Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, febbraio 21, 2014

Mussorgski: "Quadri di un'esposizione"

Modest Mussorgski (1839-1881)
Mussorgski riusciva tanto poco a padroneggiare i problemi quotidiani della vita che la sua scrivania era ingombra in continuazione di lavori mezzo incompiuti. Rimski-Korsakov che, avendo un tempo condiviso un appartamento con Mussorgski, conosceva bene quella scrivania, dope la morte dell'amico faticò molte ore a rimetterne in ordine le musiche e a limarne le asperità per renderle più accettabili al gusto del pubblico; una missione portata a terrnine con suprerno altruismo. Eg1i sottopose a revisione anche dei lavori che erano in effetti ultimati e aggiunse il tocco della sua peculiare brillantezza di orchestrazione ad altri che in generale parevano averne bisogno.
Tra essi figura Una notte sul Monte Calvo. Alla creazione di questo poema sinfonico dal caratteristico sapore russo concorsero svariati fattori iniziali. Il giorno di Natale del 1858 Mussorgski e suo fratello schizzarono con l’aiuto di Balakirev il piano per un’opera teatrale sul soggetto di una novella di Gogol, La vigilia di San Giovanni. Due anni dopo egli faceva allusione ad un’opera intitolata La strega. Forse in nessuna delle due occasioni fu composta una sola note di musica. E tuttavia il rapporto con Una notte sul Monte Calvo, la cui composizione fu rapidameme portata a termine nel 1867, risulta chiaramente da una lettera scritta poco tempo dopo a Rimski-Korsakov: “In testa alla mia partitura ne ho presentato i contenuti: raduno delle streghe, loro conversari e pettegolezzi; processione di Satana; osceno omaggio a Satana; Sabba. La forma e il carattere del mio lavoro sono russi i originali. Il tono generale è ardente e disordinato."
Mussurgski non tentò mai di farla eseguire, anche se continuò a disseminare qua e là progetti (invariabilmente abortiti) di opere teatrali che avrebbero potuto offrire una buona occasione per inserirvela. Egli morì lasciandola ineseguita, e toccò a Rimski-Korsakov recuperarla nel 1886 nel quadro di un concerto pietroburghese, in forma notevolmente riveduta; è in questa forma che essa generalmente si ascolta ancora oggi.
D’altra parte lo stesso Rimski-Korsakov si astenne dall’intervenire su Quadri di un'esposizione. Questo lavoro era una suite per pianoforte già compiuta, talmente audace nelle sue originali armonie e nel suo vigoroso stile pianistico che molti compositori ne hanno tratto degli arrangiamenti orchestrali. La versione di Ravel, di gran lunga la più conosciuta, fu composta nel 1922 dietro commissione di Kussevitzki.
I quadri messi in mostra in questa galleria davvero unica erano di Viktor Aleksandrovic Hartmann, intimo amico di Mussorgski e militante entusiasta del movimento che tentava di impegnare l'arte russa nella rappresentazione e nell'esaltazione della vita russa contemporanea. Egli morì nel 1873 all'età di 39 anni, e l'anno successivo una mostra commemorativa dei suoi lavori ispirò a Mussorgsky, già, fortemente stimolato dalla recente prima esecuzione del suo capolavoro Boris Godunov, la composizione di una serie di brani evocativi che fungessero da ricordo di questa occasione.
I quadri di Hartmann sono spesso più dei disegni che non dei dipinti veri e propri, e rivelano una propensione per il decorativismo di gusto orientale. Anche il ghetto polacco costituiva per lui un motivo ispiratore; inoltre aveva viaggiato in Francia e in Italia. Da parte sua Mussorgski ebbe l'idea, semplice ma vertiginosa, di collegare una serie di brani separati mediante una “Passeggiata”, così da suggerire l’idea del visitatore che cammina da un quadro all’altro. Il realismo viene così raggiunto ad un duplice livello; la vivida rappresentazione di ciascun quadro e la sua ambientazione nella galleria d’arte.
“Gnomus” rappresenta uno schiaccianoci di legno, intagliato come le mascelle di un grottesco volto raggrinzito; "Il Vecchio castello" è un antico castello italiano, con un trovatore che canta in primo piano; "Tuileries" non evoca la pace del famoso giardino parigino, ma un frastuono di bimbi che giocano; in “Bydlo” un pesante carro polacco trainato da buoi traballa lungo una strada fangosa; il “Balletto dei pulcini nel loro gusci" è danzato da due grottesche figure incappucciate da gusci d'uovo rotti, sotto i quali sporgono le gambe e le braccia. “Samuel Goldenberg e Schmuyle" (un quadro in possesso di Mussorgski) mostra due ebrei, uno ricco e uno povero; la melodia del ricco Goldenberg racchiude alcuni intervalli di sapore ebraico, Schmuyle è avvilito e piagnucoloso; ne “La piazza del mercato di Limoges" Mussorgski evoca il chiacchiericcio della piazza del mercato come se si trattasse di un pollaio o di un'aia, per poi passare senza soluzione di continuità a “Catacombe - Sepulchrum Romanum", dove Hartmann aveva ritratto se stesso ed un amico in visita alle antiche catacombe di Parigi; “Con [!] mortuis in lingua mortua” rispecchia l'immagine, creata dallo stesso Mussorgski, di teschi fiocamente illuminati dall'interno (e anche il suo zoppicante latino); “La capanna su zampe di gallina" rappresenta la terribile strega russa Baba-Iaga, che si nutre di ossa umane. Infine l'orrore cede il posto allo splendore del movimento conclusivo, “La grande porta di Kiev", una Porta di città dalla forma esuberante, simile ad una bambola russa, pesantemente ornata in stile paleoslavo, con un campanile e una grande quantità di mosaici colorati. La musica dipinge una processione di penitenti che sfilano sotto la porta, e la gloria simbolica dell'antica Russia.
 
Hugh Macdonald (traduzione di Carlo Vitali)

domenica, febbraio 09, 2014

Sylvano Bussotti: The Rara Requiem

Sylvano Bussotti (1931)
Che Bussotti in un momento centrale del proprio sviluppo stilistico (1968-70) tra la Passion selon Sade del 1966, I semi di Gramsci (1962-71), Lorenzaccio (1968-72) e Bergkristall (1954-73) - per richiamare alcuni vertici della sua invenzione - abbia posto mano alla composizione di un Requiem non può stupire chi ne na seguito sin dagli ormai lontani esordi l'itinerario espressivo; come altri pochi logico e coerente, nel quadro dell'attuale panorama musicale europeo. Il senso della morte è una costante della personalità artistica di Bussotti: la sua traccia stinge come un freddo velo d'ombra sulle fastose multiformi apparenze nelle quali si concreta il suo progetto, già caro al Divino Marchese e oggi provocatoriamente inattuale, di union des arts. E' l'onnipresente deuteragonista di quel teatro totale sulla cui scena Bussotti recita da anni come compositore, librettista, scenografo, scrittore con risorse a quanto pare inesauribili, il ruolo di primo attore. L’esibito amor vitae di questo sogno di totalità rinascimentale, polemicamente contrapposto all'alienante divisione del lavoro che ha investito nell’epoca del capitalismo avanzato anche la sfera estetica, nasconde risvolti inquietanti: la sua natura è contradditoria e ambigua.
L'opera, dedicata a Romano Amidei, fu sollecitata - secondo quanto testimonia l'autore con trasparente allusione - "a persona vivente e giovane" spinta dal “desiderio vivo di contemplare in musica la propria ombra ultraterrena: quasi una metafora, la più bella e serena possibile, sull'immortalità".
Immortalità si identifica qui con la dimensione del ricordo, con la capacità di recuperare il passato con tale straordinaria intensità da farne un'essenza reale, da inserirlo con radici tenaci nell’orizzonte del presente, e dal presente “la memoria - ha scritto ancora Bussotti - lentamente volta il capo in avanti, si muta in memoria del futuro". Così, anche il canto funebre cambia - almeno apparentemente - di segno, si rovescia nel mitico rituale orgiastico che celebra la morte come momento insopprimibile, ancorché tremendo - del ciclo vitale.
Se il silenzioso confronto con la pagina bianca che va riempendosi - spesso sotto la spinta di un arrovellato horror vacui - di un labirinto di segni tende all'impossibile mimesi del suo correlato fonico (secondo quanto ha sottolineato, scrivendo di Bussotti, Roland Barthes), questo a sua volta aspira ad appropriarsi, con furioso e disperato atto d'amore, dell'umano. La musica di Bussotti nasce infatti da un rapporto acuto, bruciante, con l'esperienza. I materiali poetici o sonori che essa trascina nel suo corso non hanno mai il sapore di estranei reperti, di objets trouvés: sono infatti abbarbicati attraverso una trama fittissima di relazioni, agganci, riferimenti a storie, esistenze, destini, all'impuro quotidiano o a un passato di cui la memoria indaga pietosa e febbrile le spoglie emergenti dal franare obliquo del tempo. Ci parlano di carne e di sangue, sollecitano tra se stessi un’ideale contemporaneità, garantita dal recupero dell'universale contenuto esistenziale, offrono, come naturali, accostamenti in altri contesti improbabili, tra Jacopone da Todi e Racine, tra Petronio e Mallarmé, tra
l’aulico canto omerico e il melodizzare plebeo al suono di domenicali chitarre.
Due frammenti che nel Requiem risuonano strettamente intrecciati assieme, l’uno di Rilke (“...la bellezza è soltanto la maschera del tremendo, che ancora possiamo sopportare ammirati poiché, indifferente, disdegnerà distruggerci"), l’altro, di Adorno (“Musica è un modo di conoscenza nascosto a se medesimo e al conoscente") potrebbero a giusto titolo essere assunti ad epigrafe del lavoro.
The Rara Requiem (il titolo fa ancora una volta riferimento a Rara, personaggio emblematico, presenza costante e ricorrente nella produzione di Bussotti) si compone di una serie di riflessioni e ricordi che in un vertiginoso recupero del tempo (da quello privato ed intimo dell'autore a quello mitico della poesia) tendono a fissare “il volto dell’Umano". Il tessuto verbale si compone di una vasta serie di frammenti di Omero, Alceo, Petronio, Tasso, Michelangelo, Foscolo. Jacopone da Todi, Heine, Racine, Baudelaire, Rilke, Pradella, Mallarmé, Campana, d’Annunzio, Braibanti, Adorno, Brandi, Bussotti, Penne, Arbasino, Metzger, Phllippe, ricomposti dall’autore in collaborazione con Fred Philippe.
Sette voci soliste ne sospingono in agglomerati preziosi e splendenti l'incandescente materia fonica, immaginativa, sentimentale, grondante densi umori di senso, oltre il velo pudico dell'orchestra di fiati, dell’arpa, del pianoforte, delle percussioni: sollecitando invece l'estro quasi sfrontato della chitarra e del violoncello concertanti, che si vorrebbero affidati a un solo esecutore, per sottolinearne la perfetta simmetria degli interventi.
L’intera composizione si presenta come un seguito di lenti percorsi circolari che ripetono all’infinito, sino allo spasimo, l’atto - votato allo scacco - con cui il pensiero anela al possesso impossibile di ciò che il tempo ha ghermito o non ha ancora liberato: The Rare Requiem mima la progressiva approssimazione a un nucleo dolcissimo e tenebroso di cui la musica si sforza di fissare i contorni tuttavia sfuggenti. In questa liturgia orrida e pietosa, che andrà lentamente sprofondando nel silenzio di “sonni sempre più lontani e fondi", si riassume il senso di The Rara Requiem: un capolavoro che dimostra l'intatta capacità della musica di fornire della nostra condizione umana una testimonianza altrettanto incisiva e drammaticamente attuale di quella consegnataci - per l'eternità - dai classici.

Francesco Degrada (1976)

domenica, febbraio 02, 2014

Alexander von Zemlinsky: Lyrische Symphonie

Alexander Zemlinsky (1871-1942)
Oltre che direttore d’orchestra fra i più apprezzati della sua generazione e didatta prestigioso per ammissione del suo allievo più illustre - Arnold Schönberg - Alexander Zemlinsky fu compositore assai stimato nella Vienna tra fine Ottocento e primo Novecento, di rango superiore a quello ufficialmente assegnatogli da un secolo, il nostro, pur non avaro di simpatie verso i protagonisti della "finis Austriae".
Benché di quel mondo Zemlinsky fosse un esponente esemplare, gli nocquero da un lato il confronto ravvicinato con Mahler, più rappresentativo nella sua modernità, dall’altro l’estraneità ai ‘progressi’ della Scuola di Vienna, che per lui si fermarono ai confini della tonalità e ben prima della dodecafonia. L'incidenza di Zemlinsky parve più limitata rispetto alle tematiche che lo coinvolsero; quasi si trattasse di un fenomeno tipico della sua epoca, compiuto artisticamente ma sfumato, da riconsiderare semmai in seconda battuta.
Prima che il riconoscimento giungesse a toccare momenti importanti della sua produzione come la musica da camera e soprattutto il teatro, oggi pienamente rivalutato, il nome di Zemlinsky fu quasi esclusivamente legato alla Lyrische Symphonie, in parte anche per il fortunato abbinamento con i testi del filosofo e scrittore indiano Rabindranath Tagore, Premio Nobel per la letteratura nel 1913 e poi mito di una certa avanguardia poetica novecentesca. Autore di cui Zemlinsky mise qui in musica sette poesie in traduzione tedesca affidandole al canto alternato di sue solisti e ad un'orchestra di proporzioni tanto grandiose quanto lussureggianti.
Se la data di composizione (1922-23) si colloca nel periodo della piena maturità di Zemlinsky (compositore tutt'altro che prolifico, e portato a meditare bene le sue scelte), il tono che pervade l'opera è quello dell'espressionismo onirico, impreziosito da uno stile decorativo di gusto finemente cesellato. Siamo in un clima culturale e musicale sensibilizzato dai colori esotici dell'ultimo Mahler (quello del Canto della terra, più volte adombrato e riecheggiato in passi decisivi) e agitato dal ricordo delle fantasie inquiete dello Schönberg dei Gurrelieder: in versione più estenuata e decadente, con uno sguardo già chiaramente retrospettivo e velato della mesta consapevolezza dei congedi. Il termine lirico è da intendersi in duplice senso: ora struggentemente nostalgico, ora esaltato da un'ansia liberatoria, come metafora di un mondo ormai perduto o idealizzato.
Il lirismo della Sinfonia lirica nasce dalla poesia ardente di Tagore, declamata in linee sinuose ed avvolgenti dalle voci soliste, che ne fanno veri e propri lamenti di un amore vagheggiato, ma è di tipo più simbolico che realistico, anche nella sensualità e nell'ebrezza. Nell'orchestra quel canto diviene qualcosa d'altro: desiderio d'appartenenza, evocazione di una perdita e sogno d'una riconquista. Da questo punto di vista Zemlinsky delinea un percorso nel quale le stazioni dei sette canti, concepiti nella forma di un dialogo tra solitarii che sembrano non incontrarsi mai, si salda intimamente cin gli interludii sinfonici che li collegano tra loro in un unico, omogeneo disegno formale: la cifra fondamentale è enunciata nel preludio, scandito da accenti fatali e minacciosi, con espressione insieme austera e appassionata. Il rivestimento sinfonico diviene così commento e ampliamento della poesia, sogno di un sogno, estasi di un desiderio che sopravanza la morte, per consegnarsi voluttuosamente al silenzio dell'oscurità.
La ricchissima tavolozza orchestrale, con il suo eclettismo cosciente, è un involucro abbagliante che racchiude una tragica monocromia e sottintende un'essenziale unità formale. A tacere degli evidenti richiami tematici che costellano le diverse sezioni in corrispondenza delle immagini poetiche, non sfugge a un'attenta analisi la costruzione dell'opera secondo precise coordinate sinfoniche, sì da combinare la forma del ciclo liederistico con quella del poema sinfonico. Anche questo aspetto conferma la volontà di riflettere i contenuti poetici in una sorta di contemplazione estetica, non vissuta in prima persona ma riflessa in uno specchio oggettivante di evocazioni sonore. Come se tutto fosse un ricordo, un simbolico vagare tra realtà e sogno, tra esaltazione e rassegnazione, fluttuante e incorporeo.

Sergio Sablich