Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, dicembre 30, 2011

Bach: un piccolo libro d'organo per la gloria di Dio...

"Il 6 novembre, Bach, fino ad allora maestro di concerto e organista a corte, è stato, a causa della sua testardaggine e del congedo che sollecita con ostinazione, arrestato nella sala di giustizia; il 2 dicembre, il suo congedo gli è stato infine concesso ed è stato liberato dagli arresti”.

E’ in questo modo che gli archivi municipali di Lipsia raccontano questo sorprendente aneddoto della vita di Johann Sebastian Bach. Siamo alla fine dell’anno 1717, esattamente il 2 dicembre. Bach ha appena finito di passare quattro settimane agli arresti. Il suo signore, il duca di Weimar, non aveva sopportato che il suo brillante musicista avesse potuto immaginare di abbandonare il suo servizio e, per farlo riflettere, l’aveva messo in prigione!
Sarà dunque durante questo periodo che Bach dedicherà il suo tempo a questo “piccolo libro d’organo, nel quale l’organista principiante è iniziato ad eseguire in ogni modo un corale, oltre che a perfezionarsi nello studio del pedale….”
Tutto Bach è in questo progetto che, a dire il vero, rimane incompiuto. Incompiuto perché il manoscritto contiene lo spazio (ed i titoli) deli centosessantaquattro corali disposti nell'ordine dell’anno liturgico, come erano nella pratica religiosa della Turingia. Solo quarantacinque corali saranno scritti. Pedagogico? Evidentemente, il titolo lo indica chiaramente. A chi pensava, lui che si trovava lontano dalla famiglia? Senza dubbio ai suoi figli Wilhelm Friedman e Carl Philip Emanuel, ma quest’ultimi erano ancora troppo piccoli per arrivare con i piedi ai pedali dell’organo… Rigoroso. Certo, ogni corale è scritto a quattro voci, ogni corale
contiene una sola volta la citazione del “cantus firmus”. Il piccolo libro prevede di contenere tutti i corali necessari all’anno liturgico.
E perchè questo lavoro rimane incompiuto? Vedremo in seguito la cura con la quale Bach metterà il punto finale a diverse raccolte, quella del Clavierübng, quella delle Suites, delle Partite, delle Sonate. Qui tutto si ferma, lasciando il piccolo libro nel suo stato imperfetto. Aveva la sensazione di aver detto tutto? Impossibile. Bach non ha mai detto tutto, non cessa mai di stupirci, di emozionarci. Le ragioni sono forse più semplici. Lasciava il servizio del dica di Weimar nell’idea di diventare musicista di corte a Coethen. Mette a semplicemente a profitto questo periodo d’isolamento per immergersi dentro una riflessione profonda su quei testi e quei corali che sono la base del suo nutrimento spirituale. Sa bene che a Coethen, al prezzo di una situazione che spera economicamente più confortante, non avrà più nessuna responsabilità nell'ambiente della musica religiosa, poiché il suo signore è calvinista. Se a Weimar la sua produzione organistica è principalmente quella dei grandi brani virtuosi eredi dello “stylus fantasticus” imparato da Buxtehude a Lubecca, è adesso con questo rigore, con questa intimità, che mette il punto finale al suo lavoro di musicista di chiesa, almeno per il momento. E curiosamente, quando diventa Kantor della chiesa di San Tommaso a Lipsia nel 1723, non si interessa più a questa raccolta.
Mai le melodie di un corale sono state trattate con tanta sensibilità. Ogni melodia è situata in uno scrigno unico, sempre nuovo, sempre immaginativo. Non vi è ombra di dubbio che se avesse continuato, Bach avrebbe trovato la soluzione per variare le 119 altre possibilità offerte dagli altri corali previsti. La melodia del corale è presente in ogni brano, passeggia di voce in voce, è lì, a volte semplicissima, a volte ornamentata con quel significato così importante che Bach accorda ai suoi abbellimenti, che non sono mai aggiunti al discorso musicale, ma sempre ben integrati.
Quando poco tempo dopo scriverà per il suo primogenito Wilhelm Friedman un “piccolo libro per tastiera”, il primo brano non ha forse ha uno scopo pedagogico di sviluppare nelle dita (e nella testa) dell’allievo l’importanza di questi ornamenti che costituiscono l’essenza stessa del discorso?
Ed è senza dubbio nell’Orgelbüchlein, che colpisce di più. Certo l’arte del contrappunto è rigorosa, perfetta, esemplare. Certo le figure retoriche e le allusioni quasi descrittive sono evidenti come le imponenti settime discendenti del pedale che evocano con tanta forza la “Caduta d’Adamo”…
Ma ciò che tocca più profondamente l’anima e il cuore sono quei corali dove tutto sembra fermarsi all’improvviso per lasciare spazio a questa nostalgia, a questo canto sublime che solo Bach ha potuto trovare per far parlare il cuore del credente. Ich ruf zu dir, O Mensch bewein dein Sünde groß , Wenn wir in höchsten Nöten sein, quei corali dove il credente si ritrova solo nel punto della vita dove solo Dio gli può portare conforto, consolazione, compassione…
E infine, Das Alte Jahr vergangen ist: non si è mai vista espressione più esatta per evocare il sentimento indicibile proprio di quello strano momento dell’anno nuovo, questo passaggio che porta sempre con sé la sensazione di lasciare dietro di sé un passato pieno di ricordi tristi e felici, un passato irrimediabilmente perduto. Là dove altri si accontenterebbero di cantare superficialmente lo spirito del futuro, Bach si lascia andare a questo sogno sublime sul tempo passato.

Jerôme Lejeune (traduzione di Andrea De Carlo)

sabato, dicembre 24, 2011

Yes: "Close To The Edge"

Essendo la quintessenza di gruppo “virtuoso”, composto di abilissimi arrangiatori ed esecutori capaci di creare partiture di intricata genìe ed impeccabile riuscita, la recensione di un disco degli Yes, da parte di un loro fan e tale io sono, tende a virare sempre e comunque all’aspetto tecnico della loro musica, accusata dai detrattori di costituire mero esercizio formale, vuoto di contenuti. Effettivamente le opere minori della loro vastissima discografia hanno questo difetto, non è certo il caso però di “Close To The Edge”, quinto album da essi prodotto e considerato loro capolavoro. Fulcro centrale del meccanismo Yes è la collaborazione fra il cantante e compositore principale Jon Anderson ed il bassista Chris Squire. Anderson è insolita figura di leader, assai carente in quanto a presenza scenica (sul palco se ne sta, piccoletto e all’apparenza timido, attaccato al microfono al massimo agitando un tamburello o strimpellando talvolta un’acustica) tiene però un’incredibile voce, altissima e melodiosa ma al contempo forte e salda, intonata da paura, inevitabilmente dominante sopra gli strumenti anche nelle fasi più concitate e nei pieni orchestrali più stratificati. Il basso di Squire ha un impatto nella struttura dei brani di inusuale rilievo. Appresa in gioventù la lezione dei primi grandi bassisti melodici del rock (Paul McCartney, John Entwhistle degli Who… inquadrabili come musicisti per così dire “fuori ruolo”, con un approccio chitarristico al loro strumento nel senso di sostanzialmente melodico ed armonico più che ritmico) Squire ha sviluppato uno stile superlativo spettacolare e penetrante, messo in primissimo piano dal timbro secco e brillante del suo Rickenbacker e da un sempre generoso missaggio, sì da farne il vero motore ritmico/armonico della musica Yes. In modo tale che il chitarrista Steve Howe, virtuosissimo autodidatta con una spaventevole preparazione e sensibilità al tocco classico ed al contrappunto, svincolato da grossi obblighi ritmici può svariare alla grande in tutta una serie di abbellimenti, bordature, armonizzazioni da manuale. Un vero professore con laurea honoris causa, con un approccio “progressivo” alla chitarra elettrica nel quale il rock è soltanto uno degli elementi e neanche il principale. Jazz, folk e classica si mescolano nei suoi interventi rendendo a sua volta peculiare e riconoscibilissima la musica sua e del gruppo.In questo disco il tastierista è Rick Wakeman: studi classici ortodossi per lui, risultanti in una destrezza tecnica a livello di grande concertista, da subito convogliata nel più remunerativo e frizzante mondo del rock. La sua mano destra sui tasti bianchi e neri, che siano di sintetizzatori, organi o pianoforti, è di proverbiale agilità e sensibilità. Non altrettanto la sua vena compositiva, Wakeman negli Yes è solo arrangiatore e sommo esecutore, ciliegina sulla sostanziosa torta preparata dai colleghi. Alla batteria in questo disco siede ancora Bill Bruford, al tempo elevato a sua volta al rango di fenomeno. Non lo è, ma ”Close To The Edge” è l’opera ideale per apprezzarlo nella fase migliore della sua carriera, appesantitasi nel corso degli anni con un’involuzione di stile e di scelta di suoni. Qui il giovane Bruford appare ancora essenziale e creativo in sommo grado (ti aspetti un colpo di cassa e lui invece usa il rullante, e viceversa…veramente imprevedibile il suo accompagnamento per lunghi tratti). La suite che dà il titolo ed apre l’album si dipana per diciotto minuti in quattro diversi movimenti. Compatta e varia, brillante ed intricata, prima convulsa poi eterea infine gloriosa, è un classico del progressive di intensa musicalità, le partiture dei cinque musicisti hanno percorsi spesso asincroni per poi confluire magicamente in stacchi e cambi d’atmosfera. La scansione ritmica e quella vocale divergono spesso e volentieri, richiedendo consumata abilità a chi, come Squire e Howe, è impegnato sia strumentalmente che vocalmente (mi riferisco chiaramente alla sua esecuzione in concerto). “And You And I” è altra abbondante composizione, più lineare e definibile nelle sue parti: esordisce con un introduzione di Howe alla 12 corde acustica, sulla quale Wakeman si inventa deliziosi svolazzi di Minimoog (il glorioso, insuperato sintetizzatore monofonico solista) mentre Anderson declama asciuttamente le strofe. Tutto cambia al momento del ritornello, perché parte un’inaudita, veramente stentorea fanfara di moog + chitarra lap steel all’unisono, con tonnellate d’eco e su un tappeto fosforescente di mellotron ed organo. Una atmosfera massimamente sonora ed eroica, un vero trionfo all’estinguersi del quale riprende serafica la 12 corde stavolta più briosa per un altro giro strofe + fanfara stellare e conclusione finale oltrepassato il decimo minuto di durata. Gran pezzo, seppur magniloquente, indimenticabile. A chiudere l’album la cavalcata di “Siberian Kathru”, inaugurata da un riff piuttosto obliquo dell’elettrica di Howe sul quale si innesta un cantato ancora più obliquo che poi si estende in una jam strumentale, con le tipiche stratificazioni ritmiche notevoli stavolta non particolarmente eclatanti. Splendida la copertina dell’artista Roger Dean, un disegnatore molto astrale ed immaginifico: elegante ed essenziale all’esterno con il sinuoso logo Yes che qui fa la sua prima apparizione, fantasiosa all’interno con un paesaggio asteroidale ed acquatico in irrealistico equilibrio.

Pier Paolo Farina

sabato, dicembre 17, 2011

Gesualdo: il "Terzo Libro de' Madrigali" (1594)

Il Terzo Libro de’ Madrigali di Carlo Gesualdo “Prencipe di Venosa” venne pubblicato dall’editore ferrarese Vittorio Baldini, nel 1595, nello stesso anno e nella stessa tipografia del Primo e del Secondo Libro. La pubblicazione è curata da Ettore Gesualdo in quanto (già lo sappiamo dalle precedenti pubblicazioni) non era adeguato che un nobile si occupasse materialmente della pubblicazione di musica: secondo la concezione dell’epoca, infatti, altri impegni sociali e mondani dovevano occupare la vita di un aristocratico dell’alta società rinascimentale. Gesualdo era prima di tutto un principe, quindi nobile, ricco e potente grazie all’antica casata di cui era l’ultimo discendente e grazie ai grandi territori e castelli di famiglia che aveva ereditato nel sud Italia, vicino a Napoli. Con uno stratagemma, l’omonimo Ettore (del quale, purtroppo, non abbiamo alcuna notizia biografica) curerà sia questo che il Quarto libro assicurando di avere la stessa cura del suo predecessore Stella in questo nuovo “grandissimo saggio d’artificio et leggiadria…imitazione et osservanza di parole”. Se il Secondo Libro proseguiva il lavoro di ricerca musicale del Primo, questo Terzo Libro, segna sicuramente una svolta nel linguaggio di Gesualdo: accesi contrasti, dissonanze sempre più innovative e non regolate dalle convenzioni compositive di quel periodo storico, espressioni che accostano elementi e immagini fra loro inconciliabili, Gesualdo ricerca quella plausibile energia della parola poetica a divenire “evento sonoro”. In questo tipo di sperimentazione, Gesualdo non pretende la notorietà del poeta o la cura estetica del testo: egli cerca nella poesia quell’efficienza e quel vigore che la parola può offrire perchè divenga immagine, avvenimento, situazione acustica da apprezzare attraverso l’ascolto. Come un’opera pittorica si comprende e si ammira nel profondo attraverso l’osservazione per lungo tempo, così sempre più i suoi madrigali divengono tele musicali da comprendere solo con un ascolto che supera il primo impatto superficiale: già all’epoca i suoi madrigali furono studiati sulla notazione musicale scritta. Non è casuale che nel 1613 un’edizione completa dei suoi madrigali fu pubblicata “in partitura” perchè possa essere letta e studiata. Questo tipo di edizione è estremamente raro all’epoca (la “Rappresentazione di anima et di corpo” di Emilio de’ Cavalieri fu un altra eccezione), in quanto si preferiva stampare piccoli libri per ogni voce, che erano molto più economici, agili, pratici per l’esecuzione e molto più semplici dal punto di vista editoriale. Probabilmente edizione “in partitura” si rese anche necessaria per porre termine alle varie discussioni interpretative su molte delle note alterate che costituiscono i cromatismi tipici del linguaggio del principe.
Rimirando approfonditamente e reiterando l’ascolto di queste tele musicali, potremmo finalmente apprezzare tutto l’infinito mondo di soluzioni sorprendenti verso le quali il compositore si protende e si immerge da questo momento in poi: in quel momento storico, nessun musicista poteva avviare una ricerca musicale che non considerasse quel tipo di successo effimero che sgorga da una superficiale bellezza edonistica delle proprie opere. Stipendiato alla corte di un nobile mecenate o responsabile d’una istituzione religiosa, i compositori dovevano misurarsi in ogni momento con l’effettivo gradimento delle loro composizioni da parte dei committenti o dei fruitori del loro prodotto artistico. Gesualdo, principe potente e ricco, viceversa poteva permettersi di evitare un riscontro di pubblico, dimenticandosi della propria “sopravvivenza materiale” (e di conseguenza anche di quel rendimento in moneta e in notorietà che le opere “di successo” potevano offrire), concentrandosi viceversa sulla maturazione musicale e sulla sperimentazione di linguaggio. Forse per la prima volta nella storia della musica, egli poteva permettersi di svolgere una vera e pura “ricerca” finalizzata solo a se stessa.
In quest’ottica di assoluta autonomia artistica, anche i testi non venivano proposti o imposti dal mecenate, ma scelti accuratamente da Gesualdo stesso per la loro efficacia di infondere nella musica nuove sensazioni sonore: egli spesso commissiona dei madrigali a poeti e letterati (nessun musicista se lo poteva permettere), chiedendo loro delle immagini e delle parole che potessero mettere in mostra tutta la sperimentazione che solo lui era in grado di svolgere, libero da ogni tipo di vincolo materiale. Vediamo, ad esempio, il rapporto unidirezionale fra Gesualdo e Torquato Tasso: il sommo poeta inviava costantemente (e umilmente) i propri lavori, ma questi non erano assolutamente apprezzati dal principe che preferisce testi più anonimi (e di poeti meno blasonati) ma più soddisfacentemente efficaci a sublimare e le sue idee. Il 19 novembre 1592 il sommo Tasso scriveva: “le mando ancora dieci madrigali (…) per compiacere Vostra Eccellenza, mi sforzerò di trasmutarmi in nuove forme”. Altri madrigali furono inviati in seguito dopo un gelido silenzio, ma non ricevendo risposta il 10 dicembre con coraggio scriveva ancora “le mando altri dieci madrigali (…) in tutto deono esser stati sino a questa ora più di quaranta”. Non ricevendo ancora riscontro, il 16 dicembre si scusava con il principe perchè “l’esperienza mi ha fatto vergognare di me stesso e del mio ingegno (…) ma Vostra Eccellenza non può dubitare ch’io non l’onori ed ami quanto si conviene a l’alta sua fortuna e a la mia depressa condizione, bench’io non abbia saputo soddisfarla ne componimenti dei cinque madrigali che io le mando”. Neanche uno di ben quarantacinque documentati madrigali commissionati (e probabilmente pagati) al Tasso furono mai utilizzati da Gesualdo che dal Terzo Libro si avvale sempre più opere di letterati a noi sconosciuti ma che appagano il suo crescente desiderio di nuova creatività.
Tranne il madrigale d’apertura di Giovanni Battista Guarini (“Voi volete ch’io mora”), il Terzo Libro non si avvale di poeti noti ma piuttosto di testi anonimi in cui parole, immagini e situazioni possano mettere in luce la capacità del musicista ad offrire atmosfere ricche di pathos. Accesi contrasti, espressioni che accostano elementi e immagini fra loro razionalmente inconciliabili, Gesualdo si compiace di trasfigurare musicalmente dei madrigali che siano efficaci a divenire “eventi sonori”.
Nella seconda parte del libro l’atmosfera diventa poi particolarmente cupa e violenta segnando il passaggio alla successiva poetica: il madrigale “Non t’amo, o voce ingrata” segna questo passaggio. Da questo momento la parola “morte” e tutti i suoi sinonimi saranno quasi onnipresenti nei testi musicali, a segnalare una ferita sanguinante nel proprio cuore. Il tradimento dell’amata moglie, consumato in casa propria, e il terribile e violento epilogo a cui fu indotto, segnò sicuramente un punto fermo nella sua produzione creativa e nella assidua ricerca di testi che mostrassero a tutti quelle immagini. Probabilmente anche il ruolo di violento uxoricida vendicativo, che è costretto ad indossare, lo porta ad indagare una realtà musicale rabbiosa, irascibile, furiosa e turbinosa. Oramai era noto in tutto il mondo per quest’episodio violento: ora la sua musica, quella che da sempre lo aveva reso un uomo affascinante e felice allo stesso tempo, dovrà mostrare e narrare questi suoi stati d’animo, questa sua reale sofferenza, questi sentimenti repressi che erano esplosi in quell’episodio estremo. La musica di Gesualdo da questo momento in poi deve far riflettere il pubblico sulla sua sorte d’essere umano sofferente e tradito: a quest’uomo non resta altra amara sorte che ritirarsi nella musica, tentando di riscattare con questi affreschi sonori quella triste vicenda a cui era stato involontariamente sottoposto. Visto che tutti vedevano in lui solo l’effigie di violento assassino, la sua musica doveva mostrare il perchè di quel gesto estremo, il perchè pur amando la propria moglie fin da bambino, è costretto dalla società a pugnalare quell’amore. Vedremo nelle note del Quarto Libro che nonostante il processo per l’assassinio della moglie e del suo amante scagionava totalmente Gesualdo da Venosa in quanto “delitto d’onore” (giustificato pienamente dalla collettività e dalla giustizia dell’epoca), la società prenderà in seguito posizioni molto contrastanti riguardo questa vicenda. Molti infatti schiereranno a favore dell’amore di Maria d’Avalos con Fabrizio Carafa, valorizzando non l’onore come valore morale, ma il potere dell’amore che vince ogni consuetudine sociale fino alla conseguenza estrema di morire per esso.
Per tutta la vita Gesualdo deve difendersi: lo farà con la sua arte, con queste tele sonore. Il testo del madrigale “Dolcissimo sospiro” offre parole esplicite di quanto vissuto:
Deh, vieni a raddolcire
l’amaro mio dolore:
ecco ch’io t’apro il core.
Ma, folle, a chi ridico il mio martire?
Ad un sospir errante
che forse vola in seno ad altro amante?
Così anche il madrigale anonimo “Non t’amo” descrive l’insopportabile risposta dell’amata che categoricamente rifiuta l’amore tanto faticosamente cercato e trovato:
“Non t’amo”, o voce ingrata,
la mia donna mi disse;
e con pungente strale
di duol e di martir, l’alma trafisse.
Grazie al lavoro di Elio Durante e Anna Martellotti (1987) possiamo attribuire questo testo a Ridolfo Arlotti, segretario del cardinale Alessandro d’Este e cognato di Gesualdo che probabilmente fu l’artefice di alcuni “rimaneggiamenti” nello stile del Principe di alcuni testi anonimi molto più vecchi, come ad esempio “Se vi miro pietosa” e il madrigale più famoso di questo libro: “Ancidetemi pur, grievi martiri”.
Come era avvenuto nel Secondo Libro per il madrigale scritto da Alfonso d’Avalos “Sento che nel partire” anche in questo Libro noi troviamo un omaggio del Principe al celebre Jacques Arcadelt: infatti come “Sento che nel partire” anche “Ancidetemi pur” (nel 1539) era stato usato dal musicista fiammingo (che evidentemente Gesualdo ammirava). Il testo doveva essere adeguato in modo tale che potessero emergere l’inedita e personale poetica. Interessante confrontare i due testi, come affascinante confrontare le due realizzazioni musicali. Ecco l’originale usato da Arcadelt:
Ancidetemi pur, grievi martiri
ch’l viver m’è sì a noia
che’l morir mi fia gioia,
ma lassat’ir gli estremi miei sospiri
a trovar quella ch’è cagion ch’io muoia
e dir’a l’empia fera
ch’onor non gli è che per amarl’io pera.
Cinquant’anni separano questi due madrigali ma, nonostante le assonanze, la modernizzazione della poetica operata da Arlotti evidenzia lo stesso mutamento che Gesualdo opererà come trasfigurazione musicale: non più la statica perfezione armonica e contrappuntistica di Arcadelt, ma una tela sonora colma di chiaroscuri, contrasti, contrapposizioni, contraddizioni musicali che esplicano gli ossimori poetici evidenziati in madrigalismi che coinvolgono tessiture e armonie: “gli estremi miei sospiri” divengono estensioni estreme, dissonanze, cambi repentini di modi e quindi di atmosfere sonore.
Non possiamo infine tralasciare di citare l’intima espressività di “Se piange, oimè, la donna del mio core”. Gesualdo non dovrà subire una condanna in tribunale per quel gesto estremo che gli segnò la vita, ma dovrà difendersi da quanti ritennero l’amore un valore superiore ad ogni legge e convenzione sociale: egli si difese con l’arte della musica, con una vita dedicata a rivalutare la propria immagine consumata ogni giorno dal rimorso di avere ucciso l’unico sogno in cui credeva.
Con quel gesto feroce Gesualdo riceverà dalla società un ruolo che dovrà subìre pesantemente fino alla fine della vita: i suoi madrigali e la loro estrema realizzazione sonora fisseranno quel personaggio secondo il personale punto di vista. La sua musica sarà l’unica colonna sonora possibile.
Marco Longhini

sabato, dicembre 10, 2011

Quartetto Prometeo: miti contemporanei

Uno sguardo alla classicità e uno al nostro tempo, la formazione cameristica nata alla Scuola di Fiesole si va affermando come una delle più interessanti della sua generazione.

Diciott'anni di carriera, di concerti, di incisioni e di prime esecuzioni assolute. Il Quartetto Prometeo è, a distanza di due mesi dal Trio Johannes (vedi Amadeus n. 260, luglio 2011), il secondo ensemble italiano che festeggia la maggiore età nel 2011 con un cd allegato ad Amadeus. Il Prometeo però ha cambiato alcuni dei componenti - tutti nati nei primi anni Settanta - nel corso della sua carriera. Aldo Campagnari (secondo violino) e Francesco Dillon (violoncello), i membri fondatori rimasti nella formazione, hanno «voluto e cercato» gli altri due musicisti che ora sono parte stabile del quartetto: Giulio Rovighi (primo violino) da tre anni, Massimo Piva (viola), il più giovane, da un anno soltanto.
Il Prometeo ha vinto numerosi concorsi internazionali, tra cui la grande affermazione alla 50° edizione del Prague Spring International Music Competition nel 1998, in cui hanno ricevuto anche il Premio Speciale Bärenreiter per la migliore esecuzione fedele al testo originale del
Quartetto K 590 di Mozart, il Premio Città di Praga come migliore quartetto e il Premio Pro Harmonia Mundi. La sua storia nasce cinque anni prima alla Scuola di Musica di Fiesole, dove Campagnari e Dillon erano prime parti dell'Orchestra Giovanile Italiana, sotto gli auspici dello
storico violista del Quartetto Italiano Piero Farulli. Agli inizi del percorso, però, Prometeo era ancora lontano. «Il nostro primo nome», ricorda Dillon, «ci è stato proposto da Farulli, ed era Quartetto dell'Orchestra Giovanile Italiana 1993. Poi per fortuna quel nome chilometrico
venne abbreviato in Quartetto Ogi».

E dunque quando è "nato" Prometeo?
Dillon. «Dopo qualche anno, quando non eravamo più giovanissimi e abbiamo cercato un nome per percorrere una strada più indipendente. Dopo una lunga riflessione abbiamo scelto Prometeo, sia come riferimento all'opera omonima di Luigi Nono, e quindi alla contemporaneità,
sia come legame con la classicità».
La vostra identità si è modificata quando è cambiata la formazione originaria?
Dillon. «lo e Aldo non vediamo un cambiamento radicale quanto un'evoluzione. Lo stile del nostro quartetto resta e la componente individuale viene integrata nella "visione Prometeo". Suonare insieme in quartetto è molto delicato e bisogna scegliersi per affinità musicale. Non ci siamo mai scelti in base alla comodità geografica, anche se sarebbe molto più comodo: io sono di Firenze, Aldo di Trento, Giulio di Roma e Massimo di Rovigo, quindi siamo sempre in viaggio».
Quali sono le caratteristiche del Quartetto Prometeo come insieme e quali invece gli apporti dei singoli elementi?
Rovighi. «Il tratto distintivo è che non c'è un leader. Da noi le decisioni vengono equamente divise e ognuno porta lo stesso tipo di apporto e contributo. Certo, ci vogliono più tempo e più prove, ma sicuramente c'è abbondanza di idee».
Dillon. «Per quanto riguarda le peculiarità individuali, le abbiamo individuate nelle biografie in chiave scherzosa disponibili sul nostro sito internet (www.quartettoprometeo. com): Giulio è il più attento alla qualità del suono, Aldo il maniaco del ritmo, il "metronomo", Massimo il più rigoroso nella ricerca del fraseggio e della metrica, mentre io sono il fantasista che propone brani stravaganti».
Visitando il vostro sito internet e la vostra pagina Facebook si nota un approccio divertente e fresco alla comunicazione. Lo mantenete anche quando affrontate una partitura?
Campagnari. «Alle prove quasi mai, mentre durante i concerti ci sentiamo un po' píù liberi di divertirci con il pubblico».
Dillon. «Ogni tanto però giochiamo anche con il repertorio. Quest'anno abbiamo inciso un disco di trascrizioni di Stefano Scodanibbio e da cose molto serie, come tre contrappunti dell'Arte della Fuga di Bach, siamo arrivati ad altre più leggere come 5 canzoni messicane che suoniamo come bis».
Qual è il vostro rapporto con la musica contemporanea? Ci sono dei compositori con cui avete un rapporto speciale e privilegiato?
Dillon. «L'idea è quella di mettere in dialogo musiche di varie epoche: accostiamo György Kurtág ad Alban Berg e Schumann, o Sciarrino a Debussy e Brahms, e cerchiamo di spiegare in sede di concerto come il compositore del Novecento segua idealmente la scia tracciata dagli altri due. Abbiamo poi lavorato molto con Salvatore Sciarrino, che ha trascritto per noi le Sonate di Scarlatti e ci ha dedicato il Quartetto n. 8, e con Stefano Gervasoni.
Rovighi. «Collaboriamo anche con Ivan Fedele, che ha molto apprezzato la nostra interpretazione di Der Tod und das Mädchen di Schubert, nel quale lo studio della musica contemporanea ci ha permesso di ampliare moltissimo la gamma delle sonorità».
Piva. «Io stesso compongo: la mia opera più complessa è proprio un quartetto per archi e la mia aspirazione sarebbe quella di eseguirlo con loro».
Nella lista delle vostre influenze musicali, pubblicata sulla vostra pagina Facebook, Robert Schumann spicca perché è il primo nome. E' una casualità o effettivamente lo considerate un punto di riferimento assoluto?
Campagnari. «Non è casuale. Il suo Quartetto n. 1 è il primo pezzo che abbiamo studiato insieme, quindi si può dire che Schumann sia sempre stato un filo conduttore della nostra attività».
Schumann non si è dedicato molto al quartetto d'archi. Ne ha realizzati solo tre, scritti nell'arco di due mesi nel 1842. Quali sono le loro caratteristiche?
Rovighi. «Il primo quartetto è il più facile da ascoltare, il più limpido e il più classico come scrittura. Il secondo rappresenta di più il lato inquieto, scritto con soluzioni più audaci e complesse. Il terzo è il più elaborato e consapevole».
Dillon. «Sono stati composti in un periodo felice della vita di Schumann, sposato da poco: all'inizio del Quartetto n. 3 c'è una quinta discendente che è un motto sulla parola "Clara", quasi un messaggio cifrato, come del resto ha fatto in tutta la sua opera».
Come mai faticano a rientrare nel grande repertorio?
Campagnari. «Forse si pensa che sia musica a cui manca oggettività, e invece ha contenuti poetici meravigliosi che vanno sottolineati nell'interpretazione. Altrimenti si rischia di perderne le sfumature, che sono la cosa più bella».
Dillon. «Alcuni movimenti sono molto complicati da risolvere dal punto di vista tecnico, soprattutto nell'applicazione del rubato tipico del pianista che esegue Schumann. La sfida, se ci si vuole cimentare con questi tre quartetti, è ottenerlo pur suonando in quattro».
Rovighi. «Anche la loro scrittura è molto pianistica, e tradurla con uno strumento ad arco non è per niente semplice».
Che scelte interpretative avete operato?
Rovighi. «Essere più liberi possibile e superare il limite della scrittura quartettistica rendendola quasi individuale. Abbiamo anche cercato di seguire i metronomi originali con tempi molto rapidi».
Dillon. «In molti casi quelle indicazioni sono una spinta a estremizzare i caratteri, e noi abbiamo cercato di seguirne lo slancio».
Quali sono i vostri progetti futuri?
Campagnari. «Abbiamo in uscita l'integrale per quartetto d'archi di Salvatore Sciarrino e stiamo completando la registrazione di due cd-dvd: il primo conterrà Der Tod una das Mädchen di Schubert e l'op. 95 di Beethoven, il secondo musiche da camera di Ivan Fedele, tra cui un pezzo scritto per noi che prevede la partecipazione del soprano Valentina Coladonato».
Rovighi. «A settembre registreremo anche l'integrale per quartetto d'archi di Hugo Wolf, che comprende il Quartetto, l'Intermezzo e la Serenata italiana».
Dillon. «Per quanto riguarda i concerti, oltre alle date in Italia abbiamo nei prossimi mesi due tournée in Olanda, e Argentina».

di Claudia Abbiati (Amadeus, n.262, settembre 2011)

sabato, dicembre 03, 2011

Gesualdo: il "Secondo Libro de' Madrigali" (1594)

Il Secondo Libro de’ Madrigali di Carlo Gesualdo “Prencipe di Venosa” venne pubblicato dall’editore ferrarese Vittorio Baldini, nel 1594, nello stesso anno e nella stessa tipografia de Il Primo Libro de’ Madrigali. Entrambe le pubblicazioni sono curate dal musicista Scipione Stella che, nella dedica introduttiva di questo secondo lavoro, si scusa con il Principe per aver avuto “l’ardire di raccogliere, e dare alla stampa questi Madrigali (precioso saggio, e parto dell’Eccell. Sua) senza domandargliene licentia”. Sappiamo quanto non fosse conveniente che un nobile si occupasse della pubblicazione di libri o di musica (ben altri impegni dovevano riempire la vita di un principe in quella che era l’alta società rinascimentale); quindi, Gesualdo si rivolge a Stella perchè le proprie opere potessero essere pubblicate senza essere biasimato. Curiosamente, questo raffinato stratagemma barocco s’inceppa nelle date: la dedica di questo Secondo Libro (10 maggio 1594) precede di poco meno di un mese la data di pubblicazione del Primo Libro (2 giugno 1594) confermando l’ipotesi che questi Madrigali del 1594 vengono dunque distribuiti all’interno dei due libri senza un effettivo ordine cronologico di composizione. In queste due stampe, le composizioni musicali sono scelte e saldate insieme in occasione del viaggio a Ferrara: qui Gesualdo pochi mesi prima, il 21 febbraio 1594, aveva sposato Eleonora d’Este figlia di Alfonso d’Este (marchese di Montecchio e figlio illegittimo del Duca Alfonso I, duca di Ferrara). Abbiamo già esaminato nella precedente nostra pubblicazione (Naxos 8.570548) questo suntuoso avvenimento mondano, il mondo Estense e la prima pubblicazione dei Madrigali: ricordiamo solo la testimonianza del cronista Fontanelli (inviato da Alfonso II d’Este per avere maggiori notizie del suo futuro parente) che ci informa che il Principe raggiunge Ferrara portando “seco due mute di libri a cinque, tutte opere sue”, probabilmente proprio questi due Libri del 1594.
Ascoltando questi venti Madrigali del Secondo Libro, notiamo la prosecuzione di un lavoro già maturamente avviato, l’approfondimento di temi cari al nostro musicista, la fluida capacità di trattare la parola poetica quale fonte di gemmazione musicale e la geniale inquietudine musicale: quasi fosse una seconda parte di una stessa opera, questo Secondo Libro prosegue anzichè rivoluzionare, conferma più che deviare. Bisognerà attendere il Terzo Libro, 1595, e il Quarto, 1596 (Naxos 8.572137) (sempre pubblicati a Ferrara da Baldini) perchè l’autore si rimetta in discussione e frantumi il prezioso mondo musicale che ascoltiamo in questo Libro e nel precedente. La stupenda concezione manieristica di poetica inquieta, questo “instabile equilibrio” (usando un ossimoro che sarebbe piaciuto al nostro musicista) ancora poco intaccato dalle successive ricerche estreme e ancora congiunto alle strutture razionali della tradizione polifonica, verrà in ultimo sovvertito nei Madrigali contenuti nel Quinto e Sesto Libro (1611) per costruire qualcosa di nuovo, qualcosa di assolutamente inedito. Per ora, con grande orgoglio, il “Prencipe” si accontenta di mostrarsi quale abile compositore, desiderando presentarsi con una certa originalità linguistica, certo che il mondo culturale raffinato di Ferrara, la sua sposa e il Duca Alfonso II d’Este, lo possano capire e apprezzare. Il Secondo Libro è dunque un chiaro ossequio alla cultura ferrarese, quella più avanzata e innovativa (legata a compositori come Cipriano de Rore, Jacques de Wert o a Luzzasco Luzzaschi), adatto ad essere fruito e apprezzato dal più raffinato pubblico d’intenditori, in quella corte aristocratica che più d’ogni altra coltivava e apprezzava la musica e il madrigale quale simbolo di sintesi e risultato maturo d’incontro tra le diverse arti rinascimentali. Basta ascoltare due madrigali esemplari di questo Libro per rendersi conto della grande maestria: Hai rotto e sciolto e All’apparir di quelle luci.
I testi contenuti in questa pubblicazione non sono facilmente attribuibili. Pochi madrigali del Secondo Libro sono stati ufficialmente assegnati ai rispettivi autori e, sostanzialmente, i poeti a noi noti sono solo tre: Torquato Tasso, Giovanni Battista Guarini e Alfonso d’Avalos. Su quest’ultimo autore e il suo componimento Sento che nel partire, che troviamo in posizione centrale nel Libro, convergiamo per un istante la nostra attenzione: è un madrigale molto famoso nel Rinascimento (come fu un altro madrigale dello stesso autore: Il bianco e dolce cigno). Venne scritto nel 1547 (quindi quasi cinquant’anni prima del Libro di Gesualdo) e musicato da Cipriano de Rore nel suo Primo Libro a quattro voci edito a Ferrara nel 1550; vista la popolarità raggiunta in tutta Europa fu citato come brano “da variare” in molte messe-parodia di autori come Jacquet de Mantua, Philippe de Monte e Orlando di Lasso. Il testo originariamente scritto da Alfonso è diverso:
Anchor che col partire
io mi senta morire,
partir vorrei ogn’or ogni momento
tant’è ‘l piacer ch’io sento
de la vita ch’acquisto nel ritorno.
Et così mill’e mille volt’il giorno
partir da voi vorrei
tanto son dolci gli ritorni miei.
Molte le versioni scherzose a cominciare da una Giustiniana di Andrea Gabrieli del 1570, fino alla più famosa e divertente parodia contenuta nel Libro L’Amphiparnaso, Comedia Harmonica di Orazio Vecchi, edita nel 1597, e nella variazione di Adriano Banchieri, Il Studio Dilettevole, 1600 (da noi recentemente registrato e pubblicato), nel quale si inscena una serenata della maschera carnascialesca bolognese del Dottore Graziano che volendo apparire edotto (visto che abita nella città con la più antica università del mondo), sbaglia tutte le citazioni storpiando le parole:
Il vecchio e Pedrolin stanno a sentire
Grazian che vuol cantar alla sua diva
quel madrigal “Ancor che col partire”.
Ancor ch’a parturire
l’huom si senta murire.
Padir vorrei ogn’or un molumento
tant’e’l piacer ch’ a stento
l’acqua vita m’ha pist’e pur ai torno;
e così mille volpe al far del zorno,
padir ancor vorrei,
tanto son dolci i storni ai denti miei.
Nel caso del nostro Secondo Libro, probabilmente è lo stesso Gesualdo a rinnovare un testo ormai considerato “vecchio” o a commissionare (a qualche letterato della sua cerchia culturale) un suo adeguamento in cui potessero emergere, in seguito, le personali ricerche musicali. Se questa scelta testuale potrebbe essere intesa quale tributo alla cultura ferrarese, esistono molti elementi per credere che, viceversa, Gesualdo pensasse a rendere omaggio ad un grande amore. Se noi, infatti, supponiamo che tale madrigale fosse stato precedentemente composto (insieme a tutti i brani contenuti nelle “due mute di libri a cinque”), dobbiamo evidenziare che Alfonso d’Avalos era il padre di Carlo d’Avalos, a sua volta padre della prima sposa di Carlo Gesualdo (nonchè cugina): la famosa Maria d’Avalos.
Gesualdo e Maria d’Avalos, le prime nozze, l’assassinio
Era considerata la più bella donna di Napoli: bionda, occhi azzurri, corpo formoso. Gesualdo, anche se più giovane di lei di sei anni, n’era attratto fin da bambino: ma a diciotto anni lei sposa Federico Carafa, giovane diplomatico di una celeberrima famiglia partenopea, da cui ebbe in seguito due figli. Purtroppo, dopo solo tre anni di matrimonio, il marito muore e poco dopo muore anche il figlio maschio. Due anni più tardi si sposa nuovamente con un ricco ventenne Alfonso Gioieni con il quale vive in Sicilia per sei anni ma, nel 1586, disgraziatamente anche il secondo marito muore. Provata dalla vita, ritorna a Napoli (nel castello Aragonese di famiglia, sull’isola d’Ischia). La giovane età (aveva ventisei anni), la straordinaria bellezza (famosa in tutte le corti europee) e le nobili origini, rendevano Maria d’Avalos una donna affascinante e ancora desiderata. Se non fosse per questi motivi, il suo sfortunato destino le avrebbe riservato una fine ancora più infelice: il convento. Carlo Gesualdo, ventenne, vede in lei la sposa sognata fin da bambino ma, essendo cugini primi (la mamma di Maria, Sveva Gesualdo, era la zia di Carlo), occorreva ottenere la dispensa papale; il papa Sisto V dapprima la nega, poi la concede grazie alla mediazione dei cardinali d’Aragona e Alfonso Gesualdo, vicini al papa. Le nozze furono celebrate a Napoli con estremo lusso. L’unione fra le due famiglie più ricche e importanti di Napoli era avvenuta: questo sanciva un’affermazione di potenza per entrambe i casati. Maria diventava immune ad un destino crudele; Carlo appagato per aver acquisito l’amore tanto desiderato. I due sposi conducevano una vita ricca d’avvenimenti mondani (come feste, caccia, ricevimenti) e culturali (come concerti e serate di poesia): il loro palazzo di Napoli era una fucina di cultura, dove poeti e musicisti erano di casa. La “melanconia” di Carlo (quel tipico stato d’animo dell’epoca che oggi possiamo definire come un misto fra introversione e irrequietezza) era colmata dall’appassionato amore (finalmente si era avverato, dopo tante sofferenze, un sogno a lungo rimasto frustrato) e dalla musica, quella che gli Avalos conoscevano bene (come abbiamo visto dagli interessi e dalle creazioni del nonno di Maria). Se per i nobili dell’epoca scrivere madrigali (sia letterari che musicali) era un piacevole diletto per occupare il tempo, mostrando la propria cultura e sensibilità artistica, “Maria capiva che la musica per Carlo era invece qualcosa di molto diverso: era disciplina, studio, mestiere, passione, rifugio, ragione di vita, qualcosa di totalizzante che impregnava l’intero essere, l’intera essenza di Carlo, rendendolo appunto diverso, bizzarro, affascinante” (Giovanni Iudica: Il principe dei musici, 1993). Purtroppo, questo momento di felicità fu straziato da un altro infausto evento: la figlia di Maria, Beatrice, data in sposa ad uno dei Carafa (come Maria in prime nozze e come la nonna), muore la prima notte in quanto“si ruppe una vena nel petto nel primo congiungimento carnale che fece col marito”. Aveva appena dodici anni. All’infelice evento ne segue finalmente uno lieto: nasce Emanuele, un erede maschio sano e forte che assicurava il perdurare della dinastia dei Gesualdo.
A questo punto, entra in scena Fabrizio Carafa (parente del primo marito di Maria), definito da molti come il più bell’uomo di Napoli: era sposato e con quattro figli avuti dalla religiosissima moglie. Il suo temperamento spavaldo e sempre sicuro di sé colpisce Maria d’Avalos ad una festa da ballo: fra i due nasce una fortissima attrazione che in breve diventa una passione travolgente, estrema, spavalda. I due si incontrano e si frequentano con assiduità, nei luoghi più diversi, in campagna, da amici fidati e poi persino nello stesso palazzo Gesualdo con la complicità delle dame di compagnia. Questa relazione (che ci ricorda la leggenda medioevale di Tristano e Isotta) rapidamente divenne troppo evidente perchè fosse al riparo dal pettegolezzo di corte e di Napoli: il vicerè stesso e molti nobili intervengono tentando di far ragionare il Carafa, mentre su Maria premono la madre e persino lo zio cardinale con una lettera inviata da Roma (lo scandalo aveva dunque varcato i confini della città di Napoli). Gli amanti erano consapevoli di aver superato il limite a loro consentito. Fabrizio tenta di far ragionare la sua amata ma Maria (che dichiara d’aver ancora verso Carlo Gesualdo un infinito affetto e grande stima) ama Carafa, lo desidera ardentemente, manifesta di non poter vivere senza di lui e d’essere attratta da lui fisicamente “come fosse posseduta dal demonio”. Maria desidera andare fino in fondo al suo amore e se egli non l’avesse bramato come lei, “che andasse a farsi bizzo, avendo errato la natura a produrre cavaliero, (poi)ché teneva cuore di donna!”.
Carlo sicuramente sapeva: si ritira nella sua melanconia, sentendosi tradito, sperando che il suo amore possa vincere ogni avversità (come narrano i suoi madrigali). Purtroppo le voci di questa relazione appassionata e sempre più palese non possono essere più sottovalutate o insabbiate. Gesualdo tenta di minimizzare, evitare o almeno di procrastinare il gesto estremo a cui la società l’avrebbe costretto: egli ama ancora e più che mai la sua sposa e non può pensare di distruggere l’amore della sua vita, anche se tradito e umiliato. Ma con il passare dei giorni la situazione degrada e anche lo zio Giulio Gesualdo fa notare a Carlo che l’onore della sua casata è ridicolizzata da questa situazione; inoltre, non esistono più soluzioni diplomatiche poiché fallite nonostante l’aiuto di amici e parenti. Carlo per proteggere la dignità del proprio casato non ha via di scampo: tutta la società napoletana aspetta un atto da lui.
Il 26 ottobre 1590, Carlo finge di organizzare con gli amici più fedeli una battuta di caccia della durata di qualche giorno lontano dal palazzo di Napoli; ma anziché partire si ferma per strada e ritorna a palazzo a notte e, senza essere visto, arriva fino alla stanza sottostante la sua camera da letto nuziale. Carafa arriva sotto il balcone e ad un segnale d’assenso convenuto con Maria, apre la porta con una copia della chiave (come fosse casa propria) salendo fino alla camera da letto. L’evidenza è troppa anche per il cuore infranto del principe: dopo mezz’ora, due amici fedeli di Gesualdo entrano nella stanza e sparano agli amanti sorpresi nel letto, poi entra Carlo seguìto da altri due amici. La scena che affronta è cruda: i due amanti sono entrambi in un lago di sangue, lei ancora distesa nel letto; lui, barcollando, tenta di sguainare la spada prima di crollare a terra, gridando: “A casa Gesualdo, corna!”. Carlo si avvicina a Maria che implora la confessione e il perdono, coprendosi il volto con il lenzuolo per la vergogna. Soltanto in quel momento Carlo pugnala ripetutamente tutto il corpo avvolto nel lenzuolo, uscendo poi dalla stanza grondante di sangue; poi fuori di se, dicendo “Non credo esser morta”, ritorna nella stanza e squarcia ulteriormente Maria dall’inguine alla gola.
Tutte queste notizie, tremendamente dettagliate, ci sono riferite da numerose testimonianze nel processo a Carlo del quale abbiamo tutti gli atti: Gesualdo fu assolto per “delitto per causa d’onore”. Ma questa assoluzione che la società gli offriva, non era la fine d’una situazione drammaticamente insostenibile: era l’inizio di nuovi tormenti per il nostro Gesualdo . Carlo in quel momento compiva ventiquattro anni.
Marco Longhini
(note al CD Naxos 8.570549)