Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, giugno 02, 2023

Armando Gentilucci: Realtà e sperimentalismo

Dire che la musica del nostro tempo è 
ricca di fermenti, varia e contraddittoria nei suoi aspetti è fin troppo facile: molte e tormentate esperienze, infatti, si sono succedute, accavallate addirittura a ritmo convulso, bruciando in un breve volgere di anni, o decenni che siano, canoni tecnici ed estetici che duravano da secoli e per sino «manifesti» di abbastanza recente formulazione (vedi quello neoclassico). Ora nessuno vorrà negare che molte innovazioni formali siano autentiche, in quanto rispondenti alle esigenze di contenuti nuovi che chiedono in maniera perentoria di essere compresi ed elaborati artisticamente. Ciò nonostante lo sperimentalismo venuto di moda in questi ultimi anni, che pure è segno di fervore e curiosità intellettuale (se non proprio sempre di validità), provoca anche in menti aperte alle cose nuove, un certo stato di disagio, in quanto non è difficile accorgersi che esso contiene in sé un pericolo, appunto già da diverse parti avvertito e segnalato: quello di cadere nell'apriorismo, nella mera ricerca di laboratorio, ove la scelta, diremmo la sottile discriminazione del materiale, avviene prima dell'apparizione di autentiche immagini interiori, prima addirittura che se ne avverta il presagio.
La «ricerca di materiali nuovi» sembra essere la parola d'ordine degli sperimentatori d'oggi. Venuta in parte a cadere la convenzione del temperamento equabile con la musica concreta ed elettronica, essi cercano di combinare in un meccanismo unitario suoni e rumori inconsueti: l'entità «materiale-timbro», il fatto acustico, non è inteso qui semplicemente come un mezzo nuovo da adattare a una forma pensata, ad una immagine interiore preesistente, ma invece come struttura o frammento di struttura che, una volta assunta, mantiene intatta la sua integrità formale. E' insomma la materia in sé e per sé che interessa, è la ricerca del «mezzo» che prevale: la «scoperta» si sostituisce all'«invenzione». Il più delle volte il risultato è quello di degenerare in formule decadenti di marca surrealista o neo-dadaista (Cage e compagni) o in cincischiamenti neo-impressionistici, in cineserie la cui suggestione è da ascrivere soprattutto alla novità dei mezzi impiegati, a fatti di natura più artigianale e tecnica che veramente artistica (già un secolo fa Mussorgski ammoniva a non lasciarsi ingannare dai trabocchetti «orientalistici»).
Nel 1956 Luigi Pestalozza scriveva su Ricordiana («Post-weberniani, concreti ed elettronici»): «...è individuabile con somma chiarezza un fenomeno di alienazione dell'uomo-artista a favore di una civiltà meccanica che tende ad annientare in genere l'oggetto specifico dell'attività umana, e nel nostro caso dell'attività artistica del musicista, proiettandolo nell'illusoria verità universale del dato scientifico».
Non diversamente dai musicisti operano quei pittori e quegli scultori che, secondo l'abitudine odierna, cercano attraverso l'uso di frammenti di oggetti, di cascami, di materie eterogenee, di accostamenti inconsueti, di suscitare brillii, rutilanze imprevedibili, effetti ricchi di capacità decorativa. E non è che non ci riescano, alle volte; ma anche qui le suggestioni, seppur vive, restano pur sempre tali, nell'ambito di un gusto scaltrito e in definitiva equivoco. Altri reagiscono a questa tendenza dando la preferenza ad un gusto per le superfici piane, per le figure strettamente geometriche, per l'estrema parsimonia gestuale. Ma, reazione per reazione, siamo sempre più nella sfera della cultura che in quella dell'arte autentica, dell'invenzione poetica, vogliamo dire.
Da tutto ciò traspare il preciso intento di rompere le fila di una cultura ufficiale ritenuta ormai ammuffita con un gesto audace e anticonformista: intento più che legittimo, si badi, e in certa misura salutare, purché sia però accompagnato dal desiderio di stabilire le basi di nuovi orizzonti espressivi, di rivelare nuovi gradi della conoscenza, di evocare più sofferte esperienze umane. Insomma è il solito discorso sul mezzo con cui si deve conseguire un certo fine: se il fine viene a mancare, o non è ben chiaro, o è di natura equivoca (sia pure perché tendente a distorcere in senso formalistico un'ideologia magari accettabile sul piano dell'archetipo), il puro compiacimento del mezzo, anche se nuovissimo, si dimostra sterile, non risolve proprio nulla. Così anche certi rigorismi di moda nel dopoguerra hanno dimostrato la propria debolezza interna, la propria insostenibilità alla distanza, proprio per la mancanza di quel calore che è della vita ed a cui l'uomo non ha nessuna intenzione di rinunziare. E non è certo a caso che oggi, in taluni ambienti d'avanguardia, si torna a parlare con sempre maggior insistenza dell'importanza e dell'attualità di Alban Berg, della sua passione espressionista, delle immagini veritiere della sua musica; non sono immagini gradevoli, certamente (e come possono esserlo se nascono da un fondo di inquietudine e critica morale?), ma riconducono sinceramente al dramma degli uomini, a una profonda indagine psicologica. Rimane comunque oltremodo significativo il fatto che Berg per anni sia stato mantenuto in ombra dalla critica, a causa della ben nota tesi che definiva «chiusa» la sua esperienza; tesi che concordava perfettamente con l'indiscriminato furore «astrattista» in ogni campo dell'arte nel periodo che va, grosso modo, dal '48 al '60, e con l'incondizionata idolatria per Webern e il suo radicalismo (vera e propria Arcadia spirituale).
Ma si badi: talvolta anche l'aspetto «demoniaco», irrazionale, denunciatario di certe composizioni post-weberniane non è altro che la conseguenza di un gusto per la cultura più che un atto autenticamente rivoluzionario, cioè risolto dall'interno; è il desiderio di dare una risposta «storica» a una determinata situazione piuttosto che l'espressione di un artista che, senza soverchie preoccupazioni aprioristiche, trova da sé, strada facendo, il proprio contenuto e il proprio stile (anche se l'atto creativo, per forza di cose, è condizionato dall'ambiente, socialmente quindi). E' stato facile in questi ultimi tempi puntare sui simboli della violenza, abusare di immagini grezze e brutali per arricchire di un «contenuto» le proprie composizioni, far suonare sempre forte una materia, che per costituzione interna ed assoluta indifferenza nei confronti delle funzioni espressive degli intervalli, poteva suonare in qualsiasi modo, anche pianissimo. Gli è che la nuova materia, sia essa concreta, elettronica o anche radicalmente frantumata nel puntilismo, è estremamente delicata e va trattata con discernimento, proprio perché (e non sembri una contraddizione) svincolata da ogni rapporto o immagine preesistente, vergine, priva di storia, di quei riferimenti culturali che automaticamente si presentano al momento dell'ascolto e che, dannosi in eccedenza perché determinano la cristallizzazione del linguaggio, sono però necessari quando non bloccano l'evoluzione ma ne favoriscono l'organicità e coerenza, la comprensibilità. E' proprio perché, come dice Adorno in Dissonanze, «la tradizione scompare nell'ambito stesso della musica moderna» e viene a cadere in essa ogni implicazione psicologica che invece era presente fino a Schönberg e Berg. Ne consegue che alle volte la virulenza sonora di talune composizioni post-weberniane e la risultante di un piano generale elaborato «freddo».
Una spia in tal senso ci viene non tanto dalla molta letteratura e filosofia che si è fatta attorno all'argomento, ma dalla concreta analisi del fatto musicale: dove l'insistenza su immagini di violenza riassuntiva (la brusca aggressione della percussione, il «grappolo», il «groviglio» contrapposto alla fase di rarefazione, ai lunghi suoni-pedale, lo stridore lacerante degli ottoni disposti a intervalli di semitono per creare la macchia dissonante), l'insistenza, dicevamo, sui segni fiammeggianti corrispondenti all'intensità dello scatto, al coagularsi della tensione psicologica, al desiderio ossessionante di ribellione, diviene facilmente abuso. La ripetizione fino alla noia di formule sussultanti tutte uguali (si direbbero ritagliate e conservate in ripostiglio in attesa di essere poi ricucite addosso ad ogni situazione) non corrisponde più all'impulso originario, non esprime l'acme di intensità dello slancio: le implicite bruschezze del segno, solo saltuariamente funzionali per lo scopo da raggiungere, e il volontarismo schematico che stanno alla base di questi procedimenti fanno un pessimo servizio ai contenuti. Perché se il formalismo è insopportabile a tutti i livelli e in tutti gli stili, lo è ancor di più in un'arte che, proprio per la sincerità (non sappiamo bene se presunta o reale) della sua denuncia, per la volontà di reagire agli equivoci di accademie antiche e recenti, non può poi pretendere di forzare l'operazione mentale e spirituale del compositore verso processi che bloccano l'inventiva e che invece di rappresentare un'ampia apertura all'esperienza rappresentano invece la chiusura, il ripiegamento su una nuova, fors'anche più fastidiosa accademia. E qui saremmo all'adorniana tesi dell'angoscia come punto di partenza della musica moderna: ma il discorso si aprirebbe a troppo ampie prospettive, e sarà quindi bene abbandonarlo, in questa sede, almeno.
Ecco dunque individuato il pericolo maggiore: che si diffonda una mentalità compositiva tendente ad eludere la reale sostanza umana e a far sì che l'artista, dietro la spinta degli slogans culturali, perda 1'abitudine a guardare dentro di se ed invece di aspettare che la propria sensibilità e il proprio mondo poetico prendano consistenza, si sviluppino, con un arbitrario atteggiamento intellettuale decida «a priori» di esprimersi in un determinato modo, in determinate formule, anticipando con la sola intelligenza soluzioni che solo più tardi potrebbero essere legittime, autentiche. Le ragioni culturali e morali che stanno dentro il fenomeno artistico si identificano sempre con il suo contenuto umano: e il contenuto non è un «materiale» di cui si possa disporre arbitrariamente, rompendo il corso naturale degli eventi, del divenire interiore, delle immagini spontanee. Anche se questo divenire, se queste immagini interne sono influenzate in maniera determinante dalla forza dei rapporti con l'esterno, ne sia l'artista conscio o no.
Una volta scongiurato il pericolo dello sperimentalismo aprioristico risulterà inutile e infondata qualsiasi polemica contro la musica contemporanea, anche la più aggressiva; non è la spregiudicatezza, l'arditezza dei mezzi a frapporsi come barriera insormontabile alla comunicazione dell'artista con gli altri uomini, ma l'uso che talvolta si fa di questi mezzi degenerando nel formalismo o tutt'al più nella novità decorativa.
Naturalmente qui si accenna solo alle responsabilità dell'artista, ma si tratta di un discorso provvisorio e tutto da riprendere. Il vasto e complicato problema della comunicazione meriterebbe ben più approfondite ricerche, anche sulla scorta di una concreta analisi del contesto sociale e quindi culturale, fino a giungere alle strutture di base; e in questa direzione Adorno (pur con qualche eccesso formalistico e dogmatico tipico di non pochi studiosi tedeschi) ha dato certamente un contributo importante.
L'essenziale in ogni atto di cultura e di arte è, ancora una volta, di non perdere di vista le ragioni dell'uomo, la sua autentica natura. Insomma: la realtà.
Armando Gentilucci
("Rassegna Musicale Curci", anno XVII n.2, giugno 1963)

martedì, maggio 23, 2023

Alla ricerca di Reynaldo Hahn


Gelosa custode della memoria del suo 
«signore», c'era da aspettarsi che Céleste Albaret, la «celebre» governante di Marcel Proust nel suo ancor recente «Monsieur Proust - Souvenir recueillis par Georges Belmont» (Ed. Laffont, Paris, 1972, ma già tradotti anche in italiano), agli amici, anche intimi, del grande romanziere, non dovesse tributare particolari omaggi. Molti, certo, di questi amici, non può fare a meno di citarli e anche magari parlarne diffusamente, tuttavia facendolo quasi con fastidio, mai cedendo a particolari atti di ossequio.
Prendiamo il musicista Reynald Hahn, una fra le persone più care e certo più vicine allo scrittore. Se non erriamo, lungo il percorso delle «memorie», 1'Albaret lo cita 22 volte ma nel corso di esse non troviamo mai quella nota di particolare calore che pur sarebbe opportuna. Così, ad esempio, non può fare a meno di nominarlo al momento estremo della morte di Proust, quella brumosa mattina del lontano 18 novembre 1922. «Reynaldo est venu. C'est lui qui a téléphoné aux familiers de M. Proust pur leur communiquer la nouvelle. Il est resté toute la nuit. Il a veillé d'abord avec moi dans la chambre, puis il s'est retiré dans un pièce où il à travaillè, jetant sur le papier des notes de musique. De temps en temps il venait se recueillir devant la dépouille sur le lit»L'annotazione, diciamolo francamente, sa di rapporto. Anche quel «jetant des notes de musiques» (ma quali?) suona particolarmente freddo.
Ma già del resto, in tali memorie, il compositore di origine venezuelana entra quasi di sfuggita e all'improvviso: «Proust m'a raconté - dice l'Albaret a pag. 52 dell'edizione francese - que autrefois il avait fait le voyage avec son grand ami, le compositeur Reynaldo Hahn tout exprès pour admirer les grandes marées de cet equinoxe à la Pointe de Raz».
E' pur vero che, a proposito di Hahn, avrà occasione di diffondersi più ampiamente parecchio avanti nei suoi ricordi, e cioè quando Proust ormai «bloccato» dall'asma si troverà in cattività, la penna freneticamente al lavoro per portare a conclusione la «recherche», nel suo quartierino foderato di sughero al 44 della rue Hamelin. «Di tutti gli intimi di M. Proust, Reynaldo era il solo che fosse sempre ricevuto quando veniva, se M. Proust era sveglio. Io aprivo la porta e, se M. Proust non stava più riposando ed aveva finito di fare «sa fumigation», se ne andava diretto diretto alla sua camera. Diversamente egli mi chiedeva notizie e se ne ripartiva. Ma, dapprincipio, egli veniva tardi, nelle ore in cui era sicuro di vedere il signore. Egli era anche il solo che, terminato il colloquio, non riaccompagnavo alla porta. Se ne filava da solo - è il termine esatto, poiché era una vera corrente d'aria».
Tali visite perciò non dovevano essere troppo gradite alla severa governante proprio perché egli lasciava sempre «le porte aperte dietro di sé» ma ci doveva essere anche una ragione più sotterranea per cui egli non doveva entrare nelle sue grazie. Anche in Reynaldo, come in altri amici, la Albaret non riusciva a vedere nulla più che una persona invidiosa dei successi letterari e delle ricchezze economiche del suo adorato M. Proust. Al contrario, si diffonde nel dire quanta invece fosse la gioia che Proust provava di fronte alle riuscite dei suoi amici. E proprio a proposito di Hahn «la prova di quanta gioia Proust provasse - ella dice - io 1'ebbi poco prima della sua morte, allorché apprese che Reynaldo aveva riportato successo con una delle sue composizioni», era la famosa «Ciboulette», l'operetta di cui egli aveva scritto la musica sulle parole di Robert de Flers e di François de Croisset, genero, quest'ultimo, di una delle antiche relazione di Proust, la contessa di Chevigné. L'operetta infatti, anche se doveva dare fama più salda allo Hahn soltanto l'anno successivo, nel '23, quando apparve a Parigi al Théâtre des Variétés, aveva avuto appunto una sua fortunata anteprima a Cannes.
Un'ulteriore affermazione del resto di quanta poca stima essa nutrisse per il musicista, indirettamente l'abbiamo anche in confidenza (ma c'è da domandarsi fino a che punto risulta del tutto vera?) che lo stesso romanziere le avrebbe fatto nei riguardi appunto di Hahn. «Proust mi diceva: «Che peccato che Reynaldo non sia rimasto un semplice cantante invece di voler diventare compositore lui stesso di canzoni. Quando io lo conobbi da Mmc Lemaire, egli era incomparabile; era richiesto nei salotti e prendeva dei lauti compensi per cantare Era meraviglioso, unico! La disgrazia è che oggi egli vorrebbe essere Saint-Saëns».
E se vogliamo, può sembrare un vero congedo nei riguardi del compositore di tante deliziose operette la frase: «Fino alla fine essi (cioè Hahn e Proust) rimasero fedeli l'uno all'altro, ma come dei fratellini (in francese esattamente come dei "petits frères" il che suona ancora più ironico) che degli amici». Testimonianza a cui uno potrebbe anche attenersi, se, a contraddirla, e a spiegare quanto ben diversa e più calda fosse l'amicizia e il sodalizio artistico fra Proust e il musicista appena più giovane di lui di quattro anni (lo scrittore era nato, si ricorderà, nel '71); se a contraddirla dicevamo non esistesse l'ampio carteggio, pubblicato da Gallimard se non erriamo, tra i due artisti. E se con maggiore verità che non quella propinata dalla burbera governante-sacerdotessa, il Painter, il più scrupoloso dei biografi di Proust, non riservasse al riguardo più ponderati paragrafi.
Basta al proposito rileggere, nella sua biografia, la paginetta dedicata all'incontro tra i due futuri amici. Siamo a Réveillon, in Svizzera, nel corso della primavera del 1894. «Proust aveva conosciuto (Reynaldo) al principio dell'estate (precedente) ai martedì di Mmc Lemaire a Parigi in rue Monceau, dove Hahn aveva fatto furore cantando un proprio ciclo di canzoni da poesie di Verlaine. «Les chansons grises» doveva rimanere una delle massime attrazioni delle serate musicali di Mmc Lemaire per i due decenni successivi. Aveva una voce tenorile, leggera ma ricca, si accompagnava da solo rovesciandosi all'indietro, con gli occhi semichiusi e l'aria ispirata. Un osservatore maligno avrebbe notato che nel cantare girava la testa da una parte e dall'altra come un uccello; scrutando di fra le ciglia lunghe l'uditorio per assicurarsi che tutti fossero debitamente ipnotizzati. Ma possedeva la serietà, il fascino, l'intelligenza e la distinzione morale che Proust cercava nell'amico ideale. Per i due anni successivi li legò una appassionata amicizia che durò poi, più temperata ma senza nubi, per tutto il resto della vita di Proust».
La serietà dunque, e il fascino sommati all'intelligenza e alla nobiltà morale. Le qualità, all'incirca, che anche René Dumesnil sarà pronto a riferire a sua volta in un profilo-testimonianza tracciato appena qualche anno dopo la morte del musicista avvenuta nel gennaio del 1947. Hahn era nato il 9 agosto del 1875; ecco cadere dunque quest'anno il centenario della sua nascita, un'occasione per ricordarlo.
Chiarisce Dumesnil che conobbe a fondo l'uomo e l'artista: «Una parola potrebbe caratterizzare l'uomo e la sua opera: l'eleganza», E prosegue: «Per noi che l'abbiamo conosciuto, questa eleganza, questa distinzione, non appariva soltanto come il segno di uno spirito meravigliosamente fine e colto, ma anche come l'attitudine naturale d'un difensore della tradizione nel cuore di una società che la durezza dei tempi portava a infischiarsene ogni giorno della delicatezza e della bellezza». Reynaldo dunque, figura, personaggio centrale, filtro importantissimo, una chiave anch'egli se vogliamo, per comprendere a fondo il vero significato della «recherche»: creatura squisita che ponendosi in equilibrio tra passato e presente molto doveva influenzare la sensibilità del romanziere amico.
Ma chi fu veramente Reynaldo Hahn? Quando Proust lo conobbe aveva si e no diciannove anni. Era allievo di Massenet al Conservatorio, dove era entrato ad undici anni avendo Grandjany, Descombes, Dubois e Lavignac rispettivamente come insegnanti di solfeggio, pianoforte e armonia. Era cantante di temperamento finissimo, pianista e compositore che andava affinando una penna brillantissima. Ebreo, nato a Caracas nel Venezuela, viveva a Parigi ormai da alcuni anni con i genitori ed uno sciame di sorelle.
Per rifarci ancora a Painter, questi così lo descriveva: «Aveva occhi scuri, pelle olivastra, un bel viso austero e baffetti bruni»E' il ritratto che restituiscono anche le foto ufficiali, anche quelle della maturità, di quando alternando la sua attività di direttore d'orchestra era diventato anche critico musicale (dal 1934) al «Figaro».
Vissuto dunque nell'epoca di Ravel e di Debussy, anche se non possedette il raro talento e le doti di costoro fu tuttavia uno degli artisti più colti e sensibili del suo tempo. «Egli si rivela - scrive ancora il Dumesnil - l'erede diretto di Massenet e di Messager: l'apparente leggerezza si apparenta con lui a un scienza profonda che fu quella dei due maestri» e ancora «le sue melodie gli assicurano una posterità perché esse riflettono esattamente una maniera di sentire che fu quella di un'epoca, perché c'è in Reynaldo Hahn una sensibilità accesa; una delicatezza che sono di ogni tempo».
Per comprenderlo esattamente bisogna dunque staccarsi dalla sua più superficiale immagine che è poi quella che riflette l'autore di tante gaie commedie musicali; il compositore di musica elegante sì ma fragile e facile, e cercare piuttosto là dove meglio sta la sostanza più genuina della sua arte. E' vero che se stendiamo l'elenco delle sue composizioni (fu un lavoratore instancabile; le opere - disse un suo biografo - si aggiungevano alle opere senza traccia di fatica né di esaurimento) ciò che sembra emergere è proprio il gran ventaglio delle operette e delle commedie musicali, più o meno fortunate, da lui musicate nell'arco di lunghi decenni. Oltre alla citata e manierata «Ciboulette» degli anni Venti, già erano apparse ai primi del secolo «L'ile du rêve» (Pierre Loti a suggerirne il soggetto), «La Carmèlite», del 1902, e questa volta il libretto lo aveva confezionato addirittura Catulle Mendes, «Miousic», «Nausicae» e successivamente, cioè dopo il 1823, «Une nuit d'Espagne», «Une revue», «Brummel» (anno 1931 e il successo non proprio effimero), «O mon bel inconue», il libretto uscito dall'abile penna di Sacha Guitry, e ancora, frutto carico di apprezzabilissime melodie (bellissima una Canzone che diventa anche leitmotiv) la commedia musicale (questa volta galeotto fu Shakespeare), «Il Mercante di Venezia» (1935). Un'altra operetta, ricavata dal capolavoro di Moratin «Il si delle ragazze» non riuscirà a portarla a termine e ne ultimerà la composizione il collega H. Büsser. Operette ma anche una serie di balletti tra i quali, oltre a «Le dieu bleu» (1912) e «Aux bosquets d'Idalie» (1937), spicca «La fête chez Thérèse» (1910).
Se fu soprattutto per il segno sgargiante, per i colori vistosi e festosi di tutte queste sue varie composizioni che Hahn conquistò la sua piccola porzione di fama e di gloria, l'eleganza e il vero profumo della sua musica risiedono però soprattutto, e sono in molti a sostenerlo, nelle sue numerose pagine di musica da camera. Da «Sarabande et theme varie» per clarinetto e pianoforte» del l903 a «Caprice mélancolique» una delle sue ultime pagine, del 1947; da «Les rêveris du Prince Eglantine» del 1906 a «Le bal de Beatrice d'Este» per fiati, due arpe e pianoforte e le «Airs irlandais», entrambi lavori del 1911; dai deliziosi «Le ruban dénoué», 12 valzer per due pianoforti, del 1907, al raffinatissimo «Concert Provençal» del 1930 (ma con quest'u1timo siamo già nel terreno più impegnativo ancora della musica orchestrale, di cui altro sontuoso frutto sarà il «Divertissement pur une fête» del '37) fu un lungo procedere per territori dagli orizzonti affascinanti.
Per non dire ancora di quegli «Etudes latines» (10 soavi melodie, anno 1910) e di quelle precedenti, e già più volte citate, «Chansons grises» (1893) nate su liriche di Verlaine (ma altre liriche Hahn musicò su testi di Heine, Hugo, Daudet, e molti altri ancora; e tra le sue molte liriche struggente e popolarissima quella dal titolo «Si mes vers avaient des ailes») d'una malinconia che sembra riecheggiare quella stessa che fluttua in certe pagine di Mozart. Quel Mozart, del resto, da Hahn sommamente ammirato al punto da comporre con coraggio che sa d'azzardo un'opera, il titolo «Mozart» «tout court», che ha appunto lui, il grande musicista, quale protagonista (il libretto confezionato da Cacha Guitry, anno 1925) e del quale, quando a partire dal 45 otterrà l'incarico di direttore d'orchestra all'Opéra di Parigi, s'affretterà a dirigere il «Don Giovanni» con un trasporto e un entusiasmo che dicevano tutta la sua passione.
Per Mozart un vero culto tanto che possiamo essere certi sia stato lui stesso a conculcarlo anche all'amico e neofita, in campo musicale Proust. Nessuno può escludere poi che molte delle bellissime metafore e similitudini che fioriscono lungo l'interminabile viale della «Recherche» siano state dettate o suggerite da Hahn stesso. Basterebbe, di tali metafore, citarne una per tutte, dove però non è Mozart ma Bach (altro idolo comune) a sollecitare la fantasia del romanziere. La troviamo in «Sodoma e Gomorra» a proposito del barone di Charlus. Scrive Proust (la versione quella di Elena Giolitti): «Ci sono momenti in cui per dipingere compiutamente una persona, occorrerebbe che l'imitazione fonetica s'unisse alla descrizione, e quella del personaggio ch'era il signor Charlus rischia di essere incompleta per l'assenza di quel piccolo riso così sottile, così leggero, come certe opere di Bach che non vengono mai rese con fedeltà perché le orchestre mancano di quelle "piccole trombe" dal suono così speciale, per le quali l'autore ha scritto questa 0oquella parte».
Dietro questa similitudine dobbiamo davvero pensare non ci fosse la mano, pardon la sottilissima intelligenza, di Reynaldo? Per convincercene basterebbe rileggere quel suo «Notes-Journal d'un musicìen» o quell'altro suo raro «L'oreille aux aguets», due libri da consigliare al musicofilo autentico, ammesso che riesca a trovarli. A dispetto dell'opaco profilo che ce ne lascia la Albaret, si imparerebbe a conoscere un Reynaldo Hahn un po' diverso.
Domenico Rigotti
("Rassegna Musicale Curci", anno XXVIII n.1 aprile 1975)

mercoledì, maggio 10, 2023

Libertà di scrivere, discutere, informare

L'allestimento al Teatro Lirico, da parte della Scala, della nuovissima opera di Luigi 
Nono, «Al .gran sole carico d'amore», ha sollevato lunghe insidiose polemiche, cui non erano estranei fatti che con l'arte non hanno nulla a che vedere. Queste polemiche non hanno avuto seguito in teatro, dove il civile confronto ha prevalso sulle paure e sulle imposizioni settarie. Per fortuna, diciamo: ma la vicenda ci suggerisce alcune considerazioni che è bene siano presenti a tutti coloro che si occupano di musica e di teatro.
Premesso che l'opera era stata commissionata a Luigi Nono nel 1972 e che era stata annunciata in cartellone nell'autunno scorso, occorre ribadire senza esitazione che ogni limitazione di spazio alla cultura è un attentato alla libertà. Se si comincia a discriminare un`opera in ragione dei suoi contenuti, si crea un precedente pericolosissimo. Se si vuole esautorare un Consiglio d`amministrazione e una direzione artistica (come era nelle intenzioni di un gruppo di potere milanese) con pretesti politici - a scoppio ritardato - si commette, se non altro, reato di prepotenza. E si fotografa nuovamente la cosi detta «arroganza del potere».
Il problema sollevato dall'allestimento dell'opera di Nono, da sempre iscritto al P.C.I. (Partito Comunista Italiano) e da sempre impegnato in una battaglia ideologica e politica, doveva restare sul piano dell'arte e dello spettacolo. Il giudizio del pubblico non deve essere influenzato da atteggiamenti censori di tipo metternichiano. Né bisogna aver paura dei confronti. Se bastasse un'opera per far vincere le elezioni ai comunisti, che bel paese culturale sarebbe il nostro. Invece non basta nemmeno il monopolio televisivo a dare la maggioranza assoluta a chi lo gestisce.
Battaglia perduta in partenza, per fortuna, anche perché Luigi Nono è uno dei massimi musicisti europei e perché il suo regista Juri Liubimov è uno dei massimi registi del mondo. L'opera ha superato la prova del pubblico: mai si è visto tanto interesse per uno spettacolo. La musica contemporanea fa progressi: modesti, se vogliamo, ma importanti. Le polemiche hanno aiutato lo spettacolo? Certo, ma non sarebbero bastate a riempire per otto sere il Lirico. Né il pubblico risulta sia stato costretto con la violenza ad andare al «Gran sole».
La libertà, dunque, consiste nel poter esprimere ogni pensiero senza paura: in teatro, col rispetto per il teatro. Libertà è anche poter scegliere gli argomenti: Nono ha scelto la Comune di Parigi, qualcun altro potrebbe scegliere Mac Mahon, il comandante che abbatte la Comune.
Libertà è, ancora, non avere paura dei fantasmi e delle idee: siamo sempre portati a credere alla buona fede del prossimo, ma ci piacerebbe sapere perché lo zelo dei censori si accanisce soltanto contro le «cose» del pensiero. Vanno benissimo i film violenti, le storielle indecenti, purché siano fuori dalla cultura. Va male invece «Al gran sole», opera difficile dove non esiste la minima provocazione verbale, come andava male, qualche anno fa, il «Galileo» di Brecht.
Libertà è infine onestà: non è lecito, se non a Don Basilio, usare le armi della diffamazione; non è neppure lecito far finta di non sapere i veri termini del problema; non si deve mentire sui numeri e sulle parole. Purtroppo, cari lettori, non abbiamo fatto bella figura: da tutto il mondo venivano a Milano critici e direttori di teatro, da Los Angeles come da Tokio, da Parigi e da Berlino, e da noi qualcuno voleva che l'opera fosse «rinviata a settembre» perché in giugno ci sono elezioni amministrative e regionali... Conseguenza del successo dello spettacolo: un aumento delle quotazioni di Nono e di Paolo Grassi, che forse era il vero bersaglio di tale campagna.
A questo punto - lasciamo da parte il prestigio della nostra cultura, troppo spesso valutata meglio all'estero che fra noi - diciamo a chiare lettere che, come è successo al Petrarca di Béjart-Berio, anche «Al gran sole» ha un successo mondiale: sarà allestito a Norimberga, Kiel, Amburgo, Varsavia, Berlino (DDR), Lisbona, Berlino (BRD), Parigi negli Stati Uniti a Zagabria a Belgrado e in molti altri centri ancora. Come mai, ci si può chiedere? Ma allora sono soltanto alcuni milanesi a sentire odore di zolfo dove zolfo non c'è?
O è un vizio nostro maltrattare i nostri migliori ingegni e a renderli più conosciuti all`estero. Negli Stati Uniti e in Germania Occidentale Luigi Nono è considerato un grande; Berio ha avuto fortuna in America, Maderna a Darmstadt, Arrigo a Parigi, Bussotti in Francia e nel resto d'Europa, perfino il compianto Dallapiccola era più eseguito in Germania Ovest e in Inghilterra che da noi.
Dobbiamo allora pensare che sotto i mantelli delle polemiche e delle insidie si nasconda il vecchio provincialismo e il terreo, retrivo aspetto scolastico della nostra cultura ministeriale. Ma questo mondo che cosa crea, se non il continuo lamento di essere vittima di complotti a livello mondiale gestiti da intellettuali pericolosamente sovversivi?
Restano i fatti: l'opera di Nono era giusto fosse rappresentata, come è giusto sia rappresentato ogni fatto d'arte. E' anche giusto il dissenso, non l'esorcismo. Non il linciaggio, non la menzogna Tali cose spettano di diritto agli ammiratori di Pinochet.
Mario Pasi
("Rassegna Musicale Curci", anno XXVIII n.1 aprile 1975)

venerdì, aprile 21, 2023

Giorgio Federico Ghedini, un incontro...

Via Tiepolo, 11: qui abita il M° Giorgio 
Federico Ghedini, dopo essere stato 11 anni Direttore del Conservatorio Giuseppe Verdi, e qui sono andata a trovarlo. Pur conoscendo la sua musica, desideravo conoscere anche l'uomo che l'aveva concepita e tradotta sul pentagramma. Il Maestro mi accoglie nella sua nuova casa. Mi colpisce il suo studio, posto a mezzogiorno, dalla cui finestra lo sguardo spazia sul sottostante prato. La luce che l'illumina è viva, l'aria pura e l'arredamento moderno si accoppia, in maniera quanto mai armoniosa, con quello antico. Molti libri, tanti dischi, un magnetofono e, sul lungo tavolo-scrivania, le fotografie dei genitori: davanti al tavolo, una grande poltrona scura sotto una lampada chiara. Tutto questo registrano i miei occhi prima di posarsi sulla figura del compositore.
Giorgio Federico Ghedini è un uomo di media statura, asciutto e con una innata distinzione di modi: ha mani lunghe, nervose ed occhi penetranti, vivissimi, allo sguardo dei quali non si può sfuggire. Si intuisce subito che dietro la sua fronte alta e spaziosa c'è una mente attiva. La sua intelligenza trapela da tutta la persona, ed io mi rendo conto di trovarmi di fronte, oltre che ad un grande artista, ad un uomo di levatura eccezionale. Il Maestro mi guarda sorridendo; sorrido anch'io ed inizio la mia intervista, certa della sincerità delle risposte. Perché anche questo si comprende dal suo volto: che egli è un uomo sincero.

So che lei è piemontese ma il suo diploma l'ha conseguito nella città dotta, cioè Bologna: cosa può dirmi sulla diversità di insegnamento fra Torino e Bologna?
Mia madre era di Casale Monferrato e mio padre bolognese. Io ho studiato a Torino, ma il diploma l'ho conseguito a Bologna nel 1911 quando il Liceo Musicale era diretto da Marco Enrico Bossi, organista e compositore. Bologna aveva, allora, note tradizioni musicali: ci ricorda, infatti, Mancinelli, compositore e direttore d'orchestra, Martucci, pianista e compositore, direttore d'orchestra, Busoni, ecc. Io sono figlio di un appassionato, anzi fanatico, della musica ed ho ancora presente quanto mio padre mi narrava relativamente ad episodi avvenuti nella sua giovinezza. Egli, tutte le domeniche, si recava con un suo amico a S. Petronio per ascoltare la Messa cantata che veniva diretta da Mancinelli - Direttore del Liceo Musicale - il quale, oltre a dirigere concerti, era Maestro di Cappella a S. Petronio, Presidente della Società del Quartetto, Direttore dei Concerti Sinfonici al Comunale e Direttore dell'Opera. In una di queste domeniche, si sentì battere la spalla da Mancinelli che domandò: «Perché venite sempre a sentire queste brutte esecuzioni?». Mio padre, giovane universitario, rispose: «Maestro, noi siamo poveri, ci piace la musica e veniamo a sentirla dove non si paga» Mancinelli allora offrì loro delle tessere perché quei giovani avessero potuto ascoltare i concerti.
Nel ricordo della giovinezza trascorsa nella musica, mio padre, ingegnere, poi, a Cuneo, preferì mandarmi a conseguire il diploma a Bologna. Avevo diciotto anni.
Lei ha insegnato nei Licei e Conservatori di Torino, Parma, Milano; può dirmi qualcosa sulle sue maggiori soddisfazioni di insegnante?
Soddisfazioni ne ho avute dappertutto, anche se colorate diversamente in quanto i caratteri cambiano da regione a regione, e ingratitudine, espansività, comprensione o incomprensione, entusiasmi, fanno parte
dell'animo umano per cui si alternano. La lunga esperienza, però, mi ha temprato a queste vicissitudini: concludendo, posso affermare che il bilancio e più positivo che negativo.
Lei preferisce, se di preferenza si può parlare in campo musicale, comporre musica da camera o teatrale?
Sono due impegni diversi: l'una e l'altra.
So che lei è compositore di sicura immaginazione, di tecnica senza compromessi, senza legami o preconcetti: ciò premesso, posso dire che la musica è la linfa della sua vita?
Sì, è stata ed è la linfa della mia vita.
Poiché è considerato, a ragione, l'esponente più valido della musica contemporanea italiana, desidererei da lei un parere: annovera fra la musica la così detta «musica-elettronica» o per lei essa è semplicemente «elettronica»?
La così detta musica «elettronica» è un esperimento che può essere anche interessante, i cui risultati possono, se mai, impiegarsi nei suoni in sottofondo di certe scene cinematografiche. Arte, forse no.
Ho interrogato molte persone che la conoscono a fondo e tutte sono concordi nel riconoscere in Giorgio Federico Ghedini molto spirito intelligentemente umoristico: perché questo umorismo non si riflette nella sua musica? Forse anche per lei, come per tanti altri Grandi, la musica rappresenta una evasione?
Nel mio caso è l'«humor» che rappresenta una evasione. Quando io faccio musica, faccio dramma; da ciò la necessità di evadere anche per il senso dell'umorismo che e un freno ed una misura.
Ho sentito, al Conservatorio, il suo concerto dell'Albatro: perché ha incluso nel complesso anche una voce recitante? Forse perché uno strumento, od un cantante, non avrebbe potuto rendere quello che lei desiderava?
Sì, perché mi parve, a un certo punto, che l'intervento di una voce recitante, e non cantante, si addicesse meglio a questa stupefazione che volevo dare a quelle parole. Parole che in origine dovevano essere cantate da una voce di baritono. Ma in questo caso la voce di baritono mi pareva troppo realistica.
Chi considera, oltre a lei, degno di rappresentare la musica italiana?
Io credo ancora nelle radici etniche della musica; voglio dire che, per chi è nato in Italia, la sua musica deve rispondere alle caratteristiche etniche della sua terra. Vedi, ad esempio, Verdi e molti altri di quell'800 benedetto. Oggi c'è una tendenza ad una sorta di «esperanto» musicale, ad un livellamento, quasi ad una abolizione della personalità: perché questo?
So che lei ha lasciato quest'anno la Direzione del Conservatorio «Giuseppe Verdi»: sente la mancanza delle voci degli allievi, dell'organizzazione degli studi, della preparazione ai saggi che lei seguiva sempre con severo e pur affettuoso incitamento?
Molto.
Cosa pensa di Sergiu Celibidache?
Dire cosa penso è dire poco, e dire niente: penso che sia un mio fratello.
Perché, secondo lei, Maurizio Pollini, dopo il concorso Chopin, ha quasi abbandonato quell'attività che ci si aspettava da lui dopo un premio simile?
E' errato: Maurizio Pollini non ha mai lasciato la sua attività musicale che consiste non solo nello studio del pianoforte, che è cosa per lui tecnicamente superata (la tecnica di Maurizio Pollini è meravigliosa), ma anche nella sua vita intensissima fatta di pensiero, di profondi studi degli autori e dei testi e di battaglie contro la pigrizia del pubblico e le consuetudini. I rapporti, per esempio, delle velocità nello stacco dei movimenti musicali sono oggetto, per lui, di una continua problematica. Pollini è il più meraviglioso musico che io mi conosca!
Quale delle sue composizioni le ha dato più soddisfazioni, perché eseguita come lei voleva, o per successo del pubblico?
La mia produzione é molto vasta, le composizioni anche del 1926 o del 1927 sono ancora oggi eseguite, e questo prova la loro vitalità. Generalmente, il compositore ama l'ultima sua opera, l'ultimo suo lavoro. Per me non è sempre così. La «Partita» (1926), «Marinaresca e Baccanale», «Architetture» (1940), i «7 Ricercari» per trio: violino, violoncello e pianoforte (1943), il «Concerto Spirituale» per due voci e strumenti (l943), l'«Antifona per Luisa», i «Contrappunti» per trio d'archi e orchestra, il «II Quartetto», gli «Appunti per un Credo», gli «Studi per un affresco di Battaglia», il recentissimo «Credo di Perugia» (1962) e infine l'ultima composizione, «Musica concertante» per violoncello e archi (1962), sono le tappe più significative: quali preferire? E' una imbarazzante domanda: magari nessuna...
Penso che quella del compositore sia una strada molto difficile, anche perché penso che quando si compone si abbia una idea personale di come va eseguito il pezzo: non crede anche lei che l'esecutore possa travisare quello che concepì l'autore? Chi, in questo senso, è stato più aderente alla idea esecutiva di Ghedini?
Tutti i direttori che sono musicisti sanno, perché tali, leggere oltre il segno.
Quando lei compone, concepisce la sua idea musicale al pianoforte per poi maturarla sulla carta, oppure ha qualche suo sistema? In quest'ultimo caso, me lo sveli.
La musica se é, per esempio, per orchestra, nasce fin dal primo appunto vestita nei suoi timbri, immaginata per quel tale strumento e non per un altro. Potrebbero passare degli anni: ma se ritrovassi un appunto di allora ricorderei perfettamente che tale motivo era, per esempio, destinato a un violoncello, o a un flauto, o a un oboe...
Quale paesaggio la ispira di più?
Io posso comporre senza pensare a visioni naturistiche o ad altro, perché faccio della musica. Anzi, un paesaggio troppo bello mi distrae e disturba.
Secondo lei, quale influenza ha l'amore nella musica?
Moltissima: esempio celebre il «Tristano».
Ci sono i tram, le sirene, tutti i rumori che influenzano ogni stato d'animo: come fa ad astrarsi, a concentrarsi, a trovare un senso musicale per la sua arte nel marasma della vita moderna?
Quando compongo non penso che a quello che debbo fare. Ad esempio, ricordo che in un paese di villeggiatura, mentre lavoravo, fui assalito da uno scampanio domenicale della vicina chiesa che mi costrinse ad uno sforzo per non perdere il filo di quanto stavo tessendo: non fu, però, una astrazione la mia (il suono delle campane mi frastornava veramente), ma un atto volontario il ribellarmi a quel suono.
Ho ascoltato, e gustato, la sua ultima composizione per violino ed orchestra eseguita, nella scorsa stagione della R.A.I., dal violinista Franco Gulli sotto la direzione del Maestro von Matacic: cosa pensa di questo nostro violinista?
Franco Gulli é una natura violinistica stupefacente e ha quella musicalità ricca che sanno avere i triestini quando sono musicisti: Gulli lo é in tutti i sensi. Nella interpretazione del mio «Divertimento» per violino e orchestra, egli raggiunse, nel lungo arabesco del I° tempo (è per violino solo) quello che l'esecutore dovrebbe sempre raggiungere, ossia la sensazione che la musica non sia scritta ma che l'esecutore la capti per l'aria e la realizzi in quel momento: musica non scritta, ma creata lì per lì. Queste sensazioni mi ricordano quelle provate, a volte, ascoltando grandi esecutori come: il Quartetto Italiano, il Trio di Trieste, il Quartetto Bush, ecc.
Desidererei sapere da lei la sua idea su Arturo Benedetti Michelangeli: è un genio?
E' un pianista squisito! Il suo suono è meraviglioso, la sua tecnica ineccepibile, i suoi piani sonori studiatamente perfetti: é un apollineo!
In relazione ai risultati conseguiti dai giovani compositori che frequentavano il Conservatorio quando lei ne era Direttore, prevede che la tradizione musicale italiana continui?
Ho molti dubbi sotto questo riguardo perché, come ho già detto, c'é un senso di pianificazione e anche di far presto che, per varie ragioni che non sto qui a dire, pare orientare i giovani verso strade alla moda.
Da che cosa dipende, in genere, la sua maggior disposizione a comporre?
Il fatto creativo e sempre misterioso: a volte con tutte le comodità e l'ambiente propizio, il risultato é nullo, a volte, invece, quando manca il tempo, o disagiate condizioni di ambiente sembrerebbero opporsi ad ogni buon rendimento, l'idea musicale - che forse covava nel «sub-cosciente» chissà da quanto tempo - dà l'avvio ad una buona giornata di lavoro.
Mi può dire qualcosa della sua ultima opera, il «Credo di Perugia», eseguito alla Scala?
E' musica senza tempo. E' musica, come del resto quasi tutta la mia, che non segue i postulati contingenti e non vuole essere né antica, ne moderna.
Avremo qualche suo altro frutto in un prossimo futuro?
Non si può ipotecare il futuro, ma io penso di poter ancora scrivere qualcosa di valido e di non inutile, forse, per chi avrà la bontà di ascoltarmi.

Questa é l'ultima risposta di Giorgio Federico Ghedini; ed e una risposta che dà a me e al suo pubblico la speranza di sentire ancora qualcosa di nuovo e di sempre maggiore interesse musicale. Guardando intorno vedo il pianoforte aperto: è quasi un simbolo, perché tutto é pronto per accogliere l'ispirazione musicale, per donare altra fonte di gioia a chi ama l'arte dei suoni.
Le voci degli allievi del Conservatorio che il Maestro ha detto di udire sempre dentro di sé, si uniscono a quelle degli appassionati di musica e diventano un coro, in attesa che quel pianoforte presto vibri sotto il tocco dell'illustre compositore.
Carta da musica vergine verrà riempita di note, orchestre suoneranno una volta di più le vive composizioni di questo Maestro, il pubblico applaudirà ancora e la musica italiana contemporanea troverà sempre in lui il suo maggiore esponente.
Lascio casa Ghedini felice di aver personalmente conosciuto l'autore del «Credo» e, nello stesso tempo, felice di aver constatato che anche l'uomo, oltre al musicista, è eccezionale. I suoi occhi mi sorridono nel salutarmi e la sua vigorosa stretta di mano mi trasmette forza ed un acuto senso di gratitudine.
Jolanda D'Annibale
("Rassegna Musicale Curci", anno XVII, n. 1 marzo 1963)