Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, settembre 20, 2023

Ferdinando Germani: La mia vita con Bach

A colloquio con Femando Germani. R
oma, via Terme Deciane, 23 giugno 1995: Fernando Germani, 89 anni, ci attende nel suo appartamento, al primo piano di una splendida villa. Germani è un tipo decisamente schivo, e abbiamo faticato non poco per riuscire a incontrarlo. Il suo sguardo cade sul microfono del registratore: “Io, quando vedo questi apparecchi, divento subito antipatico...”, ma il Maestro si scioglie subito dopo...

Com’era la vita organistica in Italia quando lei ha iniziato la sua carriera? Chi erano i grandi organisti, all’epoca?
I due piè grandi organisti erano Marco Enrico Bossi e Ulisse Matthey; il resto era tutto - che posso dire - tutta mediocrità e basta.
E quali sono stati gli altri grandi organisti di quell’epoca, che ha avuto modo di conoscere?
Ho conosciuto Dupré, e Bonnet.
Che ricordi ha di Marcel Dupré?
Lo ricordo come grande improvvisatore più che organista; secondo il mio modo di vedere, di sentire, di apprezzare é stato un grandissimo improvvisatore ma non condividevo tanto le sue esecuzioni.
Per quale ragione?
Le porto un esempio; quando lei parla, divide le sillabe?
No.
Così succedeva invece con Marcel Dupré e altri, Karl Straube per esempio, perché suonavano tutto staccato dal principio sino alla fine. Ciò non ha senso, perché la musica come i1 discorso parlato ha le sue frasi, i suoi periodi, periodi di domanda, periodi di risposta, e quando è completo il pensiero musicale, lì c'è una cadenza, una conclusione, allora si può cambiare sonorità, cambiare tastiera. Ci sono moltissimi organisti che suonano tutto staccato, dal principio alla fine: è come sentire un balbuziente, non ha senso.
Quali sono stati i suoi maestri d’organo?
Ufficialmente l’unico è stato Raffaele Manari, un sacerdote: per il resto ho fatto da me.
Per lei è stata importante l’attività accademica, di insegnante?
Si, ho sempre avuto una grande passione per l'insegnamento, tant’è vero che dovevo insegnare tre volte alla settimana per un totale di dodici ore e invece cominciavo la mattina quando ancora era chiuso il conservatorio, mi facevo aprire dal portiere, e gli allievi mi vedevano lì e si rimaneva l’intero giorno senza mangiare. Si rimaneva fino a che il portiere ci cacciava via perché doveva chiudere il conservatorio la sera; ho avuto una quantità di allievi che ora stanno in tutte le parti del mondo, fino in Giappone. Insieme al conte Chigi Saracini, fondammo poi l’Accademia Chigiana: io mi occupavo semplicemente dell'organizzazione della classe d’organo e lui pensava a tutto il resto. Questo andò avanti fino alla sua morte; quando il Conte morì, finì tutto.
Ha insegnato anche negli Stati Uniti?
Sì, ho insegnato al Curtis Institute di Philadelphia e poi anche a Chicago. Negli Stati Uniti ci sono stato parecchie volte perché ho eseguito - oltre a un repertorio non comune, con le opere più difficili di Max Reger, lì sconosciuto - tutte le opere di Bach. Esse mi hanno fruttato dei riconoscimenti ufficiali, sia dal presidente Nixon che da Kennedy.
Ci parli della sua prima esperienza americana.
La storia è lunga... A palazzo Cenci a Roma si era ritirato un ricco americano che una volta alla settimana organizzava un concerto in casa sua; come pianista per molto tempo ci fu Carlo Zecchi, mio amico e compagno di scuola, che poi aveva formato un quartetto d'archi; quando Carlo Zecchi andò in Germania per studiare con Busoní, mi pregò di sostituirlo. Quando il mecenate scoprì che in realtà ero organista, fissammo un appuntamento all'Istituto Pontificio di Musica Sacra e mi fece suonare per diverse ore, tutto a memoria, e mi disse di essere molto amico di Ronald Wanamaker, il celebre miliardario proprietario dei Grandi Magazzini dove si esibivano grandi orchestre a scopo pubblicitario. Egli scrisse a Wanamaker, che mandò a Roma un suo inviato speciale; suonai per lui tutto il repertorio per due giorni, mattina e pomeriggio. L'inviato fece poi tappa a Parigi, dove parlò di me al compositore Leo Sowerby, che poi scrisse dedicandomelo il pezzo Pageant (lui l'aveva composto espressamente molto difficile, e invece io riuscii ad aggiungervi altre difficoltà!). Ma la cosa più strana fu che Sowerby mi mandò il pezzo proprio alla vigilia della mia partenza per gli Stati Uniti: dovetti memorizzarlo sul piroscafo, e tutta la parte di pedale doppio, triplo e quadruplo me la sono imparata stando seduto... “in trono", nel bagno della mia cabina!
Rimase molto negli States?
Mi avevano organizzato due concerti, uno a New York e l'altro a Philadelphia, ma Mr.Wanamaker fece una pubblicità tale che invece di due ne feci venticinque.
Ha avuto anche occasione di suonare con Stokowsky, se non erro?
Sì, ho suonato con lui una volta a Philadelphia.
E il prima invito in Inghilterra?
Fu organizzato dall'organaro Henry Willis, che scrisse al mio impresario dicendo che lui aveva preparato un concerto per me a Liverpool; lo si era organizzato in modo che il piroscafo arrivava alla mattina e il concerto era alla sera. Io mandai il programma, ma appena arrivato a Liverpool trovai che il programma non era arrivato (o non era mai stato spedito!), e Willis dovette formare lui un programma, in base a notizie sul mio conto. Io ero partito senza spartiti, ma tutto andò bene, e immediatamente, dopo il concerto a Liverpool mi organizzarono un concerto a Manchester e altre città e l'ultimo a Londra all'Alexander Palace, il tutto senza una sola nota scritta!
Come mai il suo grande interesse per le opere di Max Reger?
Mi sono capitate per le mani prima di tutto le biografie di Reger; poi ho avuto occasione di conoscere persone che gli erano amiche, e da quanto mi hanno raccontato egli amava bere molto. Ciò si è anche riflettuto nelle sue composizioni. Quando ho saputo di questa sua passione per la birra o il vino mi sono potuto regolare per l'interpretazione delle sue opere: una persona che non conosce la vita e le abitudini di Reger ed esegue esattamente, come sono stampati, i segni dinamici, l'esecuzione diventa una corbelleria. Io capivo la costruzione della frase, del periodo, e non c'era bisogno di fare cambiamenti, mentre Reger semplicemente per indicare un piccolo crescendo o diminuendo espressivo, non dinamico, da un pppp andava a finire in un ffff. Questa è stata una ragione dell'impopolarità della sua musica. Io ho dimenticato e ignorato completamente i segni dinamici, ho analizzato le sue opere in base alla forma musicale, e ho potuto ricostruire le frasi, i periodi, i periodi di domanda, i periodi di risposta. Molte persone del pubblico, quando io ho eseguito alcune di queste composizioni, mi hanno detto: “Oggi ci è parso addirittura di vederle queste composizioni, tanto erano chiare". Io mi sono dedicato alle opere più difficili di Reger, tra cui le famose Variazioni Op.73, uno dei pezzi più difficili, oltre alle sonate e altri brani. Ogni volta essi sono piaciuti; una volta a Roma tenni un concerto dedicato esclusivamente alle opere più difficili di Max Reger, e i miei colleghi, compreso il mio primo insegnante, mi domandarono se ero diventato pazzo per eseguire un concerto di quel genere. Finita l'esecuzione, come 1'alta marea tutto il pubblico si alzò in piedi ad applaudire e dovetti eseguire cinque pezzi fuori programma.
In un certo senso lei ha riscoperto l'opera di Max Reger?
L'ho ricreato in quel modo, ma ripeto che bisognava prima di tutto conoscere la personalità. Quando feci un concerto a Lipsia, in San Tommaso, intervenne un suo amico intimo, il celebre Karl Straube, che aveva riveduto tante sue opere. Lui assisteva da una galleria da dove poteva vedere perfettamente tutta la cantoria; noti bene che io ho sempre suonato a memoria e lì in cantoria c'ero io solo; terminato il concerto lui mi mandò a chiamare e mi chiese: “Quante persone stavano ad aiutarla?", perché c'era l'abitudine in Germania, anche per cambiare i registri, di avere degli aiutanti. “Nessuno”, risposi io, ma lui non credette, e dovetti invitarlo a sedere accanto a me durante il concerto successivo.
E il grande repertorio francese tra Otto e Novecento?
Non l'ho certo trascurato: ho eseguito tutte le opere di César Franck... e poi composizioni di Messiaen, di Dupré, di Bonnet...
Si è mai dedicato all'improvvisazione?
No, salvo in chiesa.
Come mai?
Perché lo studio dell'organo mi pigliava tutto il tempo possibile e immaginabile, e quindi non avevo tempo di dedicarmi all'improvvisazione.
Lei è stato per anni organista titolare a San Pietro in Vaticano: come ha vissuto questo servizio, di organista al servizio della chiesa?
Preferirei cambiare discorso.
Per quale motivo?
In religione è proibito dire le bugie e io non le so dire; è vero, certe volte può essere scottante più del fuoco, e allora cambiamo discorso, perché dovrei dire una quantità di cose non troppo piacevoli. Noti, tra parentesi, che io non ho mai avuto desiderio di andare a suonare per le chiese, ma la nomina di organista di San Pietro me la sono venuti ad offrire qui, a casa, tanto è vero che io risposi “Ci penserò, perché ho un'attività di concertista”.
Il suo nome è indissociabile da quelli di Reger e di Bach: di quest'ultimo autore sono rimaste famose le sue esecuzione dell'opera omnia...
La prima occasione di eseguire l'opera integrale per organo di Bach fu dopo la fine della seconda guerra mondiale, qui a Roma, a Sant'Ignazio. Andò talmente bene che alla fine dell'ultimo concerto mi domandarono di ripetere il ciclo l'anno successivo, infatti il pubblico, da poche persone all'inizio, si era affollato in un modo incredibile. Ma non andò sempre tutto liscio: in occasione del primo concerto di un ciclo, un sacerdote inviato da un cardinale mi ingiunse di sospendere la serie di concerti. Alcuni studenti, saputolo, organizzarono delle dimostrazioni davanti alla chiesa di Sant'Ignazio! Durante la prima esecuzione io sentii un gran rumore, uno scalpiccio di passi sul pavimento della chiesa di Sant'Ignazio, mi affacciai dalla cantoria e vidi che erano entrati molti prigionieri tedeschi: fu un'iniziativa del comandante americano, che aveva invitato i prigionieri tedeschi, “trattandosi del più grande compositore tedesco". Lo stesso comandante mi aiutò e provvide a far arrivare alla chiesa, nel momento dei concerti, la corrente elettrica al giusto voltaggio. Solo a Roma avrò suonato l'intero ciclo bachiano non meno di 14 volte, alternando Sant'Ignazio all'Ara Coeli, e il pubblico era sempre più numeroso. Il pubblico piano piano si è formato... noti tra parentesi, che tutti questi concerti a Roma, organizzati dall'Accademia di Santa Cecilia, li ho fatti gratis et amore Dei: io non ho ricevuto un centesimo, però ho formato un pubblico, perché quando c'era un'esecuzione con musica di Bach la chiesa era piena.
E lo studio di Bach è poi confluito in una pubblicazione, della Camerata Musicale Barese...
Sì, per far capire le composizioni di Bach ho analizzato composizione per composizione, spiegandone il significato. Per i corali, per esempio, ho pubblicato le parole in tedesco e in italiano. Questo ha contribuito a far capire le opere di Bach: perché tutti quanti si limitavano in un concerto a fare la solita Toccata e fuga in re minore o qualche altro pezzo popolare, pur di ottenere l'applauso; io non l'ho fatto mai con lo scopo di ottenere l'applauso, mai.
Sbaglio o all'estero è stato ancora più apprezzata che in Italia?
Beh, in America facevano la pubblicità... all'americana, ma non creda che anche in America siano state tutte rose, ci sono state anche le spine, perché vi erano degli organisti talmente invidiosi che dopo un mio concerto scrissero un articolo su uno dei principali giornali di New York dicendo che mi dovevano buttare giù dalla cima di un grattacielo!
E per quale motivo?
Perché davo fastidio, perché non erano capaci di fare ciò che eseguivo io...
Giuseppe Clericetti
("Symphonia" Nr. 53 Anno VI, Agosto 1995)

domenica, settembre 10, 2023

"Non vedi scintille covare nel suono?"

Johann Jacob Bach - anch’egli musici
sta - si accingeva a lasciare il tradizionale mestiere della famiglia di cantori ed organisti, per andare a servizio del Re di Svezia Carlo XII, come oboista nella guardia d’onore regia. Partiva verso Altranstäd, probabilmente nel 1704, ed i1 giovanissimo Johann Sebastian lo salutava dedicandogli il secondo dei suoi due capricci per clavicembalo. Il primo lo aveva dedicato ad un altro fratello, quel Johann Cristoph che lo ospitò per cinque anni ad Ohrdruf, dopo la morte dei genitori. Il capriccio era una delle più arcaiche forme clavicembalistiche d’origine italiana, tra cui eccellevano gli esempi di Frescobaldi, ma in Germania si consolida in una accezione particolare, propriamente "fantasia improvvisata che può servire a mettere in luce l’estro e lo spirito del compositore", per dirlo nelle parole di Praetorius (1618). Bach approfitta del carattere improvvisativo di questo genere strumentale per dimostrare il proprio "estro e spirito", piegandolo ai modi espressivi ed imitativi allora diffusissimi, soprattutto nella Germania dei giovani Mattheson, Telemann, Handel, come dire la Germania alla svolta del secolo XVIII. L’intento di Bach in questo Capriccio sopra la lontananza del suo fratello dilettissimo, è infatti fortemente descrittivo e si richiama ad un celebre precedente di Kuhnau. Il venerando e prestigioso maestro aveva scritto intere sonate cembalistiche ed organistiche su storie bibliche, descrivendone minuziosamente gli eventi in suoni con tanto di didascalie illustrative. Vi erano certamente ingenuità, come la fuga canonica utilizzata per descrivere la fuga dei Filistei dopo la sconfitta di Golia, ma nel complesso l’intento era altamente rispettabile. Affondava indietro fin nelle rappresentazioni sonore delle parole poetiche del madrigale italiano cinquecentesco e seicentesco e si proponeva di nobilitare la musica strumentale, immettendovi la dotta e prestigiosa scienza retorica. Metafore e figure avrebbero reso comprensibile e nobile anche l’arte strumentale oltre ad esibire al meglio l’ "estro e lo spirito" del musicista. Bach è pero ben attento a non cadere nelle ingenuità criticate dai teorici più avveduti. Non avrebbe fatto ciò che Burney anni dopo rimproverava a Mattheson: "quel brav’uomo si era dato gran pena perché sulla parola arcobaleno le note e della partitura formassero un arco". Nel suo Capriccio l’intenzione è più narrativa che imitativa. Le didascalie che accompagnano e spiegano il percorso musicale narrano eventi o situazioni affettive cui in qualche maniera la musica dà voce. La prima parte comincia con un arioso in adagio che esprime con melodia carezzante "la lusinga degli amici per trattenerlo dal partire". A questa segue "una rappresentazione delle diverse vicende cui potrebbe andare incontro nel paese lontano" e conclude con un adagiosissimo - "un generale lamento degli amici". La seconda parte comincia con "gli amici che, rassegnati a non vederlo cangiar risoluzione, prendono congedo da lui" per proseguire con la rapida e breve aria del Postiglione. Allegro poco e chiudere con una Fuga all’imitazione della posta che accompagna la partenza del fratello mentre si allontana sulla diligenza postale. L’impianto formale complessivo è pero rigoroso: le due parti concludono simmetricamente, entrambe con le sezioni più lunghe e complesse - circa cinquanta battute ciascuna contro le dieci-venti delle altre sezioni - e in generale Bach alterna attentamente i modi espressivi che possono essere melodie costruite su basso continuo, come nell'aria delle lusinghe degli amici, o episodi contrappuntistici in cui tutte le voci giocano paritariamente alla costruzione di forme rigorose. Anche le descrizioni sono assunte all’interno di una sintassi musicale compatta come accade nel primo grande episodio dove, per rendere il lamento degli amici, Bach si appoggia su una formula di basso ostinato, che da oltre un secolo caratterizzava ogni momento doloroso: quattro note cromatiche discendenti ripetute con insistenza. Erano state allineate tra i primi da Monteverdi e poi portate ad intensissima espressività da Purcell, dagli organisti tedeschi ed utilizzate dallo stesso Bach nella Messa e nelle passioni. Ma anche la partenza della corriera postale viene assorbita in una rigorosa sintassi musicale: Bach inserisce infatti i1 caratteristico segnale sonoro del corno - un salto d'ottava discendente - come controsoggetto della fuga finale. Il medesimo salto d’ottava circola con insistenza anche nella precedente gaia e spensierata aria del postiglione.
Come Bach, anche Beethoven si avventura solo raramente nella descrizione sonora di fatti od eventi e, per esempio, la sua sesta sinfonia - Pastorale - resta un caso pressoché isolato. Piuttosto domina una ricerca lucida e meticolosa, nel tentativo di a1largare le forme musicali ereditate dalla tradizione viennese, esasperandone le potenzialità ed indagandone i confini estremi. Che poi in molte sue composizioni la critica successiva abbia voluto vedere specchiati episodi della vita del musicista, spesso anche titoli, è un'altra questione. E' ciò che accade proprio alla Sonata opera 57. Pubblicata nel 1807 dal Bureau des Arts et d’Industrie di Vienna, sarebbe infatti poi stata ristampata ad Amburgo da Cranz che le avrebbe anche apposto il nome celebre di Appassionata. E' una delle poche opere che contribuirono fattivamente alla costruzione del mito Beethoven ma anche tra quelle che vissero soprattutto una storia di ascolto e fruizione, una di quelle che entrarono insomma subito nel repertorio dei virtuosi.
Dal 1802 e per tutto il primo decennio del secolo la ricerca beethoveniana si applica alla forma sonata, perfetta congerie di equilibrio formale e drammatismo musicale. Nell’opera 57, Beethoven torna alle forme chiuse, concise, drammatiche di Haydn e Mozart, espandendole e rafforzandone la potenza senza distruggerne le proporzioni. In questo senso si muove su più fronti. Da una parte dimostra una inedita attenzione al suono e all’effetto complessivo della composizione, ammettendo anche la timbrica strumentale tra i parametri necessari della forma, così da colmare l’equilibrata struttura della sonata ereditata da Mozart e da Haydn di forza comunicativa ed energia drammatica inconsueta.
"A mio parere [il Suo fortepiano] è troppo buono per me, perché mi togli la libertà di creare i miei toni. Naturalmente questo non deve distoglierLa dal continuare a fabbricare nello stesso modo tutti i suoi fortepiano. Certo, di gente che abbia pel capo grilli come i miei non ce n’e molta." Beethoven a Streicher, 1796.
"Streicher ha abbandonato la meccanica delicata, troppo cedevole e vivace dei vecchi strumenti viennesi e su parere e richiesta di Beethoven, ha dato ai propri strumenti più resistenza ed elasticità, cosicché il virtuoso che suoni con forza e pregnanza possa agire sullo strumento in modo da sostenere e rinforzare il suono. Sarà pù in grado di soddisfare il virtuoso che miri a qualcosa di più di una brillante esecuzione." Reichardt, 1809
Ma per altro verso e la struttura stessa della Sonata che si presenta fortemente virtuosistica. Il virtuosismo è assunto a criterio formale e costitutivo, non semplice rivestimento brillante. Su quello si fonda gran parte della espressività della Sonata che diventa drammatismo emotivamente sconvolgente. La struttura é articolata in due grandi blocchi: i1 grandioso sviluppo dell’allegro assai e il vasto finale preceduto da un breve movimento lento introduttivo. In ciascuno dei due le tecniche drammatiche sono prevalentemente virtuosistiche e possono presentarsi in un arpeggio più volte ripetuto ad accrescere la tensione emotiva. L’estensione si ampia molto verso l’acuto e gli accordi risuonano di valore tematico. Il ritmo insistente che si scatena nel perpetuum mobile finale tratteggia tutta la sonata con una violenza che resta contenuta solo dalla estrema semplicità formale classica. E' infatti la semplicità in cui è tenuta la forma che riesce a contenere e dare ordine alla intensa aggressività cui la materia musicale aspira. Perfino i due temi del primo movimento - tradizionali antagonisti nella forma sonata - sono invece derivati l’uno dall’altro e il tempo lento si organizza anch’esso elaborando il medesimo tema con il criterio della variazioni.
Le ricerche beethoveniane sull’architettura complessiva della sonata giungono tanto lontano da dar luogo a risultati veramente arcani. Solo ben più tardi nel secolo, e parzialmente solo nel nostro, si potranno riannodarne le fila per una reale comprensione ed appropriazione da parte della storia della composizione. Nel frattempo Beethoven incombe come "Titano" irraggiungibile che spinge la generazione romantica a coltivare assiduamente il breve pezzo espressivo o virtuosistico - ma non sempre i due termini sono in opposizione - da salotto, Hausmusik per dilettanti esperti, potremmo dire iniziati.
Già nella produzione di Schubert tali brani occupano una ampia sezione del catalogo. Tra questi stanno gli otto improvvisi, tutti composti negli ultimi mesi del 1827. Quattro sono raccolti nell’opera 90 e quattro nell’opera 142; questi ultimi sarebbero stati pubblicati solo nel 1839 da Diabelli a Vienna. Lasciamo parlare Schumann, che di Schubert era grande estimatore: "Il secondo impromptu ha un carattere più contemplativo, di una maniera frequente in Schubert; il quarto tutto diverso fa il broncio, un broncio però delicato e buono, difficilmente ci si può ingannare, più di una volta m'ha ricordato la collera per un soldino perduto di Beethoven, un pezzo molto comico e poco conosciuto". Lo Schubert degli ultimi anni, e soprattutto lo Schubert degli impromptus, è il compositore che prende le mosse dal Beethoven lirico, un Beethoven che attorno all'anno 1810 stempera il rigore formale sonatistico - nel quale la sua grandezza era pressoché incommensurabile - con un'enfasi lirica che Schubert come i suoi successori possono cogliere e sviluppare appieno. La vena privata, domestica, la stretta simbiosi con l'ambiente raffinato e colto degli aristocratici e borghesi dilettanti ed appassionati è quasi costante nella produzione di Schubert e si riversa anche qui trasformando il genere del pezzo di carattere, improvvisativo e brillante in un brano lirico di intenso patetismo. Ma la destinazione domestica, l'aspirazione lirica di queste composizioni non vuol dire affatto che siano poi di facile esecuzione, anzi, il referente resta il dilettante esperto che spesso può definirsi tale solo perché nell'ambito della Hausmusik non esegue a pagamento, ma per diletto. È significativo che l'editore francese Schott restituisse a Schubert gli otto Improvvisi perché li considerava troppo difficili per il suo mercato prevalentemente composto da amatori.
Ad un inscindibile intreccio di alto virtuosismo ed espressività giunge invece Mendelssohn nelle sue tante composizioni di salotto. Tra queste pubblica nel 1827 a Vienna il Rondò capriccioso op. 14 dove il termine aggettivato serve a diluire il rigore e la nettezza formale che il termine rondò vorrebbe affermare. E in quel capriccioso sta la densità di eventi musicali, e non solo musicali che Mendelssohn riversa nella sua composizione. Brano breve, brillante che Mendelssohn, strizzando certamente l'occhio al salotto, sa tenere in una saldezza tecnica sbalorditiva. Verrebbe da dire che anche questo "capriccio" è narrativo sebbene - a differenza del capriccio bachiano - nessun progetto narrativo sia dichiarato; ma la netta fisionomia ritmica degli incisi, la pulizia formale delle brevi melodie che circolano capricciosamente qua e là nella pagina musicale, affacciandosi liberamente ora in un registro ora nell'altro, sempre sottovoce giungendo solo raramente ad affermarsi in fortissimo, animano quest'opera di rapidi guizzi, movimenti, occhiate e giochi di luce da sottobosco fatato. Pur nel costante tempo presto, Mendelssohn non si perita affatto di dosare il materiale musicale per assaporarlo lentamente come s'usa nei brani veloci e rapidi, ma gioca invece con la velocità, per far danzare in vertigine sognante i suoi giochi luminosi. L'accompagnamento distribuito e spezzato tra le due mani non è solo supporto all'inciso melodico ma lo avvolge definendo l'ambiente complessivo in cui quello si situa fino ad assumere anche valore tematico in senso lato.
Le fila della ricerca beethoveniana cominciano a riannodarsi con la meticolosa e profonda produzione di Johannes Brahms: da Beethoven egli riparte per una sottile e rigorosa analisi tematica. Accade nelle sonate prodotte di getto attorno all'anno 1853 ed accade nelle Variazioni che seguono la produzione pianistica. Brahms si cimenta con diversi impegnativi studi sulla variazione, su temi di Schumann, Paganini ed appunto nel 1862 sul tema di Händel, l'opera 24 eseguita a Vienna nel novembre dello stesso anno. Getta così un punto all'indietro con il tardo Beethoven da decenni guardato con reverenziale timore. Anche per lui la variazione diventa indagine sulle tecniche pianistiche e sulle forme
espressive della musica. La lezione di Beethoven si accompagna però al profondo studio di Bach che consente di introdurre modi espressivi arcaici filtrati, rivissuti e ripensati in termini profondamente moderni. In questo senso le variazioni lasciano spazio sia a canoni rigorosi e contrappuntisticamente complessi (n. 6, n. 16) che alla vera fuga della variazione finale rigorosamente costruita secondo una sintassi cembalo-organistica. Ma l'indagine sulle tecniche pianistiche diventa anche studio virtuosistico sulle potenzialità dello strumento: alcune variazioni diventano veri studi tecnici in cui Brahms amplia i limiti dell'estensione pianistica. Brahms travasa la propria attenzione verso la tecnica strumentale in brani che della variazione fanno un intenso evento virtuosistico, suscitando critiche e perplessità tra i fedeli seguaci del suo laboratorio di artigianato musicale. Già l'anno successivo infatti l'intento è addirittura proclamato a gran voce: le variazioni opera 35 elaborano un tema di Paganini- virtuoso per eccellenza - e sono pensate per Carl Tausig, il massimo virtuoso di pianoforte dell'epoca.
Paolo Russo
("Symphonia", N° 7 Anno II, giugno 1991)

venerdì, settembre 01, 2023

Iannis Xenakis: Hermann Scherchen, un grande della musica

Hermann Scherchen dimora in questo 
XX secolo musicale come una stella eccezionale, di primaria grandezza. Egli ha fecondato diversi compositori, interpreti, tecnici della musica e studiosi di acustica. Per non dire dei semplici spettatori che hanno imparato con lui ad ascoltare in maniera diversa.
La forza, la violenza, il genio del suo talento e del suo pensiero trascinavano le orchestre contro la loro volontà, il più delle volte, in una direzione totalmente nuova e di sensibilità estetica fine, forte, luminosa e assoluta come un tempio dorico dell'era arcaica.
La differenza dagli altri direttori di grande statura? Sta nel fatto che lui aggiungeva a tutto un tocco di anticonformismo, di diverso, di inesprimibile con le parole, naturalmente! E' in fondo la caratteristica suprema dell'essere umano, la personalità specifica dell'individuo, quella che fa e disfa le cose, la storia, è lei, la sua personalità che era responsabile di questo vento di creatività che egli suscitava negli autori, appena appariva.
Lo sguardo acuto dei suoi occhi grigio-azzurro, d'acciaio, come una meravigliosa presenza catalitica, metteva in movimento negli altri, le forze nascoste, molto al di sotto della coscienza pratica e quotidiana... Le forze dell'immaginazione, dell'amore per una cosa ben fatta, della sua bellezza e della sua rivelazione estetica, nascevano quasi involontariamente attraverso emanazioni incontrollate. Una vera maieutica.
Mi è rimasto impresso l'incidente straordinario che accadde negli anni '50, quando dirigeva l'orchestra Filarmonica della Radio, alla Salle Evrard a Parigi.
Dopo lo scandalo dei "Déserts" di Varèse che aveva suscitato al Teatro dei Champs Elysées, la direzione della produzione sinfonica d'allora lo aveva boicottato per vari anni.
Pertanto egli era stato ingaggiato, fate attenzione, non per un concerto pubblico, ma per una emissione radiodiffusa in diretta, dalla suddetta orchestra. All'epoca questa orchestra era piuttosto male in arnese, perché utilizzata per lasciarsi dirigere dal direttore di passaggio (in genere modesti musicisti sottomessi alla politica degli scambi culturali fra paesi)...
Dunque un'orchestra "prendi-tutto" e indisciplinata, frustrata nel suo orgoglio e ferita nella sua vanità.
In programma un pezzo di Darius Milhaud, "les offrandes oubliées" (le offerte dimenticate) di Olivier Messiaen e, per finire, la Settima di Beethoven. Dopo la prima prova uno degli orchestrali si mise a fumare e continuò, malgrado l'ingiunzione di Hermann Scherchen. Quest'ultimo, allora, abbandonò il podio e non ritornò! Alla seconda prova un altro musicista si mise ostentatamente a leggere il giornale. Hermann Scherchen di nuovo abbandonò il podio. All'esecuzione, in cui io ero presente col nostro comune amico Pierre Souvtchinsky e due o tre altre persone in tutto, io sentii all'attacco del primo pezzo, una elettricità ostile nell'aria. Ma, man mano che il concerto si svolgeva a porte chiuse, l'atmosfera da tesa e aggressiva, si trasformò, sotto la sua bacchetta, in una tensione artistica di qualità veramente superiore. La Settima fu eseguita con una tale foga e con una tale forza che alla fine l'intera orchestra si alzò in piedi e tutti insieme si mise ad applaudire questo mago della musica che era riuscito a trasformarli solo per mezzo della sua aura personale di grande artista (il tempo di un concerto!). Il suo fluido aveva vinto le mediocrità psicologiche inerenti all'insieme umana di un'orchestra e con la sua bacchetta le aveva trasformate. Ciascuno aveva ritrovato in fondo a se stesso ciò che egli era, un artista di alto livello.
Cera uno spirito, uno stile Scherchen che ho talvolta ritrovato nei suoi allievi o protetti, interpreti o compositori: Nono, Maderna, Izquierdo... Si riconosceva pure quest'anima in giovani in apparenza refrattari come lo era allora Pierre Boulez.
Era pure un mecenate e ha appoggiato o aiutato finanziariamente molte giovani promesse.
La sua curiosità, la sua sete di conoscenza erano così grandi che organizzava dei convegni internazionali di specialisti venuti dagli USA, dal Giappone, dall'Europa, da ogni parte, per dibattere (discutere) questioni sull'acustica, la medicina, l'informatica! Il denaro che guadagnava come direttore, lo dispensava, senza contarlo, in queste operazioni, uniche al mondo per l'epoca, col sostegno minimo dell'Unesco. Dopo la rivista MELOS che aveva fondato in Germania negli anni '20, creò i quaderni dei "Gravesaner Blatter" in cui pubblicare gli studi di coloro che avevano inventato o scoperto qualche cosa. I loro studi erano anch'essi finanziati mediante i suoi onorari personali.
Non aveva pure creato a sue spese una casa editrice di spartiti di giovani sconosciuti: l'Ars Viva Verlag?
Aveva anche voluto costruire nella sua fattoria a Gravesano un secondo laboratorio-sala da concerti, di tipo nuovo, incaricandomi di stabilire i piani d'architettura. Ahimè! la morte pose fine al suo sogno. Non restano che i sogni...
Fino alla fine della sua esistenza diresse con questa luminosità d'acciaio la musica d'avanguardia insieme alla musica classica, creando pezzi nuovi, instancabilmente, in programmi misti o monografici.
L'ultimo anno della sua vita fece una lunga tournée negli Stati Uniti, in Canada, dirigendo a memoria tutte le sinfonie di Anton Bruckner.
Questa tournée lo aveva terribilmente affaticato, tanto che poco dopo, all'indomani della composizione del mio 'Terrêtektorh" al Festival di Royan, io sentii un'angoscia mortale. Sentii che non lo avrei più visto e senza dubbio anche lui. Sul podio, qualche mese più tardi, al Maggio Fiorentino, crollò per sempre.
Mi auguro che questo manuale del direttore d'orchestra, vero trattato di giovinezza, trasmettere lo spirito dionisiaco e apollineo che lo abitava.
Iannis Xenakis
("Symphonia" N° 21 Anno III, novembre 1992"

lunedì, agosto 21, 2023

Oedipus rex: Robert Craft colloquia con Igor Stravinsky

Robert Craft
: In che misura lei ha collaborato con Cocteau all'Oedipus rex? Quale è stato il suo intento nel tradurre il libretto in latino? Quali erano le sue idee iniziali per la messinscena del lavoro, e sono mai state realizzate? Cosa intende per opera-oratorio?

Igor Stravinsky: Dato gli inizi dell'Oedipus rex al settembre 1925, ma da almeno cinque anni prima avvertivo il desiderio di comporre un lavoro drammatico di ampie dimensioni, dopo aver composto soltanto musica da camera durante la guerra. Tornando in quel periodo da Venezia a Nizza mi fermai a Genova, per rinnovare il ricordo di questa città dove avevo trascorso il mio quinto anniversario di matrimonio, nel 1911. Là vidi su una bancarella una vita di san Francesco d'Assisi, che comprai e lessi la notte stessa. A questo libro devo la formulazione di un'idea che mi si era affacciata fin da quando ero diventato un déracinéL'idea era che un testo per musica poteva essere dotato di un carattere monumentale traducendolo - per così dire a ritroso - da una lingua secolare in una lingua sacra. «Sacro» può significare semplicemente «più antico», come potremmo dire che la lingua della Bibbia di re Giacomo è più sacra della lingua della New English Bible, se non altro per l'età più veneranda. Ma io pensavo che una lingua più antica, anche imperfettamente ricordata, avesse necessariamente un che di incantatorio, sfruttabile in musica. Me ne dava conferma l'esempio dello stesso Francesco d'Assisi, con il suo uso ieratico del provenzale, la lingua poetica del Rinascimento del Rodano, invece dell'italiano o basso latino quotidiano. Prima di quel momento di illuminazione a Genova non avevo saputo risolvere il problema linguistico delle mie future opere vocali. Il russo, la lingua esule del mio cuore, era diventato musicalmente impraticabile, e il francese, il tedesco e l'italiano mi erano estranei. Quando lavoro con le parole in musica i miei succhi creativi sono stimolati dal suono e dal ritmo delle sillabe. «In principio era il verbo» è per me una verità letterale, puntuale. Ma il problema fu risolto, e la ricerca di un «pur langage sans office» terminò con la mia riscoperta del latino ciceroniano.
La decisione di comporre un lavoro sul dramma di Sofocle sopravvenne subito dopo il mio ritorno a Nizza, ma la scelta era prestabilita. Avevo bisogno di una trama universale, o almeno tanto nota da non costringermi a lungaggini nell'esporla. Desideravo lasciar da parte l'azione teatrale, pensando di distillarne l'essenza drammatica e di concentrarmi più liberamente su una drammatizzazione puramente musicale. Vari miti greci mi vennero in mente nel considerare il soggetto, e poi, in automatica successione, pensai alla tragedia che più avevo amato in gioventù. In un ultimo momento di dubbio riesaminai la possibilità di usare una versione in lingua moderna di un mito, ma solo la Phèdre rispondeva al mio concetto di statuario, e quale musicista potrebbe respirare in quel metro?
Invitai Cocteau a collaborare con me all'Oedipus perché ammiravo la sua Antigone. Gli confidai le mie idee e gli spiegai che non volevo un dramma d'azione, ma una «natura morta». Dissi anche che il mio ideale era un libretto convenzionale con arie e recitativi, pur sapendo che il convenzionale non era il suo forte. Sembrò entusiasta del progetto (meno dell'idea che le sue frasi sarebbero state riscritte in latino); ma la prima stesura del suo libretto fu esattamente quello che non volevo: un dramma musicale in prosa fiorita.
«Dramma musicale» e «opera» si sono da un pezzo confusi insieme, ma nella mia testa erano categorie ben distinte, e giungevo a sostenere che l'orchestra ha un ruolo interpretativo più ampio ed esteriore nel «dramma musicale», e simili idee estenuanti. Sostituirei adesso questi termini con «opera in versi» e «opera in prosa», identificando le due categorie rispettivamente con chiari esempi come The Rake's Progress per la prima e Erwartung per la seconda. Divisioni di questo tipo, per quanto artificiose, a me sono necessarie.
Cocteau accettò pazientemente le mie critiche e riscrisse il libretto due volte, sottoponendolo perfino, dopo di ciò, a un'ultima tosatura. (Sono per indole un cultore dell'arte topiaria, e amo molto potare le cose). Che cos'è puramente di Cocteau nel libretto? Non sono più in grado di precisarlo, ma direi meno la sua struttura che la gesticolazione del fraseggio. Non mi riferisco all'uso di ripetere le parole, che mi è abituale. L'idea del narratore o speaker fu di Cocteau, e cosi l'idea che questi vestisse il frac e si atteggiasse a conferenziere (che troppo spesso è sinonimo di cerimoniere). Ma la musica va al di là delle parole, e la musica fu ispirata dalla tragedia di Sofocle.
Visualizzai la messinscena non appena cominciai a comporre la musica, vedendo per prima cosa il coro, seduto in un'unica fila da un capo all'altro del proscenio, sul davanti. Il coro avrebbe letto dei rotoli di pergamena, e soltanto questi e il profilo delle teste incappucciate dei lettori dovevano essere visibili. Il coro, pensai, non doveva avere un volto.
La mia seconda idea fu che gli attori calzassero coturni e stessero ritti su piedistalli dietro al coro, ogni personaggio a un`altezza diversa. Ma «attori» non è la parola giusta. Nessuno «agisce». Solo il narratore si muove, e solo per distanziarsi dalle altre figure in scena. L'Oedipus rex sarà o meno un'opera in virtù del contenuto musicale, ma certamente non è operistico nel senso del movimento. I personaggi si rapportano l'un l'altro non con gesti, ma con le parole. Non girano nemmeno la testa per ascoltare i discorsi altrui, rivolgendosi direttamente al pubblico. Pensai che dovessero stare rigidamente diritti. La mia prima concezione era che i personaggi fossero rivelati di volta in volta alzando piccoli sipari individuali, come nell'Histoire du soldat, ma presto mi resi conto che lo stesso effetto si poteva ottenere più facilmente con l'illuminazione. Come il Commendatore, i cantanti dovevano essere illuminati durante le loro arie, poi tornare nell'ombra, come statue galvanizzate vocalmente. Edipo invece rimane bene in vista per tutto il dramma, fino al suo «Lux facta est», dopo di che deve cambiare maschera. (Il cambiamento può avvenire al buio, o voltando le spalle al pubblico). La violenza contro sé stesso è descritta, non rappresentata: Edipo non deve muoversi. I registi che lo fanno sparire di scena e poi riapparire realisticamente barcollante non hanno capito niente della mia idea.
Spesso mi chiedono perché io abbia voluto comporre un'opera da museo delle cere. Rispondo che aborro il verismo; ma una risposta completa sarebbe più positiva e più complessa. Intanto, considero questa rappresentazione statica un modo più efficace di concentrare la tragedia non su Edipo stesso e sugli altri individui, ma sullo sviluppo fatale che, per me, è il significato del dramma. Il pubblico non deve essere indifferente al destino della persona, però assai più deve badare alla persona del destino e al suo delinearsi, che si può esprimere unicamente in musica. Ma nella misura in cui la visualizzazione può essere d'aiuto, le figure in scena sono drammaticamente isolate e impotenti proprio perché sono plasticamente mute, e il ritratto dell'individuo come vittima delle circostanze è reso più nudamente efficace da questa presentazione statica. I crocevia sono impersonali, geometrici. E ciò che mi interessava era la geometria della tragedia, l'inevitabile intersezione delle linee.
Mi hanno chiesto perché non ho fatto un passo in più e non ho usato marionette, come ha fatto una volta il mio amico Robert Edmond Jones per una rappresentazione dell'Oedipus al Metropolitan. L'idea effettivamente mi venne, e avevo molto apprezzato le marionette di Gordon Craig quando me le aveva mostrate a Roma, nel 1917. Ma io amo anche le maschere, e componendo la prima aria di Edipo lo immaginavo con una maschera ogivale, rosea, come quella di un dio del sole cinese.
Le mie idee sceniche non furono realizzate perché a Djagilev mancò il tempo di allestire l'opera per la prima. La sua esistenza gli fu tenuta nascosta fino all'ultimo momento, e io tardai a terminare la partitura. Ma siccome la prima rappresentazione avvenne in forma di concerto, molti hanno supposto, erroneamente, che io preferissi per l'Oedipus questa forma. L'opera fu composta come dono per il diciottesimo anniversario dei Balletti di Djagilev - «Un cadeau très macabre» commentò lui. Djagilev rimase freddo alla prima, ma penso che forse fosse a causa di Cocteau. Per fargli dispetto, Djagilev scelse deliberatamente un bel giovane per la parte del narratore, ben sapendo che Cocteau l'aveva scritta per sé stesso. I cantanti avevano a malapena imparato le note per 1'esecuzioe in anteprima al pianoforte, che avenne in casa della principessa di Polignac pochi giorni avanti quella pubblica. Dalle reazioni degli ospiti capii che probabilmente l'Oedipus non avrebbe avuto successo col pubblico dei balletti. Ma il mio austero concerto vocale, seguito a un balletto «romantico» e colorito come l'Uccello dí fuoco, fu un fiasco peggiore del previsto. Gli applausi del pubblico furono di pura cortesia, e gli Sganarelli della stampa la cortesia la lasciarono nel cassetto: «Celui qui a composé Pétrouchka nous présente avec cette pastíche Haendelienne...  Un tas de gens mal habillés ont mal chante'... La musique de Créon est une marche Meyerbeerienne»... Nel ventennio successivo le rappresentazioni furono scarse, ma poi l'Oedipus è diventato quasi popolare.
Ho partecipato come direttore d'orchestra solo ad alcune rappresentazioni teatrali, e ne ho viste poche altre. (Tra le recenti menzionerei quella dell'Opera di Vienna, in cui l'«e peste» suonava come se i cantanti fossero davvero appestati, e quella dell'Opera di Washington, dove le facce bianche del coro luccicavano come i buchi nel formaggio Emmental). Quella visivamente più gradevole è stata l'edizione di Cocteau al Théâtre des Champs-Elysées, nel maggio 1952. Le sue maschere enormi erano di grande effetto, e così il suo uso della pantomima simbolica, anche se contraddiceva alla mia idea. Fremo nel ricordare le rappresentazioni sceniche alla Kroll Oper di Berlino, sebbene fossero ben preparate da Klemperer. Il narratore portava un costume nero da Pierrot. Lamentai col regista che non vedevo il nesso con la storia di Edipo, ma la sua risposta troncò ogni ulteriore discussione: «Herr Professor Stravinskij, nel nostro paese solo al Kapellmeister è consentito di portare il Frack». Hindemith e Schönberg erano fra il pubblico berlinese, il primo hingerissen [affascinato], il secondo abgekühlt [freddino].
In che senso la musica è religiosa? Non so rispondere, perché questa parola non corrisponde nella mia mente a stati d'animo o a sentimenti, ma a credenze dogmatiche. Posso affermare che la musica fu composta durante il mio periodo di più stretta e fervida ortodossia cristiana. Ai primi di settembre del 1925, con un ascesso in suppurazione al mio indice sinistro, partii da Nizza per eseguire la mia Sonata a Venezia. Avevo pregato in una chiesetta vicino a Nizza, davanti a un'antica e «miracolosa» immagine, ma prevedevo che il concerto sarebbe stato disdetto. Il dito suppurava ancora quando a Venezia entrai in palcoscenico. Mi rivolsi al pubblico, scusandomi in anticipo per un'esecuzione che sarebbe stata inevitabilmente mediocre; poi sedetti alla tastiera, tolsi la piccola fasciatura, sentii che il dolore era ad un tratto cessato, e scoprii che il dito era - miracolosamente, mi parve - guarito. Io credo, s'intende, in un sistema al di là della Natura.
(tratto da "Ricordi e commenti", Igor Stravinsky / Robert Craft
Adelphi, La collana dei casi, n.73, 2008)