Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, febbraio 24, 2007

Alfred Brendel: l'antiretore

Ascoltare oggi Brendel che suona Beethoven, dal vivo o in una registrazione come quella dei Concerti per pianoforte e orchestra con Simon Rattle e i Wiener Philharmoniker, è un'esperienza che fa riflettere. Il pianista ha quasi settant'anni, e sta invecchiando bene. Ha ampliato la gamma dei suoi colori, arricchendola di sfumature sottilissime, ha perso in buona parte una qualità metallica del suono della mano destra che talvolta ne limitava la risonanza, e sembra entrato in una fase di «sintesi dinamica» delle esperienze precedenti. E' dunque il momento ideale per abbozzare qualche considerazione generale sul suo approccio alla musica del maestro di Bonn.
La forza straordinaria delle interpretazioni beethoveniane di Brendel sta, prima di tutto, in ciò che non fa. Ascoltarlo dal vivo in ottobre è stata per molti versi una rivelazione sulla musica di un autore che, se da un lato sta senza discussione nell'Olimpo dei compositori, dall'altro non ha mai cessato di suscitare in chi scrive riserve e perplessità. L'esecuzione del resto, almeno in teoria, questo dovrebbe essere: un riflettore che getta luce sull'opera, la inquadra e la illumina con un taglio discutibile ma preciso e riconoscibile. Ebbene, le luci usate da Brendel sono molto più dissimili da quelle che di solito illuminano Beethoven, di quanto appaia a prima vista. L'immagine diffusa di questo compositore soffre dello stesso problema da cui è afflitta in un altro ambito, in Italia, l'immagine del Risorgimento. In entrambi i casi, l'aura mitica che ha storicamente circondato e avvolto i due fenomeni ha lasciato tracce consistenti sulla percezione delle generazioni successive, condizionandone la comprensione storica a tutto vantaggio dell'entusiasmo e della retorica. Retorica: ecco una parola chiave per capire cosa fa Brendel suonando Beethoven. La parola, in riferimento alla musica del compositore, è ancora intesa, per lo più, come se fosse scritta con la maiuscola. Nell'immaginario collettivo la musica di Beethoven paga un tributo alla magniloquenza, all'enfasi, alla seriosità. L'idea che ogni nota del maestro sia una sublime rivelazione permea moltissime esecuzioni. Ebbene, Brendel non prescinde dalla retorica, ma sembra intenderla, correttamente, in minuscolo, come arte di condurre a buon fine un discorso, incluso quel genere paradossale di discorso che è la musica occidentale. «Retorica» non è più un aggettivo, ma un sostantivo che indica un insieme complesso e differenziato di modi di dire, di tecniche usate dal compositore per farsi capire meglio, di sfumature linguistiche. E, ultima trasformazione, è come se fosse usato al plurale. Le retoriche sono varie, numerose e diverse fra loro: c'è la retorica barocca, immaginifica e ricca di pathos, quella del Classicismo, funzionale prima di tutto alla chiarezza del discorso, quella Romantica, che frammenta, ostacola e devia il corso «naturale» della frase, e cosi via. E' un vero e proprio universo che si apre, purché si cessi di pensare in termini «retorici» nel significato usuale della parola, associandola all'enfasi, alla magniloquenza e alla prolissità. E' proprio ciò che Brendel fa con Beethoven: la sensazione è quella di ascoltare la sua musica al netto di una serie di pesanti ipoteche che ne hanno a lungo ostacolato la comprensione. Questo discorso è ovviamente, a sua volta, un'interpretazione, o, nel caso migliore, una buona descrizione delle sue esecuzioni: i mezzi a disposizione di un interprete per trasmetterci la sua visione delle cose sono puramente musicali. Ecco allora che il processo di eliminazione della retorica nel senso deteriore, diventa un modo di intendere e realizzare concretamente i segni sulla partitura. I segni dinamici, per esempio. Il forte di Brendel è contenuto, non deflagra mai, e non sembra essere considerato a priori il livello dinamico in cui Beethoven si esprime al meglio, come verrebbe da credere talvolta ascoltando interpretazioni con più forza d'urto. Il crescendo non ha per forza il carattere di un movimento tellurico, gli sforzando non sono sempre violenti, e cosi via. In particolare, il ritmo non è utilizzato per creare tensione, ma come ossatura architettonica della composizione, e lo stacco dei tempi è in genere lontano da velocità virtuosistiche e trascinanti. Qual'è il vantaggio di tutto questo? La flessibilità, la duttilità dell'approccio e la ricchezza dei risultati. Vediamo di spiegarci. La rinuncia di Brendel non è soltanto all'enfasi magniloquente, ma anche a una visione radicalmente orientata della musica di Beethoven. Può essere utile fare un confronto con Maurizio Pollini, altro grande interprete del cosmo beethoveniano, che affronta in chiave del tutto diversa. Anche Pollini ha fatto piazza pulita della retorica deteriore; ma il taglio con cui inquadra Beethoven è radicalmente orientato - ed è questa la sua forza - verso il futuro, in due sensi. Da un lato, la sua musica diventa una porta spalancata sull'utopia, su un futuro che è tensione e progettualità, ma non ha una collocazione storica determinata; è il futuro come tensione permanente, come dimensione non abolibile dell'essere umano. Dall'altro, è un futuro storico, che rimanda agli esiti della musica del Novecento.
Ebbene, l'approccio di Brendel è del tutto diverso. Non c'è una singola ipotesi interpretativa che orienti l'interpretazione in senso radicale, ma un insieme di tendenze che convivono e si sovrappongono. Beethoven appare come uno straordinario crocevia di linee, un fascio di elementi tanto diversi da risultare a tratti eterogeneo - eppure musicalmente amalgamati. Rimossa la maschera schematica dell'eroismo titanico a ogni costo, dell'ottimismo militaresco e della chiassosità un po' rozza, si spalanca un universo straordinariamente composito, differenziato, pieno di sfumature. In primo luogo, la gamma espressiva di Beethoven appare molto più ampia di quanto si sospetterebbe. Il sublime e il tragico cessano di essere onnipresenti a scapito di tutto il resto, e diventano due possibilità fra le altre. Il dramma non è la categoria interpretativa soverchiante, non è il cemento che tiene insieme le parti dell'edificio. La forma dei pezzi di Beethoven perde la granitica compattezza per risultare espansa, differenziata, meno lineare. E' un territorio che conosce oasi e momenti di sosta non incalzati dal parossismo della tensione drammatica, un percorso che ammette deviazioni, una narrazione che contempla digressioni e storie secondarie, gettando luce su una linea che porterà a Brahms. Suonato così, si capisce bene perché i Romantici in genere stravedessero per Beethoven. E' un genio che mostra come si possono costruire edifici con frammenti edilizi (basterà togliere il cemento e avremo l'esplosione pulviscolare di Schumann); come usare il contrappunto barocco mutandone il senso espressivo (nessuno dei Romantici saprà fame davvero a meno); addirittura, come ricreare lo spirito profondo di un'epoca senza impiegarne i mezzi come nell'Andante con moto del Quarto Concerto, che suonato da Brendel assume la cosmica ineluttabilità di una passacaglia barocca - e così via. Un approccio del genere rimescola salutarmente le carte anche sull'abusata tripartizione della produzione beethoveniana in prima, seconda, e terza maniera. Schema che, utilissimo se preso cum granu salis, può essere il peggior nemico della comprensione se viene inteso in senso letterale. Ciò che Brendel rende percepibile è che il percorso evolutivo di Beethoven non è linearmente diacronico, ma duplice. Da un lato si va verso soluzioni inedite, inaspettate, innovative. Dall'altro, questo è possibile proprio perché il tragitto torna continuamente su se stesso, sale a spirale, ruota intorno a uno stesso asse. Le più ardite novità linguistiche di Beethoven, nelle ultime sonate, non vengono dall'aver fatto tabula rasa del passato, ma da una nuova, prodigiosa consapevolezza. Si ascolti l'interpretazione dell'op. 106, realizzata più di vent'anni fa per la Philips. E' evidente che qui più che mai Beethoven riesce a guardare e a fare emergere, in una musica nuova, il tessuto inestricabile delle proprie radici. Tecniche barocche, fraseggio classico, sensibilità presaga di una nuova temperie, convivono e si sovrappongono generando una tensione continua. Non è la tensione drammatica, creata dal conflitto degli opposti, ma la tensione dell'eterogeneo, l'«interazione forte» che tiene insieme elementi di natura diversa.
Vecchio e nuovo sono dunque polarità di un unico campo magnetico. Il singolare percorso di Beethoven, l'innovatore per eccellenza, è attraversato da ritorni, permanenze, latenze. In particolare, dall'attaccamento a un Settecento grazioso, elegante e sentimentale che egli si guarda bene dal rinnegare. Da questo punto di vista, Brendel è sorprendente. Specialmente nei concerti per piano e orchestra, mette in rilievo una sottigliezza, un ésprit de finesse, una capacità di eleganza e un senso delle sfumature che si ascrivono generalmente a Mozart, proprio per differenziarlo da Beethoven, percepito invece come virtuoso della forza d'urto e della suspense, a prezzo di qualche inevitabile caduta di bon ton. L'incisione del 1998 con Rattle mostra con chiarezza che il senso delle mezze tinte non è appannaggio di qualche sonata minore, ma è una delle armi più potenti dell'espressività di Beethoven. Un Beethoven a tratti quasi prosciugato nella baldanza fisica, a tutto vantaggio della sottigliezza e della duttilità di spirito, che si rivela sorprendentemente insinuante, allusivo, sofisticato, come nel primo movimento del terzo concerto.
L'idea stessa del «sinfonismo» beethoveniano, con tutte le tentazioni di ipertrofia e vacua pomposità, ne esce ridimensionata. I concerti per piano e orchestra mostrano così una concezione timbrica e volumetrica dell'orchestra non come armata musicale, ma come gruppo da camera allargato. Persino nel quinto la dimensione prevalente è l'intreccio, il rimando, il gioco dei pieni e dei vuoti, piuttosto che la massa della sonorità complessiva. In questo equilibrio risalta, come le vene sotto una pelle diafana, la trama dell'orchestrazione pianistica di Beethoven, in un continuo dialogo fra l'orchestra reale degli strumenti e quella illusionistica della tastiera. Altra sorpresa: non sempre Beethoven ha i piedi per terra. La tradizione esecutiva colloca la sua musica in un'area semantica associata alla virilità, alla forza, alla presenza vigile e costante, alla tensione trasformativa verso cose, e cosi via. La sonorità è di conseguenza «realistica», deve mantenere - lo si ripete spesso a scuola - una corposità e uno spessore adeguato. Non così per Brendel, che come anche Radu Lupu - si permette di assottigliarla al limite dell'udibile, di alleggerirla fino a smaterializzarla, di sospenderla in un'eterea mancanza di peso. E' un Beethoven che sa sognare quello che ci propone un altro aspetto che non dispiacerà alla generazione successiva.
Naturalmente, tutto questo non significa che a Brendel manchino delle linee-guida. La disponibilità polimorfa che abbiamo cercato di analizzare si arresta di fronte a limiti ben precisi, a presupposti e scelte che in parte affondano nel temperamento e in parte sono frutto di consapevole elaborazione.
La linea di frontiera è il Dionisiaco. La sua ricchissima navigazione si arresta di fronte alle colonne d'Ercole che delimitano l'universo geografico della struttura e della forma. Al fondo del suo modo di suonare si percepisce un'incrollabile fiducia nella saldezza della forma, non come struttura rigida ma come nesso e relazione fra il dettaglio e l'insieme. Per quanto ampio, il suo universo rimane consapevolmente al di qua della rottura dell'equilibrio, delle potenze oscure e disgregatrici che abitano il sottosuolo del discorso. La sua interpretazione della follia beethoveniana in chiave di paradosso umoristico, espressa nell'intervista su questo stesso numero di MUSICA, è del tutto coerente con questi presupposti. La civiltà musicale di Brendel è quella di un raffinato umanesimo dell'intelligenza e del gusto, intessuto di valori estetici ma anche etici - responsabilità dell'interprete verso il compositore, integrità dell'opera, coerenza del percorso personale - lontani da ogni sperimentazione iconoclasta: il paradosso di questo musicista è che può cambiare radicalmente la nostra percezione di Beethoven, senza mai aver preteso di rivoluzionarla.
di Emanuele Ferrari ("Musica", n.123, febbraio 2001)

sabato, febbraio 17, 2007

Ligeti: appunti sulla sua discografia

L'«Ei fu» pronunciato su Ligeti, scomparso negli ultimi giorni della scorsa primavera, ha il sapore di un paradossale congedo dal futuro: lo spegnersi del suo sguardo sul mondo, pur mestamente adombrato, provoca un profondo disorientamento e un acuto senso di vertigine. Non solo perché uno degli ultimi veri grandi inventori di musica se ne è andato per sempre, ma soprattutto perché egli, più di ogni altro maestro del secondo Novecento, è stato capace di fondere memorie ancestrali e lucidissime istanze innovatrici rigenerando continuamente la propria vena creativa. Il tutto senza sacrificare la libertà di pensare e agire ad inflessibili dogmi postweberniani, né tanto meno scendere a qualsivoglia compromesso per conservare la benevolenza degli ascoltatori meno inclini ad avventurarsi in territori inesplorati. Le note non sono sette o dodici, ma infinite: i fittissimi e cangianti reticoli sonori ligetiani divengono dunque metafora d'una «conquista dello spazio» capace di oltrepassare di gran lunga il suggestivo ma riduttivo (ab)uso di alcuni suoi capolavori che si è voluto fare in un notissimo film di fantascienza. In questa triste occasione desideriamo semplicemente suggerire qualche ascolto significativo, spingendoci al di là delle pagine ben presenti a tutti quanti possiedono una certa confidenza con la produzione musicale del secondo dopoguerra, come per esempio Ramifications per orchestra d'archi, il Quartetto n. 2, il Concerto da camera per tredici strumentisti o Lux Aeterna (tutte cose peraltro felicemente riunite nel disco DG 423 244-2, che ha come protagonisti principali Pierre Boulez e il Quartetto LaSalle). Se infatti l'importanza di Ligeti come risoluto innovatore del linguaggio musicale è apparsa limpidamente fin dalla nascita dei primi capolavori strumentali (in particolare Apparitions e Atmosphères), finora le sue quanto mai stimolanti incursioni in campo operistico o meta-operistico non hanno goduto di un riconoscimento altrettanto convinto. Il Nostro non ha voluto però rinunciare al compito improbo di ridiscutere in toto le convenzioni della rappresentazione musicale, rovistando nella cassapanca dei consunti aggeggi teatrali ed estraendone di tutto un po': decontestualizzati e osservati con gli occhi puri di un marziano in missione sulla terra, i congegni arrugginiti del vecchio e moribondo melodramma hanno ripreso a funzionare in modo completamente imprevisto. Dalla mancanza di senso è emersa una nuova possibilità di senso, dalla crisi del linguaggio è nato un nuovo dizionario nel quale i vocaboli non sono più sistemati in ordine alfabetico. Con Aventures, secondo la suggestiva definizione di Stefan Beyst, il compositore ha intonato un'"ode alla discrepanza fra parola e azione". Per ascoltare questo stralunato capolavoro dell'assurdo, più che alla famosa incisione DG di Boulez (il CD è quello citato qualche riga sopra) rimandiamo alla lettura maggiormente libera ed estrosa di Reinbert de Leeuw alla testa dello Schönberg Ensemble (su Teldec 8573-88262-2). Tutta l'esperienza accumulata da Ligeti converge nella grande fatica de Le grand macabre, «Opera» (?) che cronologicamente - la prima versione è del 1975-77, quella definitiva riceve gli ultimi tocchi un ventennio più tardi - e idealmente rappresenta il perno attorno al quale ruota l'intera vita creativa del maestro magiaro. In luogo di un'altisonante ouverture o 'un atmosferico preludio, Ligeti dà il via al suo opus magnum con una parodistica e sguaiata fanfara di clacson che fa impallidire il dada circense di Parade. Il resto - una sequela infinita di ferocissimi nonsense - è tutto da scoprire. Per fare questo, più che la stimabilissima incisione Wergo diretta da Elgar Howarth, si consiglia di ascoltare attentamente la viva e spericolata restituzione di Esa Pekka Salonen pubblicata sul doppio CD Sony S2K 62312.
Negli anni '80 il furore delle avanguardie si placa e Ligeti si concede una pausa di riflessione prima di mutar registro con le pagine dell'estrema maturità. I lavori più importanti di questa fase sono il Concerto per pianoforte (1985-88) e il Concerto per violino (1992), affiancati al più «anziano» Concerto per violoncello (1966) in un irrinunciabile disco DG (la sigla è 439 808-2) che vede protagonisti Jean-Guihen Queyras, Saschko Gawriloff, Pierre-Laurent Aimard e l'Ensemble InterContemporain diretto ancora da Boulez. L'ultimo spicchio del secolo scorso vede però cambiare anche il modo di considerare ed eseguire le pagine degli «anni ruggenti». All'approccio rigorosamente razionalistico si sostituisce una visione più complessa e sfaccettata, capace di cogliere decantate rifrazioni liriche e sottili sfumature nostalgiche. La musica del domani appartiene ormai al passato, e come tale viene riletta. In tal senso un fondamentale spartiacque è rappresentato dalle incisioni dal vivo di Atmosphères e Lontano realizzate nell'ottobre 1988 da Claudio Abbado alla testa dei Filarmonici di Vienna, pubblicate da Deutsche Grammophon (la sigla del CD è 429 260-2) in un'antologia che comprende anche Départ di Rihm, Liebeslied di Nono e Notations I-IV di Boulez. Altrettanto significativo è il confronto fra la lucidissima lettura «geometrizzante» di Requiem registrata da Michael Gielen per la Wergo negli anni '60 (WER 60 045-50) con quella intensa e commossa proposta in tempi recenti da Johnatan Nott alla testa dei Berliner Philharmoniker (CD Teldec 8573-88263-2). Quest'ultimo compact disc si segnala anche per la presenza di un significativo «lavoro di transizione» come il Doppio Concerto per flauto, oboe e orchestra (1972) e del recentissimo Hamburgische Konzert per corno, orchestra da camera e quattro corni naturali obbligati (1998-99).
Tutta da scoprire per il grande pubblico è anche la produzione per strumenti a tastiera, che comprende brani fondamentali della moderna letteratura organistica (Volumina, 1961-2) e clavicembalistica (Continuum, 1968), nonché una rilevantissima serie di composizioni per pianoforte che culmina nei tre libri di Studi. Anche in questo caso l'infaticabile creatore di nuove sonorità e nuove tecniche non manca di stupire per la sua audacia e fantasia. Il primo libro di Studi, in particolare, è formato da sei pezzi in ognuno dei quali vengono sperimentate diverse modalità di scrittura. Ad esempio il primo, dal titolo Desordre, è fondato su un'opposizione ritmica fra le due mani - complicata da una diversa armatura di chiave: cinque diesis per la sinistra, cinque bemolli per la destra con continui spostamenti di accenti. Interessantissimo anche il terzo, Touches bloques, che utilizza appunto la tecnica dei «tasti bloccati», così descritta dallo stesso compositore: «Una mano preme i tasti per tenerli muti, e ciò avviene in successione cangiante. L'altra preme sia i tasti che suonano, sia quelli che sono appena stati bloccati. Di qui nascono nuove configurazioni ritmiche». Per ascoltare tutte queste pagine ci soccorrono i dischi della collana «Ligeti Project» pubblicata da Sony Classical: fortemente raccomandato, in particolare, è quello che abbina la Musica Ricercata e gli Studi I-XV nelle impeccabili e coinvolgenti esecuzioni del pianista Pierre-Laurent Aimard.
di Paolo Bertoli ("Musica" n.179, settembre 2006)

venerdì, febbraio 16, 2007

Conversazione con Christopher Hogwood

Usare la storia per aiutare l'esecuzione, essere in sintonia con lo stile della musica che si sta suonando. La storia profondamente connessa con la filologia, fondamento del linguaggio, per imparare a leggere e capire la musica. Gregorio Carraro ci riporta la visione di Sir Christopher Hogwood.

«Intervista» sa tanto di domande preparate: cos'avrei mai potuto chiedere ad uno dei massimi guru della musica antica a livello mondiale come Sir Christopher Hogwood? Cos'avrei potuto dirgli di nuovo, di non banale o scontato? Trovavo e ancora trovo difficile rispondere a queste domande. Dunque, non mi pento di avere acceso il registratore al centro del tavolo di un bar, dove ho incontrato il Maestro in una pausa durante il suo masterclass di clavicordo, tenutosi lo scorso agosto nell'ambito dei corsi dell' «Accadernia Europea di Musica Antica» di Bolzano, che qui si svolgono durante il parallelo «Festival Internazionale di Musica Antica» (direzione artistica di Claudio Astronio), ormai giunto alla sua tredicesima edizione. «Intervista» non mi sembrava e non mi sembra il termine adatto. Ecco perché ho intitolato questo pezzo «conversazione», proprio perché di questa si è trattato. Da parte mia c'era un foglio striminzito con tre appunti buttati giù in matita, scritti di getto poco prima di incontrarlo, un tavolino rotondo, due sedie, un registratore. Da parte sua, la pazienza squisita e la serena lucidità di chi conosce la vita prima ancora che la musica, di chi sa essere grande e umile insieme, l'ironia tipica di chi è serio davvero (e non soltanto serioso), la competenza e la profondità di chi abbina le anime del musicista praticante, del musicologo, dell'umanista. Inizio la conversazione senza avere in mente una precisa scaletta, per pure associazioni mentali, lasciandomi trasportare dalla musicalità e dal ritmo di un accento britannico perfetto. Cos'hanno in comune il canto ambrosiano e Stravinsky, la musica contemporanea e gli strumenti originali, la filologia e i libri di cucina, il direttore d'orchestra e il grande chef, gli orari delle biblioteche italiane e la Maremma, la coerenza incrollabile dei grandi musicisti e l'altrettanto incrollabile ignoranza di certi critici? Buona lettura.
Sempre più spesso si ascolta musica per film eseguita su strumenti originali. Non ultimo, Marcel Ponseele poco tempo fa ha registrato "Oblivion" di Astor Piazzolla eseguendolo all'oboe barocco...
Credo si tratti di una tendenza superficiale (inglese: cosmetic", ndr), sebbene non vi sia una legge che la impedisca. Personalmente non amo l'idea del pastiche. Piuttosto, con l'Academy of Ancient Music abbiamo eseguito molti lavori di compositori contemporanei quali John Tavener, David Bedford, John Woolrich, che hanno scritto dei pezzi in stile moderno esplicitamente dedicati agli strumenti originali. Questi strumenti sono del tutto normali, fanno ormai parte del paesaggio musicale moderno.
Ma allora, cosa significa per lei oggi il termine «storicamente informato»?
Usare la storia per aiutare l'esecuzione. Significa essere in sintonia con lo stile nel quale la musica che stai suonando è stata scritta, ma non è solo questo. Sono spiaciuto soprattutto per le persone anti storiche. Credo infatti che la storia sia la base per suonare qualsiasi tipo di musica. A maggior ragione, per quanto riguarda la musica antica, abbiamo l'obbligo di sapere cosa fosse richiesto al musicista prima che certe abitudini esecutive venissero abbandonate in nome di altre.
Dal Medio Evo al Romanticismo?
Puoi estendere il ragionamento fino a Stravinsky. Perché no?
La storia è profondamente connessa con la filologia. Spesso si parla di esecuzioni filologicamente corrette. Che senso ha per un musicista essere "fiologico"?
La filologia è la base del linguaggio. Filologia significa imparare a leggere la musica, perché per suonare bisogna saper leggere cosa è scritto sulla partitura. Se per esempio non sei italiano, devi imparare cosa vuol dire "pianissimo", oppure "ritardando", perché per te non sono concetti abituali. Bisogna studiare un po' per suonare, tutto qui.
Quindi la filologia è utile per eseguire un pezzo musicale?
Più che altro, si tratta di un modo di capire: proprio quando capisci cosa vuol dire "fortissimo", forse puoi decidere di non suonare fortissimo. Oppure, se vedi "poco ritardando", una volta che capisci cosa vuol dire, puoi decidere anche di non farlo. E' un fenomeno simile a quello che si verifica nei libri di cucina. In una ricetta, hai delle informazioni in colonna, una sotto l'altra. Se c'è scritto di prendere lo zucchero, puoi decidere di prendere il sale. C'è però una sola "piccola" controindicazione: devi tenere conto che, se cambi gli ingredienti, il risultato sarà diverso da quello che la ricetta esigeva. Allo stesso modo, se leggi una partitura, hai informazioni musicali. Se ne comprendi il periodo storico, hai informazioni storiche. Se capisci cosa significa "fermata" per Mozart, cioè una piccola cadenza, vedi che è diverso da quello che Ciaikovski intendeva per "fermata". Solo usando nel modo corretto tutti gli «ingredienti» che la storia ti mette a disposizione, puoi dare senso alla musica. Altrimenti, si cade in errore.
Dunque la storia, per prima?
No. La musica resta comunque il primo argomento di studio. Il discorso è piuttosto sottile, mi spiego meglio: cos'è Beethoven? Non è contemporaneo, quindi è storico.
Il mondo della musica antica oggi è cambiato. Da un ristretto gruppo di accoliti animati dal sacro fuoco, alla competività e all'alto livello richiesto ai musicisti, spesso freneticamente assorti in un vortice di virtuosismo senza fondo. Possibile che un musicista oggi non possa avere altri interessi che il triplo staccato?
Certi musicisti potrebbero anche dedicare buona parte del loro tempo in modo più proficuo, magari gustandosi una buona cena, dormendo serenamente. L'atteggiamento arrivista e competitivo al parossismo è pericoloso, specialmente se il fatto di suonare diventa una specie di mania. Ma chi lo sa, potrebbe anche essere giusto. Io comunque, non condivido.
Forse il pubblico italiano non conosce i suoi molteplici interessi...
Si, è vero, ne ho molti, comunque tutti in un modo o nell'altro legati alla musica. Ultimamente, mi dedico alla musica del '900 non faccio più tanta musica antica come un tempo - mi occupo di musicologia, curando edizioni critiche e scrivendo saggi. Mi piace collezionare quadri, caricature, ceramiche, leggo molti libri di storia per approfondire il background musicale. mi interesso anche di cucina storica, non perché sia un gran cuoco, ma perché mi interessa il processo di ricezione dei libri di ricette, cosa la gente facesse con quei libri. (Una ricetta gastronomica non fa altro che fornire informazioni, proprio come una partitura. Quando la gente segue le indicazioni di una ricetta, fa in modo di esserle fedele nel modo più esatto possibile. Sarebbe bello che capitasse così anche nella musica: se un pezzo è previsto per clavicembalo, è opportuno non usare uno Steinway. Se è previsto un organo, non usare un sassofono. Se un'arpa, non un ottavino.) Mi piace molto l'architettura, l'arredamento, la lettura dei diari d'epoca, per sapere le storie relative alle vite di chi h ha scritti. E poi, una serie di altre cose: il buon vino, la Toscana, le storie della Maremma...
A proposito d'Italia, come si trova a lavorare nel Bel Paese? O meglio, uno che avesse detestato il "politically correct" le avrebbe chiesto: come trova lo stato della musica antica in Italia nell'anno del Signore 2004?
All'inizio dello studio dell'esecuzione su strumenti originali, in Italia c'erano ben poche persone ad occuparsene, anche se, a rigore di logica (è il luogo dove nasce la cantata, la sonata, ecc ... ), l'Italia avrebbe dovuto essere una delle nazioni leader di questo fenomeno culturale. Cominciarono invece l'Olanda, l'lrighilterra, L'Austria con Vienna. Tuttavia, in questi ultimi tempi ho visto gruppi italiani emergere con un buon senso del carattere. Io stesso suono talvolta con l'Arte dell'Arco di Federico Guglielmo, con cui ho registrato alcuni CD con musiche di Vivaldi. E' un gruppo molto energico, ha un modo di suonare molto vitale. L'unica cosa che mi meraviglia un po' in Italia sono le biblioteche. Ci sono ancora oggi innumerevoli informazioni custodite a Parma, Napoli, in Sicilia: si può trovare del materiale davvero interessante, quando lo si può vedere...
Spesso, a causa di orari impossibili (perché molte volte interrotti all'ora di pranzo), un musicologo non riesce ad organizzarsi un lavoro di ampio respiro...
Beh, in nessuna parte del mondo credo si possano trovare biblioteche con materiale d'archivio aperte fino a tarda sera con orario continuato, per motivi di protezione. La British Library, la Library of the Congress, la Bibliothèque National hanno un orario del tipo 9 - 18. Alle sei di sera devi andare a cena, non c'è scampo! Ci sono cataloghi, microfilm. Però è vero che in Italia spesso sembra piuttosto complesso...
Capita di dover lavorare molto in poco tempo a causa di orari che magari variano a seconda degli «impegni» del bibliotecario di turno...
Mi è capitato di stare in alcune biblioteche che chiudevano all'ora di pranzo per un'ora e mezza. Ho perfino chiesto all'addetto di chiudermi dentro durante l'orario di chiusura. Pensa che bello poter lavorare in totale solitudine quando tutti se ne sono andati via ... Ho persino pensato che le biblioteche che chiudono all'ora di pranzo abbiano una convenzione con alcuni ristoranti, dato che ad un certo punto sembrano volere che tutti vadano a mangiare per due ore come minimo! E' una abitudine italiana piuttosto primitiva. Così come è primitiva l'idiosincrasia per le fotocopie. Se vivi a Mosca, non puoi recarti in Italia ogni fine settimana. Puoi chiedere microfilm o fotocopie, pagandoli, e lavorare da casa. E' possibile, si fa in altre zone del mondo. Non capisco perché in certi ambienti debba essere un problema.
Alcuni critici identificano la categoria del "British" in musica, come qualcosa di freddo e inespressivo. Io al contrario credo che un inglese possa suonare con brio, freschezza ed entusiasmo. In una mia recensione alle Trio Sonata di Händel eseguite da Monica Huggett, ho parlato del suo modo di porgere come di un qualcosa di "Brightish" (e non "British", facendo un gioco diparole sulla vivacità ed il colore luminoso di questa violinista...
«Brightish»? Sembra una parola utile, grazie per aver allargato il vocabolario! Vedi, è una questione che riguarda i critici conservatori, cioè quelli che riconoscono profondità e serietà alla musica soltanto se vi identificanotre fattori: il vibrato, il suono forte, la lentezza. In realtà non è così semplice. Chi non capisce l'esecuzione storica, è portato a cercare e si aspetta la gravitas anche dove non c'è. Per esempio, in una cantata per soprano, forse non ho bisogno di tutto questo vibrato, e neppure di tanti tromboni e percussioni. Quando parlo di critica conservatrice mi riferisco a quelle persone che definiscono leggera la voce di Emma Kirkby. Nel valutarla, dovrebbero considerare molti altri fattori oltre al vibrato, che rimane invece l'unico segno in base al quale riconoscono la profondità e l'emozione. Un grande errore.
di Gregorio Carraro ("Orfeo", n.87, gennaio 2005)

domenica, febbraio 11, 2007

Alla riscoperta di Graupner: Geneviève Soly

La clavicembalista di Montreal ci racconta con grande emozione come è avvenuta la sua riscoperta della musica di Christoph Graupner, esaltando il linguaggio e lo spirito innovativo di una musica paragonabile a quella dei grandi compositori del suo tempo.

Nel 1683, due anni prima che Eisenach, città di origine della famiglia Bach, desse i natali a Johann Sebastian, la famiglia Graupner di Hartmannsdorf dava il benvenuto al piccolo Christoph. Gli storici odierni sono concordi nell'affermare che nonostante egli sia sopravvissuto per dieci anni a Bach, quest'ultimo abbia comunque avuto una vita produttiva migliore di quella di Graupner.
Geneviève Soly non ha motivo di contraddirli, concedendo volentieri a Bach l'appellativo di gigante della musica. Ciò di cui risentono i clavicembalisti e musicologi di Montreal è il fatto che la storia abbia trascurato un compositore di cui la Soly parla con lo stesso trasporto normalmente riservato a Rameau e Telemann.
Lei non è sempre stata di questo parere. Bach era il suo idolo, il compositore la cui musica l'aveva ispirata nello studio dell'organo, dapprima con suo padre, in seguito in Europa, dove venne influenzata dal clavicembalista Kenneth Gilbert.
Non solo Gilbert la invogliò a studiare il clavicembalo, ma la contagiò nello zelo con cui andava a caccia di fonti musicali originali. Ritornata a Montreal, dove incontrò uno dei più intraprendenti gruppi di esecutori su strumenti originali, l'Ensemble des ldees Heureuses, nel 1987, divenne famosa per aver rispolverato spartiti di musica antica dalle biblioteche. Per riuscire a trovare più spartiti possibile tra quelli che cercava, ottenne una borsa di studio ed iniziò ad aggirarsi furtivamente fra i tesori del Beinecke Rare Book dell'Università di Yale e la Manuscript Library.
Dopo aver trascorso il giorno precedente a selezionare i titoli da esaminare, la Soly arrivò in biblioteca la mattina presto del giorno del suo 43esimo compleanno, il 14 Novembre del 2000.
«Me lo ricordo ancora. Mi misi a sedere e iniziai a leggere la prefazione scritta sul lato sinistro della prima pagina, in cui era descritta la diteggiatura e tutte le cose che si devono sapere quando si suona la musica. Subito dopo iniziai a leggere la prima pagina della prima partita (per clavicembalo), pensando tra me e me, questa è una musica bellissima. Andando avanti nella lettura, rimasi sbalordita. Non riuscivo a capire cosa stesse accadendo. Chi era questo Graupner? E come avrebbe potuto scrivere tali cose? Ad un certo punto qualcuno mi fece un cenno toccandomi il gomito. Stavano chiudendo. Non mi ero resa conto che era già mezzogiorno».
E' così che tutto ebbe inizio.
Durante i mesi e gli anni successivi, la Soly cercò di trovare tutto quello che poteva su Christoph Graupner, mettendosi in contatto con la biblioteca di Darmstadt in cui erano custoditi i suoi manoscritti, ordinando copie degli spartiti e suonandoli in continuazione nel tentativo di comprendere i processi mentali del compositore. Non esistevano registrazioni che la potessero aiutare. Non vi era alcuna musica, ad eccezione delle quattro partite, che fosse stata pubblicata prima del ventesimo secolo. I libri di riferimento trascuravano i suoi argomenti di interesse («il Grove è pieno di errori») oppure ignoravano del tutto il compositore.
«Continuavo a fare scoperte interessanti,» ricorda la Soly, «in una sua prefazione, Rameau sostiene di essere stato il primo ad alternare l'uso delle mani nell'esecuzione di un'ampia scala. Ma Graupner lo aveva già fatto sei anni prima, senza affermare di essere stato il primo. Era un uomo modesto.» «In seguito trovai, in uno spartito del 1718, una cadenza scritta per clavicembalo che somigliava ad un pezzo virtuosistico scritto da Bach nel Quinto Concerto Brandeburghese, e si pensava che fosse stato proprio lo stesso Bach a scrivere per primo una tale cadenza. Inoltre, molte sarabande ed arie scritte da Graupner rappresentano musica operistica trascritta per clavicembalo, e si pensava che Händel fosse stato l'unico compositore ad averlo fatto. Non possiamo ancora dire se Graupner influenzò Rameau oppure Händel, o Bach. Ma l'alta qualità di questa inventiva è già chiara.»
Geneviève Soly prevede che le ci vorranno altri tre o quattro anni di ricerca prima di poter scrivere un libro sulla musica per clavicembalo di Graupner, per la maggior parte riscoperta da lei. Ma vi è anche una gran quantità di altra musica strumentale e sacra in attesa di qualcuno che se ne occupi.
Come può una tale quantità di musica, presumibilmente di qualità, rimanere nelle ombre dell'oscurità? La risposta più ovvia è che Graupner trascorse gli ultimi cinquant'anni della sua vita al servizio dei langravi di Hesse-Darmstadt, rendendosi poco visibile, e che alla sua morte la sua musica venne prontamente archiviata.
«Non sono sicura di poter affermare che inizialmente il mio interesse avesse una giustificazione» ammette la Soly, «così nel mio appuntamento annuale di recital sofistico a Montreal nel maggio 2001 decisi di eseguire una partita di Graupner senza dire nulla a nessuno. Dissi tra me, se piacerà al pubblico, allora andrò avanti. In caso contrario, chiuderò lo spartito. Per me si trattava di un test. Ebbene, ci fu un'ovazione. Così il giorno dopo sentii di poter andare da Mario Labbé alla Analekta Records per proporgli qualcosa. Egli ascoltò, dopo disse: «Partiamo!».
L'esito? Non una, bensì due serie dedicate a Graupner sull'etichetta di Montreal, una sulle partite per clavicembalo, l'altra sulla musica vocale, entrambe dirette dalla Soly.
«Graupner adesso è la mia passione», dice.
«Ciò che di più adoro fare è chiudere la porta, aprire uno spartito di musica e mettermi a sedere con Graupner. Egli è veramente un grande uomo. La musica è gradevole fisicamente, in maniera estrema. A volte richiama il passato, a volte sembra così nuova. Egli apre la porta della musica classica con la sua galanteria. Non ho idea se così anticamente venisse scritto stile galante. Graupner è l'unico compositore che io conosca con un grande senso del passato e del futuro, ed inoltre con un suo proprio linguaggio.»


di William Littler ("Orfeo", n.87, gennaio 2005)

Le sinfonie di Shostakovich (II): nell'interpretazione di Bernard Haitink

Sinfonia n.8 in Do minore Op.65
Nel 1943, il flusso creativo di Shostakovich scorreva ad un ritmo talmente impetuoso che, secondo la biografia di Fay, «si lamentava di un mal di testa di cui spesso soffriva quando non componeva». Shostakovich si impegnò nella sua Ottava Sinfonia, i cui cinque movimenti sarebbero durati più di un'ora, nel luglio 1943 e, sorprendentemente, la completò in due mesi scarsi. Quel periodo di tempo pare ancor più strabiliante se si considera, come faccio io (l'Ottava è probabilmente la mia preferita tra le quindici sinfonie dei compositore), questo lavoro come una delle espressioni più profonde del compositore. E' certamente tra i suoi lavori più scuri. Come nel primo movimento della Quinta e della Sesta, l'Ottava parte con un tempo molto ampio, in questo caso un adagio dominato dagli archi che, dopo un'introduzione che ricorda quella della Quinta Sinfonia, espone un tema quasi bizzarro che sembra emergere a stento, con i suoi timbri 'sul tasto', dall'oscurità. Un secondo tema, anch'esso inizialmente presentato solo dagli archi e scritto nella misura asimmetrica di 5/4 con la quale Shostakovich mantiene comunque un fluire notevolmente lirico, regge un tempo appena più veloce. Subito dopo l'apertura della sezione dello sviluppo, comunque, Shostakovich cambia marcia brutalmente ed apre un esteso periodo di elevata drammaticità che inizia con accordi terribilmente tragici da parte degli ottoni, inframmezzati all'esposizione del primo tema da parte dei violini e culminanti con un allegro di tale intensità e con dissonanze talmente violente e così pesantemente intessute, da poter essere definito solo terrificante. Dopo di ciò, il lungo, lamentoso recitativo del corno inglese che fa da ponte tra lo sviluppo e la ricapitolazione, per poi riportare al secondo tema (5/4), pare quasi una voce dall'oltretomba. Dopo questo lungo (dura quasi ventisei minuti) prélude noir, forse la sinfonia aveva bisogno del suo posizionamento inusuale, fianco a fianco, dei due scherzi, il primo un impacciato e giocoso allegretto - cioè: giocoso se la vostra idea di divertimento richiama cose come divisioni di panzer in manovra - il secondo un allegro non troppo decisamente più scuro in tempo tagliato nei quali ampi spazi brevi frammenti tematici producono nette fratture. Nella morbida passacaglia che serve da quarto movimento Shostakovich, piuttosto stranamente per la mia sensibilità, crea due sensazioni opposte di movimento temporale, con le cicliche riprese del basso della passacaglia che lavorano in opposizione alle variazioni sviluppate su di esse, che procedono verso una luce alla fine del tunnel con un forte senso di drammatica inevitabilità. Mentre il finale accende in qualche modo definitivamente - e forse inevitabilmente - il filo narrativo, l'effetto è piuttosto quello di un sole che si leva meravigliosamente sopra un campo di battaglia devastato; nel mentre, Shostakovich introduce un congruo numero di tocchi intriganti tra i quali, verso la metà del movimento, qualcosa che dà l'idea di una eterna fuga. Essendo arrivato a questo punto della mia traversata del ciclo di Shostakovich di Haitink, sono arrivato a comprendere - qualcosa che ho iniziato a sospettare fin dalla Quinta e dalla Sesta Sinfonia - che uno degli assi nella manica di Haitink sono gli archi della Concertgebouw Orchestra di Amsterdam. Potrei sbagliarmi, ma non credo che Haitink avrebbe raggiunto un tale stupendo livello di eccellenza interpretativa così evidente in ogni battuta della Ottava Sinfonia con gli archi della London Philharmonic. Un suono di archi ricco, pieno e attacchi affilati come rasoi sono essenziali per questa sinfonia e la Concertgebouw Orchestra non sbaglia mai in entrambe le aree, che si tratti degli ampi paesaggi sonori dei primo movimento o dei rapidi, affilati ostinati dello scherzo del terzo movimento. Ma ogni gruppo strumentale offre prestazioni stupende in questa registrazione gli ottoni in ricche masse di suono, spesso nei movimenti più intensamente drammatici, i fiati che sviluppano ed arricchiscono il materiale inizialmente presentato dagli archi. Inoltre, la migliore musica di Shostakovich richiede che si presti pari attenzione alla pulsione drammatica, che il compositore crea con l'abilità intuitiva di un esperto narratore, alle tessiture verticalmente generate e spesso estremamente complesse e ad elementi, sia nella struttura musicale che in quella affettiva, che lavorano contro quella linearità narrativa. In nessun altra opera Haitink lavora in migliore sintonia con queste tre facce della musica di Shostakovich - e senza dubbio molte altre seguiranno - che in questo incredibile resoconto dell'Ottava Sinfonia. Tutto commuove, tutto suona, tutto raggiunge i visceri esattamente nelle giuste proporzioni. Registrato diciotto anni fa al Concertgebouw ad Amsterdam, questo CD offre anche un suono ricco e perfettamente equilibrato che rende piena giustizia alla musica e agli sforzi fatti da Haitink e dal suo straordinario organico per comunicarla. Ho conosciuto l'ottava di Shostakovich tramite una registrazione, importata dall'etichetta MK o da una sua consociata, con Yevgeny Mravinsky che ne dirigeva la prima e al quale la sinfonia è dedicata, e con la Leningrad Philharmonic. Anche con il terribile suono di quell'LP, ero sconvolto sia dalla musica che dall'interpretazione. Sarebbe bello che una ottava diretta da Mravinsky fosse nuovamente disponibile. Ma quella di Haitink è una registrazione eterna.
Sinfonia n.9 in Mi bemolle Op.70
C'era un articolo su Shostakovich - sono sicuro che fosse stato pubblicato su «Stereo Review» ai vecchi tempi prima che il declino di questa e di altre riviste quali High Fidelity portasse alla nascita di Fanfare - in cui l'autore speculava, sulla base sia della musica che di ciò che era stato in grado di osservare della gestualità dell'uomo, che il compositore fosse probabilmente un maniacodepressivo. Anche se, certamente, niente di ciò che sappiamo dell'uomo Shostakovich sembri poter giustificare una psicosi così grave, la descrizione, usata in modo non clinico, certamente si adatta a gran parte della produzione musicale del compositore, da un lavoro all'altro o - mai come per la Nona Sinfonia - nell'ambito di un singolo layoro. Per quanto riguarda la Nona Sinfonia di Shostakovich, anche le circostanze che concernono la sua creazione vanno in direzioni opposte. Ancora una volta, Shostakovich accennò che avrebbe scritto una grande, ottimistica sinfonia - questa dedicata alla vittoria, ovviamente - con coro e cantanti solisti. Pare anche che il compositore abbia scritto una decina di minuti di musica con queste caratteristiche (esiste un qualche manoscritto?). Ma per una qualche ragione forse Shostakovich era semplicemente incapace di dare ai commissari ciò che loro volevano quando si parlava di una forma musicale che egli prendeva così seriamente come la sinfonia? Magari il compositore voleva evitare qualunque invidioso confronto con un'altra nona sinfonia? quando venne data la premiere della Nona Sinfonia (ancora con Mravinsky e la Leningrad Philharmonic), il 3 Novembre 1945, l'opera risultò essere un breve lavoro - venticinque minuti - che richiamava in qualche modo l'estetica della Prima Sinfonia, ma in modo molto più giocoso per gran parte della sua durata. Entrambi i temi del primo movimento danzano allegramente con il secondo, sospettosamente introdotto da un portentoso motivo di due note dal trombone, che sconfina nella trivialità. C'è un momento particolarmente buffo alla conclusione dello sviluppo quando al trombone ed al suo motivo di due note occorrono sei tentativi per ripresentare il secondo tema, continuamente respinto finché, in seguito al settimo tentativo, lo sforzo è coronato dal successo. Dopo un breve, vertiginoso scherzo ed un (canzonatorio?) solenne recitativo di fagotto (in cui Bernstein ha percepito un riferimento alla Nona di Beethoven) che funge da quarto movimento, Shostakovich torna al giocoso e, sì, al triviale nel finale, che culmina in modo così balordo in marche di vittoria che meraviglia il fatto che Shostakovich non sia stato fucilato sul posto. In totale contrasto, il secondo movimento è costruito attorno ad alternanze tra un piccolo tema molto lamentoso offerto da vari assoli dei legni ed una lenta, cromatica marcia suonata in accordi paralleli dagli archi, lugubre fino alla parodia. Leonard Bernstein, ipotizzando che la Nona Sinfonia fosse una grande buffonata musicale, ha debolmente argomentato che il movimento è buffo perché non appartiene alla sinfonia. In questo caso, trovo l'argomentazione della mania depressiva molto più convincente. Non ricordo di aver provato brividi ascoltando il primo movimento della Nona Sinfonia di Shostakovich, ma li ho provati certamente quando ho ascoltato l'interpretazione offerta da Haitink. Haitink esegue probabilmente il movimento in modo più grandioso - e più veloce - di come lo intendeva Shostakovich, ma il suo approccio funziona senz'altro, in particolare con l'affilata esecuzione della London Philharmonic. La drammaticità che Haitink estrae da questa barzelletta ci ricorda che il compositore di questa sinfonia ha anche scritto la Ottava, ma senza con questo tradire lo spirito leggero del movimento che, sotto la direzione di Haitink è in ogni suo istante contagioso. Anche se la descrizione 'haydnesca' viene spesso associata a questa sinfonia, Haitink la rende più 'beethoveniana'. Mi piace anche il tempo appena meno che moderato nel secondo movimento, che pone nelle sue mani ulteriore solennità (nessuno, comunque, ha affrontato il ritmo oltraggiosamente lento di questo movimento in modo così compiuto come Efrem Kurtz in un antico LP Columbia; Kurtz ha anche colto il giusto umore di quel motivo del trombone nel primo movimento effettuando una pausa appena prima che la sua caparbietà infine trionfi). Haitink quindi procede nel tratteggiare lo scherzo con divertente leggerezza. In generale, inoltre, Haitink delinea alla perfezione le tessiture da orchestra classica della sinfonia. Solo nel finale il compositore pare perdere un po' di energia, ma non tanto per cui la sua Nona possa perdere il suo status di una tra le più coinvolgenti e fedeli allo spirito della musica mai registrate.
Sinfonia n. 10 in Mi minore Op.93
Ci vollero cinque anni prima che Shostakovich potesse scrivere un'altra sinfonia. Molta, forse tutta la responsabilità per questo gap nella produzione dei più importante sinfonista post-mahieriano del ventesimo secolo è da ascrivere ancora una volta al Camerata Stalin, che nel 1948 inviò il proprio vandalo culturale, Andrey Zhdanov, in una caccia alla streghe culturale che intimidì non solo Shostakovich, ma anche molti dei suoi colleghi. Il Primo Concerto per Violino, iniziato nel 1947 e terminato nel 1948, venne messo da parte e non vide la luce del giorno fino al 1955. Trovando la maggior parte della sua musica bandita, e licenziato dal suo posto di insegnante, Shostakovich si guadagnò da vivere scrivendo musicaccia da film ed alcuni terribili calderoni politici quali un oratorio intitolato La Canzone delle Foreste ed una cantata, Il Sole Brilla sulla Nostra Patria. Eppure, parecchi lavori importanti riuscirono ad emergere da quel periodo, i più significativi dei quali, probabilmente, sono il Quarto ed il Quinto Quartetto per Archi e nel 1950-51, i Ventiquattro Preludi e Fughe per Pianoforte. Il grosso della Decima Sinfonia venne composto nel 1953, solo parecchi mesi dopo fa morte di Stalin (e di Prokofiev), benché venisse iniziato probabilmente già nel 1951. Sarebbe stata l'ultima delle grandi, non programmatiche, non vocali tragiche sinfonie di Shostakovich, che iniziano con la Quarta e comprendono anche la Quinta, la Sesta e l'Ottava. Ma la Decima fa anche qualcosa che le precedenti sinfonie non fanno, cioè introduce un fondamentale elemento di ciclicità nella struttura sinfonica, con l'introduzione del primo movimento che si ripresenta brevemente nel terzo movimento e lo scherzo che fa una drammatica apparizione nel finale. Inoltre, sia il terzo che il quarto movimento mostrano un motivo a quattro note 'autobiografico' D-Eb-C-13 (cioè D-S-CH, come in Dmitri Schostakowitsch nella nomenciatura e nella pronuncia del Tedesco, una lingua che pare Shostakovich conoscesse) - che aveva fatto la sua prima apparizione nel Primo Concerto per Violino, benché pochi ne fossero consapevoli all'inizio. Laurel Fay esprime un commento molto percettivo riguardo a questo motivo: «Shostakovich era musicalmente fortunato per quanto riguarda il suo nome, cosa che egli evidentemente apprezzava. La relazione metrica delle quattro note è allo stesso tempo semanticamente distintiva e aggregativa, con ambiguità armoniche e melodiche» (Shostakovích: Una Vita, p. 188). La Decima Sinfonia non si avventura, forse, nella notte quanto l'Ottava, benché certamente rimugini per la maggior parte del tempo, mai più oscuramente come all'inizio del primo movimento. Ma da questo rimuginare emerge parte della più intensa drammaticità che mi sia capitata di ascoltare in una composizione sinfonica. Anche il quarto movimento che tenta in certi momenti di ricatturare gli alti spiriti dei finali della Sesta e della Nona Sinfonia, inevitabilmente permette ai suoi momenti più leggeri di metamorfizzare in materia molto più seriosa con un livello energetico molto elevato. E l'allegro del secondo movimento: non riesco ad immaginare alcun altro lavoro musicale che crei, nel breve lasso temporale della propria durata (quattro minuti), un tale, devastante attacco di pura, maniacale furia, e forse solo gli scherzi dell'Ottava e della Nona di Bruckner (in particolare quest'ultima) risultano ancora più coinvolgenti nelle forze ctoniche che sembrano scatenare. In effetti, è Bruckner, non Mahler, che spicca quale padrino spirituale dello Shostakovich che conosciamo in questa opera - così come in molti altre. E' proprio l'intensità che ho notato nella musica che è mantenuta da Haitink in tutto il difficile spartito, anche nei suoi più quieti momenti di acerba introspezione (molta parte del terzo movimento, nella fattispecie). Per le mie orecchie ed i miei gusti, Haitink permette alla musica di muoversi tra estremi ancora più ampi di quanto non faccia in molte delle sua altre interpretazioni di Shostakovich, permettendo ai piu drammatici momenti di elevarsi a tali picchi per momenti così lunghi che la tensione diventa quasi insopportabile. Ed egli ottiene un'esecuzione assolutamente superba dalla London Philharmonic. Quando sento questa sinfonia mi chiedo spesso come un gruppo così disparato di individui come un'orchestra sinfonica possa trasformarsi in un'unica volontà in modo così solido da mantenere sia l'impulso che la coesione per momenti quali tutti i quattro minuti dell'allegro del secondo movimento. Ma i musicisti della London Phiiharmonic Orchestra non sono mai meno precisi di una lama di rasoio e perfettamente in sincronismo - l'uno con l'altro, con Haitink, con la musica. Mi sono trovato a chiedermi come gli archi della Concertgebouw Orchestra e l'acustica apparentemente più calda della sala del Concertgebouw avrebbero cambiato il profilo generale dell'interpretazione di Haitink, in particolare nel primo movimento della sinfonia. Ma sono arrivato alla conclusione che l'acustica in qualche modo più asciutta della KingswayHall e la maggiore spigolosità degli archi della London Philharmonic servono bene questa musica, anche se rimango curioso... La Decima Sinfonia di Shostakovich non è stata benedetta da una pletora di eccellenti registrazioni, e anche se lof osse stata, questa versione di Haitink sarebbe stata tra queste. Mi piace l'esposizione di Neeme Járvi e della Scottish National Orchestra su Chandos del 1988. E qualche etichetta intraprendente dovrebbe ristampare la registrazione, più o meno degli anni '50, con Efrem Kurtz e, credo, la Philharmonia Orchestra, una volta reperibile su LP RCA.
Sinfonia n. 11 in Sol minore, Op. 103 (L'Anno 1905)
Sembra esserci qualcosa di quasi perverso nella durata dell'Undicesima Sinfonia, scritta nel 1957 in occasione del quarantesimo anniversario della Rivoluzione Russa. Se egli avesse lasciato sedimentare questo lavoro, pieno di canzoni popolari e basato sul massacro di parecchie centinaia di lavoratori che si erano riuniti dinanzi al Palazzo d'inverno a San Pietroburgo per presentare petizioni allo Zar Nicola II, durante i giorni più scuri della repressione artistica, avrebbe senz'altro avuto meno problemi sotto il Camerata Stalin ed il suo mastino. Invece, è quasi come se il compositore avesse dovuto aspettare fino al disgelo, che gli offrì una riabilitazione quasi completa, per provare 1) che egli era in grado di scrivere materiale di questo tipo ma 2) che egli lo avrebbe fatto a modo suo piuttosto che sotto costrizione. Qualunque sia il caso, la lunga (più di un'ora) Undicesima Sinfonia, formalmente ed armonicamente, è una specie di casino. Se un precedente polpettone politico di Shostakovich rappresentava, per usare le parole di Aram Khachaturian, «l'apoteosi di una grande triade», l'Undicesima Sinfonia, particolarmente nel persistente Sol minore del suo interminabile primo movimento, potrebbe essere chiamata «l'apoteosi di una triade minore». E mentre Shostakovich infonde non poca drammaticità nella sinfonia, particolarmente nel secondo e nel quarto movimento, egli sviluppa il materiale più che altro con la ridondanza e facendo durare tutti i passaggi in fortissimo talmente tanto che ero sicuro che i miei vicini sarebbero venuti a bussare alla porta. D'altra parte, l'Undicesima Sinfonia, in un certo senso, simboleggia il puro suono orchestrale e le atmosfere che esso crea, e da quella prospettiva l'ascoltatore può solo sedersi e lasciarsi immergere nella profonda sensualità aurale, particolarmente quella prodotta in questa versione incredibilmente registrata da Haitink. Non voglio ribadire il punto, ma ho volutamente evitato di controllare il nome dell'orchestra quando ho messo il CD nel cassettino del lettore. Eppure, non mi ci sono voluti pìù di tre o quattro minuti dall'inizio del movimento di apertura per riconoscere il calore e l'ampiezza del suono dell'orchestra d'archi come quello della Concertgebouw Orchestra. In questa interpretazione Haitink, come sua abitudine, si assicura che l'ascoltatore percepisca ogni dettaglio strumentale, al punto che, verso la metà del primo movimento, ho avuto consapevolezza di una certa complessità nella sovrapposizione dei temi che non avevo precedentemente notato. Il direttore predilige molto i contrasti forti nei momenti più drammatici, in particolare nel feroce allegro fugale che brutalmente ravviva le braci del secondo movimento, che Haitink fa eruttare (con esperienza) dall'orchestra ad un ritmo furioso (questa musica è stata usata con grande efficacia per accompagnare la brutale sequenza della scalinata di Odessa in una riedizione sovietica del classico muto di Sergei Eisenstein, La Corazzata Potemkin). Egli impartisce anche una fragranza all'apertura del finale che non ho udito in alcuna altra registrazione. Inoltre, Haitink ed il suo organico, registrati nel 1983 al Concertgebouw di Amsterdam, sono benedetti da uno dei più spettacolari suoni orchestrali che io abbia mai udito in una registrazione. Seriamente, gente, non saprei proprio quanto meglio di così sia possibile fare. C'è stato un momento quasi proustiano, durante la mia sessione di ascolto, in cui mi sono sentito trasportare in una qualche sala da concerto della mia memoria. Ho notato che la pionieristica registrazione della Undicesima di Leopold Stokowski, fatta nel 1958 con la Houston Symphony ed in cui il maestro, se non ricordo male, ingrassa parte del secondo movimento con un organo a canne, è disponibile nella collana EMI Classics. E' una versione da considerare se desiderate un'alternativa a Haitink. Una seconda alternativa potrebbe essere la versione di Bergiund e della Bournemouth Symphony a cui alludevo più sopra, anche se non l'ho vista elencata in un recente catalogo.
Sinfonia n.12 in Re minore, Op. 112 (L'Anno 1917)
Le cose peggiorano nella Dodicesima Sinfonia del 1961, a parte il fatto che dura circa venti-venticinque minuti meno dell'Undicesima, il che è un regalo della buona sorte. Eppure, dopo la terribile operetta Mosca, Cheremushki del 1958, il periodo precedente la Dodicesima Sinfonia ha prodotto un pugno di importanti capolavori, tra cui il Primo Concerto per Violoncello, il Settimo e l'Ottavo Quartetto per Archi ed il ciclo di canzoni Satires (Pictures of the Past). Dunque, perché Shostakovich si sia lasciato andare a scrivere musica così brutta nella sua Dodicesima Sinfonia, di gran lunga il suo peggiore risultato in questa forma compositiva, non è dato sapere. Dedicata alla memoria di Lenin, la Dodicesima Sinfonia, che, come la Decima (in qualche modo) e l'Undicesima, ciclicamente replica i suoi temi in tutta la sua durata, ha quattro movimenti canonici eseguiti senza pausa. Nessuno di essi mostra un'idea musicale - tematica, ritmica, di sviluppo, certamente non armonica degna di nota. Haitink risolve alcuni dei problemi della sinfonia affrettandosi attraverso la sezione in allegro del primo movimento con un tempo a rotta di collo chiedendo anche, mi pare, ai suoi musicisti di tagliar via quanto più possibile i propri attacchi per dare alla musica una immagine di solida compattezza. Ma egli non può fare molto con il ruzzolante adagio ed i motivi privi di significato del secondo movimento; e benché il brevissimo terzo movimento ha alcune eccitanti figure per le percussioni sulle quali il direttore può affondare i denti, esse durano un battito di ciglia, dando strada ad un finale così piano di magniloquenza che è un miracolo che Haitink non sia sceso dal podio... cosa che forse ha proprio fatto, dato che la performance non ha alcun coinvolgimento con la musica. Mi meraviglia anche la differenza nella qualità del suono tra l'Undicesima e la Dodicesima, quest'ultima a corto di fiato e molto piatta nel profilo sonoro. Se volete una performance della dodicesima, la scelta migliore probabilmente ricade su una delle registrazioni di Yevgeny Mravinsky e della Leningrad Philharmonic, che è storicamente importante quanto musicalmente accettabile (almeno per quanto è possìbile nel secondo caso), anche se l'interpretazione di Neeme Járvi e della Gothenburg Symphony Orchestra su DG è una delle migliori che ho mai sentito. La Quarta Sinfonia di Shostakovich, a lungo serbata, uno dei suoi veri capolavori, ebbe finalmente la sua premiere più o meno nello stesso periodo della Dodicesima. Per chiunque apprezzi la musica di questo musicista del ventesimo secolo, tra cui il compositore stesso, il confronto dev'essere stato devastante...
Sinfonia n.13 in Si bemolle minore, Op. 113 (Babi-Yar)
Naturalmente, appena Shostakovich ebbe licenziato la sua Dodicesima Sinfonia, realizzò la sua vecchia promessa di scrivere una sinfonia per voci soliste, coro e orchestra. La profonda ironia è, naturalmente, che quando la Tredicesima Sinfonia di Shostakovich venne eseguita alla prima, a Mosca il 18 Dicembre 1962, si rivelò essere non un vuoto contenitore di presuntuoso eroismo, ma piuttosto una profonda meditazione - a momenti tragica, in altri momenti brutalmente ironica - sugli aspetti più oscuri della recente storia sovietica, sia attraverso la musica, sia attraverso i testi del poeta russo Yevgeny Yevtushenko. Aperto da un lamentoso scampanìo che pure chiude questa sinfonia-cantata in cinque movimenti della durata di un'ora, il primo movimento espone anche il poema profondamente commovente ed altamente drammatico di Yevtushenko dedicato a BabiYar, il luogo di un massacro nazista in cui perirono molti ebrei. Il poema usa questo episodio come punto di partenza per evocare il terribile spettro dell'antisemitismo, in modo particolarmente toccante nell'episodio che parla di Anna Frank. La musica di Shostakovich, anche se conservatrice ed estremamente tonale, rivela qualcosa di un nuovo stile, limitato in pratica alla Tredicesima Sinfonia, alla colonna sonora del film Amleto, (1963-64) e alla cantata L'Esecuzione di Stepan Razin (1964), un dei lavori più trascurati (ingiustamente) del compositore. Con maggiore enfasi sugli ottoni e su isolati strumenti a percussione, e meno enfasi sui fiati, questo nuovo stile mostra una certa fragilità che lavora con effetti devastanti sia nella sinfonia che negli altri due lavori. In ciascuno dei seguenti quattro movimenti, Shostakovich trova il timbro perfetto per sottolineare le raffinate circonvoluzioni intraprese dalla poesia falsamente semplice di Yevtushenko, che si tratti dell'acerba giocosità dello scherzo del secondo movimento («Umorismo»), in cui sia Shostakovich che il suo poeta si prendono gioco dei poteri in essere, della profonda ed acuta malinconia di «Nel Negozio» (terzo movimento), o della consunta oscurità di Paure (quarto movimento), che alla fine si risolve nella rugiada di una marcia molto rassegnata. E quindi la sinfonia, secondo i desideri di Shostakovich, emerge dalla notte in un finaie («Un Carcere») che inizia con un flauto assolutamente incantevole, allo stesso tempo dolorosamente dolce e terribilmente desolato. Questo tema, uno dei più raffinati di Shostakovich, espone qualche canzonatura ironica, da parte del basso solista e del coro maschile, riguardo la carriera dei grandi uomini, a partire da Galileo, ma anche di coloro che hanno fatto di tutto per proteggere la propria famiglia. Non c'è dubbio che Shostakovich si sia identificato in entrambi i ruoli. Ancora una volta, Haitink ottiene un suono stupendo dalla Decca e un'esecuzione superbamente ispirata dalla Concertgebouw Orchestra. Trovo, comunque, la sua interpretazione dei primi due movimenti piuttosto rigida ed inflessibile, un difetto che si ripresenta in qualche modo nel finale. Nell'episodio di Anna Frank del primo movimento, nella fattispecie, la musica intraprende un cambio di direzione mozzafiato che Haitink pare quasi non notare, con tale polso egli continua a spingere la musica. Ancora, non vado proprio pazzo per la voce talvolta spezzata del basso Marius Rintzler il quale, come Haitink, dà il suo meglio nei più dimessi terzo e quarto movimento, ma che fatica un po' nei momenti di drammaticità più intensa. Una performance dal vivo diretta da Maxim Shostakovich con la Prague Symphony Orchestra su Supraphon è superba, e mi piace molto anche il resoconto di Mstislav Rostropovich con la National Symphony Orchestra su Erato. Delle versioni precedenti la performance di Ormandy e della Philadelphia Orchestra su RCA, che pare non sia stata riedita su CD, è probabilmente la più calda mai registrata, anche se c'è una certa elettricità nella versione Russian Disc di Kiril Kondrashin e la Moscow Philharmonic, che hanno eseguito la prima di questo lavoro.
Sinfonia n.14, Op.135
Quando è apparsa la Quattordicesima Sinfonia, nel 1969, avevo già iniziato a esercitare come critico musicale e avevo, infatti, pubblicato su High Fidelity un articolo/discografia sulle prime tredici sinfonie di Shostakovich. Dunque, era da una differente prospettiva che attendevo ogni nuovo lavoro del compositore. Niente, comunque, mi aveva preparato per quello che la Quattordicesima Sinfonia si era rivelata essere, a ragione un ciclo di undici movimenti per orchestra d'archi, percussioni, soprano e basso che recitavano opere di poeti dei quali specialmente Federico Garcia Lorca e, ancor di più, Guillaume Apollinaire - nessuno avrebbe pensato che il compositore sovietico, comunque un appassionato lettore, fosse ammiratore. Inizialmente deluso quando capii che Shostakovich non stava tornando al tipo di scrittura che caratterizzava vecchi capolavori quali la Quarta, Quinta, Sesta, Ottava e Decima Sinfonia, arrivai rapidamente alla conclusione, una volta ascoltato un nastro pirata registrato, credo, durante una prova in URSS poco prima della prima dell'opera a Leningrado il 29 Settembre con Rudolf Barshai e la Moscow Chamber Orchestra, che la Quattordicesima Sinfonia era non solo una delle migliori composizioni di Shostakovich: era, infatti, uno dei più grandi capolavori della musica del ventesimo secolo. In pessime condizioni di salute, Shostakovich presentò la Quattordicesima Sinfonia come la sua particolare visione di ciò che Mussorgsky aveva tentato di fare nelle sue Canzoni e Danze di Morte, a parte il fatto che Shostakovich non aveva intenzione di addolcire il quadro. E in effetti non lo fece. Gli undici movimenti interconnessi (con uno spiritato interludio strumentale a metà del settimo) sono implacabili nella loro rigidità, una qualità che affonda alcune delle sue radici musicali più profonde nella quasi totale mancanza - fino ai devastanti accordi finali della sinfonia - di un centro tonale, una vera rarità nei primi lavori del compositore (ma il Dodicesimo Quartetto, composto l'anno precedente, fa uso di una riga tonale e la Sonata per Violino, pure del 1968, flirta anch'essa con l'atonalità. La limitata tavolozza strumentale contribuisce anch'essa alla rigidità della musica. Si può discernere anche, comunque, ciò che può solo essere definita una narrativa autobiografica che si sviluppa negli undici movimenti della sinfonia, culminando nell'ottavo movimento con un feroce insulto lanciato alle autorità (un momento del francese decisamente volgare di Apollinaire, traducibile in «tua madre ebbe una scarica di diarrea e tu nascesti dalla sua colica») ed acquietandosi finalmente in una previsione della sua morte (decimo movimento, che espone La Morte del Poeta di Rilke) ed un peana finale (sui generis) alla morte stessa («Brano Finale» di Rilke), il solo movimento nella sinfonia in cui i due solisti cantano insieme. E gli archi decimati nella maggior parte del nono movimento (che espongono «O, Delvig, Delvig» del poeta russo Wilhelm Küchelbecker, che inizia con la domanda «Quale ricompensa per i nobili gesti e la poesia?») suonano musica che ricorda all'ascoltatore tanta parte dello stile generale di molti dei quartetti d'archi di Shostakovich. Bisognerebbe notare immediatamente che la registrazione di Haitink della Quattordicesima di Shostakovich usa le lingue originali (spagnolo, francese e tedesco; solo un poema è originariamente in russo) dei testi poetici piuttosto che le traduzioni russe che erano state ispirate dai contorni vocali della musica di Shostakovich (questa versione, autorizzata da Shostakovich, può anche essere ascoltata sulla registrazione Ondine con Joseph Swensen che dirige la Tapiolo Sinfonietta). Anche se l'idea è senz'altro nobile è, come l'uso dei testi francesi di Baudelaire in alcune registrazioni di Der Wein di Berg, anche mai guidata. Di tutti i linguaggi al mondo, il russo è uno tra quelli in cui l'accento teso gioca un ruolo fondamentale. Basta sentire un poeta come Yevtushenko declamare i suoi lavori per rendersene conto, anche se non si capisce una parola della lingua. Il francese, d'altra parte, ha un accento sillabico più che teso, il che quasi automaticamente significa che le linee vocali per cinque dei movimenti della sinfonia sono in contrasto con la reale natura del linguaggio che utilizzano (per il movimento «Loreley» questa versione usa il poema di Clemens Brentano che Apollinaire aveva tradotto in francese, il che è conveniente, dato che anche il tedesco fa largo uso dell'accento teso. «J'en Ris» può funzionare perfettamente nel poema di Apollinaire ma è un povero sostituto, nella sinfonia, per il russo «Ya Khokhochu!» urlato dal soprano in risposta alle provocazioni del basso nel sesto movimento. Come ulteriore esempio, nel movimento Loreley, l'espressione «Moi Lyubirnyi» ('mio amato') nella traduzione russa, che approssima soltanto l'originale tedesco, arriva all'inizio di un importante motivo melodico nell'originale, mentre l'equivalente espressione nella versione tedesca viene spinta verso la fine della linea melodica, sminuendo notevolmente il suo effetto drammatico e ciclico. Criticherei anche, nella registrazione di Haitink, l'uso dei baritono Dietrich Fischer-Dieskau per cantare una parte espressamente scritta per un basso. Anche se, da consumato artista, egli si destreggia abilmente con lo spagnolo nel De Profundis di apertura (Lorca), ed il suo tedesco madrelingua riesce quasi a far funzionare il movimento «Loreley» in quella lingua - Fischer-Dieskau, non al massimo della sua potenza vocale in questa registrazione, tanto per cominciare, non ha davvero la risonanza necessaria per questa parte. Lo stesso può essere detto di Julia Varady, la cui voce da soprano sembra particolarmente leggera se confrontata con quella di Galina Vishnevskaya, che cantò alla prima. La potenza interpretativa di Haitink produce alcuni buoni momenti nell'arco dell'opera, come nella strana definizione degli strumenti a percussione alla fine del movimento «Loreley». Ma in generale, la performance sua e della Concertgebouw Orchestra manca del mordente delle migliori versioni, in particolare della performance dal vivo su Russian Disc registrata a Mosca poco dopo la prima dalle stesse forze che avevano dato la premiere, tra cui la cantante solista Galina Vishnevskaya ed il basso Mark Reshelin (la sinfonìa si conclude su una breve esplosione di tamburi non presente nello spartito o in qualunque altra delle versioni). Mstíslav Rostropovich, con gli stessi solisti ma con musicisti della Moscow Philharmonic offre, su un CD Melodiya, un'interpretazione che spesso sconfina nel maniacale ma che deve assolutamente essere ascoltata. Evitate a tutti i costi la versione di Bernstein, che sembra rivelare una quasi totale mancanza di rispetto per la musica.
Sinfonia n. 15 in La, Op. 141
La Quindicesima Sinfonia di Shostakovich, scritta nel 1971 mentre la salute dei compositore continuava a declinare, ed eseguita in prima mondiale (con il figlio Maxim alla direzione) nel Gennaio 1972 dopo che egli aveva subito un secondo infarto, rimane per me un enigma quasi totale. Non che io senta che il lavoro nasconda alcun messaggio segreto, benché citazioni e le allusioni al Guglielmo Tell di Rossini, ad opere di Wagner e a parecchi dei lavori dello stesso Shostakovich in tutta la sinfonia rimangano per alcuni motivo di speculazione. No, ciò che non riesco a capire è cosa un compositore di tale genio musicale e drammatico potesse avere in mente inserendo in una grande opera così tanti passaggi in cui la semplicità diventa banalità, e dove la banalità diventa semplicemente noia. In precedenza nella sua carriera, Shostakovich aveva mostrato un tale dono nel prendere materiale apparentemente banale e, con una grande dose di ironia musicalmente generata, renderlo eccitante e significativo. Nella Quindicesima Sinfonia, d'altra parte, come si dovrebbe reagire quando, nel secondo movimento (per fare un esempio), Shostakovich giocherella per oltre trenta battute - e su un tempo in largo - con un tema assolutamente banale che non va da nessuna parte ed è presentato principalmente come un flaccido assolo di trombone su un semplicistico accompagnamento di tuba e basso? Questo non è, naturalmente, il polpettone eroico della Dodicesima Sinfonia, e di questo suppongo dobbiamo essere grati. Shostakovich è apparentemente nello stesso tipo di umore serio che ha prodotto capolavori come l'Ottava e la Decima Sinfonia, ma, forse comprensibilmente, senza l'energia per comunicare quella serietà in un qualche modo coerente. Più di ogni altra cosa, comunque, la Quindicesima Sinfonia risulta una serie di frammentate riflessioni sulla musica del suo passato, sia di altri compositori che della sua stessa penna. Sento anche, nel primo movimento, un tentativo di generare una di quelle masse di contrappunto poliritmico che è possibile trovare nella sperimentale Seconda Sinfonia di Shostakovich. Ma nella Quindicesima, tutto muore prima di avere qualunque chance di definirsi anche parzialmente. C'è una registrazione della Quindicesima Sinfonia di Shostakovich che riesce quasi a convincermi della validità del lavoro. Purtroppo non è questa di Haitink. Piuttosto, mi colpisce il fatto che il direttore l'ha considerata quasi una sfida a lasciare che l'insulsaggine della musica parlasse da sola, rallentando tempi già lenti fino alla distensione, ed in generale non alzando un dito per impartire vita ad alcuna delle moribonde escursioni, sentendo forse che, se Shostakovich non si era preso il disturbo di andare in alcun luogo con quella musica forse egli, Bernard Haitink, non era li per aiutarlo in quel senso. Anche il suono registrato parecchio freddo non aiuta granché. Il CD che ho citato poco sopra è uno registrato dalla DG e pubblicato nel 1989 con Neeme Járvi alla direzione della Gothenburg Symphony Orchestra. Come ho scritto in precedenza su Fanfare, Járvi raggiunge l'eccellenza «non affaccendandosi qua e là con l'amalgama talvolta ingannevole di minimale ed epico della sinfonia, ma dandogli veramente un senso, sia musicalmente che emotivamente». Prestazione di non poco valore, quella. La registrazione di Járvi, apparentemente fuori catalogo, gode dell'ulteriore vantaggio di offrire due rarità orchestrali di Shostakovich, il poema sinfonico Ottobre (1967) e l'Overture su Temi Popolari Russi e Kirghizi (1963), nessuna delle quali un capolavoro ma senz'altro degne di un ascolto.
Come classificherei le sinfonie di Shostakovich? Beh, in questo momento la mia reazione istintiva produrrebbe la seguente classifica: 8, 4, 14, 10, 6, 5, 13, 1, 9, 2, 11, 7, 3, 15, 12. Ma le prime sette sono raggruppate piuttosto strettamente. Riguardo ai due cicli di canzoni, ho mostrato in parecchie occasioni una risposta molto meno entusiastica a From jewish Poetry di Shostakovich, un lavoro per soprano, contralto e tenore composto nel 1948 ma tenuto da parte, a causa dell'operato di Zhadov, fino al 1955 (la versione orchestrale inclusa in questo ciclo è stata prodotta da Shostakovich nel 1963). Anche se nessuno può negare l'enorme importanza delle melodie e dei ritmi popolari anche nel più serioso dei lavori classici, non sono mai stato un forte ammiratore dei motivi folk presi nella loro forma originale e leggermente adattati per le performance concertistiche, non più di quanto lo sia dei soprani d'opera che cantano motivi pop. Per le mie orecchie la personalità creativa di Shostakovich spesso svanisce in queste undici canzoni, in cui anche gli accompagnamenti rimangono quasi totalmente sottomessi alle melodie, che molti forse troveranno assai piacevoli. Ma questo stile di scrittura non è propriamente caratteristico del genio di Shostakovich, almeno nella sua migliore musica vocale. Haitink sollecita prestazioni canore di ottimo spessore dai suoi solisti in queste performance, ma non reagisce in modo aderente al genere, propellendo la musica in modo generico con quello che disturba la mia sensibilità come un ritmo parecchio legnoso. I Sei Poemi di Marina Tsvetaeva per contralto e pianoforte, composti nel 1973, sono ulteriormente un'altra cosa. In particolare nel loro arrangiamento per orchestra da camera fatto da Shostakovich nel 1974, un anno prima della sua morte, le canzoni di Marina Tsvetaeva hanno molto in comune con la Quattordicesima Sinfonia benché, particolarmente nei momenti in cui l'accompagnamento si riduce ad un solo strumento, la musica invoca anche le ossessionanti Sette Romanze su Poemi di Alexander Block del 1967. Ed in un intenso momento nella seconda canzone, che espone la straordinaria Da Donde Tanto Tenerezza?, scritta all'inizio dei secolo dalla Tsvetaeva (che si suicidò nel 1941), la struggente tristezza della Tredicesima Sinfonia pare riemergere. Il contralto Ortrun Wenkel sembra a un tempo in sintonia con la musica, i testi e la lingua russa nella sua toccante interpretazione di queste canzoni. E benché posso desiderare una maggiore intensità nell'accompagnamento dell'orchestra da camera, il modo in cui Haitink plasma la musica funziona comunque particolarmente bene. In conclusione, torno ancora una volta sul problema delle cosiddette memorie di Shostakovich compilate da Solomon Volkov, un libro tenuto in tale considerazione da una certa fazione della critica musicale che la musica di Shostakovich viene quasi trascinata nell'invisibilità - forse anche nell'inudibilità - per supportare le facili, programmatiche argomentazioni di coloro che non sono in grado di comprendere ciò che Shostakovich esponeva nella sua musica il ché, se fosse stato così unidimensionaie come la fazione di Voikov proclama, non si sarebbe mai neanche avvicinato alla grandezza che ha raggiunto. Nell'edizione del 20 Agosto 2000 del «New York Times» della Domenica è apparso un articolo intitolato «Una Risposta a Coloro che Ancora Abusano di Shostakovich», scritto dalla vedova di Shostakovich, Irina. In questo articolo, Irina Shostakovich puntualizza che Shostakovich, dietro richiesta del suo studente, il compositore Boris Tishchenko, acconsentì a quello che sarebbe poi risultato essere un gruppo di interviste della durata complessiva di sei-sette ore con Volkov, certamente non sufficiente a riempire un intero libro delle dimensioni di Testimony. Firmando una fotografia scattata durante una di queste interviste, Shostakovich scrisse «a ricordo delle nostre chiacchierate su Giazunov, Zoshchenko e Meyerhold». Secondo Irina Shostakovich, questo è il succo delle conversazioni. In seguito, Voikov portò a Shostakovich ciò che Irina descrive come «un sottile fascio di pagine» che Shostakovich firmò senza leggere, presumendo di poter poi studiare il prodotto finale di quel lavoro. Shostakovich non arrivo mai a vedere la versione finale di Testimony, e per mettersi al sicuro, Volkov fece in modo di non poter avere a disposizione una copia dei libro da sottoporre all'esame di Irina prima di lasciare l'Unione Sovietica. C'è dell'altro, ma i lettori interessati all'argomento possono consultare l'articolo su Internet all'indirizzo http://www.nytimes.com/. Leggendo tra le righe, posso intuire che il «sottile fascio di fogli» che Shostakovich firmò senza leggere conteneva probabilmente la prima pagina di ciascun capitolo di Testimony che, secondo Volkov, Shostakovich firmò per garantirne l'autenticità. Ciò che segue in ciascun capitolo potrebbe apparire come materiale preso dalle parole pubblicate dello stesso Shostakovich, un fatto ben documentato in un articolo scritto da Laurel Fay alcuni anni fa, così come, in certi punti, come abbellimenti, per essere gentili, di Volkov tesi a compiacere il suo entourage politico personale. Sarà interessante vedere come la fazione di Volkov risponderà a quest'ultima salva nella battaglia tutt'ora in corso.
di Royal S. Brown (pubblicato su "Compact Disc Classics", n.52, nov.2005/gen.2006)

sabato, febbraio 10, 2007

Le sinfonie di Shostakovich (I): nell'interpretazione di Bernard Haitink

Mentre inizio a scrivere questa recensione, sono passati quasi esattamente venticinque anni da quando sedevo sotto le stelle del Massachusetts ascoltando un concerto a Tanglewood diretto da Mstislav Rostropovich. Mentre la prima metà del concerto si avviava alla conclusione, il soprano Galina Vishnevskaya, avendo cantato la scena del Lettore di Tatiana dall'opera di Ciaikovsky Eugene Onegin, tornò sul palco per eseguire un bis, un'aria profondamente slava, lamentosa da La Sposa dello Zar di Rimsky-Korsakov, che lei cantò senza accompagnamento, quasi immobile, con le braccia strette al petto. C'era senz'altro qualcosa di sbagliato, ma fu soltanto dopo questo brano che il direttore musicale della Boston Symphony, Seiji Ozawa, apparve sul palcoscenico per informarci che Rostropovich aveva ricevuto una telefonata nel primo pomeriggio che lo informava della morte del suo caro amico e collega Dmitri Shostakovich. Rostropovich riuscì in qualche modo a dirigere un'intensa performance della Quinta Sinfonia di Shostakovich, subito dopo baciò lo spartito e vi depose sopra un mazzo di rose che qualcuno gli aveva portato. Questa riedizione, nella serie «Ovation» della Decca, dell'intero ciclo sinfonico di Shostakovich diretto da Bernard Haitink è un ottimo ricordo del compositore, perché alcune delle performance dirette da Haitink, a cominciare dalla Decima Sinfonia nel 1977, sono tra le migliori mai registrate. Benché mi sia incrdibilmente entusiasmato, nel numero di Luglio 1978 diHigh Fìdelity, per l'originale stampa su LP della decima diretta da Haitink, negli anni sono riuscito a perdermi, per una ragione o per l'altra, molte delle altre uscite di questo ciclo, dunque molte delle valutazioni sinfonia-per-sinfonia che seguono rappresentano per il sottoscritto dei primi ascolti.
Sinfonia n. 1 in Fa minore, Op.10
Composta tra il 1924 e il 1925, e presentata come composizione di laurea del compositore presso il Conservatorio di San Pietroburgo, la Prima Sinfonia, a cui si deve la reputazione di Shostakovich fin dalla prima nel 1926, è un bizzarro ibrido che combina affilato umorismo, economia di mezzi neoclassica e, in qualche modo, più di un tocco di profonda anima slava che occasionalmente suscita emozioni pur se leggermente fuori posto nella composizione. Non si riesce mai a capire bene dove Shostakovich voglia andare a parare con questo lavoro; il compositore, più di una volta, dà l'impressione di voler far mancare il pavimento sotto i piedi dell'ascoltatore, in modo più smaccato nello scherzo del secondo movimento, in cui l'intera orchestra improvvisamente si mette da parte per permettere al solo pianoforte di suonare gli accordi più importanti di quel movimento. Strutturalmente, comunque, la Prima offre anche un assaggio di molte delle sinfonie successive, per esempio nel modo in cui Shostakovich utilizza una forma allegro-sonata specchiata nel primo movimento, con il secondo tema che appare per primo nella ricapitolazione. Pure tipico di Shostakovich è il modo in cui un motivetto ribelle che è diventato la figura centrale dei terzo movimento, di gran lunga il più lirico dei quattro che compongono la sinfonia, riappare dal nulla in un assolo di timpano (prepotentemente presente in questa registrazione) appena prima che il movimento finale arrivi alla conclusione. Inoltre Shostakovich passa, senza battere ciglio, da tessiture monofoniche piuttosto semplici a momenti di complesso contrappunto degni di Hindemith. Le interpretazioni della Prima Sinfonia vanno dall'aggressività diretta di direttori quali Arthur Rodzinski (in particolare) e Leonard Bernstein alla raffinatezza più smorzata di direttori quali Eugene Ormandy. Non inaspettatamente, Haitink ricade chiaramente nella seconda categoria, ed il suo approccio funziona particolarmente bene nel primo movimento, al quale egli impartisce una certa eleganza che tuttavia non ignora l'ironia dei movimento. Nel terzo movimento, in cui la musica non si allontana mai da un potente climax, Haitink dimostra una notevole abilità, così come in tutto il ciclo sinfonico, nel definire i pieni in perfetta proporzione al resto della musica. D'altra parte, avrei gradito una maggiore presenza del pianoforte solista, un elemento principale dello spirito di Shostakovich, nel secondo e quarto movimento. E nel quarto movimento, Haitink pare perdere un po' di interesse fino all'assolo di timpano. Il suono è meravigliosamente pulito, spazioso e ben definito benché, ancora una volta, certi strumenti solisti chiave - non solo il pianoforte, ma anche le campane in un passaggio chiave nel terzo movimento - potrebbero essere maggiormente evidenziate.
Sinfonia n.2 in Si (una specie), Op. 14 («All'Ottobre: una Dedica Sinfonica»)
Scritta come pezzo contestuale e presentata nel Novembre 1927 da Nikolai Malko, che aveva diretto anche la prima della Prima Sinfonia, la Seconda Sinfonia è veramente uno strano lavoro di puro modernismo quantomeno, fino al suo patriottico finale corale, che dovrebbe essere preceduto da un fischio da fabbrica in Fa diesis. I primi dodici-tredici minuti di questa sinfonia in un solo movimento (con parecchie sezioni tipo movimenti) non hanno assolutamente alcuna base tonale, ancorati come sono ad intricate ed ingarbugliate poliritmie, politonalità cromaticamente generate e contrappunto stratificato. La musica riesce a generare un considerevole impeto e, forse a dispetto di se stessa, un certo tasso di drammaticità, particolarmente quando Shostakovich sovrappone più linee strumentali non legate tra loro mentre la sinfonia corre inesorabilmente verso un punto di massima densità prima di collassare in un grande buco nero che inizia con un canone cromatico decrescente in cui gli strumenti entrano a intervalli di sedicesima. Roba divertente, dal punto di vista intellettuale, ma questo lato sperimentale dello spirito creativo di Shostakovich funziona in modo molto più efficace nella sua prima opera, Il Naso, completato l'anno seguente. Il finale corale è abbastanza attraente, e certamente non si abbassa al livello della trita politica del testo cantato, che deve aver fatto impazzire Shostakovich. Egli presenta anche in questa sinfonia, particolarmente nella sezione corale, un tema apparentemente ispirato, se questa è la parola più adatta, dal vedere un giovane ucciso da un colpo di fucile per strada, che egli riprenderà nel finale della sua Dodicesima Sinfonia. Ascoltate attentamente la fine della parte strumentale della sinfonia e sentirete qualcosa che sembra proprio un frammento usato in seguito nel finale della Quinta Sinfonia. Haitink si trova eccezionalmente a suo agio nella parte precorsale di questa «Dedica all'Ottobre». La sua abilità nel delineare e chiarire le tessiture strumentali non sarà mai usata meglio che in questa composizione. In più, Haitink rende in effetti la lenta, stranamente meditativa sezione che segue tutta la presentazione orchestrale e precede l'arrivo del coro un po' meno tetra e più interessante che nella maggior parte delle altre versioni. D'altra parte, egli non sembra proprio essere stato capace di trovare la giusta ispirazione per la musica corale, che arranca abbastanza malamente sotto la sua direzione. E sarei, ad un certo punto, tentato di dire al coro tutto inglese: «siete teneri quando cercate di sembrare socialisti». Il suono è espansivo ma, per i miei gusti, un po' carente nell'estremo acuto.
Sinfonia n.3 in Mi bernolle (una specie), Op.20 («Primo Maggio»)
L'Op.20 di Shostakovich, cmpletata nel 1929 e presentata nel Gennaio dei 1930, è difficile da immaginare. E' quasi come se il compositore si fosse azzardato a comporre una sinfonia in cui non un singolo tema, motivo o frammento, con forse una o due piccole eccezioni, si ripresenta una volta fatta la sua normalmente fugace apparizione. Tanto breve è infatti la vita della maggior parte di questi frammenti, quanto caleidoscopica è la loro organizzazione e proteiforme la loro natura, che sia ha quasi l'impressione che Shostakovich stesse scrivendo musica per un immaginario film muto. Come la Seconda Sinfonia, la Terza termina con un pezzo di patriottismo corale. Diversamente dalla seconda, comunque, la musica orchestrale - che si divide in effetti in una introduzione, tre quasi-movimenti ed una coda in largo - che precede il finale corale è molto più sostanziale (circa ventisei minuti, rispetto ai tredici della Seconda), ma anche molto meno sperimentale, anche se sempre modernista. In effetti, quasi qualunque nota disparata delle due sezioni in allegro della sinfonia preconizzano lo Shostakovich che avremmo poi conosciuto ed imparato ad amare (lo stesso non si può dire della più selvaggia Seconda), ma in un modo talmente disordinato che è difficile essere rapiti dalla corrente. Cosa interessante, nel breve andante che separa i due allegri, Shostakovich si rifà ad un compositore - Gustav Mahier - al quale era stato presentato dal suo caro amico Ivan Sollertinsky. Ma, se perdonate l'ossimoro, è un Mahler ribelle, difficile, come qualunque altra cosa nella sinfonia, da afferrare. Nessun direttore che io abbia sentito, comunque, offre una lettura migliore della Terza Sinfonia di Bernard Haitink. Benché si accosti alla musica sul suo territorio, Haitink ciononostante sembra anche lavorare su modelli forniti dalle ultime sinfonie, qualcosa di quella intensa, drammatica continuità che caratterizza gli ultimi lavori. L'andante centrale è quasi impossibile da tenere insieme, ma Haitink ed i suoi musicisti ne danno una lettura credibile. Il finale corale, d'altra parte, ribolle di un'energia ed un entusiasmo che probabilmente non merita, benché sia composto di materiale musicalmente più solido che non il finale della Seconda. Il suono, sia quello reso dallo squisito senso di equilibrio strumentale di Haitink, sia quello catturato dagli ingegneri, è quasi perfetto. Sarebbe bello, naturalmente, che la RCA/BMG/chicchessia rimasterizzasse la pionieristica - e superba - registrazione di Morton Gould della Seconda e Terza Sinfonia, l'ingresso attraverso il quale sono entrato nel mondo della critica musicale.
Sinfonia n.4 in Do minore, Op.43
La Quarta di Shostakovich (1935-36), che segna un importante punto di svolta nella sua carriera di sinfonista, venne provata proprio nel periodo in cui Stalin provocò il finimondo con la sua reazione negativa alla seconda opera dei compositore, Lady Macbeth del Distretto di Mtseng, conosciuta anche come Katerina Izmailova. Di conseguenza Shostakovich, decidendo che la discrezione era il modo migliore per aver salva la vita, ritirò dalla circolazione la lunga, complessa, spesso estremamente dissonante e altrettanto spesso arguta sinfonia, che non venne eseguita fino al Dicembre 1961, molto dopo la morte di Stalin avvenuta nel 1953. Con la Quarta Sinfonia, Shostakovich entrò con spirito vendicativo in un regno musicale che aveva assaggiato nella sua Prima Sinfonia e che aveva provato, senza grande successo, a reinventare nella Seconda e Terza. Nei tre movimenti della Quarta Sinfonia, che dura più di un'ora, Shostakovich mette in moto l'intero organico di una grande orchestra sinfonica con tale destrezza e virtuosismo che si sarebbe giustificati nel definire il lavoro un concerto per orchestra. Si noti, in particolare, l'abbagliante toccata per archi che funge da pezzo centrale per il primo movimento. Il lussuoso suono orchestrale con le sue tessiture comunque chiaramente definite preconizzano senza dubbio i successivi capolavori, mentre la struttura è quasi assente. In effetti, il finale passa da episodio ad episodio in un modo che richiama la Terza Sinfonia, ma molto più a grandi linee. Analogamente, il primo movimento sembra tematicamente vago - cioè: finché non lo si analizza da vicino e si scopre che rivela un forma allegro-sonata specchiata incredibilmente complessa. Piena di scroscianti pieni, la Quarta Sinfonia sprofonda anche, in più di un'occasione, nei miasmi della depressione, mai più profondamente che nelle estese misure finali in pianissimo, in cui una figura ossessivamente ripetitiva della celesta pare porre una domanda a cui non viene mai data risposta. A collegare i due massicci movimenti esterni è un breve scherzo mahleriano che si conclude in una specie di grottesca convulsione di morte. Non ero propriamente entusiasta della Quarta di Shostakovich diretta da Haitink nel 1979, quando ne ho recensito l'LP, rimango tutt'ora meno che affascinato da questa performance oggi. Anche se il direttore ottiene una ottima esecuzione dalla London Philharmonic (quali che siano i limiti degli archi, non mi danno fastidio questa volta, forse sto diventando po' blasé), particolarmente ottoni, egli raramente dà
l'impressione di essere terribilmente coinvolto emotivamente da questa musica che, se non altro, mostra una sovrabbondanza di drammaticità. Come sempre, Haitink mette meravigliosamente a nudo la filigrana degli spazi strumentali di Shostakovich, ed impartisce una solida coesione ai disparati - talvolta alla frammentazione - blocchi musicali della sinfonia. Ma le mie interpretazioni preferite rimangono le due iniziali, quella a lungo irreperibile di Kiril Kondrashin con la Moskow Philharmonic del 1962 e la sontuosa lettura di Eugene Ormandy con la Philadelphia Orchestra del 1964. Tra le versioni più recenti, Vladimir Ashkenazy e la Royal Philharmonic offrono un solido resoconto della musica, e c'è una registrazione live veramente eccellente della Supraphon diretta dal figlio dei compositore, Maxim, con la Prague Symphony Orchestra.
Sinfonia n.5 in Re minore, Op.47
Se, dopo la debole della Lady Macbeth ed il ritiro della Quarta Sinfonia, Shostakovich sentì la necessità di placare i potenti, è difficile rendersi conto di come egli potesse pensare di farlo con la Quinta Sinfonia, che completò nel 1937. Voglio dire, se fossi stato nei suoi panni avrei scritto un'opera colma di motivi popolari e citazioni riguardo la vita ed il periodo del Camerata Stalin. Benché i critici occidentali abbiano considerato per molti anni la Quinta Sinfonia il punto di svolta in una carriera che, nei loro giudizi di parte, era imbrigliata dalla pressione politica, e benché la Quinta Sinfonia riabilitasse in effetti Shostakovich in patria, l'opera, a parte il finale, è appena meno scura della precedente. E, benché basata sulla tonalità (come la Quarta), la Quinta Sinfonia possiede certamente la sua parte di dissonanze, audacia strumentale ed ironia. Si potrebbe anche dire che la Quinta sia la prima di una serie di sinfonie tragiche che avrebbe accompagnato il resto della vita di Shostakovich, in particolare la Sesta, l'Ottava, la Decima, la Tredicesima, la Quattordicesima e, in misura minore, la Quindicesima. La Quinta è, infatti, l'espressione assolutamente logica di tendenze già piuttosto evidenti in molte opere dei compositore, che si tratti della ricca scrittura strumentale della Lady Macbeth e della Quarta Sinfonia o le economie formali neoclassiche della Prima Sinfonia. Spariscono, d'altra parte, gli azzardi tipo fantasia della Seconda e Terza Sinfonia (ma non si tratta di gravi perdite), ed il finale della Quarta. La più grande concessione di Shostakovich, se mai egli ne abbia mai fatte, non fu certo l'abbandono di qualunque altro tentativo di comporre grandi opere drammatiche - balletti e opere in particolare, i quali entrambi lo avevano messo in posizioni difficili - e nel ridefinire il suo ruolo verso quello di compositore di lavori classici secondo i canoni standard: sinfonie, concerti, quartetti d'archi, sonate, ecc., per non citare un'impressionante collana di cicli di canzoni, ed una collana molto meno degna di nota, dopo il suo brillante lavoro per il film muto La Nuova Babi~ Ionib (1928), di colone sonore (fino ad Amleto dei 1964, comunque). A rischio di un'iperbole, vorrei dire che quella di Haitink è l'ideale Quinta di Shostakovich. Tutto pare essere esattamente al proprio posto nella sua interpretazione - tra cui la gloriosa interpretazione della Concertgebouw Orchestra ed il suono ricco, spazioso, stupendamente definito - talmente definito, infatti, che è così che immagino che Shostakovich avrebbe pensato la sua sinfonia. Haitink non corre il rischio preso da altri suoi colleghi - l'affrettato ritmo dei finale di Bernstein, l'impeto da treno dello scherzo di Rodzinski, il finale massicciamente ampio di Maxim Shostakovich. Ma neanche il direttore arretra dinanzi alla drammaticità spesso esasperata del lavoro. Ci sono, infatti, Quinte di Shostakovich che iniziano in modo così fiacco che il resto della performance si perde per strada. Haitink e gli archi della Concertgebouw procedono con la positività di quelle frastagliate battute di apertura e non abbandonano mai la bandiera dell'intensità, anche nei momenti più sotto voce del lavoro, presenti in numero rilevante. Infatti, un altro punto di forza dell'interpretazione di Haitink - un punto di forza aiutato ed esaltato dal suono del CD - è il modo in cui egli è capace di abbassare il livello della musica ad un bisbiglio quasi inaudibile pur mantenendo il fluire. Se vi serve solo la Quinta di Shostakovich, questa è quella che fa per voi.
Sinfonia n.6 in Si minore, Op.54
Dal mio punto di vista, la Sesta Sinfonia del 1939 di Shostakovich, uno dei massimi capolavori della letteratura sinfonica del ventesimo secolo, rimane una specie di enigma. Composta al termine di un periodo ragionevolmente calmo che vide scarsa attività creativa di rilievo a parte la scrittura di un quartetto d'archi (il primo di quello che sarebbe diventato un importante ciclo di quindici) e la nascita del suo secondo figlio Maxim, la Sesta è programmata nelle sale da concerto molto meno spesso della maggior parte delle altre sinfonie, tra cui lavori di minore spessore, e molte delle registrazioni attualmente disponibili di essa - tra cui quelle di Boult, Mravinsky, Reiner e Stokowski classificate come storiche... o quasi. Inizialmente promessa come una sinfonia 'Lenin' completa di coro e solisti (Shostakovich lanciava continuamente bocconcini ai commissari politici), la Sesta interamente strumentale finì per essere forse il più convincente dei primi tentativi di ridefinizione della sinfonia effettuati da Shostakovich. L'opera inizia, abbastanza non convenzionalmente, con uno scuro ed esteso largo (dura parecchi minuti in più dei due movimenti finali combinati) che lentamente vaga attraverso la tenebrosa e, spesso, estrema silenziosità di parecchi gruppi di temi sviluppati in un modo che ha poco o niente a che fare con la convenzionale forma allegro-sonata che serve come canovaccio per la maggior parte dei primi movimenti sinfonici. Il seguente, agilissimo scherzo, che ancora non mobilizza realmente la forma standard (forma canzone e trio) usata per tali movimenti, inizia con un'innocenza quasi fanciullesca. Mentre procede attraverso ogni sorta di argute ironie, comunque, il movimento acquisisce un impeto così straripante che potrebbe in certi punti essere definito inquietante. Il finale in qualche modo affrettato, d'altra parte, passa dall'acerba ironia dello scherzo a elevati motti di spirito talvolta maniacali, con più di un cenno di sarcasmo, in una corsa a perdifiato che crea uno dei suoi principali temi attorno alle battute di apertura del finale della Quarantesima Sinfonia di Mozart. Ho sempre colto qualcosa di particolarmente ingegnoso nel modo in cui Shostakovich ha strutturato la Sesta Sinfonia, permettendo all'ascoltatore di inerpicarsi lentamente fuori dall'oscurità del primo movimento per raggiungere infine la giocosità del finale pur non dimenticando mai interamente l'oscurità iniziale. Solo un po' di distacco dagli umori e dall'ironia dei tre movimenti della sinfonia impediscono alla Sesta di Shostakovich diretta da Haitink di eguagliare la Quinta in eccellenza. Amo in particolar modo il suono degli archi della Concertgebouw Orchestra, che definiscono uno spazio musicale ben più che palpabile nel primo movimento. Come sempre, Haitink mantiene anche gli elementi orizzontale e verticale della musica in perfetto equilibrio, benché lo xilofono, un elemento particolarmente importante dell'ironia dello scherzo, sia tutt'altro che sepolto nella massa dei suono orchestrale. La mia versione preferita della Sesta di Shostakovich è rimasta per un certo tempo la registrazione del 1958, rimasterizzata su un CD Everest ancora disponibile l'ultima volta che ho controllato, con Sir Adrian Boult alla direzione della London Philharmonic. Boult impiega due minuti buoni in più per il primo movimento rispetto a qualunque altro direttore che io conosca, e poi lacrima nello scherzo come se non ci fosse un domani. Ma anche se ciò priva in parte la sinfonia dell'equilibrio che Shostakovich aveva probabilmente in mente, per me la cosa funzionava brillantemente, con Boult che si avventurava in acque molto più profonde, nel primo movimento, di chiunque altro prima o dopo di lui. E la Everest non fa rimpiangere nulla, per la qualità sonora, di incisioni prodotte più di trent'anni dopo. Un'altra eccellente performance è quella diretta da Paavo Berglund con la Bournemouth Symphony in un cofanetto EMI di due CD che contiene molte altre golosità, tra cui un resoconto della Undicesima che vi lascerà senza fiato in alcuni passaggi.
Sinfonia n.7 in Do, Op.60 («Leningrado»)
La Settima Sinfonia, la più lunga di Shostakovich, è diventata una leggenda musicale del ventesimo secolo. Iniziando la sua nuova sinfonia nel Luglio 1941, mentre i nazisti preparavano il devastante assedio della città natale del compositore, rinominata Leningrado, in cui molti sarebbero morti di fame dopo che anche i cani ed i gatti erano fuggiti, Shostakovich lavorò al pezzo quasi letteralmente senza interruzione, al punto di portare il manoscritto con sé sul tetto del Conservatorio di S.Pietroburgo (Leningrado) mentre serviva presso una batteria della milizia territoriale. In seguito sfollato, nonostante le sue proteste, da Leningrado, Shostakovich completò il suo lavoro sulla Settima mentre veniva trasferito continuamente da una residenza all'altra. Presentata nel Marzo 1942, la Sinfonia «Leningrado» attirò una tale attenzione da tutto il mondo che venne contrabbandata fuori dall'URSS su microfilm per performance in varie nazioni occidentali, tra cui gli Stati Uniti, in cui la NBC ottenne i diritti per la prima per Arturo Toscanini, la cui prima trasmessa alla radio è attualmente disponibile come Volume 22 della «Toscanini Collection» della RCA. Musicalmente, una rilevante porzione della notorietà della Settima Sinfonia deriva dal primo movimento, in cui Shostakovich sostituì la normale sezione di sviluppo con un crescendo stile Bolero in cui una banale canzone da taverna tedesca viene trasformata, ripetizione dopo ripetizione, strumento aggiunto dopo strumento aggiunto, in un massiccio ciclone in forma di marcia con ovvie implicazioni programmatiche, benché Shostakovich insistesse sempre sulla «impossibilità di un collegamento letterale tra la musica e qualunque tema specifico», per usare le parole di Laurel Fay in Shostakovich: Una Vita. Nel contesto della situazione bellica l'impatto drammatico di questa musica deve essere stato notevole. Sessant'anni dopo è difficile porsi nel mezzo di quel ciclone senza esserne esasperati, come accade, in effetti, anche con gli altri movimenti della sinfonia. C'è del materiale stupendo, tra cui il tema di base dell'ansioso secondo movimento dall'aspetto di un intermezzo, o il breve scoppio, nel finale, di un episodio degli archi, completo di pizzicati in 7/4. E c'è ben poco di più commovente, nella musica di Shostakovich, del ritorno, verso la fine dei primo movimento, del tema di apertura della sinfonia. Ma per la maggior parte la musica rumoreggia, portandomi a concludere, dopo aver ascoltato la Leningrado (forse per la centesima volta) per questa recensione, che Shostakovich, anche nelle sue più ampie costruzioni sinfoniche, aveva bisogno di un qualche tipo di costrizione formale, molto poco evidente nella Settima. Sotto ogni aspetto, la Settima è il meno convincente degli sforzi di Haitink. Già dall'inizio, quando gli ottoni che rispondono all'esposizione iniziale del tema principale da parte degli archi vengono sommersi nello sfondo, l'incapacità del direttore di penetrare la superficie del terribile dramma esacerba la prolissità della musica. Inoltre, il suono di questa registrazione è più evidentemente digitale di quello della maggior parte delle altre sinfonie, con i cori degli ottoni che, una volta isolati, diventano particolarmente sottili. La mia registrazione in assoluto preferita della Leningrado è quella di Leonard Bernstein che dirige nientedimeno che la Chicago Symphony in un cofanetto Deutsche Grammophon di due CD che offre anche la decente lettura di Bernstein della Prima. La registrazione di Bernstein del 1962 con la sua New York Philharmonic (nella «Royal Edition» della Sony) è pure buona (mi piace in particolare la lettura rallentata del secondo movimento), ma impone il giudizioso taglio operato dal direttore (che non mi ha mai infastidito, devo ammettere) della terza variazione dei tema della marcia.
di Royal S. Brown (pubblicato su "Compact Disc Classics", n.51, ottobre 2005)