Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, giugno 11, 2025

Rai-Programmazione brani... ci pensa il... computer

Il numero di volte che un brano viene trasmesso ogni settimana dalla RAI viene controllato adesso da un computer il cui terminale è direttamente collegato con Roma. I limiti e le possibilità del nuovo diretto controllo in una intervista con Pierluigi Tabasso, dirigente dell'ente radiotelevisivo.

Quando si parla di «computer» in campo musicale, viene naturale pensare alle ultimissime elaborazioni in musica contemporanea dove viene programmato a schede... un intero concerto, Ma qui si tratta invece di un tipo di controllo effettuato dalla Rai sul numero di volte che uno stesso brano viene trasmesso settimanalmente.
Il centro elettronico di controllo non è stato creato in questi giorni. è in funzione già da alcuni anni; la novità sta nel fatto che i dati elaborati vengono, in questi giorni, rigorosamente tenuti presente per la regolamentazione dei passaggi di ogni brano.
Ho chiesto ad un dirigente della Rai. Pierluigi Tabasso, capo del «Servizio dischi» da cui, tra l'altro, dipendono direttamente alcuni tra i più popolari programmi di musica come «Supersonic», «Folk-jockey», «Cararai» e «L'uomo della notte», in cosa consistessero le novità circa questi rigorosissimi controlli. Alcuni discografici parlano di pugno di ferro, di guerra al 45 giri, di eccessive limitazioni persino nelle visite dei discografici ai funzionari e programmatori (un programmatore dipendente dall'ufficio promozioni di una casa discografica non può accedere più di due volte la settimana nel palazzone di Viale Mazzini dove ha sede la Rai per proporre nuovi brani all'ascolto).
«In effetti - ha iniziato Tabasso - già da tempo, per distribuire equamente la programmazione dei vari dischi, consultavamo il centro elettronico, solo che, per conoscere i dati elaborati a Torino, dovevamo attenderne l'arrivo materiale, a mezzo posta. Ritardi postali. giorni festivi ecc. ci rendevano impossibile un tempestivo intervento per modificare scalette (successione di dischi da mandare in onda) dove un pezzo risultasse ultratrasmesso ed un altro meno di quanto fosse giusto. Perché, come saprai. i dischi in Rai sono scelti da programmatori, quasi tutti collaboratori esterni che,  non essendo in contatto tra loro, potrebbero al limite presentare in uno stesso giorno una scaletta con gli stessi dischi degli altri. creando cosi trasmissioni identiche tra loro e presentando uno stesso brano un numero eccessivo di volte.
Il controllo, che operiamo Zivelli ed io, si rende indispensabile, sia per questo motivo sia per evitare che qualche programmatore programmi qualche disco più del dovuto creando una situazione di privilegio di un disco, magari mediocre, nei confronti di un altro più meritevole. Per compiere meglio e con maggiore tempestività tale controllo abbiamo fatto installare a Roma un terminale del computer in maniera da avere a giro di ore in qualsiasi momento la situazione sotto controllo».
- Cosa intendi per provvedere? Cambiate a vostro giudizio le scalette dei programmatori sostituendo il brano - che «eccede» con uno meno programmato, a vostra scelta?
«Non lo facciamo arbitrariamente: invitiamo lo stesso programmatore a sostituire il brano in questione con uno che, sempre a suo avviso, abbia più o meno caratteristiche analoghe e che quindi non alteri la composizione ritmica della successione».
- Quanti «passaggi» al massimo, sono consentiti per ogni brano?
«Quattro».
- Al giorno?
«No. quattro la settimana; ma in qualche caso particolare possono essere portati a cinque».
- Ma non vi sembra troppo limitativo e non vi sembra di fare troppo «d'un erba un fascio»? Se capita un pezzo particolarmente buono, che finisca addirittura primo in classifica, che sia realmente gradito agli ascoltatori, voi dandogli un massimo di 5 passaggi settimanali non pensate di «bloccarlo» o comunque di andare contro il gusto del pubblico?
«In genere se un pezzo deve andar bene va bene lo stesso, comunque, anche se vi sono questi limiti, il provvedimento è essenzialmente mirante ad evitare gonfiature di pezzi "fasulli"; il discorso inverso a quello del brano decente che viene "limitato" è quello del brano inesistente, squalificato, ultracommerciale che viene gonfiato e che, tramite proprio il plagio quotidiano, riesce ad imporsi malgrado tutto. Noi pensiamo che questo sistema rappresenti realmente una garanzia per tutti: c'è più spazio per tutti, ora che non viene accaparrato in esclusiva da dieci o venti pezzi al giorno; oltretutto miriamo anche a presentare musica migliore, la vostra musica, ad esempio, che prima era alquanto sacrificata  da quella più commerciale».
- Culturalmente, quindi, il controllo più rigoroso dovrebbe risultare più vantaggioso; se fosse cosi ci sarebbe davvero, finalmente, da fare un elogio alla Rai. Ma c'è un altro problema, ed è quello che ogni casa discografica, anche quelle produttrici di dischi scadenti e squalificati, si affretterà a  sottoporre una gran massa di dischi assurdi, fidando sul turno dei quattro, cinque a settimana che spettano ad ogni  disco.
«Questo rischio viene annullato dal fatto che i nostri programmatori restano comunque e sempre arbitri della «scelta» e poiché si tratta di gente preparata, qualificata, senza dubbio eviterà i prodotti squalificati. Piuttosto, ora che la manna dei dischi ultraprogrammati è finita, può darsi che i discografici si decidano a produrre cose sempre migliori e  che affidino la vendita del prodotto alle sue qualità piuttosto che al numero di passaggi che in un modo o nell'altro cercano di ottenere».
- Venivano corrotti i programmatori? E' questo che vuoidire?
«Non sto assolutamente affermando questo, ma poteva essere carpita la buona fede di qualcuno. questo sì. In tutti i modi ora c'è il computer».
- E' il caso di dire che ora «la ...programmazione è uguale per tutti», grazie a mister cervellone. Noi ci auguriamo che questo maggior spazio che si è creato venga riempito con buona musica e non con altre canzonette che non attendono altro che di raggiungere il record di ben cinque passaggi a settimana.
Renato Marengo
("Ciao 2001", 28 Aprile 1974, N. 17, Anno VI)

martedì, giugno 03, 2025

Erik Satie secondo Alberto Savinio

Al nome di Erik Satie, si suole premettere la parola «ca
so». Si dice: il caso Erik Satie. Segno che in questo musicista è qualcosa di singolare. Infatti. Ma il caso Satie, meglio che dai musicologi, sarà risolto da uno psicologo. La condizione di Erik Satie è una condizione misteriosa e tragica. Frequente in tutte le attività umane, ma grave soprattutto nelle attività dell'arte, ossia nelle attività che implicano il miracolo della creazione. Condizione di colui che vuole ma non può. Se qualcuno fosse riuscito a far confessare a Erik Satie il suo segreto, egli avrebbe detto: «Voglio ma non posso». Ma questo segreto, un artista, un creatore, non lo confessa per nessuna ragione al mondo. Piuttosto morire. Perché questo segreto va di là dalle «confessate vergogne» di un Jean-Jacques Rousseau, queste furbesche civetterie. È un segreto «mortale». Il caso Satie è il caso di un uomo che voleva essere creatore di musica, ma non riuscendo a possedere i mezzi di una creazione musicale che lo soddisfacesse, si adoprò per reazione a distruggere la musica nella sua forma più vistosa. In altre parole, Erik Satie è un amante di Euterpe che, non corrisposto da lei, tenta di uccidere l'ingrata.
Ho delineato così i due aspetti di Erik Satie e diversissimi: dell'aspirante creatore, del distruttore. Sono dell'aspirante creatore le Sarabandes, il Socrate, ecc., del distruttore i Trois morceaux en forme de poire, le Pièces ƒroides, i Véritables Préludes flasques (pour un cbien), ecc.
Le qualità più schiettamente musicali di Erik Satie dovrebbero meglio apparire nella sua opera di aspirante creatore. E infatti così è. Ma questa opera è continuamente oppressa dal «voglio ma non posso». La musica «normale» di Satie ha il passo breve. È una musica prigioniera. Una musica in cella. Essa mi ricorda un particolare delle memorie di Kropotkin, in cui questo precursore della rivoluzione russa dice che, quando era prigioniero nella fortezza Pietro e Paolo di Pietroburgo, ogni giorno, per mesi e anni, a fine di neutralizzare gli effetti dell'inerzia corporale, durò a fare tanti passi avanti e indietro nella sua cella lunga cinque metri e larga tre, quanti ci vogliono a colmare una distanza di otto chilometri. Come abbia fatto Kropotkin a non uscire matto da quella marcia «schiacciata», io non so capire; penso tuttavia che non sfuggirebbe alla pazzia colui che ogni giorno continuasse a sognarsi le musiche «normali» di Erik Satie, nelle quali i suoni, ogni tre passi, sbattono sulle pareti di una ineffabile cella.
Nelle Sarabandes di Satie appare come il prefantasma di alcuni armonismi di Claude Debussy. Musica da dolce altalena. Non che le musiche di Debussy siano quanto a sé di piè veloce come il Pelide Achille, che anzi sono piuttosto come Ofelia annegata e soggette esse pure all'ondeggiare dell'acqua; ma le Sarabandes di Satie, per di più, segnano il passo, chiuse dentro un infrangibile cerchio, e più che tre sarabande diverse, sono le varianti di una medesima sarabanda. Musica povera e seduta. Modestamente seduta in una sedia di paglia.
Socrate è la musica più alta di Satie, più pura. E più monotona. Piú chilometricamente monotona. Ma qui la monotonia non è un involontario difetto: è un mezzo espressivo. È il fascino di questa musica. Bisogna entrare dentro questa monotonia, saturarsene e goderne. Musica che va avvicinata all'orecchio, come per una specie di miopia dell'udito. Come Toscanini avvicina orizzontale la pagina della partitura all'occhio, e rade la pagina con lo sguardo cortissimo. Musica per orecchie cinesi. Dicono che a un orecchio cinese, le nostre musiche anche più gravi sonano come altrettante marcette da circo. A sentire la musica del Socrate, è necessario fare mente locale. Quando mio figlio Ruggero aveva sette anni, lo vedevo piegare ad arco una cannuccia, tenderci su uno di quegli elastichini che i commessi di negozio girano intorno ai pacchetti, avvicinare il minuscolo apparecchio alla coclea, pizzicare la corda con l'indice, e al suono presso che impercettibile di quella microscopica nota sempre ripetuta, andare in visibilio. Resta a stabilire se mette conto ridursi alla condizione di un cinese o di un ragazzino di sette anni, per godere come si deve la musica del Socrate. Tanto più che la purezza di questa musica ha un che di «atteggiato», la sua tanta semplicità mette in sospetto di retorica rovesciata, e quanto al suo grecismo, esso è manifestamente maniera. Vero è che ai molto esercitati di grecità, la stessa grecità di Platone è sospetta. Un'avvertenza sullo spartito del Socrate segnala l'affinità tra la purezza di questa musica e la purezza del disegno di Ingres. Si vede che l'autore della nota confondeva Ingres con Puvis de Chavannes.
Tormentoso dramma dell'artista, cui il miracolo della creazione è negato. C'è analogia tra il miracolo della creazione e il funzionamento dell'accendisigaro. Talvolta, al primo colpo di pollice, la fiammella si leva su come un pennacchietto azzurro. Le piú volte però sprizzano scintille ma fiammella non appare. Talvolta ancora, e per quanto il pollice fatichi, la rotella rimane nera. In questo caso l'artista cerca supplire con «falsi miracoli».
Triste ripiego. Nelle opere di Satie, il falso miracolo è presente. Talvolta in forme cornpromettenti. Fino in quella dei mistagogismi ispirati dal «Sar» Péladan. Esperienza e saggezza d'arte mi dicono che bisogna diffidare dell'artista che, come per rafforzarsi, come per acquistar sostanza, si iscrive a un determinato partito mentale. Io diffido perciò dello scrittore «cattolico», dello scrittore «comunista», dello scrittore che risale alle sorgenti dell'indianismo in cerca della verità. A suo modo anche Satie andava in cerca della verità. E probabilmente credé trovarla nel Socrate. Perrché questa ricerca della verità, questa fede, questo religiosismo erano tanto più urgenti nell'animo di lui, in quanto più imperiosamente egli si sentiva sollecitato dal demone della distruzione. Che è il carattere più vivo di Satie, e quello per quale questo macero e sprovveduto musico ha speranza di rimanere nella storia della musica.
L'uomo, e soprattutto l'artista, riflette nelle sue opere l'immagine dell'universo così come egli lo pensa. Per tempo lunghissimo, gli uomini pensarono l'universo in quella forma che noi chiamiamo aristotelica. Le scoperte di Copernico e di Galilei mostrarono la falsità di quella immagine. Malgrado ciò, gli uomini continuarono, e moltissimi continuano tuttora, a pensare l'universo verticale e a piramide. Né le sole menti basse, ma anche menti alte e imbottite di cognizioni, come Benedetto Croce. È solo nell'ultimo terzo del secolo passato, a buona distanza dalle scoperte degli astronomi, che alcuni artisti cominciarono a perdere fiducia nella forma dell'antico universo e a lasciarsi dietro le spalle la sua immagine ormai inerte. È Baudelaire, è Cézanne; poi, col solito ritardo della musica, Erik Satie. Tutti francesi. Perché nella mente francese, è più che in nessun'altra mente il senso della rivoluzione, cioè a dire il senso dell'accordo tra fisico e metafisico, nei continui sviluppi di questa doppia condizione. E questo loro compito naturale, i Francesi non lo dovrebbero dimenticare. Oggi soprattutto, che in un immenso movimento di reazione, gli uomini, dalle forme politiche alle forme della speculazione filosofica, sono avviati, per paura, per vigliaccheria mentale, a ricostituire un nuovo mondo aristotelico, e tanto piú illegittimo e assurdo, in quanto non su la fede può oggi poggiare un simile mondo, ma su una consapevole e imposta falsità.
Si disse: decadenza delle arti, della forma, della bellezza, della costruttività; e non era invece se non la fine della imitazione di un universo morto.
Oggi si parla della disintegrazione della materia. Anche in questo le arti sono anticipatrici. Nell'ultimo terzo del secolo passato, alcuni artisti cominciarono a dare mano alla disintegrazione della materia poetica. Opera ingrata ma necessaria. Nulla segnala che quegli artisti operassero consapevolmente. Ma operarono, e tanto basta. In musica, l'opera di disintegrazione fu compiuta da Erik Satie. In quella parte della sua opera che apparentemente ha carattere burlesco, meccanico, marionettistico, ironistico. È Parade, sono i Pezzi piriformi, ecc. Aspetti che ingannano. Come ingannano le didascalie umoristicamente sforzate, l'abolizione delle battute e delle agraffe tra basso e acuto. Scherzi che non fanno ridere nessuno, ma necessari a nascondere l'amarezza di quelle musiche, la necessaria crudeltà del loro compito. Che Vincent d'Indy abbia scritto Fervaal, non ha importanza storica. Che Henri Rabaud, per rimanere tra i compaesani di Satie, abbia scritto Marouf savetier du Caire, non ha importanza storica. Sparendo, queste opere non lascerebbero buco. Importanza storica invece hanno le musiche «burlesche» di Erik Satie: queste musiche che solo gl'ingenui tengono per ironistiche. Le quali musiche amarissime perché cariche di destino, tristissime perché nascondono il sacrificio del loro autore, hanno salvato la musica da una solenne morte per pompierismo.
Alberto Savinio
(da "Scatola Sonora", Einaudi Letteratura 53, Einaudi 1977)

mercoledì, maggio 21, 2025

Philip Glass...

Philip Glass (Baltimora, 31 gennaio 1937)
Philip Glass, uno dei maggiori rappresentanti di quella particolare corrente di musica contemporanea, ha tenuto due indimenticabili concerti a Milano presentando la sua ultima, lunghissima composizione "Music In 12 parts", scritta per la nuova formazione: Jon Ginson, Dickie Landry, Ritch Peck ai fiati, Glass, La Barbara, Michael Riesman alle tastiere. La nostra intervista.

Dopo Roma, che negli ultimi anni é diventata una tappa d’obbligo per i rappresentanti di quella corrente particolare della musica contemporanea che rinnova la tradizione occidentale assimilando lo spirito dell'Oriente (Terry Riley, La Monte Young, Charlemagne Palestine ecc.), anche Milano ha avuto finalmente un primo assaggio di questa validissima "avanguardia". Sono state due serate indimenticabili, nel biancore quasi accecante di un grande salone della galleria d’arte di Salvatore Ala, durante le quali Philip Glass con il suo gruppo ha presentato due terzi della sua ultima, lunghissima composizione, "Music In 12 Parts".
I concerti erano gratuiti, ad invito (anche se in realtà chiunque risultava poi il benvenuto), ed il pubblico ovviamente ridotto numericamente ma in compenso straordinariamente eterogeneo. Meno d’un centinaio di persone, a sufficienza comunque per riempire completamente il salone, tra cui musicisti, critici, artisti, signore in pelliccia e giovanissimi appassionati in eskimo e jeans. Le due esibizioni di Glass hanno costituito in pratica l'inaugurazione di una serie di iniziative culturali, nell'ambito della galleria, che promettono di suscitare un sempre più vasto interesse (e la musica dovrebbe essere degnamente rappresentata anche in futuro). Nella prima serata ci sono state proposte le prime quattro parti della composizione, più un accenno alla quinta; nella seconda, il gruppo ha proseguito fino all'ottava parte. In tutto, più di tre ore di musica: musica viva, affascinante, sempre godibile, in cui la ricchezza di riferimenti culturali non scade mai ad arido intellettualismo, a sterile compiacimento. E viene spontaneo chiedersi perchè mai i soloni della musica "seria" si rifiutino di prendere in considerazione una corrente così vitale e già matura: forse perchè essa sfugge a regole che i grandi artisti e critici "contemporanei" ritengono valide per l'eternità?
"Music In 12 Parts" si basa, come precedenti opere di Glass, sul principio del "processo additivo", di derivazione orientale, che assume come suo fondamento la ripetizione di certi elementi variandone progressivamente la struttura ritmica e il rapporto armonico. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non ne risulta monotonia: la musica emana anzi un fascino particolarissimo sfruttando le minime sfumature e raggiunge il massimo della sua efficacia proprio nei passaggi di tonalità. da una parte alla seguente (sicché gli intervalli necessari per concedere un po' di riposo agli esecutori vengono fatti cadere verso la meta di una data parte. e non tra una parte e l'altra). Glass è un musicista che considera essenziale presentare la musica dal vivo (i dischi sono per lui un aspetto secondario della sua attività) e ovviamente le sue composizioni sono impostate secondo il criterio dell'esecuzione in concerto, con ampio spazio per variazioni o deviazioni magari impreviste, purché aderenti allo spirito dello spartito. “Music In 12 Parts" è stata scritta appositamente per il gruppo che l'ha eseguita a Milano e nella composizione non sono previste parti solistiche, neppure per l'autore: per tutta la durata del pezzo gli strumentisti lavorano contemporaneamente, e il diverso "colore" delle varie parti si affida all‘alternarsi della preminenza tra le due sezioni della formazione, i tre organi elettrici (Philip Glass, Joan La Barbara, Michael Riesman) e i tre fiati (Jon Gibson, Dickie Landry, Richard Peck). Sopra all'intricato tessuto ritmico fornito dai tre organi, i fiati tracciano svariati disegni, a seconda degli strumenti impiegati (Gibson usa flauto e sax soprano, Landry flauto, sax alto, soprano e tenore, Peck sax alto e tenore), mentre si inseriscono spesso, a duettare con essi, i delicati vocalizzi della La Barbara. L'effetto complessivo è dolcemente ipnotico, ma, come si è detto, mai monotono in quanto le differenze tra le varie parti, pur nell’unità dell'impostazione, sono chiaramente individuabili: per conto mio, ho trovato "sinfonica" la parte 3, "jazzistica" la 4, "romantica" la 6, "primitiva" la 8, ma sono consapevole che si tratta di impressioni personali e discutibili. Le riporto per far comprendere quanto la composizione sia varia, pur basandosi su una struttura costante.
Al termine della seconda serata, ho potuto incontrare Glass, che si e rivelato una persona gentilissima e ben disposta a discorrere della propria attività ed esperienza, senza alcun atteggiamento da “genio superiore". Poiché all’ingresso erano stati distribuiti dei volantini della Chatham Square, con l'elenco dei dischi realizzati da Philip e da membri del suo gruppo come Dickie Landry e Jon Gibson, ho iniziato la conversazione chiedendogli di spiegarmi di che etichetta si trattasse.
"E' un'etichetta indipendente, con sede a New York, che ho fondato io stesso tre anni fa, perché servisse da sbocco discografico per me e per i miei colleghi. Non avrei potuto trovare un compromesso con la mentalità delle grandi case discografiche, per le quali ciò che conta è soltanto il successo immediato. I miei dischi vendono regolarmente, in modo progressivamente sempre più cospicuo, nello spazio di anni. Ma le grandi Case ragionano in termini di mesi. Così mi sono messo per conto mio, mi sono legato ad un’organizzazione indipendente di distribuzione negli USA, e ho iniziato la nuova attività. Ora sto concludendo degli accordi per la distribuzione in Europa; fino a quando saranno definiti, continueremo ad accettare ordinazioni per corrispondenza. Una cosa è certa: la nostra musica diventerà, entro pochi anni, molto importante, ed è giusto che siano i musicisti stessi a gestire la produzione discografica".
Che genere di persone compongono il tuo pubblico?
"In media, giovani dai 20 ai 30 anni. Molti sono appassionati di rock, che hanno già sentito accenni di quel che facciamo noi in dischi di gruppi pop, come i Pink Floyd (strano che Philip non accenni a gente come Eno e Tangerine Dream; forse non li conosce - n.d.r.) e così sono già in parte preparati ad apprezzare la nostra musica. Per ora il nostro circuito abituale, negli Stati Uniti come in Europa, é stato quello delle gallerie d’arte, dei musei, delle associazioni culturali, ma ci stiamo organizzando per ampliare il discorso, usufruendo anche di altre possibilita".
Quali sono le più importanti influenze di cui risenti come compositore ed esecutore?
"Oh, sono tantissime, non saprei elencare neppure quelle veramente determinanti. Ti posso dire che ho studiato musica per vent'anni, in varie scuole, fino alla Julliard, ma tutto ciò che avevo imparato era la tradizione classica occidentale; a ventott'anni sono andato in vacanza nell'Africa Settentrionale e ho cominciato a scoprire che esistono tante altre musiche. Questo mi ha stimolato moltissimo. Ho conosciuto poi la cultura indiana e un po' alla volta queste influenze hanno cambiato il mio mudo di comporre, di concepire la musica".
Quali sono i musicisti cui ti senti più vicino?
"Conosco bene i miei coetanei, Steve Reich che fu mio compagno di scuola, La Monte Young ecc., e seguo con interesse il loro lavoro che si svolge in una direzione simile alla mia. Ma sono ben cosciente del fatto che ci sono oggi tantissimi musicisti molto giovani agli inizi e mi piacerebbe conoscerli meglio. Il punto fondamentale è che oggi è diventato facilissimo entrare in contatto con culture musicali diverse: viaggiare è cosa normale per i giovani, procurarsi dischi di folklore o di musica classica orientali o africani o, che so, polinesiani è ormai piuttosto semplice. Così questi nuovi musicisti possono partire con una base culturale più ampia atta a fornire nuove soluzioni e idee più avanzate".
Mi confermi che c'é una ragione precisa per far cadere gli intervalli verso la metà delle parti della tua composizione?
"Sì, è come dici tu: il cambiamento di tempo, di atmosfera è la cosa più importante. Per questo non possiamo smettere di suonare quando si passa da una parte all'altra: si perderebbero i momenti più significativi. Un‘altra cosa sarebbe presentare la composizione tutta di seguito; ma ciò avviene forzatamente solo in situazioni particolari. Eseguire "Music In 12 Parts" per intero richiede 5-6 ore di concerto. L'abbiamo fatto qualche volta, e abbiamo già in programma di riprovarci in giugno, a Parigi. Ma sono occasioni speciali. Nei concerti normali ricorro a questa divisione per non snaturare il senso della composizione".
"Music In 12 Parts" è il tuo ultimo lavoro?
“Si, le ultime parti, dalla 9 alla 12, sono state composte quest'anno. Ma è dal '71 che ci lavoro sopra. Alcune altre mie composizioni sono apparse su disco: "Music In Fifths" e "Music In Similar Motion", entrambe del 1969, e "Music With Changing Part" del 1970 che forma un album doppio. Altre ancora non le ho mai registrate: "Two Pages", "600 Lines" ecc.".
Suno stati, questi di Milano, gli unici due concerti italiani nell'ambito d'una breve tournée europea: Glass è immediatamente ripartito per Parigi, da cui avrebbe poi proseguito per New York. Ma ho l'impressione che lo rivedremo presto in Italia: l'interesse dimostrato per la sua musica prima dal pubblico romano ed ora da quello milanese sembra essergli stato molto gradito. "Sì, forse ci rivedremo in primavera"», s'è lasciato scappare prima di accomiatarsi.
Daniele Caroli
("Ciao 2001", 15 Dicembre 1974, N. 50, Anno VI)

sabato, maggio 10, 2025

Variazioni Goldberg: Spazio aperto...

Guerrero, Citterio, Robinson, Maraldi e Watanabe: cinque interpreti doc uniti in un'avventura che regala nuova vita alle Variazioni più famose della storia della musica.

Opera nata come prontuario tecnico per clavicembalo irto di sperimentazioni ma, al tempo stesso, fecondo di soluzioni strutturali così intimamente sperimentali da riuscire ancora oggi a proporsi come ambito di confronto per differenti tipologie strumentali, le Variazioni Goldberg conservano un fascino conturbante capace di distinguerle da ogni altra composizione di Johann Sebastian Bach. Il violoncellista Jorge Alberto Guerrero - colombiano di Cali ma lombardo dai tempi del diploma - ci racconta il Progetto Goldberg, un'inedita trascrizione per due violini, viola, violoncello e clavicembalo. Al suo fianco Elisa Citterio, Nicholas Robinson, Gianni Maraldi e Takashi Watanabe, volti e nomi già noti a chi frequenta le avventure musicali di compagini come il Giardino Armonico, l'Accademia Bizantina, il Ghislieri Choir & Consort, o l'Estravagante.

La pratica della trascrizione, come riduzione di organici o come ausilio didattico, ha una lunga storia. Interessante soprattutto quando diventa stimolo per un nuovo obiettivo artistico. Come sono nate queste Goldberg?
«La genesi è stata casuale. Un paio d'anni fa Gianni Maraldi ci propose questo progetto. Iniziammo a studiarle rendendoci conto che avremmo dovuto intervenire molto sulle trascrizioni da lui procurate per trovare soluzioni più consone al nostro organico. Abbiamo quindi cambiato distribuzione delle parti, tempi, colori e articolazioni, anche durante la registrazione, cercando di far convivere la profondità dello studio con la massima spontaneità individuale. Elisa per prima ne ha trascritte alcune, ma la parte più bella del lavoro è stata quando, suonandole insieme, abbiamo cominciato a dar loro la nostra forma. L'esperienza strumentale di ciascuno di noi ha infatti permesso di trovare insieme nuove soluzioni. Di fronte a una trascrizione infatti occorre darsi delle regole e modificare le cose sulla base del fatto che il tutto deve suonare bene con l'organico a disposizione, pur seguendo nuove logiche. In questi ultimi anni ho recuperato più di 150 versioni discografiche per clavicembalo, pianoforte, trio d`archi (Sitkovetskij), orchestra da camera (Labadie) e quella jazz di Jacques Loussier. Questo mi ha motivato a portare avanti una proposta di registrazione con un nuovo organico, cosa che si è potuta realizzare grazie all'ospitalità, l'interessamento e il sostegno del Collegio Ghislieri di Pavia, senza il quale tutto questo non sarebbe stato possibile».
Un gruppo, il vostro, nato attorno a questo specifico progetto.
«Sì, anche se ci conosciamo da tanti anni. Nicholas ed Elisa sono considerati tra i migliori interpreti di musica antica in Italia ed è una fortuna averli insieme a noi, Gianni brillantemente ha pensato questa alchimia e io ho proposto Takashi, che ha inciso ultimamente una meravigliosa versione per cembalo  solo. Quale occasione migliore che avere con noi un cembalista che conosce l'opera a fondo ed entra a far parte di un progetto in cui le Goldberg diventano qualcosa d'altro?».
Questa interpretazione svela una dialettica interna molto densa. Vengono in mente, tra le altre cose, i Brandeburghesi e tutto quello che in maniera trasfigurata viene dalla musica popolare.
«Sì, vengono fuori tante cose. C'è chi considera Bach solo intelletto e spiritualità, ma io credo che ci sia molto di più, ossia tutte le passioni dell'animo umano. Nel nostro interpretare c'è spazio per tutto questo. Il fine ultimo non è solo il contrappunto, perché basta anche un intervallo a muovere l'animo in una certa direzione. Quando abbiamo iniziato a registrare ci siamo detti: “lasciamo che questa musica parli da sola”. Può essere ovviamente un rischio, ma il discorso deve avere una sua coerenza. È per questo che ho analizzato tutte le Variazioni, riguardato tutti gli organici e pensato alla struttura generale. Per esempio, dopo l'Adagio centrale, che riapre tutto come se fosse il secondo atto di un'opera, il disegno diventa più pressante. Tutto questo deve essere pensato, perché così si dimostra di aver compreso la composizione».
Mi ero appuntato la VII Variazione in forma di giga, qui per violino e violoncello. Sembra una scelta perfetta per rappresentare l'origine della danza.
«Mi piace questa osservazione. Sulla prima edizione a stampa Bach scrisse a mano Giga, perchè deve averla sentita suonare come una Siciliana, cioè con un tempo più lento. Mentre la sua è una Giga puntata, ovvero più nello stile inglese o francese. Per intuito noi abbiamo sentito un sapore più popolare. A Nicholas, per esempio, venivano in mente i marinai inglesi».
In generale il procedimento di espansione verso il quartetto pone la questione di come trattare la parte residuale del clavicembalo che diventa una sorta di basso continuo. È corretto?
«Ogni movimento ha posto delle questioni. In un paio di Variazioni in cui la melodia della mano destra della tastiera è molto spiccata, l'abbiamo resa con violino e cembalo, avendo in mente le Sonate per violino e cembalo obbligato. Quindi la tastiera realizza tutto quello che c'è già, mentre il violino esegue la parte della mano destra. Poi però nel ritornello rientrano violoncello e viola, e diventa tutta un'altra cosa. In un'altra Variazione i violini suonano all'unisono come se fosse un Brandeburghese e il trattamento diventa più orchestrale. In quelle per solo quartetto d'archi la parte viene passata da uno strumento all'altro per richiamare quel gioco tecnico degli incroci nell'alternanza delle mani. Qui abbiamo trasferito un certo tipo di difficoltà tastieristica nella difficoltà del linguaggio del quartetto».
Quello che perde più presenza è il clavicembalo.
«Sì, nella nostra versione non suona sempre, perché in certi casi il contrappunto è talmente fitto, come nella Terza per due violini e violoncello, da non lasciare spazio ad altri strumenti. Nel tema, il clavicembalo comincia la prima parte con un tasto solo e nel primo ritornello mette armonie e contrappunti, arricchendolo in una maniera ancora più barocca di quello che è. In certi momenti invece è completamente ritmico come una batteria rock, in altri più discreto».
Non sembra casuale che questo tipo di sperimentazioni si leghi più alle Goldberg rispetto a opere come l'Arte della Fuga, un terreno appositamente pensato per muovere una ricerca.
«Nell'Arte della Fuga Bach dimostra cosa si può fare con il contrappunto. Scrive canoni, fughe doppie e triple, per aumentazione e diminuzione, moto contrario, a soggetti incrociati, fino alla fuga a tre. Nelle Goldberg invece esplora le potenzialità dello strumento. L'interpretazione che a me convince di più sulla genesi dell'opera è quella di Peter Williams (Bach: The Goldberg Variations, Cambridge Music Handbooks, n.d.r.) il quale sostiene che Bach avrebbe dato al figlio Wilhelm Friedemann i primi tre volumi dei Klavierübung e teoricamente le Goldberg sarebbero state il quarto. La storia del principe che dorme non c'entrerebbe nulla. In realtà le avrebbe donate al figlio per consentirgli di presentarsi ai principi con qualcosa di grande impatto. È un po' come dire: “figlio mio, ti do questo, così trovi lavoro”. E le Goldberg sono perfette perché hanno contrappunto, cantabilità, ritmica, sfoggio tecnico. Ma se prendi le fughette o le ouvertures alla francese, ti accorgi che è musica pura anche se la fai con i sassofoni o con il computer. Il tema poi è davvero sorprendente perché non è quello che si sente alla mano destra, bensì al basso, su cui vengono costruite tutte le variazioni. È come se fosse una Passacaglia di fine Seicento, i cui trattamenti successivi portano a fine Ottocento fin quasi all'inizio del Novecento. Si va dalle Sonate di Corelli a qualcosa che sembra lo scherzo di un Quartetto di Sostakovic o addirittura Bartók».
Non si può non pensare a Glenn Gould. Cosa ne pensa delle sue celebri interpretazioni?
«Le Variazioni di Gould sono stratosferiche. In tutti noi hanno lasciato un segno, dato che difficilmente uno ascolta le Goldberg nella versione di Wanda Landowska».
Michele Coralli
("Amadeus", Anno XXVIII, Numero 5 (318), Maggio 2016)