Sylvano Bussotti (1931) |
L'opera, dedicata a Romano Amidei, fu sollecitata - secondo quanto testimonia l'autore con trasparente allusione - "a persona vivente e giovane" spinta dal “desiderio vivo di contemplare in musica la propria ombra ultraterrena: quasi una metafora, la più bella e serena possibile, sull'immortalità".
Immortalità si identifica qui con la dimensione del ricordo, con la capacità di recuperare il passato con tale straordinaria intensità da farne un'essenza reale, da inserirlo con radici tenaci nell’orizzonte del presente, e dal presente “la memoria - ha scritto ancora Bussotti - lentamente volta il capo in avanti, si muta in memoria del futuro". Così, anche il canto funebre cambia - almeno apparentemente - di segno, si rovescia nel mitico rituale orgiastico che celebra la morte come momento insopprimibile, ancorché tremendo - del ciclo vitale.
Se il silenzioso confronto con la pagina bianca che va riempendosi - spesso sotto la spinta di un arrovellato horror vacui - di un labirinto di segni tende all'impossibile mimesi del suo correlato fonico (secondo quanto ha sottolineato, scrivendo di Bussotti, Roland Barthes), questo a sua volta aspira ad appropriarsi, con furioso e disperato atto d'amore, dell'umano. La musica di Bussotti nasce infatti da un rapporto acuto, bruciante, con l'esperienza. I materiali poetici o sonori che essa trascina nel suo corso non hanno mai il sapore di estranei reperti, di objets trouvés: sono infatti abbarbicati attraverso una trama fittissima di relazioni, agganci, riferimenti a storie, esistenze, destini, all'impuro quotidiano o a un passato di cui la memoria indaga pietosa e febbrile le spoglie emergenti dal franare obliquo del tempo. Ci parlano di carne e di sangue, sollecitano tra se stessi un’ideale contemporaneità, garantita dal recupero dell'universale contenuto esistenziale, offrono, come naturali, accostamenti in altri contesti improbabili, tra Jacopone da Todi e Racine, tra Petronio e Mallarmé, tra
l’aulico canto omerico e il melodizzare plebeo al suono di domenicali chitarre.
Due frammenti che nel Requiem risuonano strettamente intrecciati assieme, l’uno di Rilke (“...la bellezza è soltanto la maschera del tremendo, che ancora possiamo sopportare ammirati poiché, indifferente, disdegnerà distruggerci"), l’altro, di Adorno (“Musica è un modo di conoscenza nascosto a se medesimo e al conoscente") potrebbero a giusto titolo essere assunti ad epigrafe del lavoro.
The Rara Requiem (il titolo fa ancora una volta riferimento a Rara, personaggio emblematico, presenza costante e ricorrente nella produzione di Bussotti) si compone di una serie di riflessioni e ricordi che in un vertiginoso recupero del tempo (da quello privato ed intimo dell'autore a quello mitico della poesia) tendono a fissare “il volto dell’Umano". Il tessuto verbale si compone di una vasta serie di frammenti di Omero, Alceo, Petronio, Tasso, Michelangelo, Foscolo. Jacopone da Todi, Heine, Racine, Baudelaire, Rilke, Pradella, Mallarmé, Campana, d’Annunzio, Braibanti, Adorno, Brandi, Bussotti, Penne, Arbasino, Metzger, Phllippe, ricomposti dall’autore in collaborazione con Fred Philippe.
Sette voci soliste ne sospingono in agglomerati preziosi e splendenti l'incandescente materia fonica, immaginativa, sentimentale, grondante densi umori di senso, oltre il velo pudico dell'orchestra di fiati, dell’arpa, del pianoforte, delle percussioni: sollecitando invece l'estro quasi sfrontato della chitarra e del violoncello concertanti, che si vorrebbero affidati a un solo esecutore, per sottolinearne la perfetta simmetria degli interventi.
Se il silenzioso confronto con la pagina bianca che va riempendosi - spesso sotto la spinta di un arrovellato horror vacui - di un labirinto di segni tende all'impossibile mimesi del suo correlato fonico (secondo quanto ha sottolineato, scrivendo di Bussotti, Roland Barthes), questo a sua volta aspira ad appropriarsi, con furioso e disperato atto d'amore, dell'umano. La musica di Bussotti nasce infatti da un rapporto acuto, bruciante, con l'esperienza. I materiali poetici o sonori che essa trascina nel suo corso non hanno mai il sapore di estranei reperti, di objets trouvés: sono infatti abbarbicati attraverso una trama fittissima di relazioni, agganci, riferimenti a storie, esistenze, destini, all'impuro quotidiano o a un passato di cui la memoria indaga pietosa e febbrile le spoglie emergenti dal franare obliquo del tempo. Ci parlano di carne e di sangue, sollecitano tra se stessi un’ideale contemporaneità, garantita dal recupero dell'universale contenuto esistenziale, offrono, come naturali, accostamenti in altri contesti improbabili, tra Jacopone da Todi e Racine, tra Petronio e Mallarmé, tra
l’aulico canto omerico e il melodizzare plebeo al suono di domenicali chitarre.
Due frammenti che nel Requiem risuonano strettamente intrecciati assieme, l’uno di Rilke (“...la bellezza è soltanto la maschera del tremendo, che ancora possiamo sopportare ammirati poiché, indifferente, disdegnerà distruggerci"), l’altro, di Adorno (“Musica è un modo di conoscenza nascosto a se medesimo e al conoscente") potrebbero a giusto titolo essere assunti ad epigrafe del lavoro.
The Rara Requiem (il titolo fa ancora una volta riferimento a Rara, personaggio emblematico, presenza costante e ricorrente nella produzione di Bussotti) si compone di una serie di riflessioni e ricordi che in un vertiginoso recupero del tempo (da quello privato ed intimo dell'autore a quello mitico della poesia) tendono a fissare “il volto dell’Umano". Il tessuto verbale si compone di una vasta serie di frammenti di Omero, Alceo, Petronio, Tasso, Michelangelo, Foscolo. Jacopone da Todi, Heine, Racine, Baudelaire, Rilke, Pradella, Mallarmé, Campana, d’Annunzio, Braibanti, Adorno, Brandi, Bussotti, Penne, Arbasino, Metzger, Phllippe, ricomposti dall’autore in collaborazione con Fred Philippe.
Sette voci soliste ne sospingono in agglomerati preziosi e splendenti l'incandescente materia fonica, immaginativa, sentimentale, grondante densi umori di senso, oltre il velo pudico dell'orchestra di fiati, dell’arpa, del pianoforte, delle percussioni: sollecitando invece l'estro quasi sfrontato della chitarra e del violoncello concertanti, che si vorrebbero affidati a un solo esecutore, per sottolinearne la perfetta simmetria degli interventi.
L’intera composizione si presenta come un seguito di lenti percorsi circolari che ripetono all’infinito, sino allo spasimo, l’atto - votato allo scacco - con cui il pensiero anela al possesso impossibile di ciò che il tempo ha ghermito o non ha ancora liberato: The Rare Requiem mima la progressiva approssimazione a un nucleo dolcissimo e tenebroso di cui la musica si sforza di fissare i contorni tuttavia sfuggenti. In questa liturgia orrida e pietosa, che andrà lentamente sprofondando nel silenzio di “sonni sempre più lontani e fondi", si riassume il senso di The Rara Requiem: un capolavoro che dimostra l'intatta capacità della musica di fornire della nostra condizione umana una testimonianza altrettanto incisiva e drammaticamente attuale di quella consegnataci - per l'eternità - dai classici.
Francesco Degrada (1976)
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