nuova linfa vitale nel mondo della musica.
Carlo Centemeri
("Musica", n. 313, Febbraio 2020)

martedì, luglio 14, 2020

Lucerna verso l'avvenire...

KKL, Lucerna
Venendo dal lago dei Quattro Cantoni, il lago di Guglielmo Tell, l’acquasantiera della libertà svizzera, la piccola villa si svela poco a poco. Un cubo regolare trafitto da tante finestre, coperto da un tetto spiovente, adagiato mollemente su una collinetta degradante. E' l’immagine stessa della tranquillità borghese, di una vita Biedermeier, senza sfarzo, regolata dal ciclo delle stagioni della splendida natura che ha intorno. Ma Tribschen, prima di essere un’abitazione, è luogo di memorie care e importanti ai lucernesi. Là, dentro quelle stanze non grandi, Wagner si stabilì per sei anni, scrisse molta musica, fece dei figli, costruì la sua rispettabilità sociale nell’unione regolarizzata con Cosima Liszt. Inventò insomma, la sua personale libertà, galvanizzando le attese della città ospitale che lo venerò come un dio.
Sullo scalone di Tribschen (invero più modesto di come certi film ce l’hanno mostrato!) il 25 dicembre 1870 egli regalò a Cosima anche la musica della loro libertà conquistata, quell’Idillio di Sigfrido, con il tema della “tranquilla felicità”, che per i bambini fu sempre e solo la “musica delle scale”. Quell’evento ha fissato per sempre, come una vecchia foto seppiata, l’immagine di Lucerna, porto franco di libertà spirituali e avamposto di apertura culturale. Ed è d lì che, nel mese della musica, si ricominciò quasi settant’anni dopo, in un momento di grave attentato alla libertà umana. A Tribschen, il 25 agosto 1938, fu il Wagner campione di libertà e non quello strumentalizzato della supremazia della razza, a risuonare nel giardino della villa, per il concerto che Arturo Toscanini, negatosi a Bayreuth e a Salisburgo, aveva accettato di dirigere, con i nazisti alle porte. Era la prima pietra di una risposta di cultura e civiltà contro la barbarie. Era l’inizio delle Settimane Internazionali di Musica di Lucerna, il festival che oggi ha compiuto cinquantacinque anni di gloriosa tradizione.
L’album di famiglia non potrebbe essere più prestigioso. Sfogliando le pagine delle pubblicazioni che oggi testimoniano mezzo secolo di vita, sbalordisce la presenza del gotha della musica e della cultura internazionale, che sfila in regolare e tranquilla marcia nelle estati lucernesi. Ma, entrando nel vivo della kermesse, lì sul campo, si resta colpiti dallo stile defilato, sobrio che regna ancora in questa manifestazione, dove lo spirito di servizio nei confronti della musica, e della qualità esecutiva, preserva dal grido di una pubblicità invadente. Solidità e pragmatismo, in classico stile svizzero, che hanno segnato tutti i passi del Festival sin dalla sua nascita. Pragmatico fu Ernest Ansermet, il fondatore dell’Orchestra della Suisse Romande, che si inventò questo simposio per poter far suonare la sua orchestra anche l’estate nel settore tedesco del paese. Pragmatico fu, l'allora sindaco, Jacob Zimmerli che colse al volo l'occasione e mise a disposizione la Kunsthaus, costruita nel 1933, per la prima stagione, sede ufficiale fino ad oggi dei concerti sinfonici. Un debutto alla grande che vide sfilare, oltre Ansermet e Toscanini, anche i nomi di Fritz Busch, Bruno Walter e Willem Mengelberg e tra i solisti Alfred Cortot e il violinista Adolf Busch. All’epoca il Festival non disponeva di un’orchestra propria, e le prime stagioni furono fatte creando un organismo apposito per Toscanini, formato dai migliori gruppi cameristici del paese, come ad esempio il quartetto di Busch, rinforzati fino a ottantadue elementi per il repertorio di maggior impegno sinfonico. L’Elite-orchester, come fu denominata (e poi l'Elite-Chor, formato sugli stessi principi), servì ancora l’anno dopo a Toscanini per il Requiem di Verdi nella chiesa dei Gesuiti, evento d’eccezione cui assistette anche un altro esule d’eccezione, Thomas Mann.
Era così pronto il terreno alla costituzione delle due istituzioni che avrebbero segnato il cammino del Festival, cioè il Coro lucernese e l’Orchestra Svizzera del Festival. Il progetto del1’orchestra si concretizzò però solo nel 1943. Gli anni di guerra (nel 1940 il Festival non ebbe luogo) necessitarono di un complesso, che però diede opportunità all'Ita1ia di testimoniare la sua prima importante presenza. Nonostante la tensione politica verso un paese fascista, fu invitata l’orchestra della Scala e per due anni (1941-42) il meglio dei direttori italiani del momento salirono il podio della Kunsthalle: Victor de Sabata, Tullio Serafin, Bernardino Molinari, Antonio Guamieri e Antonino Votto, portarono accanto al predominante repertorio tedesco anche autori italiani contemporanei da Respighi a Giordano, da Martucci a Salviucci, da Pick-Mangiagalli a Pizzetti e Ghedini. Ma la “soluzione milanese”, cioè di un pacchetto confezionato di esecutori e programmi, non poteva soddisfare l’esigenza autoctona di manegevolezza e libertà artistica. L’orchestra del Festival, formata dal meglio dei solisti delle altre formazioni sinfoniche del paese, nacque allora con lo scopo di costare meno, ma con la cluasola di poter intervenire nella decisione artistica. Questo fatto, senza precedenti in Svizzera, ebbe anche l’effetto di garantire una minore ingerenza del Consiglio Comunale, erogatore dei finanziamenti, sulle decisioni del comitato artistico direttivo. L’Orchestra Svizzera, che diede il suo primo concerto il 26 agosto 1943, al salario giornaliero di soli 35 franchi, ebbe il consenso entusiasta di molti dei migliori solisti del paese, dal fagottista Rudolf Leuzinger, alla violinista Stefi Geyer, che si accontentò di un posto in quarto leggio, fino a Willi Boskowsky e Rudolf Baumgarten, più tardi direttore artistico del Festival.
Con la prima eccezione della Philharmonia di Londra nel 1954, diretta da Karajan, l’orchestra, forte di 105 elementi sotto i trentacinque anni, ha avuto il monopolio del Festival praticamente fino ad oggi. Ma, quest’anno, essa festeggia il cinquantenario, in clima di mestizia. Chiude i battenti. In epoca di multinazionali del disco essa non è abbastanza competitiva, nel rapporto prestigio-costi sul terreno delle incisioni discografiche e di conseguenza il Festival non riesce ad ammortizzare le spese, che per altri complessi, dai Berliner ai Wiener Philhamoniker al Concertgebouw di Amsterdam, sono a carico delle potenti holding (sulla situazione attuale delle orchestre e della vita musicale elvetica, si legga l'artico1o di Stefano Catucci, Passaggio in Svizzera, pubblicato su "Musica e Dossier" n. 56, luglio-agosto 1992).
Questo fatto ha trasformato alla fine degli anni Cinquanta la fisionomia del Festival, che ha assunto oggi un carattere di vetrina realmente internazionale e di stimolante raffronto. La filosofia attuale è anzi proprio invitare complessi prestigiosi, con il direttore musicale stabile del momento. Una tradizione cominciata con Karajan e i Filarmonici di Berlino, che dal 1961 ha garantito sempre due concerti l'anno, oggi rinnovata da Claudio Abbado.
Difficile enumerare esaurientemente tutti i primati del Festival; tra questi va annoverato, ad esempio, quello di aver avuto in contemporanea per alcune stagioni Karajan e Furtwängler, personalità come è noto agli antipodi che nutrirono a lungo sospetti reciproci sul piano artistico e politico. Tra le curiosità, la presenza di Sergej Rachmaninov, nel l939, come solista in uno dei suoi concerti per pianoforte, e quella di Benjamin Britten, nel 1947, che diresse l’English Opera Group in due sue opere, The Rape of Lucretia e Albert Herring, nell’ambito delle scarse presenze di teatro musicale. Ciò che ha caratterizzato l’ossatura stessa del Festival sono stati invece i molti e prestigiosi corsi d’interpretazione, paralleli alla presenza di solisti d’alto rango, riuniti poi in formazioni cameristiche. Come quelli tenuti dal l943 al l957 da Edwin Fischer, o quelli di violoncello di Enrico Mainardi, che con Fischer e Georg Kulenkampff prima e Wolfgang Schneiderhan poi formarono un formidabile trio. Ai Corsi di direzione d’orchestra, ad Ansermet successe Karajan (nel l955), rimpiazzato poi da Rafael Kubelik dal l96l. ll direttore ceco fu una delle presenze più assidue, tanto da decidersi di stabilire la residenza in città. Fuggito con l’avvento del comunismo dalla Cecoslovacchia, dal l948 al l984 portò l’attenzione del Festival sul repertorio meno frequentato dei suoi connazionali, eseguendo anche nel l962 un proprio Requiem pro memoria uxoria. Umanamente curiosa la vicenda di Bruno Walter che per dieci anni interruppe la presenza a Lucerna. Dopo un concerto nel l938, pronto a dirigere il suo adorato Mahler (la Seconda) l’anno dopo, fu colto dalla notizia della morte della figlia piccola dopo il Requiem verdiano diretto da Toscanini, e ritornò solo a guerra finita nel l949. Prestigioso anche il drappello dei cantanti: da Dusolina Giannini che nel 1938 inaugurò la stagione dei recital, ai fedelissimi per molte stagioni come Elisabeth Schwarzkopf, Dietrich Fischer-Dieskau, Ernst Haefliger, lrmgard Seefried e Maria Stader, titolare di un corso vocale. Ultima, ma non ultima, da registrare una costante e prestigiosa presenza di solisti italiani, da Zino Francescatti a Gioconda de Vito, da Carlo Zecchi a Maurizio Pollini, da Bruno Giuranna a Rocco Filippini, da Salvatore Accardo a Fernando Germani e Ferruccio Vignanelli.
Anche dal punto di vista dei programmi il Festival di Lucerna ha seguito l’evoluzione dei tempi. Da difensore di una tradizione sinfonica imponente (subordinata, è ovvio, alle inclinazioni dei singoli direttori d’orchestra) ha via via aperto le sue scelte anche alla musica contemporanea. Dal l970 furono create anche le “Prospettive” centrate su singoli autori, da Xenakis a Stockhausen, e venne istituita l’idea di un “filo conduttore” nella scelta dei programmi. Ed è tenendo ferma questa linea che
il Festival l993, ad esempio, è stato dedicato alla scuola Russa da Cajkovskij fino al contemporaneo Alfred Snittke. Il riaccendersi di interesse per il repertorio medievale e barocco ha impresso poi una nuova svolta alla tradizione musicale della città. Dal 1988, anno del Giubileo, è stato istituito un Festival di Pasqua, centrato sul recupero delle antiche tradizioni svizzere, che datano al IX secolo, all’epoca degli antifonari di San Gallo. Un festival mirato, dunque, anche a soddisfare esigenze interne; le orchestre e i solisti ospiti oltre al repertorio tradizionale, devono mettere in luce quello attinente alla Pasqua, alla musica sacra e alle sacre rappresentazioni. Una scelta che salda passato e futuro di una manifestazione che si appresta a vivere il suo secondo cinquantennio in un epoca assai mutata, ma con i piedi saldamente per terra.
L’ultimo, ma in realtà il primo atto di una ri-fondazione ideale è ora il progetto di ricostruzione della nuova Kunsthaus. Demolita quella gloriosa, ma ormai scomoda, senza camerini, sale di prova e con un palco stretto per le attuali dimensioni delle orchestre, è pronto il progetto, affidato ad architetti francesi, delle nuova sede, più grande e fornita di ogni necessità. Un democratico referendum nel l994, dall’esito scontato, sancirà il nuovo corso della vita musicale della città che, dal 1995 in poi, avrà un nuovo look.
Se oggi essa piange sconsolata il suo ponte medievale andato distrutto in un incendio, forse doloso, si appresta per domani a tenere accesa la “lucerna” della musica dell’avvenire, anche in mancanza del mago Wagner.
Marco Spada
("Musica e Dossier", Anno VIII, Numero 64, Novembre/Dicembre 1993)

sabato, luglio 04, 2020

Quirino Principe: Musica e filosofia (10/14)

Il primo consiglio di Circe è di non lasciarsi irretire dalle
Sirene, dalla loro voce che imprigiona con gli
incantesimi... Io solo posso udirla.
Odissea, XII, 158-160
 
CELESTI SIRENE NELLE OTTO SFERE PLANETARIE
Decima parte.
 
Marius Schneider, L'albero planetario
Nella puntata precedente avevo promesso un commentario al mito di Er, l'enigmatico testo che conclude la Politeia di Platone. Svelare fino alle radici quanto di misterioso è in quelle pagine non è possibile, e uno schermo ci separerà sempre dalla conoscenza del significato ultimo, poiché siamo di fronte a un testo ispirato da inafferrabili origini di pensiero, quasi una scrittura rivelata. E' lecito però il tentativo di ricomporre in sistema alcuni termini di natura musicale. Tutto quello che dirò è arbitrario, se non soggettivo, e si presta a discussioni interpretative: è un'indagine su indizi, non su prove, e sappiamo quanto la verità processuale possa essere diversa dalla verità delle cose. E' insidioso camminare sul filo di lana, sul ponte di nubi; nel rischio, mi conforta la delimitata premessa da cui muovo. Le ipotesi avanzate sono sostenute da nomi autorevoli, anzi, dai più autorevoli; quasi nessuna è mia. Cerco di ordinarle e di offrirne una sintesi.
Di mio, aggiungo soltanto qualche corollario, qualche chiosa ai margini.
Il fine della decifrazione è, in apparenza, elementare. Come definire i suoni cantati dalle otto sirene e fusi in un accordo universale? E' importante non tanto immaginare l'effetto d'insieme di quell'accordo arcano, quanto fissare con la più alta probabilità la natura individuale di quei suoni e i rapporti analitici che tra essi intercorrono. La realtà veduta e udita da Er è la realtà suprema, e il rapporto tra quei suoni sarebbe perciò il modello universale di ogni musica terrena. Gli otto cerchi da cui le sirene irradiano il loro fascino ruotano intorno al fuso di Necessità, e la loro musica è quindi necessaria e assoluta in termini filosofici: è un'essenza, non un fenomeno.
Come sappiamo, gli otto cerchi sono sfere planetarie. Nella fase culturale della filosofia ellenica in cui Platone opera, la successione dei corpi celesti a partire dalla Terra non coincide ancora con il noto schema aristotelico-tolemaico ripreso poeticamente dalla Commedia dantesca, ossia Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, stelle fisse. In Platone, la sequenza è lievemente diversa: Luna, Sole, Venere, Mercurio, Marte, Giove, Saturno, stelle. Sull'accertata ma problematica corrispondenza tra gli astri e il canto delle sirene, l'esposizione più densa e profonda è la sintesi compiuta dal musicologo alsaziano Marius Schneider (1903-1983) nel saggio "Die musikalischen Grundlagen der Sphärenharmonie", in Acta Musicologica, 1/2 (1960), pp. 136-151, riedito nell'edizione italiana originale degli scritti di Schneider (Il significato della musica, a cura di Elémire Zolla, Rusconi, Milano 1970) con il titolo Musica e metafisica: l'armonia delle sfere (pp. 205-227). Come osserva Schneider in apertura, da quando lo svedese Carl Allan Moberg (1896-1978) enumerò i tentativi, sempre rinnovati dall'antichità fino al secolo XVII, di identificare i suoni dell'armonie di sfere con determinate note (Sfärenas Harmoni, 1937), sulla questione cadde un lungo silenzio, preoccupato e sospettoso. Lo svizzero Jacques Samuel Handschin (1886-1955), nel libro Der Toncharakter (1948), volle spazzare via il proposito e l'intera concezione che esso sottintende, liquidando tutto il discorso sui pianeti sonanti come un'idea fissa dei neopitagorici e negando importanza al celebre passo finale della Politeia e al mito di Er, da Handschin considerato mera poesia e teologia espressa mediante simboli. Schneider ribatte che il mito di Er è la conclusione (quindi, un luogo di significato conclusivo, non divagatorio e assolutamente serio) di un'opera, la Politeia, fra le più severe e teoretiche di Platone. L'ancorare il sistema visivo-uditivo al fuso di Necessità, aggiungo, ha un suo peso decisivo nell'ambito di tutta l'opera di Platone e di tutta la linea matematico-metafisica (eleati, pitagorici, prima Accademia, neopitagorici) presente nella filosofia ellenica ed ellenistica. Handschin, continua Schneider, riducendo la concezione dei pianeti sonanti a una indebita "scientificazione" di un modo di pensare puramente poetico, confermava soltanto il suo illegittimo rifiuto di ogni pensiero analogico. Così egli si escludeva dalla comprensione del pensiero arcaico e delle filosofie musicali degli Egizi e degli Indiani, alle quali anche noi, in questa rivista, abbiamo dedicato alcune riflessioni: per esempio, l'idea di creazione del mondo mediante suoni.
Chi nega, ad un tempo, il valore musicologico e filosofico del mito di Er, sembra ignorare che nei Moralia di Plutarco sono indicate più volte varie (fin troppo varie, e contraddittorie!) serie di suoni musicali in corrispondenza con la serie dei corpi celesti. Lo studioso viennese Erich Moritz von Hornbostel (1877-1935) tentò senza successo di risolvere le contraddizioni plutarchiane, insidiose per troppa abbondanza. Ma non è questo che conta, mi permetto di osservare. Ciò che conta è la direzione individuabile negli scritti filosofici di Plutarco, e dichiarata apertamente dal filosofo neopitagorico: le fonti della teoresi musicale, per Plutarco come per lo stesso Platone, sono orientali, ossia egizie, babilonesi, iraniche, indiane, e si arriva persino alla Cina (anche se quest'ultima tappa non è dimostrata ma soltanto molto probabile attraverso mediazioni). Sappiamo così, finalmente, dove cercare il bandolo, anche se non è certo che troveremo quello giusto; sappiamo in quale ambito estendere le inchieste e i raffronti. Trattandosi di un sistema musicale-planetario, s'impone un terzo elemento paradigmatico che funge da mediazione, e la cui nomenclatura è particolarmente ricca in ambito orientale: l'elemento simbolico riferito a una sostanza naturale come il fuoco, l'acqua e via dicendo. Così, trasversale ai tre assi paradigmatici (note musicali, corpi celesti, sostanze naturali) si creano tante possibili terne sintagmatiche, suono-sostanza-astro. Com'è noto, il luogo per eccellenza, offerto a chi voglia indagare la composizione di simili terne, è la cultura cinese classica.
Questo ci permetterebbe di risolvere almeno un'incognita dell'equazione, ossia di rispondere che è legittima una corrispondenza. Alla soluzione della seconda incognita, ossia quali siano le singole corrispondenze, concorre un altro fondamentale ambito di cultura, l'India classica, una delle radici nascoste del pensiero ellenico ed ellenistico. In particolare, il Sangita Ratnakara, il grande trattato di musica del filosofo indo-iranico Sarngadeva (secolo XIII), che nell'India di settecento anni or sono fondò per la prima volta una compiuta teoria musicale. In quel libro, citato anche da Marius Schneider, viene costruito uno zodiaco musicale in cui ad ogni segno zodiacale corrisponde un suono ben definito su una scala.
Ormai il meccanismo inquirente può essere attivato. Per meglio procedere poi sul terreno del testo platonico, gettiamo uno sguardo a quelle lontane radici di sapienza, e cominciamo con la corrispondenza esistente nella Cina classica tra i pianeti e le sostanze naturali. Il libro Yoki afferma: "La musica è l'armonia del cielo con la terra, e prende dal cielo la sua virtù efficace". Nei nomi stessi degli astri tale armonia è implicita. Mercurio, che lo Yo-ki connette con il suono SI, è in cinese sciue-scin, "astro dell'acqua". Venere (SOL) è gin-scin, "astro d'oro e dell'aria". Marte (FA) è huo-scin, "astro del fuoco". Saturno (LA) è tu-scin, "astro della terra". C'è poi, nella simbologia cinese classica, un quinto elemento (cinque è l'onnipresente numero cinese, anche nei gradi della scala pentafonica): Giove (DO) è mu-scin, "astro del legno". Gli studi di Marcel Courant e il saggio memorabile di Marius Schneider, El origen musical de los animales sìmbolos (Instituto espanol de Musicologia, Barcelona 1946; trad. it. di Gaetano Chiappini, Gli animali simbolici e la loro origine musicale, Rusconi, Milano 1986, pp. 122-132) hanno messo in luce una quarta serie paradigmatica in corrispondenza parallela con le prime tre: i colori simbolici, giallo per l'aria (SOL), rosso per il fuoco (FA), azzurro per l'acqua (SI), verde per la terra (LA). Si realizzano così le seguenti linee sintagmatiche:
 
FA  =  Marte  =  rosso  = fuoco
SOL  =  Venere  =  giallo  =  aria
LA  = Saturno  =  verde  =  terra
SI  =  Mercurio  =  azzurro  =  acqua
DO  =  Giove  =  bianco  =  legno
 
Questo, per la soluzione della prima incognita. Ma le mediazioni tra Oriente e Occidente modificano le corrispondenze, e Sarngadeva rappresenta una fonte più "vicina" a Plutarco e a Platone. Nel Sangita Ratnakara, Toro, Leone e Pesci corrispondono rispettivamente a MI, FA, SI. Se ipotizziamo una relazione con i dodici suoni di una scala cromatica secondo il temperamento equabile, dovremmo riuscire a porre le dodici costellazioni zodiacali con i dodici suoni. Ma come, in quale ordine?
Non certo seguendo l'ordine mensile delle dodici costellazioni e tenendo conto della successione dei gradi di una scala
cromatica. Non ne verrebbe fuori nulla di sensato. Schneider, nel saggio citato in principio, escogita una felice soluzione, raggruppando le dodici costellazioni in quattro segni cardinali, quattro segni fissi e quattro segni mobili, come vogliono le buone norme astrologiche. In questo modo, completando il frammento o "torso" lasciato da Sarngadeva, il conto torna perfettamente, e in un unico modo possibile:
  • DO, RE bemolle, RE, Mi bemolle - Ariete, Cancro, Bilancia, Capricorno (segni cardinali)
  • MI, FA, Fa diesis, SOL = Toro, Leone, Scorpione, Acquario (segni fissi)
  • LA bemolle, LA, SI bemolle = Gemelli, Vergine, Sagittario, Pesci (segni mobili) 
A questa prima ipotesi, Schneider aggiunge una seconda, immaginando che ogni pianeta abbia lo stesso suono del segno zodiacale in cui il pianeta stesso ha la sua "casa" principale:
 
Sole = Leone = FA
Luna = Cancro = Re bemolle
Saturno = Capricorno = Mi bemolle; e Acquario = SOL
Giove = Sagittario = SI bemolle; e Pesci = SI
Marte = Ariete = DO; e Scorpione = FA diesis
Venere = Toro = MI; e Bilancia = RE
Mercurio = Gemelli = LA bemolle; e Vergine = LA
 
Su queste basi interculturali, Schneider ricostruisce l'albero planetario, che ci permette una plausibile lettura del passo platonico alla fine della Politeia.
Riproduco sostanzialmente l'immagine disegnata da Schneider, ma aggiungo, dopo la zona di Saturno, quella delle stelle fisse, ormai teorizzata da tempo negli anni in cui Platone era operante in Atene, e destinata a rimanere nella tradizione classica e cristiana. Il "suono" di questo cielo, secondo Nicomaco e Plutarco, non è diverso da quello di Saturno in Capricorno: MI bemolle. Si osservi come ciascuno dei cinque pianeti veri e propri (visibili a occhio nudo e quindi noti alle astronomie antiche, alla cinese come all'indiana, alla babilonese come alla celtica, all'egizia come all'ellenica) sia al centro di una zona di tensione tra due suoni distinti: la lieve sfumatura di un semitono in Mercurio e Giove, un tono in Venere, una terza maggiore in Saturno, l'asprezza di un tritono o diabolus in musica (inevitabile!) nel demoniaco Marte, combattuto tra il velenoso Scorpione e il cornuto Ariete. Sole e Luna corrispondono ciascuno a un unico suono, e c'è tra essi (ossia tra RE bemolle e FA) un intervallo di terza maggiore. Osservo anche ciò che né Schneider né altri hanno mai notato: che il MI bemolle delle stelle fisse è nella strategia intervallare esattamente intermedio tra RE bemolle e FA, sicché possiamo considerare il cielo stellato, quel cielo che tanto affascinava Kant, come l'elemento di mediazione tra la Luna e il Sole. Mi sono permesso, a tal fine, di aggiungere le due curve tratteggiate allo schema di Schneider.
Se ora ricordiamo che nel mito platonico di Er i cerchi celesti, dal più piccolo al più ampio per quanto riguarda il raggio (non per quanto riguarda lo spessore degli anelli al bordo), sono nell'ordine Luna, Sole, Venere, Mercurio, Marte, Giove, Saturno, stelle fisse, possiamo immaginare o ricostruire mentalmente la symphonia o accordo universale.
Restano al di fuori del quadro i tre pianeti "moderni", non visibili ad occhio nudo e scoperti dagli astronomi occidentali tra il secolo XVII e il XX: Urano, Nettuno e Plutone. Proprio non possiamo immaginare i loro suoni, tali da associarsi in un lontano e tenue accordo alla symphonia universale udita per prodigio da Er? La cultura occidentale non ci soccorre più: all'epoca di Galilei, ai tempi di Herschel, scopritore di Urano, di Leverrier (Nettuno) e di Lowell (Plutone), la simbologia planetaria e musicale non era più una realtà viva. Ancora una volta, in modo laterale, ci soccorre la cultura orientale. I nomi che i cinesi danno ai tre pianeti seguono a loro volta, per acculturazione, concetti di tipo occidentale.
Urano è tien-wan-scin, "astro signore del cielo", come insegna la mitologia greco-romana; Nettuno è hai-wan-scin, "astro signore del mare"; Plutone è min-wan scin, "astro signore degli inferi". Molto deludente. Tuttavia, il musicologo tedesco Hans Kayser (1891-1964), studioso di Paracelso e di Böhme e appassionato orientalista, nel suo libro Akroasis die Lehre von der Harmonik der Welt (Basel 1946), ci rivela che per comune accordo dell'astrologia occidentale moderna e di quella cinese Urano (Toro) suona MI, Nettuno (Vergine) suona LA, Plutone (Leone) suona FA. Ecco il remoto accordo FA-LA-MI, una quadriade di settima senza la dominante, arcana e malinconica. E Proxima Centauri? E Aldebaran? E Antares? E Algol, la stella-diavolo?
Quirino Principe
("Musica Viva", n. 11, Novembre 1990, Anno XIV)