Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, gennaio 01, 2025

Ravel: il sublime orologiaio

Maurice Ravel (1875-1937)
Tutte le opere del compositore si presentano in una perfezione formale che non tradisce mai alcuna incertezza, né palese divario tra le intenzioni di una lucida intelligenza e le invenzioni di una fantasia sempre vibrante e inquieta. La scrittura musicale precisa, con minuzie da orologiaio e nostalgie di «ordine» perduto, una «clarté» francese.

Se non fosse stato per Pierre Boulez, che con i suoi saggi illuminanti ha posto in modo polemicamente drastico il problema di una sorta di profetica primogenitura di Claude Debussy nella definizione di alcune caratteristiche della musica del Novecento più autenticamente «moderna», sarebbero ancora molti, fra i musicisti oggi più anziani e fra gli studiosi, quelli che continuerebbero a sentirsi appagati dalla contrapposizione un tempo di moda fra la Scuola di Vienna, con particolare riferimento ad Arnold Schoenberg, e la creatività di Maurice Ravel. Del resto si sa che lo stesso Ravel, che a giudicare dalle testimonianze di chi poté essergli vicino, era tutt`altro che un uomo modesto e remissivo, quando gli era stato chiesto chi fossero a suo avviso i più grandi musicisti del tempo pare che avesse risposto: «Moi et Schoenberg». E di fatto individuava così due poli, diventati in seguito paradigmatici, della civiltà musicale del Novecento, da un lato con le tradizioni mitteleuropee che avevano trovato a Vienna un centro di coagulo sotto l'ala di Schoenberg, ultimo figlio del più disperato individualismo romantico, e dall'altro quello di una Parigi orgogliosamente cosmopolita, dove da tempo giungevano come a una Mecca musicisti di tutto il mondo, che nel Novecento sono il giovane George Gershwin, già celebre negli Stati Uniti, i russi Igor Stravinskij e Sergej Prokofiev e lo spagnolo Manuel de Falla.
Ma il trapianto a Parigi del ragazzo Ravel - la sua famiglia veniva dalla «provincia» di Ciboure, nei Bassi Pirenei, a cavallo con le terre spagnole - era stato meno traumatico di quello che coinvolgerà questi suoi colleghi famosi, perché Maurice, pur conservando sempre qualcosa delle durezze montanare della sua terra d'origine, era di fatto un parigino, perché a Parigi era giunto in fasce, l`anno stesso della sua nascita (7 marzo 1875): al Conservatoire era entrato all'età di nove anni come allievo di pianoforte, poi aveva avuto maestri di armonia, contrappunto e composizione francesissimi come Gédalge e Fauré, per cui avrebbe potuto anche lui ostentare a pieno titolo, non meno di Debussy, l`etichetta di «musicien français» soprattutto per quella «clarté» che sembra essere quasi una mania perfino nelle sue composizioni giovanili. C'è però una sorta di parallelo facilmente verificabile proprio fra gli «opposti» di uno Schoenberg tormentosamente sistematico, quindi incline alla mistica del «numero» e delle sue simbologie profetiche, e la precisione della scrittura di un Ravel, con minuzie da orologiaio e nostalgie di un «ordine» perduto (l'amore per i clavicembalisti francesi del Sei-Settecento, il gusto dei timbri perfettamente differenziati, le idee «chiare e distinte» nella formazione del fraseggio eccetera), pur sentendo il fascino, da pianista, del virtuosismo di Liszt, più ancora che di quello di Chopin, e d'altra parte riconducendolo alle dimensioni di una vera e propria oreficeria sonora, magari anche destinata a cicli di notevoli estensioni e di sublime pazienza decorativa, ma senza farsi prendere dal tumulto enfatico delle passioni.
In fondo, di questo nostro Novecento che a momenti sembra tutto da riscoprire (e da riscrivere, ora più che mai  col secolo che tramonta), questi due poli rappresentati da Schoenberg e da Ravel corrispondevano, prima dell'articolo «iconoclasta» di Boulez per la morte del caposcuola viennese, a uno schema critico che ha appagato intere generazioni: quelle, per esempio, che avvertivano in Debussy e nel suo «impressionismo», specialmente partendo dalle atmosfere di Pelléas et Mélisande, ancora una sorta di trasposizione del misticismo sonoro dell'ultimo Wagner, quindi il lascito estremo e la coda di un tramontante romanticismo (senza più eroi ma anche senza alcuna carica eversiva e di «avanguardia»), piuttosto che lo scopritore rivoluzionario di una musica davvero «nuova» e inaudita, non più considerabile come un «discorso» legato al tempo e alla memoria, ma arditamente proiettata fuori della propria natura storica e addirittura collocabile nello spazio. Né è certo casuale, per esempio, che un musicista come Luigi Dallapiccola, a Schoenberg legato da una profonda devozione morale, e non soltanto per la suggestione che il caposcuola viennese aveva suscitato in lui con le sue opere e i suoi scritti (che andavano incontro a quelle esigenze di rigore etico dalle quali traeva nuovi impulsi, fin dagli esordi, la creatività del maestro istriano), rispecchi profondamente nel suo «modus componendi», e ovviamente soprattutto nelle opere più esplicitamente destinate alla poesia degli strumenti, la lezione di Ravel, che più del linguaggio debussiano gli dava la possibilità di riplasmare in una personale rielaborazione i suggerimenti linguistici e la nuova disciplina di Schoenberg.
In questa possibilità di accostamento di Ravel al caposcuola viennese c'è quanto basta, insomma, per capire come fosse possibile l'idea che il maestro francese fosse in sostanza più «moderno» di Debussy, che era nato tredici anni prima di lui ed era morto nel 1918, senza fare in tempo a portare un contributo determinante (pur anticipandone il clima nei suoi ultimi capolavori di musica da camera) alla stagione del neoclassicismo fra le due guerre, dove invece Ravel sembra muoversi con assoluta sicurezza e con l'originalità di un grande e indiscusso protagonista, distinguendosi ormai nettamente dagli influssi dell`impressionismo di Debussy. E tutto questo accadeva nel momento in cui erano ancora in molti, nel mondo della musica (e non soltanto fra i dichiarati «conservatori», ma anche fra musicisti  non sospetti come lo stesso Stravinskij, e come Bartók e Hindemith), ad avvertire proprio nelle opere dello Schoenberg della maturità il peso e il pericolo di un'intenzionalità teoretica nella quale sembrava talvolta emergere il contrasto fra la sua poetica e i concreti risultati artistici di essa, non di rado faticosi e oscuri.
Al contrario, quel che colpiva in Ravel (anche negli ambienti culturali che non si mostravano inclini a far della Scuola di Vienna l'unico crocevia della musica del Novecento) era la sua infallibilità di prodigioso artigiano dei suoni, che sembrava avergli assegnato un destino quanto mai singolare, anche a paragone dei grandi nomi della storia della musica, nelle cui opere è pur sempre possibile distinguere i capolavori indiscussi dalla produzione «minore».
Perché con Ravel, quale che sia il giudizio che si voglia oggi dare sulla sua incidenza storica nella musica del XX secolo, sembra pressoché impossibile catalogare qualcuna delle sue composizioni fra le «opere minori», ognuna di esse presentandosi in una perfezione formale che non tradisce mai alcuna incertezza, né palese divario fra le intenzioni di una lucida intelligenza e i risultati musicali di una fantasia sempre sottilmente vibrante e inquieta, anche quando i modelli di partenza possono essere di volta in volta chiaramente individuati: nelle memorie di un passato «classico», nelle suggestioni armoniche di Debussy, nel chiarore del virtuosismo di origine lisztiana e nelle suggestioni di un esotismo (quello del jazz, per esempio) che quasi non fa in tempo a proporsi, subito riplasmato com'è dall`orgogliosa consapevolezza di poter tutto tradurre nella luce di una «clarté» tipicamente francese. (Basti pensare al Blues della Sonata per violino e pianoforte del 1927).
Ogni opera di Ravel, dunque, anche quelle che sembrano orientate verso una sorta di castità espressiva, del tutto lontana da possibili filiazioni di tipo romantico, appare sempre nel segno della «bravura»: il che rende senz'altro sorprendente e  curiosa la circostanza che proprio questa caratteristica costante della sua musica, già ravvisabile nelle sue opere giovanili, sia sfuggita alle giurie del «Prix de Rome» che lo respinsero per ben cinque volte. E sono gli anni in cui nascono la prima versione per pianoforte della Pavane pour une infante défunte, i cinque pezzi di Miroirs e il Quartetto in fa maggiore, cioè alcuni dei suoi primi capolavori, oggi entrati a far parte del repertorio corrente, ma al loro apparire accolti invece da diffidenze e resistenze clamorose, tanto da far nascere un «affaire Ravel» che vide in prima linea, fra i difensori del giovane maestro, Romain Rolland.
Si trattava senza dubbio di opere in cui è ravvisabile l'influsso di Debussy, evidente soprattutto nel Quartetto del 1904, che potrebbe essere quasi considerato una sorta  di intenzionale ricalco (per la distribuzione dei tempi, per le scelte della timbrica strumentale e per la qualità delle armonie) del grande modello debussyano. Ma già in questo riferimento così esplicito alla musica di «altri» si avvertono i germi di un'attitudine tipica della fantasia e del virtuosismo compositivo di Ravel: cioè del Ravel «trascrittore» delle proprie opere e tessitore instancabile di trasformazioni di «oggetti sonori» altrui. Perchè la sua diversità e il suo progressivo differenziarsi da Debussy stanno proprio in un atteggiamento che lo porta a una sorta di lucidissimo distacco espressivo: non ci sono abbandoni visionari in lui, non inclinazione alla poesia di immagini indistinte e di sogno, non effusioni sentimentali esplicite, ma piuttosto una sorta di scommessa per render di volta in volta più «perfette» - senza lasciarsi fuorviare da particolari compiacimenti di tipo melodico, e ogni volta puntando piuttosto a portare ogni modulo alle sue estreme conseguenze di metamorfosi - le opere musicali a cui si applica, sue e di altri.
Il tutto, però, senza mai contraddire i motivi di fondo della civiltà francese, nella quale la sensibilità visiva e quella letteraria hanno da sempre (anche nelle opere musicali più «pure» della tradizione clavicembalistica) un peso determinante in una sorta di inseminazione delle opere musicali, che derivano dalle immagini pittoriche e dai suggerimenti della letteratura quasi come ultimo approdo di un processo di «trascrizione», quindi di «perfezionamento» sensibile. Per questo c'è un intreccio continuo fra i capolavori della suprema maestria «sinfonica» di Ravel e le loro radici letterarie e visive, da Ma mère l'oye, il balletto che nasce dalla versione orchestrale dell`omonima suite pianistica (con l`aggiunta del Preludio, della Danze du rouet e di quattro interludi) alla «symphonie choréografique» di Daphnis et Chloé, che fiorisce in teatro ma si trasforma in due suites per orchestra (1909-1912) di fascino irresistibile, dalla Pavane pour une infante défunte, che dal pianoforte si impreziosisce nel suono dell'orchestra ricreando suggestioni visive, ad Alborada del gracioso, che è la trascrizione del quarto dei Miroirs per pianoforte. E lo stesso accade per le Valses nobles et sentimentales pianistiche del 1911, rese ancor più «perfette» nel suono dell'orchestra, e per Le tombeau de Couperin, un ciclo nato sulla tastiera del pianoforte fra il 1914 e il 1917, e poco dopo trasformato, con quattro dei suoi pezzi, in una suite orchestrale. Senza contare le varie versioni sonore che Ravel cura di altri due lavori come il secondo «poème choréografique» La Valse e Boléro; del primo nascono contemporaneamente, una versione per pianoforte solo e una per due pianoforti, e del secondo una trascrizione per pianoforte a quattro mani e per due pianoforti a quattro mani, quasi che Ravel si applicasse a un lavoro maniacale di pulimentazione dei suoi stessi «oggetti sonori». E ci sono poi i grandi capitoli costituiti dalle composizioni per voce e pianoforte (non poche delle quali trascritte anch'esse per voce e orchestra o piccolo complesso da camera, come le stupende Chansons madécasses) e quelle per strumento solista e orchestra, dove il pianoforte è protagonista indiscusso, e capace di un'originalita di linguaggio che certo non ha l'eguale nella Tzigane (anche questa frutto di una trascrizione dal pezzo omonimo per violino e pianoforte), pur tanto piacevole nella perfetta definizione della «natura» del linguaggio violinistico e nella favolosa raffinatezza della partitura. Perché se il grande artigianato di Ravel fa sì che non ci sia un «passo» sbagliato nella musica di un qualsiasi strumento da lui usato (per quel che riguarda il violino gli furono utilissimi i suggerimenti dell'amica Jelly d`Aranyi, dedicataria di Tzigane), certo è che il pianoforte resta sempre il primo arnese di cui si serve per applicarsi al proprio lavoro di sublime orologiaio dei suoni, come dimostrano due capolavori come il Concerto in re per la mano sinistra, che gareggia in arditezze armoniche e timbriche con la Scuola di Vienna (come del resto la sua audace ed enigmatica Sonata per violino e violoncello del 1922), e il Concerto in soldove la voce dello strumento solista è incastonata in una trama più che mai preziosa, e così raffinata da «trascrivere» (ancora una volta) in un purissimo eloquio francese anche le sollecitazioni lontane del jazz americano.
Non è un caso, comunque, che nell'intrecciarsi di «trascrizioni» che caratterizzano l`operosità di Ravel ci sia un documento supremo, che è quasi il suo monumento, quindici anni prima della sua morte (1937): sono quei Tableaux d'une exposition, nati anch'essi da un pianoforte (dal pianoforte «barbaro», da pulimentare, di Musorgskij), che diventano così un autentico autoritratto: dove tutto sembra ricomporsi, passato e presente, Oriente e Occidente, ma nella certezza incontaminata di una bravura sentita ormai come un`ultima salvezza.
Leonardo Pinzauti
("Amadeus", Anno VI, Numero 2 (51), Febbraio 1994)

domenica, dicembre 22, 2024

Concerti 2024


Domenica, 14 gennaio 2024
Bologna, Auditorium Manzoni, ore 17,30
Anton Bruckner 
Sinfonia n. 5 in Si bemolle maggiore, WAB 105 (Cahis 7)
Orchestra del Teatro Comunale di Bologna
Direzione: Oksana Lyniv

Domenica, 4 febbraio 2024
Bologna, Auditorium Manzoni, ore 17,30
Gustav Mahler
Sinfonia n. 2 in Do minore "Resurrezione"
Julia Grüter, soprano
Monika Bohinec: mezzosoprano
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Gea Garatti Ansini, maestro del coro
Direzione: Oksana Lyniv

Domenica, 11 febbraio 2024
Carpi, Teatro Comunale, ore 17,00
Folias & Canarios - Dall'antico al Nuovo Mondo
- Diego Ortiz: Recercadas sobra Tenores
- Anonimo (Euskal Herria): Aurtxo Txikia Negarrez
- Anonimo (Catalogna): El Testament d'Amèlia / La Filadora
- Gaspar Sanz: Jacaras & Chansons
- Pedro Guerrero: Moresca
- Anonimo: Greensleeves to a Ground
- Tradizionale di Tixtla: Improvvisazione Guaracha
- Antonio Martin y Col: Diferencias sobre las Folias
- Santiago de Murcia: Fandango (Arpa & Chitarra)
- The Lancashire Pipes: A Pointe or Preludium / The Lancashire Pipes / The Pigges of Rumsey / Kate of Bardie - A Toy
- Francisco Correa de Arauxo: Glosas sobre "Todo el mundo en general"
- Anonimo: Improvvisazione Canarios
- Antonio Valente: Improvvisazione  Gallarda napolitana / Jarabe loco
HESPERION XXI
- Xavier Diaz-Latorre, chitarra
- Andrew Lawrence-King, arpa barocca spagnola
- David Nayorai, percussioni
- Jordi Savall, viola da gamba e direzione

Domenica, 3 marzo 2024
Modena, Hangar Rosso Tiepido, ore 17,00
Edvard Grieg
- Prima Suite del "Peer Gynt" Op. 46 (1888) - Versione per pianoforte a 4 mani dell'autore
Gustav Mahler
Sinfonia n. 7 in Mi minore (1904-06) - Trascrizione di A. Casella per pianoforte a 4 mani
Alberto Miodini & Pierpaolo Maurizzi: pianoforte
Concerto organizzato dagli AMICI DELLA MUSICA DI MODENA MARIO PEDRAZZI

Sabato, 6 aprile 2024
Carpi, Teatro Comunale, ore 20,30
Johann Sebastian Bach
Passio Secundum Joannem
(nel trecentesimo della prima esecuzione: Lipsia, 7 Aprile 1724)
Sergio Foresti, Jesus
Carlo Putelli, Evangelista
Lucia Casagrande Raffi, soprano
Lucia Napoli, mezzosoprano
Roberto Manuel Zangari, tenore
Federico Benetti, basso
ACCADEMIA HERMANS
CORO DA CAMERA CANTICUM NOVUM
Fabio Ciofini, direttore

Giovedì, 18 aprile 2024
Modena, Teatro Comunale, ore 20,30
Wolfgang Amadeus Mozart
Concerto per pianoforte e orchestra n. 9 in mi bemolle maggiore, K. 277 "Jeunehomme"
Anton Bruckner
- Sinfonia n. 3 in re minore "Wagner-Symphonie"
STUTTGART PHILHARMONIC ORCHESTRA
Nareh Arghamanyan, pianoforte
Jan Willem de Vrienddirettore

Sabato, 20 aprile 2024
Modena, Hangar Rosso Tiepido, ore 20,30
Thomas. Adès (1971) - 
Court Studies from "The Tempest"
Mark-Anthony Turnage (1960) - Five Processionals
Giorgio Colombo Taccani (1961) - Acquaforte (nuova versione, prima esecuzione assoluta)
Franco Donatoni (1927-2000) - Ciglio 3, per violino e pianoforte
Carlo Boccadoro (1963) - Le Sette Stelle (esecuzione di 5 delle 7)
SENTIERI SELVAGGI
- Mirco Ghirardini, clarinetto
- Piercarlo Sacco, violino
- Aya Shimura, violoncello
- Andrea Rebaudengo, pianoforte

Mercoledì, 29 maggio 2024
Cremona, Chiesa di San Marcellino, ore 21,00
Claudio Monteverdi - Vespro della Beata Vergine
Sanctissimae Virgini missa senis vocibus ad ecclesiarum choros ac vespere pluribus decantandae cum nonnullis sacris concentibus ad sacella sive principum cubicula accomodata opera a Claudio Monteverde nuper effecta av beatiss. Paulo V pont. max. consecrata, Venezia 1610
Direzione: Ottavio Dantone
ACCADEMIA BIZANTINA - CORO GHISLIERI

Giovedì, 13 giugno 2024
Bologna, Auditorium Manzoni, ore 20,00
Richard Wagner
Das Rheingold - (L'oro del Reno)
(esecuzione in forma di concerto)
Thomas Johannes Mayer, Wotan | Liviu Holender, Donner | Wolfgang Ablinger-Sperrhacker, Loge
Claudio Otelli, Alberich | Cornel Frey, Mime | Sorin Coliban, Fasolt | Wilhelm Schwinghammer, Fafner
Atala Schöck, Frika | Sonija Saric, Freia | Paolo Antognetti, Froh | Bernadett Fodor, Erda
Yuliya Tkachenko, Woglinde | Marina Ogii, Wellgunde | Egle Wyss, Flosshilde
ORCHESTRA DEL TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA
Oksana Lynivdirettrice

Domenica, 15 settembre 2024
Gualtieri (Reggio Emilia), Teatro Sociale, ore 17,00
Philip Glass (1937) - 
Five Metmorphosis
Ezio Bosso (1971-2020) - Diversion, Street Kisses (per violino, violoncello e pianoforte)
Carlo Boccadoro (1963) - Dopo (per flauto basso)
Steve Reich (1936) - Clapping Music (per battito di mani)
Gavin Bryars (1943) - Non la conobbe il mondo quando l'ebbe
Ludovico Einaudi (1955) - The Apple Tree
SENTIERI SELVAGGI
- Paola Fre, flauti
- Martina Di Falco, clarinetti
- Andrea Rebaudengo, pianoforte
- Andrea Dulbecco, vibrafono e percussioni
- Piercarlo Sacco, violino
- Aya Shimura, violoncello

Giovedì, 19 settembre 2024
Bologna, Auditorium Manzoni, ore 20,30
Gustav Mahler
Lieder per voce e orchestra da "Des Knaben Wunderhorn"
Anton Bruckner
Sinfonia n. 7 in mi maggiore, WAB 107 (Cahis 13)
ORCHESTRA DEL TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA
Ian Bostridgetenore
Martijn Dendieveldirettore

Sabato, 21 settembre 2024
Sabbioneta (Mantova), Teatro all'Antica, ore 21,00
Gustav Mahler
Das Lied von der Erde
(versione cameristica di Arnold Schönberg e Rainer Riehn)
ENSEMBLE STRUMENTALE DEI CONSERVATORI "PEDROLLO" DI VICENZA E "CAMPIANI" DI MANTOVA
Laura Polverellimezzosoprano
Joseph Dahdah, tenore
Marco Tezzadirettore

Sabato, 19 ottobre 2024
Bologna, Auditorium Manzoni, ore 18,00
Richard Wagner
Die Walküre - (La Valchiria)
(esecuzione in forma di concerto)
Stuart Skelton, Siegmund | Albert Pesendorfer, Hunding | Thomas Johannes Mayer, Wotan
Sonja Saric, Sieglinde | Ewa Vesin, Brünnhilde | Atala Schöck, Fricka | Yuliya Tkachenko, Gerhilde
Lisa Wittig, Ortlinde | Egle Wyss, Waltraute | Maria Cristina Bellantuono, Schwertleite
Chantal Santon, Helmvige | Eleonora Filipponi, Siegrune | Marina Ogii, Grimgerde
Federica Giansanti, Rossweisse
ORCHESTRA DEL TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA
Oksana Lynivdirettrice

Mercoledì, 6 novembre 2024
Bologna, Sala Prof. Marco Biagi (Via Santo Stefano, 119), ore 20,30
Wolfgang Amadeus Mozart
Quartetto in sol minore KV 478 (1785) per pianoforte, violino, viola e pianoforte
Franz Schubert
- Quintetto in la maggiore "La Trota" D.667 (1819)
ENSEMBLE
Pierpaolo Maurizzipianoforte
Emma Parmigianiviolino
Olga Arzilliviola
Lorenza Baldo, violoncello
Nicolò Zorzi, contrabbasso

Venerdì, 20 dicembre 2024
Pavia, Teatro Fraschini, ore 20,00
Wolfgang Amadeus Mozart
Così fan  tutte, ossia la scuola degli amanti
Katarina Radovanovic, Fiordiligi
Mara Gaudenzi, Dorabella
Davide Peroni, Guglielmo
Cristin Arsenova, Despina
Pietro Adaini, Ferrando
Matteo Torcaso, Don Alfonso
Regia: Mario Martone
Ripresa da: Raffaele Di Florio
CORO OPERALOMBARDIA
ORCHESTRA I POMERIGGI MUSICALI
Jacopo BRUSA, direttore
(sostituto di Federico Maria Sardelli impossibilitato)




mercoledì, dicembre 11, 2024

Punti di vista sulla chitarra

Abbiamo chiesto ad alcuni musici­sti, compositori, interpreti, critici e musicologi, tutti non chitarristi, di darci un parere sulla chitarra. Ci sembra interessante riportare, integralmente o parzialmente, le loro risposte, che aiuteranno a com­prendere con maggior obiettività quale collocazione possa avere questo strumento nella vita musi­cale d'oggi.

Franco Donatoni - Avere scritto due pezzi per chi­tarra sola non significa certamente avere qualcosa da dire intorno alla chitarra; significa, tutt'al più, avere la possibilità di testimonia­re la granitica resistenza, l'asperi­tà impervia che lo strumento op­pone all'ideazione quando l'ideatore non sia provvisto di una fisiologia chitarristica che lo assi­sta sin dalla punta delle falangi. Non si tratta di frustrazione, ma di inadeguatezza: il pensiero chie­de alle dita il consenso, ma spes­so le dita ostacolano il pensiero. Non che si voglia chiedere al chi­tarrista d'esser compositore, si vorrebbe invece che il compositore chitarristico fosse chitarrista: proprio per non esser costretto ad adorare la digitalità ma, piuttosto, utilizzarla in amicizia col pensiero. Non posso dire che questo avvenga facilmente, basti che la simpatia desti, se non una improbabile amicizia improvvisata, la propensione a rendere arrendevole l'ideazione e disponibi­le il pensiero a modalità di com­portamento inusitate. Se pensare una pratica dalla quale si è esclusi può essere scoraggiante, ancor più lo sarebbe escludere la possi­bilità di praticare un pensiero mai prima d'ora pensato. Anche la chitarra può servire a questo: essere lo strumento di un esercizio.

Riccardo Malipiero - Ho ascoltato per la prima volta, pochi giorni or sono, una mia composizione per chitarra sola.
Non avevo mai scritto, prima, per questo strumento (solo) e l'ho fatto dopo anni di titubanza. Ora che l’ho sentito non mi dispiace d'averlo scritto: ho aggiunto un'e­sperienza alla mia vita di compo­sitore.
Ma vorrei rispondere a due do­mande che mi pongo: perché ho aspettato tanto a scrivere questo lavoro? e perché oggi la chitarra è ritornata trionfalmente nel con­sesso degli strumenti musicali, mentre fino a qualche anno fa era guardata come una rarità e anche con qualche sospetto?
Forse, rispondendo alla seconda domanda, rispondo automaticamente alla prima: tralascio le ri­sposte più ovvie (e spesso banali) per andare un poco più lontano.
La chitarra rappresenta un ritorno e per ciò stesso entra nella nostra civiltà (si fa per dire!) di oggi, genericamente miscredente e tendente chiaramente ai "ritorni", alla ricerca di sicurezze: dall'erboristeria alla così detta musica ba­rocca (che barocca non è, ma che definisco così per brevità), dalla marce più o meno lunghe al ballo liscio e così via. Si ritorna così alla chitarra perché il suo suono è qualcosa di non sofisticato, per­ché è uno strumento più naturale (certo più degli strumenti elettronici, ma anche dello stesso violi­no che sembra - ho detto sembra - aver esaurito le sue possibilità tecniche ed espressive). È forse così anche per il flauto che pure ha avuto una rinascita clamorosa. 
Si ritorna alla chitarra perché con essa ci si può rincantucciare e stare soli; io credo che il problema dell'incomunicabilità non sia un problema passivo: io non pos­so comunicare perché non so, non mi riesce di comunicare, ma attivo: non voglio comunicare per­ché mi sono annoiato di comuni­care, perché comunicare è azione per pochi, tutto il resto son parole, parole, parole e basta. Si gira intorno agli stessi argomenti, sempre, e non se ne esce fin tan­to che qualcuno non ha veramente qualcosa da comunicare. Ma è raro.
Anche in musica, si dicono parole parole parole, spesso addirittura fonemi, ma in sostanza è sempre più difficile che qualcuno dica qualcosa. Anche perché molti si domandano che cosa si può dire ormai con un pianoforte; sembra proprio che tutto sia stato detto: i "cioè", gli "a monte", le "verifiche situazionali" e tutte le altre espressioni tanto in uso (e abuso) oggi, sono il corrispettivo dell'impossibilità di scrivere una scala, un arpeggio per pianoforte. E al­lora, in questa generale difficoltà e non volontà di comunicare, uno si prende la chitarra e si racconta una storia che può essere nuova: nuova perché dimenticata (tutta la musica riportata alla luce in questi anni), nuova perché suona nuova.
Può darsi che anche in musica si abbia, un giorno più o meno lon­tano, un riflusso: c'era una volta la musica per pochi, oggi si tende alla musica per tutti. Il sogno ro­mantico della musica per le folle, si sta inverando oggi (cosa ci sia, quale struttura psico-culturale supporti ciò, non è il caso di ana­lizzare qui; non era nemmeno fa­cile capire il perché di quei "pipers", sferisteri, coreostadi o come altro si chiamassero, in cui turbe di giovani ballavano senza sosta al suono assordante e allu­cinante di "orchestre" elettroni­che o elettronificate); non è escluso che il riflusso riporti alla musica fatta da sé. Certo, perché no, il fatelo da voi in musica è la cosa più soddisfacente che ci sia anche se riesce a suonare soltan­to Per Elisa, anche se si riesce a pizzicare una sola corda e lasciarla vibrare. La chitarra offre questa introversione, questa introspezione. Può essere l'inizio d'un riflus­so (non s'illuda il lettore profano: pizzicare una corda è facile; suo­nare la chitarra è difficile). 
Insomma, la chitarra, il suo suc­cesso, può spiegarsi in tanti modi, non necessariamente bana­li.
Innegabilmente, per me, è stata un'esperienza nuova: non mi sono posto problemi estetici o che altro. Ho scritto un pezzo per chitarra invece che per pianofor­te. Voglio dire, in modo diverso. Sembra un discorso ovvio. Non lo è poi molto: perché ho usato la chitarra nel modo più convenzio­nale. Credo ancora nella possibili­tà di comunicare, per cui ho tentato un discorso con uno strumento a corde pizzicate e niente più. Certo che così, quel discorso potrà interessare solo dieci per­sone, magari meno. Fors'anche un solo viandante, non necessa­riamente in sandali e jeans sdruciti; un viandante dello spirito, un viandante della vita insomma, magari anche in abito scuro, o nudo, che si rifugi in un angolo, un momento, a suonare quel mio pezzo.
Che nasce, curiosamente, ma senza malizia, sullo spunto della tradizionale Follia (preferirei scri­vere folia, con una elle sola, come in origine era, ma avendo usato in altra occasione questo termine, rabbrividisco ogni volta che lo sento pronunciare con l'accento sulla o, come se derivasse da folium e non dal portoghese che indicava una danza sempli­cemente stravagante, non mat­ta...!); ma che, magari inconscia­mente, invece, da parte mia, dato il frequente ripetersi dello spunto melodico (magari distorto) e rit­mico, quindi come un ragiona­mento a mordicoda, sia stato un manifestarsi tranquillo di follia dentrofuoritempo?
Ho divagato dal tema.
Chissà...

Fernando Grillo - Quando iniziai a concepire un'o­pera per chitarra nacque in me una perplessità al riguardo del temperamento dello strumento, e risolsi quindi di utilizzare l'ambito sonoro degli armonici naturali procurando una diversa accorda­tura, la qual cosa mi ha permesso di donare una varietà timbrica, e con un assai soddisfacente risul­tato, al corpo sonoro dello stru­mento.
L'attacco del suono principale del Pizzicato acquista inoltre un rilie­vo tutto diverso in virtù della mi­gliore tenuta del suono nel tem­po. È nata così "Das Mädchen und der Zauber" (La Fanciulla e l'Incanto) che vuole essere un omaggio a questo strumento, delicato e incantevole.
L'occasione mi fornisce ora di avanzare un'ipotesi di miglioramento: i Maestri liutai potrebbero preparare una tastiera senza le barrette di posizione al fine di rendere muta l'intavolatura delle altezze, e ampliare così notevol­mente le possibilità tecniche di articolazione e di interpretazione delle chitarre?

Bruno Bettinelli- L'interesse che molti compositori contemporanei manifestano per la chitarra ha ormai raggiunto un livello veramente notevole. Quasi tutti scrivono per questo nobilis­simo strumento che offre molte risorse d'ogni genere a chi desi­deri farlo uscire da certi limiti stereotipi entro i quali era stato da tempo ingiustamente relegato. Fino a ieri, infatti, la chitarra era sinonimo quasi esclusivo di "colore locale" iberico o, per esten­sione, sud americano. Se si eccettua la letteratura di derivazione liutistica, o quella del '700 e del primo '800, culminata con Paganini e pochi altri, la musica per questo strumento era ormai quasi sempre costretta nell'ambi­to di una accesa espressione a tinte forti o languide, tipicamente "mediterranee". Si era in tal modo creato una sorta di sche­matismo, non privo di valori autentici e spesso assai piacevoli, ma ormai in via di deterioramento per eccesso di formule sconta­te.
Il compositore d'oggi, di conse­guenza, ricerca ulteriori possibili­tà tecniche e timbriche intese ad estendere sempre più il raggio d'azione di risorse adatte alle nuove esigenze del linguaggio at­tuale. Tale ricerca, tuttora in fase di continuo sviluppo, sta dimostrandosi sempre più fruttuosa e ricca di risultati sorprendenti.
La chitarra, dunque, è diventata prezioso ausilio per il musicista che intenda trattarla come stru­mento solista o incluso in quei gruppi misti che vanno animando sempre più vigorosamente l'atti­vità concertistica da camera in tutto il mondo.

Giovanni Arledler - Osservando l'inesperto impugna­re maldestramente, ma con circo­spezione, una chitarra, tentare la melodia sulla corda acuta tra continue rettifiche di accordatura, si ha spesso l'ingenua impressio­ne di veder riscoprire la musica: dalla suggestione armonica di un corpo posto in vibrazione all'imi­tazione spontanea del linguaggio, alla liberazione del canto.
Se le riflessioni dei teoreti non ci fanno rinsavire, possiamo seguire lo sviluppo dello strumento primi­tivo e dell'arte dei suoni con l'ag­giunta di una seconda, di una ter­za corda che soddisfino esigenze espressive e certa insopprimibile ansia virtuosistica, dettata da urgenze d'imitazione ed emulazio­ne. Il numero delle corde, a chi si appaga della meta di strimpellatore e modesto accompagnatore, può risultare imbarazzante, ma quando si ha l'entusiasmo per andare oltre può essere ulteriore stimolo alla fantasia, che arricchi­sce il linguaggio musicale con al­tre voci, con altre armonie.
La conquista totale di uno stru­mento, nelle fasi che si possono intuire, intravedere, aggiunge alla storia della musica almeno qual­che modestissimo contributo per quel che riguarda la tecnica e lo stile del suonare, l'accrescimento di un repertorio di composizioni create, scoperte, reinventate, adattate.
Non saprei dire se la prima melo­dia strappata al cantino sia un motivo originale o canzonettistico, popolare o classico. La men­talità attuale, insita come falsa coscienza anche nei principianti, tende alla delimitazione di tipi e generi musicali, creando esigenze che finiscono con l'imporre caratteristiche precise agli strumenti: abbiamo così la chitarra classica, la chitarra jazz, la chitarra folk, tacendo di quelle elettrificate ed elettroniche, in un'infinità di mo­delli che rispondono per lo più a mere esigenze di mercato. Co­munque è vero che quando oggi si parla di chitarra si può guarda­re, volendo, ad una realtà abba­stanza vasta, che comprende Se­govia e Yepes, i Genesis e gli ELP, Giovanna Marini e Otello Profazio, Leadbelly e Woody Guthrie, fino a scomodare suona­tori e virtuosi di veri e presunti strumenti affini, quali il banjo, il charango, il sytar.
L'esperienza personale poi, pur orientandosi attraverso precise motivazioni culturali e di gusto, si accresce maggiormente in am­bienti e situazioni (liturghiche comprese) dove spesso ciò che più conta è il segnale d'inizio, il sostegno di un canto che magari avrebbe un effetto migliore affi­dato alle sole voci, la scansione ritmica di una danza, il grido di protesta, il baccano incondiziona­to.
Non credo di dover deprecare lo scadimento di un nobile strumen­to o lamentare il contributo pagato dalla chitarra per quella sua estrema disponibilità ad animare lo spazio sonoro che si illustrava all'inizio. Piaccia o meno, è anche questo grosso ruolo sociale e socializzante che spinge qualche ascoltatore in più nei concerti "dotti", salvo rare eccezioni abbastanza disertati dal vasto pubblico.
La complessa realtà attuale pesa a volte in modo paralizzante su interpreti, compositori, critici e musicologi, ma la soluzione non sta in impossibili sintesi di pen­siero e di creazione quanto in un­'etica riappropriazione di compiti, che consente la fiducia e la con­vinzione nell'operare, quale che sia il valore e la portata delle pro­poste avanzate.

Luis de Pablo - E' difficile per un compositore spagnolo parlare con tranquillità della chitarra: è uno strumento troppo contraddittorio. In vaste zone del paese rappresenta per eccellenza il veicolo popolare del­la musica, e ciò significa che il suo uso ed abuso ha una serie di connotazioni inevitabili. Attraverso questa strada, ad esempio, la chitarra è entrata nella canzone di protesta. D'altro canto, esiste la tradizione colta, con i santi pa­troni della vihuela in qualità di celestiali avvocati... Si aggiunga a ciò la chitarra centroeuropea da salon, che ha prodotto la insperata resurrezione viennese al princi­pio del secolo, con le sue conse­guenze, e si avrà un'idea dei po­teri di assimilazione e digestione necessari per ottenere qualcosa di equilibrato attraverso simili differenti linguaggi: una chitarra acrobata capace di passare dalla "soléa" a Luis Milan, dalla "cueca" a Gustav Mahler, da Gaspar Sanz alle alchimie weberniane, da Heitor Villa Lobos a un famoso sonetto di Petrarca e a un non meno famoso testo di René Char... Si potrà provare questo comune luogo sognato dove, al­meno temporalmente, tutte que­ste apocalittiche "molte voci" sa­ranno non un dialogo di sordi, ma una polifonia organica?
A mio giudizio, questo "desideratum" deve ancora nascere, però, se nel passato esiste un nome che si deve salvare dall'incendio, esso è quello di Fernando Sor (o Sors, così come in ambo i modi egli lo scriveva). La chitarra di Sor si trova equidistante nella tradizione strumentale così come egli la ricevette; dall'inevitabile eredità popolare, da lui soavizzata a causa della sua origine catalana - in Catalogna la chitarra non è protagonista fra il popolo, ma è inclusa tra questo e le classi "colte" (insopportabile terminolo­gia) poiché qui non esiste la divergenza o antagonismo di lin­guaggio presente nelle altre re­gioni di Spagna dall'idioma musicale presente nel suo tempo; dalla ricerca specificamente stru­mentale, tanto tipica della sua epoca... Mi piacerebbe poter dire che qualcuno di noi è stato oggi capace di ripetere questa impre­sa. In attesa di tale giorno dicia­mo con Cervantes: "Pazienza e fai passare il tempo".

Luciano Chailly - Da parte mia non occorrono mol­te parole, perché ho dato prova coi fatti di amare la chitarra. Come autore, avendo composto lavori per chitarra ed avendola in­ inclusa in composizioni liriche e sinfoniche, e come operatore culturale, avendo organizzato all'Angelicum nel 1975 un ciclo per tale strumento, in una panorami­ca temporale ed etnica che ne metteva in vista tutte le possibilità espressive mercè l'interpreta­zione di chitarristi quali Chiesa, Ghiglia, Ponce, Oltremari, Gilardino, Minella, Sicca, Saldarelli, il duo Ako Ito - Dorigny, il trio chitarristico italiano, ecc.
Se debbo aggiungere, come au­tore, una parola sul mio "modo" od il mio indirizzo di impiego di tale strumento dirò che prediligo l'omofonia sulla polifonia, i suoni distesi e puliti nello spazio, filiformi, piuttosto che le grandi archi­tetture polivoche, quali invece corrisposero allo spirito del ba­rocco.
So che ci sono chitarristi che non sono d'accordo su tale punto, ri­tenendo la chitarra uno strumen­to in ogni caso polifonico. Tra questi Alirio Diaz, il quale, quando diteggiò la mia Sonata per chi­tarra, mi fece sapere attraverso l'editore, delicatamente, che, escluso il Notturno assai denso di armonie, sarebbe stato bene che "arricchissi" gli altri tempi. Cosa che non riuscii a fare, nonostante l'autorità dell'interprete, e se cito questo fatto personale è proprio perché così si viene a profilare, a conclusione del breve intervento, ciò che in sede espressiva, specie nel caso di strumenti solistici (chitarra compresa), io temo più di tutto, ossia il pericolo del trucco apocrifo e della supremazia tecnologica.

Francesco Pennisi - Il mio è un interesse precisamen­te rivolto al timbro e al suono che, rivelato, rapidamente svani­sce: "toccato appena e spento, nel torpore ch'esala". Ritrovo quindi insieme, in questo interes­se, gli strumenti a pizzico. Del suono di questi strumenti (e in questo caso particolarmente della chitarra) forse mi attrae anche la esilità, il suo esigere un silenzio di fondo, una rispettosa attenzione. Potrei anche dire che, come nel mondo visivo da qualche tempo la mia predilezione si è spostata ai colori freddi, così la "freddez­za" dei timbri mi attrae sempre più. Se sento l'arpa "calda" e il clavicembalo decisamente "fred­do", mi pare che il timbro della chitarra si riveli in una "escursione termica" ampia, ambigua e quindi accattivante o respingente: questo certamente contribuisce ad affascinarmi.

Carlo Prosperi - Penso che la chitarra sia lo stru­mento "nuovo" e più d'ogni altro "rivelato" dalla cultura musicale del nostro tempo.
E' vero che il novecento ha riproposto all'attenzione altri pregevolissimi strumenti come il clavicembalo e l'organo, ha introdotto l'uso del vibrafono e della marimba, ha sviluppato il timbro della percussione e via dicendo. Ma in questi casi si è trattato: o di recuperare una letteratura solistica prestigiosa trascurata dal secolo precedente, oppure d'inserire inusati timbri e colori nel tessuto orchestrale.
Per la chitarra è diverso. Questo strumento finora usato, almeno da noi in Italia, come sottofondo al folklore, rappresenta l'autentica scoperta del secolo, assumendo un proprio ruolo da protagonista e inserendosi con precisa perso­nalità nel mondo del concertismo.
Sulla nascita della chitarra in Ita­lia non va taciuto il merito dei maestri Alvaro Company e Rug­gero Chiesa che furono i primi fondatori delle scuole di Firenze e di Milano e i primi ricercatori del repertorio appropriato, Company quali animatore e suggeritore del­la moderna letteratura. Chiesa come accurato revisore di musi­che del passato.
Ritengo la chitarra, col suo timbro tenero e splendente, con la sua duttilità armonica e polifoni­ca, uno strumento "intimista" per eccellenza, ancora ormeggiato al gusto del "privato" e al senso in­teriore dell'espressione.

Francesco Bussi - "Non mi sono mai occupato a fondo di chitarra e di chitarristica. Ma da quando mi è dato di cap­tare in qualità di ascoltatore ani­mato da un sincero interesse, mi pare che la chitarra sia oggi, se non la protagonista assoluta cer­to una delle maggiori interpreti dell'anima musicale, soprattutto, giovanile. Lo dicono - oltre allo stuolo di dilettanti più o meno provveduti, oltre alla penetrazione 'mondana'', non so fino a che punto accettabile, dello strumento entro i sacri recinti - la massiccia presenza di alunni di chi­tarra nei nostri conservatori, tale da muovere seria concorrenza alla legione degli aspiranti piani­sti, e il numero crescente di con­certisti generalmente validi e ag­guerriti; lo confermano e convali­dano l'affinarsi della precettistica e lo scrupolo filologico nel riesu­mare l'antico repertorio strumen­tale.
Chitarra, certo, purché non si tra­scenda sull'onda facile e cattivante della moda; chitarra come testimonianza di una rinsaldata coscienza culturale, come espres­sione di felice reviviscenza neou­manistica, come ritorno all'antico - quell'attuale ritorno all'antico che ha avuto l'alfiere nel clavi­cembalo - e insieme, in ultima analisi, anelito a rintracciare nel suono vivo e palpitante di un glo­rioso strumento vecchio di secoli le mitiche vie di un paradiso perduto".
da "I quaderni di Settembre Musica", 1978
(a cura di Roberto Chiesa)

domenica, dicembre 01, 2024

Giovanni Salviucci

Naxos 8.574049 (p) 2019
Giovanni Salviucci (1907–1937)
- Serenata per 9 strumenti
- Salmo di David
- Quartetto per archi in do maggiore
- Pezzi per violino e pianoforte
- Pensiero nostalgico
- Sinfonia da camera per 17 strumenti

Nel periodo fra le due guerre, tre compositori italiani furono unanimemente riconosciuti dalla critica come i più dotati: Luigi Dallapiccola e Goffredo Petrassi, entrambi nati nel 1904, e Giovanni Salviucci, nato a Roma nel 1907. La sorte riservò loro un ruolo scomodissimo: divenire adulti e protagonisti della nuova musica italiana proprio quando le idee di “nuovo” e di “avanguardia” venivano ipotecate dalla dittatura fascista, per cui era impossibile affermarsi stabilmente sulla scena musicale senza godere dell’appoggio del regime.
Dallapiccola e Petrassi ebbero modo di superare e “rielaborare” nella loro maturità i drammatici anni della dittatura e della guerra, imponendosi come figure eminenti del Novecento italiano. Questa opportunità fu negata a Giovanni Salviucci che nel 1937, neppure trentenne, fu stroncato da una meningite tubercolare. Sebbene agli occhi dei tradizionalisti il suo uso della tonalità e del contrappunto apparisse fin troppo modernista, Salviucci non poteva certo definirsi un compositore d’avanguardia. La sua scomparsa lo condannò, quindi, allo stesso destino dei numerosi compositori che nel secondo dopoguerra scomparvero per lunghi anni dalla memoria. Si trattava di quegli autori, in genere progressisti, ma rimasti legati alla tonalità, i quali, dopo la persecuzione da parte del regime per ragioni razziali, politiche o estetiche, furono archiviati frettolosamente dalla successiva narrazione, interessata quasi esclusivamente agli sviluppi e alle implicazioni dell’atonalismo e della serialità.
La famiglia Salviucci non aveva tradizioni musicali, ma era fortemente legata agli ambienti clericali della capitale. Fu così che il piccolo Giovanni studiò musica privatamente con Ernesto Boezi, direttore della Cappella Giulia in San Pietro e grande studioso di Palestrina, che gli trasmise un’eccezionale padronanza e sensibilità contrappuntistica, rimasta poi la sua cifra stilistica distintiva. Fu un periodo di formazione che, inizialmente, tenne il giovane Salviucci distante dai rivolgimenti musicali del nuovo secolo. Conseguito il diploma di composizione nel 1931, Salviucci si iscrisse al corso di perfezionamento tenuto da Respighi all’Accademia di Santa Cecilia. Altrettanto decisivo fu però l’incontro con Iditta Parpagliolo, anch’essa compositrice e allieva di Respighi, che divenne poi sua moglie e lo introdusse nell’ambiente della nuova musica, facendogli conoscere, fra gli altri, Alfredo Casella e Goffredo Petrassi.
La carriera di Salviucci decolla a partire dal 1932, con alcune pagine orchestrali accolte in Italia e all’estero da un successo crescente* , al cui vertice si può collocare forse Introduzione, Passacaglia e Finale (1934). La scomparsa improvvisa gli impedì purtroppo di ascoltare le sue ultime due composizioni, considerate da critici quali fedele D’Amico e altri, i suoi capolavori: Alcesti. Episodio per coro e orchestra e Serenata per 9 strumenti. Alla sua morte, Salviucci lasciò anche tre figli, fra cui una bimba di nove mesi, Giovanna che, col nome di Giovanna Marini è oggi famosa in Italia e all’estero come folksinger e compositrice, e grazie alla quale è stato possibile realizzare queste registrazioni.
Questo disco raccoglie tutte le pagine cameristiche pubblicate da Salviucci a partire dal 1930, più un sorprendente Quartetto per archi, composto nel 1932 e rimasto inedito. In buona parte si tratta di prime registrazioni discografiche.
I Pezzi per violino e pianoforte, pubblicati nel 1930, appartengono ancora al periodo giovanile del compositore. Sono sei brevi pagine di destinazione liturgica nelle quali la religiosità cattolico-romana dell’ambiente famigliare e il severo insegnamento di Ernesto Boezi, si coniugano in una scrittura sobria ed espressivamente misurata, ma padrona di un contrappunto che già sgorga con suadente naturalezza. Il clima è prevalentemente elegiaco, con significativi momenti di tenerezza e di abbandono melodico (n. 2 Elegia; n. 3 Preghiera; n. 5 Meditatione), nei quali sembra già di intravedere il tratto distintivo di Salviucci precocemente intuito da Gianfrancesco Malipiero e sottolineato poi da Fedele D’Amico: una nativa attitudine espressiva, tenuta a freno inizialmente da una disciplina contrappuntistica e formale che, via via, si trasforma e, da freno, si emancipa in potente veicolo di quell’innata vocazione espressiva.
Dal medesimo clima emotivo dei sei Pezzi scaturisce anche Pensiero nostalgico. Adagio per violoncello (o violino) e pianoforte, pubblicato nel 1931: un breve Charakterstück dagli echi tardo ottocenteschi, animato da una generosa e vibrante melodia.
Procedendo cronologicamente, si arriva all’anno cruciale, il 1932 nel quale viene alla luce il Quartetto per archi in Do maggiore: composizione enigmatica in quanto la sua ricchezza e la sua forza lasciano senza risposta l’interrogativo del perché non sia mai stato pubblicato. L’Allegro moderato di apertura, così come il terzo e ultimo movimento, Allegro vivace, sfoderano uno slancio ritmico che risente indubbiamente di quell’andatura martellante tanto enfatizzata nella produzione musicale italiana del ventennio fascista. Ma Salviucci se ne appropria in modo personalissimo, con quel suo contrappunto che si sottrae a ogni stereotipo e si piega ad articolazioni estremamente mobili e ricche di suggestioni imprevedibili. A volte, negli unisoni potenti o in certe timbriche acute del violino, traspare qualche traccia di Respighi, estranea però a qualsiasi suggestione di arcaismo, a conferma di come il tirocinio palestriniano si fosse totalmente emancipato in liberissimo strumento creativo. Il cuore del quartetto è l’Adagio molto, pagina di straordinaria carica emotiva, aperta da una luminosa infiorescenza contrappuntistica il cui respiro la distacca dalla coeva produzione quartettistica dei connazionali. In un appassionato susseguirsi di densità cromatiche, accensioni brucianti, abbandoni estatici, questo Adagio si impone come un autentico gioiello della musica italiana di quegli anni.
Nella produzione giovanile di Salviucci i brani di ispirazione religiosa o liturgica, non solo vocali, come si è visto, hanno una parte rilevante. Il congedo da questo genere di musica è una pagina del 1933, il Salmo di David per canto e pianoforte, trascritto anche in versione per voce e orchestra da camera. La scrittura è di estremo interesse, poiché il suggestivo involucro modale e arcaicizzante racchiude una chiara polarizzazione melodico-armonica attorno alle note Mib, Fa#, La, Do. È un tratto che rivela qualche familiarità con certe esperienze europee di quegli anni, incentrate sull’organizzazione ottatonica (ad es. Ravel) e che forse risente del vivace dibattito sul linguaggio musicale che proprio in quel periodo si era sviluppato anche in Italia.
Sinfonia da camera per 17 strumenti (1933) e Serenata per 9 strumenti (1937) sono certamente fra le pagine più riuscite del compositore. Per architettura e stilemi si possono entrambe ricondurre all’orizzonte del neoclassicismo, ma la personalità e la fantasia di Salviucci evitano i luoghi comuni di genere o di tendenza, con uno stile che ha qualcosa di narrativo nel susseguirsi sapiente di idee e di contrasti spiazzanti. In entrambi i casi, l’organico intermedio fra camera e orchestra consente al compositore di sviluppare pienamente la dialettica, o competizione se si vuole, fra i due poli della sua ispirazione; la passione per l’intreccio polifonico da un lato e la vocazione melodica dall’altro. Sinfonia da Camera, creata a Roma nel 1934, sotto la direzione di Casella, si articola in quattro movimenti ed è scritta per flauto, oboe, clarinetto, fagotto, tromba, corno, 6 violini, 2 viole, 2 violoncelli e contrabbasso. Già nel brano di apertura, Allegro, memore forse del Concerto per archi op. 40 di Casella, certa pulsazione omoritmica neobarocca, tipica del compositore torinese, si ramifica in una trama ritmica e coloristica assai più agile e raffinata, ricca di episodi solistici e, soprattutto, di una luminosità che pervade l’intera composizione, dalla tenera eufonia dell’Adagio, alla vivacità dialogante dei legni nell’Allegretto vivace, fino all’elettrizzante contrappunto ritmico dell’Allegro conclusivo.
Serenata, scritta per flauto, oboe, clarinetto, fagotto, tromba e quartetto d’archi, è dedicata al direttore d’orchestra Nino Sanzogno. Rispetto alla serenità di Sinfonia, qui, l’intreccio dei contrappunti, i cromatismi, le entrate motiviche a sorpresa disegnano un tessuto più audace e inquieto. È l’ultimo Salviucci. I contemporanei che ascoltarono la prima esecuzione, diretta dallo stesso Sanzogno, al Festival di Venezia l’8 settembre 1937, quattro giorni dopo la morte del compositore, furono concordi nel percepire la sovrana originalità raggiunta dal compositore. Una sorta, per così dire, di “nuovo Malipiero”, irriducibile a qualsiasi etichetta, proiettato verso un futuro che purtroppo non ci fu. I movimenti sono tre. L’Allegro molto ha qualcosa di febbrile (D’Amico), dominato da una scrittura contrappuntistica torrenziale e costellato da contrasti improvvisi. Nel secondo movimento, Canzone (Andantino), intessuto delle sognanti filigrane solistiche di oboe, violino, fagotto, violoncello, ritroviamo la magia del Salviucci più lirico. L’Allegro conclusivo suona come il paradigma anticonformista di un contrappunto divenuto sismografo della sensibilità individuale, libero di aggirarsi disinvoltamente fra tonalità e cromatismi, ora ritmicamente scalpitante, ora teneramente cantabile.
Non sapremo mai quanto l’italianissimo Salviucci conoscesse della musica europea del proprio tempo, ma nell’aria che qui si respira ci sono aromi che vengono sicuramente da oltralpe.
Giordano Montecchi
* Tutti i lavori orchestrali di Salviucci furono eseguiti per la prima volta al Teatro Augusteo di Roma, che fu demolito nel 1936 per ordine di Mussolini.