Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, dicembre 27, 2009

Andrea Luchesi: Requiem

Alcuni documenti e le cronache del tempo ci restituiscono Andrea Luchesi, prestigioso e dimenticato autore veneto, tra i più grandi musicisti settentrionali del diciottesimo secolo. Giovanni Battista Columbro dirige l'Orchestra Barocca di Cremona nell'esecuzione del Requiem di Luchesi in una incisione su etichetta Tactus.

Essendo un filologo ogni mia esecuzione o registrazione è sempre preceduta dalla ricerca e dalla trascrizione delle fonti originali e degli scritti del tempo, ciò implica ragguardevole impegno, ma è necessario e doveroso oggi agire in tal senso. Per poter riportare alla luce i documenti dei secoli passati, è indispensabile ricostruire, a guisa di scienziato-umanista e nella forma quanto più vicina possibile all'originale, non solo i testi musicali e la loro prassi, ma anche i vari contesti storici, estetici e filosofici. Nei miei variegati studi mi sono imbattuto, anni or sono, in un prestigioso e dimenticato autore veneto della seconda metà del Settecento, il cui nome forse avrete udito o letto in qualche luogo: Andrea Luchesi. Andrea Luchesi, fra tutti i musicisti settentrionali del XVIII secolo, ebbe a Venezia la miglior istruzione musicale e culturale, grazie a maestri che furono tra i più grandi compositori e didatti dell'epoca (Valentino Cocchi, celebre operista napoletano - Giuseppe Saratelli, maestro della cappella marciana - padre Paolucci, allievo prediletto del celebre Padre Martini - padre Vallotti, il maggior teorico musicale del Settecento italiano e Baldassarre Galuppi). Già maestro a vent'anni (nacque nel 1741) lavorò per molte chiese, per i teatri veneziani e soprattutto per il celebre Ospedale degl'Incurabili. Nel 1771, grazie alla sua fama in città, ebbe l'incarico dal governo veneziano di comporre una Messa da Requiem per la morte ell'ambasciatore spagnolo Venezia, Conte di Montealegre (esequie ufficiali di stato), che fu eseguito, con grande apparato, nella chiesa di S. Geremia. Dopo aver lavorato a lungo per le città venete, (tra cui Verona e Padova collaborando con padre Vallotti presso la Basilica del Santo, componendo splendide pagine musicali) a trent'anni fu invitato (grazie all'intuito del conte Durazzo) dal principe arcivescovo Max Friedrich a Bonn, la più importante cappella cattolica di Germania, dove ricoprì la più alta carica musicale, difatti fu nominato Kapellmeister a vita, subentrando al non troppo brillante Ludwig van Beethoven senior (il nonno del titano). Nella città tedesca si stabilì, rispettato e considerato tra i più grandi compositori e didatti di quel tempo, per gli altri trent'anni della sua vita; morì nel 1801 e tra i vari e straordinari allievi, impossibile enumerarli tutti, ebbe il celebre Ludwig van Beethoven per almeno 12 anni, i fratelli Romberg e Antonin Reicha. Sotto la direzione del maestro italiano la cappella di Bonn fu annoverata tra le migliori di tutto il Settecento europeo non solo dagli addetti ai lavori, ma altresì dai numerosi viaggiatori che allora visitarono le terre del Reno. Luchesi compose moltissimo e in ogni stile: sinfonie, musica da camera, musica sacra e opere. Le rappresentazioni teatrali difficilmente lasciavano la patria originaria, ma quelle del maestro veneto furono rappresentate in molte città europee tra cui Milano, Vienna, Praga, Bonn, Stoccolma e persino nel lontano Portogallo. Ma dove sono oggi le sue musiche del periodo tedesco? ... il maestro italiano aveva l'obbligo dell'anonimato ... forse sono state attribuite a più fortunati compositori? Gli eventi politici ed economici internazionali della seconda metà del XVIII secolo non hanno consentito al musicista italiano né di brillare né di apparire sui libri, ma abbiamo, fortunatamente, alcuni documenti e le cronache del tempo che ce lo restituiscono tra i più grandi. E' sufficiente, oggi, considerare la sola musica scritta prima della sua partenza per Bonn per notare immantinente un edificio musicale completo che non teme perplessità o incertezze e che gli consente, senza esitazioni di sorta, di stagliarsi come una figura eminente al di sopra di molti musicisti coevi. Sono più di duecento anni che il nome di Luchesi continua ad essere espunto dalle biografie di Mozart, Haydn, Beethoven, dalle enciclopedie e dai libri di storia della musica; nostro dovere è riconsegnare alla storia e alla cultura italiana, un artista non solo affezionato alla sua terra e ai suoi costumi, ma altresì vero lustro per noi italiani. Fortunatamente i dati in nostro possesso non solo ci consentono di affermare a piena voce che è stato «taciuto» un grande personaggio della musica italiana, ma gli stessi sono rivelatori di messaggi che resi noti muterebbero la storia della musica, come già il Torrefranca preannunciava negli anni trenta del Novecento.. . Nel 1787 in Austria si decretò la fine del latino che fu sostituto dal tedesco. Iniziava il nazionalismo austriaco in funzione antiprussiana; fino a quel momento l'idioma della corte asburgica era il nostro (Metastasio, G. e L. Boccherini, Calzabigi, Salieri, Da Ponte, Casti, Anfossi, Bertati, Guglielmi, Bonno ecc.): questi furono gli anni in cui iniziò la damnatio memoriae per Andrea Luchesi. La lungimiranza del tempo e le vicende storico-politiche europee di fine Settecento hanno permesso a molte composizioni luchesiane di raggiungere, a volte «bonificate», i nostri tempi e di ritornare nella nostra penisola: il pregevolissimo Requiem che qui proponiamo, (preceduto dalla preziosa Sinfonia della Passione in do minore) per nostra buona sorte è stato ritrovato in parti manoscritte autografe. Il Kyrie che ascolteremo dopo il Requiem aeternam iniziale non è originario, ma mutuato da una messa in Fa maggiore del nostro compositore appartenente allo stesso fondo. L'operazione di «innesto» che qui proponiamo trova
giustificazione non solo in una pratica diffusa all'epoca, ma anche e soprattutto nel fatto che la struttura armonica e melodica di tale Kyrie ben si integra con le altre pagine del Requiem tanto più che lo stesso manoscritto originale, nella sola parte del violino primo, reca l'indicazione "segue Kyrie".
Il Requiem luchesiano (lo stesso dedicato al duca de Montealegre) interpreta i momenti più dolorosi della morte di N.S. Gesù Cristo. I pochi recitativi accompagnati, nei passi di maggior enfasi, sono di indubbio valore artistico e spirituale, mentre le arie appartengono alla più alta cantabilità italiana. La parola vibra in simbiosi con la musica, nulla è noioso, tutto è teso nel procedere musicale. I momenti lenti sono espressi in modo lene e solenne, gli istanti più vivi sono sottolineati da andamenti più mossi e gioiosi; la musica è di altissima fattura. Luchesi in queste pagine è riuscito a presentare tutte le sue qualità di compositore sacro. Gli accordi dissonanti precedono sempre l'acquietarsi dell'armonia, le progressioni sono sapientemente miscelate ad andamenti più moderni e affascinanti (soprattutto nelle arie) dove il simbolismo musicale riconosce nel testo cantato la sua naturale rigenerazione. I violini, gareggiando con le voci e con i fiati, propongono armonie di evidente solarità. I numerosi cori, asse portante della composizione, tengono unito il filo della narrazione musicale. All'ascolto le peculiari qualità compositive di queste pagine legano l'autore inconfondibilmente alla tradizione musicale della nostra penisola, con particolare riferimento alle messe di Alessandro Scarlatti e Niccolò Porpora, tradizione che «ha costruito» la musica di tutta Europa, anche quella che appartiene alla sfera romantica. E' stato fatto un torto alla cultura italiana e se vogliamo che la nostra memoria possa essere punto di riferimento per le generazioni a venire abbiamo il compito di recuperarla quanto più è possibile. Trattandosi poi di musica, già vitale strumento educativo dei filosofi antichi e vaga intermediaria tra spirito e materia, sarebbe, come diceva Nietzsche, un errore non averla accanto a sé nel corso della nostra vita.

di Giovanni Battista Columbro (tratto da "Orfeo",numero 90, aprile 2005)

sabato, dicembre 19, 2009

La santità dell'organista

Per una spiritualità del servizio liturgico-musicale

Qualche organista mi ha chiesto di approfondire l'argomento La santità dell'organista. Ho cercato di stendere dei pensieri in base alla mia esperienza di organista di paese (circa 8000 abitanti, nella Bergamasca), che, da trenta anni, è fedele al proprio compito e si chiede il perché: tutte le domeniche alle ore 11.00 e 17.30 con mezz'ora di suono in preparazione alla S. Messa. Il sacrificio non trova giustificazione solo nel piacere di suonare e nella professionalità. C'è qualcosa di più e di molto profondo che trasforma il tutto, fino a farlo diventare un privilegio: amore verso Dio e aiuto ai fedeli per amare maggiormente il Signore. Ma per arrivare a questa consapevolezza ci sono voluti decenni di riflessione con domande e risposte, tipo: perché lo faccio? Non è meglio avere le feste libere e andare a sciare, al lago o in montagna? Ho altre possibilità professionali: chi me lo fa fare? In effetti non avevo fatto i conti con il padrone di casa, il Signore, che, invece, ha altre idee e vede le cose sotto un diverso punto di vista. Se pensiamo che il nostro
far musica è per Lui, creatore delle galassie stellari, nel tabernacolo presente in modo reale sotto le specie del pane, ci sentiamo un nulla e nello stesso tempo dei privilegiati: ci tremano i polsi.

Collaborare con l'opera di Dio
Nostro compito è dare fiducia, perché molti organisti si sentono non solo incompresi, poco o nulla considerati, ma demotivati per la banalità delle musiche e la trascuratezza degli strumenti, per lo più suonati in modo superficiale e incompetente, tanto da far allontanare le anime da Dio. E li capiamo a fondo e bene. Eppure è importante che sappiano che nel piano del Signore il loro ruolo è oltremodo importante, tant'è che può definirsi un privilegio, in quanto strumento di Dio per agire sui fedeli. Questi, infatti, sono attratti dalla Sua luce anche con la musica. Noi, in realtà, senza rendercene conto, mettiamo in moto delle dinamiche assai importanti per la loro crescita spirituale, in quanto la musica ha un enorme potere sia sul corpo che sullo spirito. Se pensiamo che il Signore ha il cuore tenero come quello di una mamma, capiamo il perché utilizza la musica: per entrare nell'anima del suo bimbo, per farlo sognare, per accarezzarlo dargli sicurezza e gioia. Questo giustifica ogni nostro sacrificio, correlato da profonda gioia e soddisfazione. Vediamo dettagliatamente i perché.

Privilegio e responsabilità
Se fare l'organista è un pregio, occorre sottolineare che molta è la responsabilità. In generale si può affermare che chi suona è sempre messo alla prova. Nel nostro caso lo è doppiamente, in quanto oltre all'aspetto musicale-artistico c'è quello spirituale. Ma perché la prova sia positiva bisogna preparare a Dio le condizioni al fine di agire sulle anime. Per questo occorre far crescere l'aspetto spirituale. La cosa non è automatica: come per la parte artistica dedichiamo decenni di studio, così deve essere per quella spirituale. Invece la trascuriamo. Crediamo che lo spirituale sia conseguente o di scarsa importanza. Al contrario. Un organista senza spiritualità quando suona può infastidire pur essendo un professionista; invece un organista ricolmo di spiritualità, che esegue in modo corretto cose semplici e non banali, è gradito.

Fare cose semplici in maniera straordinaria
Scriveva S. Massimiliano Kolbe (1894-1941): «Compi le piccole cose con grande amore, è la maggior sorgente di meriti. Fissa lo sguardo verso il fine. Una cosa di poco conto sovente è la causa, magari sconosciuta, di grande cose». Per realizzare questo non occorre per forza eseguire pezzi difficili e belli ma brani semplici - non sciatti - in maniera straordinaria, cioè con molta serietà e impegno. Tutto questo solo ed esclusivamente per il Signore, che è presente nella vita più di quanto pensiamo; in particolare:

  • suonare pezzi, anche facili, in modo ineccepibile, come se fosse un'esecuzione davanti a chi è più di un sovrano;

  • avere sempre la mente, lo spirito, il corpo e la vita rivolta a Dio, non per essere dei bigotti o dei poveracci senza arte né parte, ma, al contrario, per essere il meglio;

  • essere forte nella spiritualità perché con il suono si trasmette quello che si è; in virtù di questa legge naturale se uno è banale comunica banalità pur suonando in modo ineccepibile;

  • preparare i fedeli alla preghiera con la musica affinché aprano il cuore a Dio;

  • essere umile riconoscendo a Dio i meriti di ogni nostra azione.

La musica agisce in modo totalizzante
La musica agisce in modo totalizzante: o suscitando e ampliando sentimenti di adorazione e di ascolto dello Spirito di Dio; o infastidendo, talvolta in modo insopportabile, allontanando il Signore perché l'anima si irrigidisce e si innervosisce. Per questo l'organista deve essere persona molto accorta, esercitata oltre che nel suono anche nello spirito, nella vita privata e di relazione, perché tutto contribuisca al fine. Occorre, pertanto, non solo studiare ma pregare ed essere una brava persona con sé e gli altri. Un organista cafone, anche se professionista, sarà devastante per il fedele. Preghiera, musica e coerenza (con tutti i limiti che nascono dalla nostra particolare condizione umana) siano un connubio forte, discreto e intenso. Crediamo che non si è pienamente musicisti se non si prega e si vive con coerenza. Da ciò nasce lo stato di viva soddisfazione nell'aver servito il Signore, per l'aiuto e l'elevazione dei fedeli, la liturgia e il culto. Il sacrificio di rinuncia a tanti piaceri della vita (ad esempio gite domenicali, tempo libero, svaghi, ritrovo con gli amici e altro) diventano preziosissimi strumenti di amore per il prossimo, per la crescita e la salvezza delle anime, nonché meriti fisici e spirituali per noi. E allora, come abbiamo detto sopra, una cosa di poco conto, sovente è la causa, magari sconosciuta, di grande cose.

Chi può guidare il nostro cuore?
Fa da guida al nostro cuore Maria SS. che invochiamo a Regina della Musica e delle Arti. È meraviglioso constatare come ogni volta che noi preghiamo Dio, Egli ci rimandi a Sua madre Maria affinché sia sempre il nostro modello di riferimento. Ella, quale madre di tutta l'umanità, se da un lato è sempre attenta e sollecita a portare all'attenzione di Gesù le necessità di tutti noi suoi figli, dall'altro non esita un solo istante ad insistere, con pressanti appelli, affinché noi facciamo esattamente tutto ciò che il Signore raccomanda di fare: pregare e adorare unicamente Dio, fare la Sua volontà e vivere nella gioia con coerenza di vita. E Maria, sempre fedele alle consegne ricevute da Suo Figlio, mai ha fatto mancare l'amorevole soccorso e la sicura guida a chiunque l'abbia invocata, sia nei momenti di gioia che in quelli di sofferenza. Tanto più lo fa a noi organisti che siamo in prima fila nell'adorazione, nella preghiera e nella formazione delle anime.

Sentirsi partecipi del progetto divino
Fare l'organista deve essere anche vocazione. Che cosa vuol dire? Sentirsi partecipi del progetto divino, in un'ottica di fede, per il bene proprio e del prossimo. È un sogno che Dio ha su ciascuno di noi, ma la cui realizzazione dipende da noi stessi. Quanti suonano per il Signore? I più per sé stessi, per il piacere di suonare. Ed è una cosa rispettabile anche questa. Ma infinitamente al di sotto di chi lo fa per Lui. Suonare vuol dire comunicare: trasmettere positività o negatività. Ed è solo dove c'è l'amore verso Dio che esiste positività. Essa si estende ai fedeli con effetti meravigliosi da noi nemmeno percepibili, tanto sono profondi e intimi. Ci si affida a Lui, dunque, nella piena fiducia e disponibilità.

Occorre la semplicità dell'anima
La semplicità dell'anima è la condizione senza la quale Dio non riesce ad agire in noi, in quanto esseri liberi. Dunque tocca a noi alzare lo sguardo e osservare Lui. L'organista dà la propria arte a Dio. Egli la trasforma e, come pioggia salutare, scende sulle anime, e dà vitalità ad esse. Nessuno è grande davanti a Dio; lo si diventa nell'umiltà. L'organista, anche quando con merito esegue brani meravigliosi, deve suonare con sincera modestia. Che cosa vuol dire? Che riconosce i propri limiti, rifuggendo da ogni forma di superbia, sempre in agguato.

Belle parole. Ma è necessario passare ai fatti
Quali? Della vita e dell'operosità; in particolare:

  • quando in chiesa nella S. Messa è proclamata la parola di Dio devo prestare attenzione per suonare secondo la Sua parola;

  • alla Consacrazione parteciperò con intensità di preghiera e di suono;

  • se improvviso sottolineerò la particolarità del momento;

  • devo far si che il canto dei fedeli sia invogliato, partecipato, corale;

  • quando c'è spazio per la sola musica, la scelta del brano e l'intensità dell'esecuzione suscitino emozioni e profonda preghiera;

  • sarò il primo ad entrare in chiesa e l'ultimo ad uscire.

Per questo occorre chiedere incessantemente a Dio di essere degni, avere la forza, la volontà, l'ispirazione, in modo che venga spontaneo dire: «che io suoni solo ed esclusivamente per Te, per portare le anime a Te», evitando la lusinga degli altri, stando in disparte. Così l'offerta sarà completa.

di Giosuè Berbenni

sabato, dicembre 12, 2009

Johann Sebastian Bach: I Concerti per violino

Fu grazie alla fornitissima biblioteca di Weimar, negli anni successivi al suo primo matrimonio, che Bach ebbe la possibilità di trascrivere e studiare opere di autori italiani come Frescobaldi, Corelli, Albinoni, Vivaldi e altri. Una sorta di comunicazione artistica a senso unico, considerando che Bach rimase per la gran parte dei suoi contemporanei un illustre sconosciuto, che mette però in luce l'apertura mentale e la curiosità intellettuale con cui egli sapeva assorbire gli stimoli e le tendenze dei suo tempo. Tale lavoro influenzò soprattutto la produzione concertistica, dando i suoi frutti nel periodo di Köthen (1717-1723), un ambiente di impostazione calvinista poco incline alla fruizione di musica sacra, e che favorì quindi la produzione di musica strumentale.
Divenuto fenomeno di moda in Europa, grazie alla diffusione a mezzo stampa delle partiture vivaldiane, il concerto italiano in tre tempi (i due esterni veloci, quello centrale lento) è il canovaccio su cui sono imbastiti i quattro concerti per violino solo, archi e basso continuo della presente incisione; un modello che Bach utilizza con grande libertà, come abbrivio per la propria ispirazione, filtrandolo ogni volta attraverso la propria sensibilità e creatività con impostazioni e scelte assai differenziate. Di questi quattro concerti, due ci sono pervenuti in forma originale (BVW 1042 e BVW 1041), mentre gli altri due, mancando gli originali, sono stati ricostruiti in epoca recente da una loro trascrizione per clavicembalo dello stesso Bach (BVW 1052 e BVW 1056a).
Nell'Allegro iniziale del Concerto per violino, archi e basso continuo in mi maggiore BWV 1042 la scrittura di Bach sembra contenere la sua tipica densità armonico-contrappuntistica, modellandosi sullo stile del concertismo barocco di scuola veneziana. Cosi traspare dal sapore melodico dell'elegante tema orchestrale e dalla chiarezza con cui vengono delimitate le sue differenti sezioni: diversamente dai tempi veloci degli altri tre concerti, risulta infatti una netta demarcazione tra orchestra e interventi del solista, oltre all'uso di una regolare forma di tipo ABA. Particolare è anche il ruolo del solista, contenuto in un ambito ben definito, con interventi brevi, mai superiori alle quattro battute, quasi fosse un prolungamento o un'appendice melodica delle frasi orchestrali. La prima sezione (A) si fonda dunque sul tema iniziale che, con cambiamenti di tonalità, viene ripreso e dilatato dagli insedi individuali del solista; mentre la seconda parte (B), una sorta di sviluppo del materiale tematico, propone una deviazione dal monotematismo della prima parte con un melanconico motivo in minore dei violino solo seguito da un flusso armonico-accordale che conduce al tema, rivisitato in modo minore e in altre tonalità, per poi prepararsi alla ripresa di tutta la prima parte (A).
In netto contrasto con la serena baldanza e la dettagliata articolazione dei due movimenti esterni, l'Adagio centrale propone un'ampia e mesta elegia del solista, tratteggiata in un'atmosfera rarefatta con garbati chiaroscuri espressivi, tra cui l'uso di un accompagnamento statico senza basso, e alcuni delicati passaggi al modo maggiore. Al libero fluire del violino fa da contrappeso la costante regolarità di un motivo ostinato del basso, che si presenta inizialmente come motto introduttivo e al termine come coda conclusiva.
La forma a ritornello è quella che Bach utilizza quasi costantemente in questi concerti; si tratta tuttavia di una struttura appena abbozzata che il genio creativo dell'autore modifica ogni volta a suo piacimento. Nell'Allegro assai ritroviamo invece una perfetta simmetria e una regolare scansione delle frasi melodiche di carattere galante, che invita ad abbandonarsi al rassicurante andamento di una danza ternaria. Ai ritornelli del tema si alternano senza soluzione di continuità quattro episodi affini; i primi tre con fantasie del solista sopra accompagnamenti differenti (solo basso continuo, orchestra senza basso continuo, orchestra completa) l'ultimo invece con un'articolazione più variegata e di doppia lunghezza.
Anche nel primo movimento del Concerto per violino, archi e basso continuo in la minore BWV 1041 troviamo un chiaro riferimento al gusto vivaldiano, focalizzato in questo caso intorno a una delle tecniche più caratteristiche di questo stile: la progressione, ovvero la ripetizione di un breve modello melodico-armonico su diversi gradi della scala. Al tema orchestrale d'inizio, riprodotto con numerose varianti, si alternano dunque fluide sequenze di progressioni affidate quasi esclusivamente al solista, che qui assume dunque un ruolo di conduzione melodica e non piu di semplice prolungamento dell'orchestra. Il confronto con il Concerto BVW 1042 rivela inoltre una divisione meno rigida tra la linea del solista e il tema orchestrale, che spesso si compenetrano trascolorando l'uno nell'altro.
Scritto in un sereno modo maggiore, in alternanza al modo minore dei due tempi veloci, l'Andante gioca sull'antitesi di due differenti soggetti presentati in successione: un pedale di basso dall'incedere lento e pacato, e un fraseggio melodico del solista fatto di terzine. I due elementi normalmente si alternano e solo in alcuni momenti si sovrappongono; la struggente melodia del violino crea infatti, attraverso cambiamenti di modo e tonalità, delle arcate che si appoggiano saltuariamente sugli interventi del basso come su solidi pilastri portanti, fino a quando basso e melodia si ritrovano insieme nella coda conclusiva.
Mosso in uno scorrevole tempo di 9/8, il terzo movimento Allegro assai ha una struttura omogenea e corposa, che alterna il compatto tema orchestrale al più frastaglialo motivo del solista. Queste due componenti si alternano in tonalità diverse per poi tornare nella tonalità iniziale, mentre un tappeto armonico di solista e orchestra porta alla ripresa letterale del tema stesso con cui si completa il movimento.
Il primo movimento del Concerto per violino archi e basso continuo in re minore (ricostruzione dal Concerto per clavicembalo BVW 1052) presenta in successione due soggetti antitetici che verranno intercambiati con inesauribile varietà e fantasia: un tema energico e sincopato dell'orchestra all'unisono e un fitto arpeggiare del solista su accordo fermo di tonica. Il tema orchestrale appare ogni volta con sfaccettature diverse: su pedale di tonica, in un sereno modo maggiore, ancora in minore con accenti più drammatici, contrappuntato dal solista, rielaborato in un'ampia sequenza di progressioni e reiterazioni dell'orchestra. Da parte sua il solista, oltre a intersecare le rielaborazioni del tema con tappeti armonici, assume il ruolo di protagonista nella fase centrale, grazie a un lungo ricamo polifonico intorno alla stessa nota ribattuta. Il movimento si chiude quindi in maniera ciclica, riproponendo il tema all'unisono così come è stato ascoltato in apertura.
L'Adagio inizia anche in questo caso con la figura di basso che sottenderà l'intero movimento: una cupa successione di arpeggi raddoppiati all'unisono dalle altre sezioni orchestrali. Sulla ripetizione del basso, con il ripieno armonico degli archi, il solista dipana un tema lento e sconsolato dal quale derivano le variegate fantasie melodiche del violino, intercalate dal lento pulsare dell'accompagnamento. Questo stesso motivo del basso, con l'orchestra all'unisono come in apertura, incornicia il movimento chiudendolo come mesta coda conclusiva.
Nell'Allegro assai il robusto contrappunto di due linee distinte genera un tema orchestrale vigoroso e di grande impatto. Questo si espande prepotentemente, alternandosi tra rielaborazioni di solista e orchestra e i ritornelli, che vengono modificati da cambi di tonalità, contrappunti del solista o da un raffinato scambio di parti tra violini e bassi. Il violino solo trova invece un proprio spazio individuale svincolato dal tema, nella parte centrale, con un ostinato ricamo intorno a una medesima nota ribattuta, e quindi verso la conclusione, con scale, arpeggi e figure reiterato che culminano sulla cadenza solistica prima dell'ultimo ritornello.
Il Concerto per violino archi e basso continuo in sol minore (ricostruzione dal Concerto per clavicembalo BWV 1056a), che in questa incisione presenta organo e fagotto come basso continuo, si apre in un'atmosfera inusuale con toni gravi e intensi, quasi a far presagire il Bach delle Passioni. Dopo la solenne introduzione del tema orchestrale, il violino solo si libera in un canto intenso e appassionato la cui straordinaria espressività, nonostante un denso fraseggo fatto di terzine, ha dei tratti quasi umani. Dopo un breve accenno al tema orchestrale in maggiore, il solista si esprime con accenti più propriamente strumentali, attraverso una nuova fantasia che si arresta sopra un pedale armonico con un breve ricamo melodico. Il tentativo dell'orchestra di riprendere il tema viene bloccato dal solista, che vi si sovrappone per un ulteriore intervento individuale. La parte conclusiva prevede la ricapitolazione del tema orchestrale nella quale trovano spazio due ulteriori insorti del solista.
Alla densità del primo movimento, nel Largo si contrappone la pacata linearità dell'aria del solista, che si dispiega serena sopra i delicati pizzicati degli archi senza accompagnamento del continuo. Appena increspata da un velo di melanconia con il passaggio dal modo maggiore al minore, la melodia riprende la frase iniziale arricchita di fioriture melodiche, per poi portarsi lentamente verso la cadenza sospesa conclusiva che prepara armonicamente l'avvento dell'ultimo tempo.
Reso fluido e leggero dalla rotondità del tempo e delle progressioni armoniche, oltre che da un ammiccante intercalare di sincopi e brevi pause, il tema del Presto viene più volte ritornellato con la consueta varietà fatta di trasposizioni e inserti melodici. A esso si alterna il solista, non più con fantasie melodiche e arpeggi ostinati, ma con veri e propri temi, che vanno mirabilmente a intrecciarsi ai controcanti delle altre voci orchestrali, tanto che lo stile veneziano sembra qui voler lasciare il passo al sublime dinamismo del contrappunto bachiano che riemerge.

di Carlo Franceschi De Marchi (note di copertina al CD Amadeus AM 170-2 - Orchestra Aglaia, Cinzia Barbagelata, violino)

sabato, dicembre 05, 2009

Carpi e Quartetto Italiano: 60 anni 1945/2005

Quartetto Italiano: un fausto anniversario. Carpi, 60 anni: 12 novembre 1945 - 12 novembre 2005.
Sono trascorsi sessant'anni, ma negli annali artistici della nostra città di Carpi la serata del 12 novembre 1945 rimane tuttora tra le memorabili. E doppiamente, perché in una gelida Sala dei Mori due avvenimenti si conglobavano in uno: il battesimo della Società Amici della Musica e il debutto di un complesso sconosciuto, il Nuovo Quartetto Italiano, che ai sobri fasti dell'occasione avrebbe conferito i connotati di una sorprendente rivelazione. Il sodalizio cittadino era nato l'estate precedente dalla decisione coraggiosa, al limite della temerarietà, di un gruppo di noti musicisti e musicofili carpigiani. Ricordiamone i nomi: Erio Silvestri, Gaetano Lugli, Alfredo Sabbadini, Nereo Lugli, Ottorino Savani, e l'allora studente (futuro ingegnere) Giuseppe Caffarra, il quale sin dall'inizio, in qualità di Segretario, prendeva su di sé il non lieve onere di gestire i primi passi dell'associazione e poi, come Presidente, l'avrebbe sostenuto con passione e raro spirito di sacrificio per le successive cinque stagioni. Una vera scommessa era infatti quella dei promotori, perché gli Amici della Musica nascevano come un fiore nel deserto, in una città che - a differenza della sua lunga, ed anche prestigiosa, tradizione melodrammatica - nulla di analogo poteva vantare nel campo della musica cameristica e sinfonica. Inoltre, quel lunedì 12 novembre si assisteva all'esordio del Nuovo Quartetto Italiano, che proprio da Carpi avrebbe spiccato il volo verso non ancora immaginabili traguardi. Ma la stupefazione che suscitarono quei giovani: Paolo Borciani ed Elisa Pegreffi violini, Lionello Forzanti viola, Franco Rossi violoncello - poco più di cent'anni insieme, eppure così provetti nel loro già raffinato virtuosismo, nella cifra del loro stile interpretativo - era da considerarsi l'indubitale presagio di un avvenire certo: la splendida carriera più che trentennale, in Italia e nel mondo, l'avrebbe poi confermato ad abundantiam. Come stimmate d'eccellenza, i tratti caratterizzanti del complesso erano ben leggibili sin da allora.
Anzitutto il modo di snodare il discorso musicale con naturalezza e impeccabile controllo, la chiarezza delle articolazioni, ma anche il nitore del suono pure laddove era richiesta la massima energia, la duttilità e flessibilità del fraseggio, la precisione del dettaglio. Se l'armonica concordanza delle diverse personalità mai appiattite bensì convergenti all'esito collettivo e la disciplina severa lasciavano felicemente ammirati, il fatto poi che gli strumentisti suonassero a memoria faceva ulteriore aggio sulla loro valentia. Essi irrompevano sulla scena concertistica con l'intransigente determinazione della giovinezza, con la caparbia volontà di costruire da sé un proprio modo di leggere i classici e i romantici, ma anche i moderni, rivendicando - secondo la lezione di Toscanini la scrupolosa fedeltà al testo come l'unica via per ritrovare la lingua e l'anima della musica, non diversamente da altri valorosi artisti che nello stesso torno di tempo ben rappresentavano la più incisiva 'novità' della cultura musicale italiana, da Arturo Benedetti Michelangeli al Trio di Trieste. I quattro "cavalieri dell'arco" (così li definirà il noto critico e musicologo Giulio Confalonieri) si erano incontrati casualmente ai corsi estivi di perfezionamento dell'Accademia Chigiana di Siena, scoprendo di avere sostanziali affinità e comunanza di ideali. Rinunciando alle proprie legittime aspirazioni a una carriera solistica, del resto già avviata sotto i più favorevoli auspici, essi decisero di dar vita a un loro complesso da camera, il Nuovo Quartetto Italiano appunto, che avrebbe prospettato originali aperture sul mondo interpretativo attraverso una concezione fortemente razionalizzata e assai prossima ai canoni di un aggiornato neo classicismo. Con l'inquietudine e la perenne insoddisfazione degli interpreti di razza, i quartettisti tuttavia perseguirono negli anni una graduale ma decisa evoluzione nel modo di porsi di fronte al testo, anche in seguito all'incontro con il grande direttore d'orchestra Wilhelm Furtwängler e alla sempre più assidua pratica della musica contemporanea. Nella quasi narcisistica ricerca della perfezione si aprì così il varco a una più avvertita consapevolezza stilistica, all'arricchimento vitale, allo spessore dei sentimenti, che avrebbero portato il Nuovo Quartetto Italiano all'acquisizione delle impervie ultime partiture di Beethoven. Un lungo percorso che, in un'intervista del 1° dicembre 1978 al giornale 'La Stampa", Paolo Borciani così sintetizzava: "Siamo pervenuti ad una concezione diversa, passando dal compiacimento edonistico alla creazione di un suono magari meno 'bello', ma più vero, e soprattutto subordinato alla coerenza del discorso e al senso architettonico della forma musicale". Proprio in questo sarebbe consistita la maturità raggiunta dal complesso nella sua ricognizione interpretativa, nutrita di tanto studio e passione: l'equilibrio tra l'irrinunciabile levigatezza e l'assoluto controllo della materia sonora da un lato, e dall'altro l'idea della musica come irreprimibile "fenomeno organico" (Furtwängler) che cresce su se stesso con lo spontaneo generarsi di un essere vivente.
Ma chi aveva segnalato agli Amici della Musica, costituitisi ufficialmente il 5 agosto, quegli straordinari musicisti?
Rosanna Sormani, notevole pianista concittadina, che li aveva ascoltati a Siena e ne raccontava meraviglie. Il contatto fu rapido, e il debutto a Carpi fissato a breve, con un programma di alto profilo e di rilevante impegno esecutivo, ma anche arduo d'ascolto per un pubblico non ancora iniziato alla più eletta delle forme cameristiche: il quartetto. Ebbene, affascinati e certamente emozionati da tanta maestria, gli ascoltatori di quel primo concerto con il calore dei loro applausi mostrarono di gradire la ricca imbandigione di musica che abbracciava un ampio arco cronologico, da Corelli a Beethoven, fino ai moderni Debussy e Stravinskij. Quanti oggi possono rapportarsi con la memoria a quella serata lontana - e chi scrive è fra essi - sentono forse ancora vibrare dentro di sé l'inizio del beethoveniano Quartetto op. 59 n. 1 (Rasoumowsky), con quel tema intenso e misterioso affidato al violoncello monologante che mette in moto l'avventura dell'immenso, incomparabile sviluppo, oppure l'"Andantino doucement expressif" che nello scintillante capolavoro di Debussy è sintesi suprema di canto e declamazione secondo la più schietta tradizione francese.
Dopo il grande successo ottenuto da Paolo Borciani e colleghi in quella apertura di stagione, gli Amici della Musica li invitarono di nuovo per rispondere alle richieste dei numerosi estimatori. Il 6 aprile 1946 essi ritornarono infatti nella Sala dei Mori per replicarvi le composizioni di Beethoven e di Debussy, facendole precedere da uno stupendo Haydn, il Quartetto op. 64 n. 6. Già nel 1947 alla viola Forzanti subentrava Piero Farulli che sarebbe stato una delle colonne del complesso fino al 1978, quando, per ragioni dì salute, lasciava il posto a Dino Asciolla. In quest'ultima formazione i quattro strumentistí, ormai assurti alla massima rinomanza internazionale, faranno la loro estrema apparizione nella nostra città che ha avuto l'onore di ospitarli per ben sette volte: dopo la stagione 1945-46, ancora nel '48 e nel '49, sempre su invito degli Amici della Musica; nel 1965 - ormai Quartetto Italiano tout court - per il ventesimo anniversario del debutto del complesso celebrato dalla Gioventù Musicale d'Italia; infine nel 1971 e nel 1978 per le stagioni di musica organizzate in proprio dal Teatro Comunale. Carpi ha così avuto il privilegio di poter seguire l'intera vicenda interpretativa del complesso, sempre ammirevole nella rilettura della grande tradizione quartettistica, e in ogni caso fedele alle proprie matrici originali. Le partiture che nell'arco di oltre trent'anni esso ha proposto nella nostra città - Mozart e Beethoven avanti a tutti, ma con Boccherini, Haydn, Schubert, Debussy, Ravel, Stravinskij, Bartok - hanno lasciato impronte profonde nella cultura e nel gusto di quanti hanno saputo accostarvisi per farle propria. Per questo dono della loro arte mirabile rimane indelebile il ricordo del Quartetto Italiano: dei magnifici 'narratori' in musica, della loro comunione di intenti, della loro appassionata dedizione ai più alti ideali.


I Concerti dei Nuovo Quartetto Italiano, poi Quartetto Italiano, a Carpi

Nuovo Quartetto Italiano su invito degli Amici della Musica
Paolo Borciani ed Elisa Pegreffi violini
Lionello Forzanti viola, Franco Rossi violoncello

1. Castello dei Pio - Sala dei Mori, 12 novembre 1945
Corelli: Sarabanda, Giga, Badinerie
Debussy: Quartetto in sol minore op.10
Stravinskij: Concertino
Beethoven: Quartetto in fa maggiore op.59 n.1 (Rasoumowsky)

2. Castello dei Pio - Sala dei Mori, 6 aprile 1946
Haydn: Quartetto in mi bemolle maggiore op.64 n.6
Beethoven: Quartetto in fa maggiore op.59 n.1 (Rasoumowsky)
Debussy: Quartetto in sol minore op.10

3. Municipio - Sala Consiliare, 15 febbraio 1948
Piero Farulli è subentrato a Lionello Forzanti
Boccherini: Quartetto in re maggiore op.6 n.1
Bloch: Quartetto Il
Mozart: Quartetto in do maggiore K 465 ('delle dissonanze")

4. Castello dei Pio - Sala dei Mori, 7 novembre 1949
Mozart: Quartetto in re maggiore K 155
Schubert: Quartettsotz in do minnore D 703
Beethoven: Quartetto in do maggiore op.59 n.3 (Rasoumowsky)


Quartetto Italiano
Paolo Borciani ed Elisa Pegreffi violini
Piero Farulli viola, Franco Rossi violoncello

5. Teatro Comunale su invito della G.M.I. (per il 20° anniversario della fondazione del complesso), 16 ottobre 1965
Boccherini: Quartetto in re maggiore op.6 n.1
Schubert: Quartetto in re minore D 810 ('La morte e la fanciulla")
Ravel: Quartetto in fa maggiore

6. Teatro Comunale, 20 aprile 1971 - Programma dedicato a Beethoven per il II centenario della nascita
Beethoven: Quartetto in fa maggiore op.18 n.1
Beethoven: Grande fuga in si bemolle maggiore op.133
Beethoven: Quartetto in mi bemolle maggiore op.74 ("delle arpe")

7. Teatro Comunale, 1 aprile 1978
Dino Asciolla è subentrato a Piero Farulli
Mozart: Quartetto in sol maggiore K 156
Mozart: Quartetto in mi bemolle maggiore K 428
Mozart: Adagio a fuga K 546
Bartok: Quartetto n.1 op.7

di Antonio Martinelli (www.quartettoitaliano.com)