Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, settembre 01, 2024

Janos Starker: un violoncello fra mito e simpatia

Janos Starker (1924-2013)
Dopo aver suonato splendidamente al Comunale di Imola per la stagione 
degli Amici della Musica Janos Starker acconsente a concedere un'intervista a Symphonia e non è la prima volta che la rivista si occupa del violoncello, strumento affascinante suonato da grandi signori della musica. Starker ottimo musicista, figlio di una lunga tradizione nazionale, quella ungherese, non è solo un interprete ben noto a livello internazionale, possiamo dire che da tempo è entrato nell'olimpo dei violoncellisti contemporanei. La mattina dopo ci presentiamo al suo albergo e il discorso inevitabilmente parte dai suoi esordi, quando, lui ancora bambino, la madre decise che doveva studiare musica, I suoi due fratelli già praticavano le irte difficoltà del violino, per cui gli toccò il violoncello. E Starker, dall'età di sei anni, senza neppure averlo deciso, (ci tiene a sottolineare che fu la madre a scegliere per lui), crebbe insieme allo strumento. Una carriera, particolare, anomala, potremmo dire, la sua. E, davanti al microfono, questo affabile signore, pieno di energia mentre suona, dagli occhi chiari che ti fissano con uno sguardo sempre leggermente ironico, torna all'infanzia.

Chi fu il suo primo insegnante?
Ho studiato solo per alcuni anni con gli insegnanti. Il primo con cui si chiamava Teller, con lui studiai solo poco mesi, il secondo Adolf Schiffer. Vivevano a Budapest. Con Shiffer studiai fino all'età di quindici anni e da allora non ho mai più preso lezioni.
Così precocemente ha smesso di andare a scuola?
A quell'età stavo già dando i miei primi concerti, avevo incominciato ad insegnare e avevo circa otto studenti. Ero molto impegnato e, accantonato lo studio dello strumento, mi dedicai ad altro, alla musica da camera, per esempio, con il famoso professore Leo Weiner. Tutti i musicisti ungheresi nel mondo hanno studiato con quest'uomo. Nella sua classe c'erano persone come Georg Solti e Antal Dorati.
Dopo la II`Guerra Mondiale lei si trasferì in Francia. Cosa ricorda di Parigi?
Di quei giorni, era il 1946, ricordo che non avevo un soldo ed ero perennemente affamato. C'era un gruppo di musicisti ungheresi che vivevano a Parigi sognando le carriere che un giorno avrebbero potuto fare. Lì incontrai il mio amico Antal Dorati che, nel 1948, mi aiutò ad emigrare negli Stati Uniti proprio perché mi voleva nella sua orchestra, la Dallas Symphony Orchestra .
E negli Stati Uniti andò meglio?
A Parigi il primo anno avevo incontrato molte difficoltà, poi, dopo aver incominciato a suonare e a registrare, avevo risolto gran parte dei problemi economici. Nel 1948 fui premiato con il Grand Prix di Disc per la Sonata per violoncello solo di Kodaly. Quando arrivai in America invece non avevo più  preoccupazioni di questo tipo, mi davano anche uno stipendio.
Che impressione le fece il Nuovo Mondo?
Smisi di dare concerti e facevo il primo violoncello nelle orchestre. A Dallas, poi per quattro anni al Metropolitan di New York ed infine a Chicago. Così ebbi l'occasione di suonare con i più grandi cantanti italiani, per esempio Di Stefano ed Ezio Pinza. E poi la Callas. Molti di loro ormai sono morti.
Lei ha suonato sotto la direzione dei direttori più famosi, può ricordarne qualcuno?
Posso dirle che con l'eccezione di Toscanini e Furtwängler, e, naturalmente dei più giovani, ho suonato con tutti. Con Karajan ho suonato a Berlino, sono stato diretto da Carlo Maria Giulini con il quale ho fatto molte incisioni. Fritz Reiner fu quello con cui ebbi più contatti perché dal Metropolitan mi trasferii a Chicago e fui il primo violoncello della Chicago Symphony Orchestra. Poi con Bruno Walter, Ernest Ansermet, Charles Münch, Paul Klecki, Klemperer: penso di aver suonato con tutti i più grandi in quel periodo.
Con quale di loro entrò più in sintonia? Ne ricorda uno in particolare?
Per me il più importante fu Fritz Reiner. Insieme facemmo molti concerti. A mio giudizio è il più grande direttore in assoluto.
Come ricorda quei primi tempi in America?
Fu un periodo molto complesso nella mia vita. Ero ungherese, ma dopo la Guerra l'Ungheria fece una svolta politica e per me era diventato impossibile avere un passaporto con cui viaggiare. Volevo diventare americano e quando ci riuscii ricominciai a viaggiare. Fino al 1958 suonai solo in orchestra e poi fui nominato docente presso l'Indiana University a Bloomington. Dopo ho ricominciato a tempo pieno a dare concerti.
Mi sembra di capire che avesse un'attività molto intensa...
Ho suonato in centinaia di concerti nelle orchestre, insieme abbiamo fatto numerose incisioni. Incominciai ad incidere da solo dopo aver lasciato la Chicago Symphony Orchestra. Di Brahms, insieme alla Chicago Orchestra, ho eseguito con Heifetz il Concerto in la minore e con Gílels il Concerto per pianoforte dove suonavo l' "a solo". Poi le famose edizioni della musica di Strauss con Fritz Reiner e molte sinfonie di Mozart, Beethoven, Bartok.
Lei ha suonato anche con la Filarmonica di Budapest?
Per una stagione prima di lasciare l'Ungheria, ero il primo violoncello, nel 1945. Il direttore era Ianos Ferencsik con il quale incisi poi il Doppio Concerto di Brahms con Wolfgang Schneiderhan e l'Orchestra di Berlino.
Il pubblico in Europa e negli Stati Uniti: che differenze sente un concertista?
Non ce ne sono: dipende dove si è negli Stati Uniti e dove in Europa. C'è un ascolto diverso in Texas o in California, a Padova, a Imola, a Roma, a Bologna o a Milano. Il problema è se c'è un gran numero di persone che capiscono la musica, la conoscono, e vanno ai concerti perché vogliono non perché è un obbligo. Ho suonato per tre serate a Parigi e lì il pubblico non dà molta soddisfazione. La gente è un po' distaccata, eppure, anche lì dipende dalla sala o dal teatro in cui sei. Tutt'altro in Olanda: il pubblico si alza, manifesta il proprio entusiasmo, batte i piedi.
E a Imola?
Il pubblico era molto tranquillo, ma simpatico. L'unico problema è il teatro, molto bello ma durante l'esecuzione non risuona e non sappiamo mai se il pubblico sente oppure no perché è “molto secco, non riverberante” [in italiano].
Lei insegna all'Indiana University. È importante l'esperienza didattica?
È la cosa più importante che faccio, più dei concerti.
Addirittura?
Vede ho fatto centinaia di concerti, e ancora ne farò, ma essi finiscono. Può darsi che Lei faccia una bella rivista, ma essa finisce. Quando io insegno quegli studenti porteranno dentro quello che io gli ho trasmesso per tutta la vita.
Cosa insegna i suoi studenti? La tecnica e poi?
Insegno un modo di pensare lo strumento e la musica. In ogni periodo della storia c'è molta gente che noi chiamiamo grandi artisti, ma la vita, quella musicale, è fatta di persone ben preparate che possano eseguire musica per quartetto, da camera, orchestrale, lirica e da balletto e la qualità di questi gruppi dipende da quanto i musicisti sono preparati. Così io li aiuto a diventare veri professionisti e questo significa sapere il più possibile del loro strumento, su se stessi e su come presentarsi al meglio, su come
utilizzare il loro corpo anche, e essere capaci di ricoprire ruoli musicali sempre diversi. Questo per me significa insegnare. Non insegno ai miei allievi come suonare il concerto di Dvorak: dico sempre che devono trovare una loro strada, suonando e ascoltando. L'importante è come lo fanno e perché.
Lei ha citato molti tipi di musica: da camera, i pezzi da solista...
Bisogna, per cominciare, insegnare ogni cosa. E per questo servono i metodi ma il metodo non è solo un libro. Io ho scritto un manuale di pratica, su come sviluppare la mano sinistra e tutto il resto. Ma questa è solo una piccola parte. Il metodo è capire cosa succede prima di suonare, cosa accade nel lato destro, cosa succede con quello sinistro e cosa succede nella testa e nelle orecchie.
Pensa che questo sia uno strumento difficile?
No, penso che sia il più facile. Ti accomodi a sedere e lo suoni. È solo grande e richiede una notevole energia fisica.
Ho visto infatti mentre suonava ieri sera un notevole impegno anche sotto questo punto di vista, come un grande vigore...
L'energia è importante, così come la potenza fisica, ed è per questo che il violoncello non può essere suonato tanto a lungo quanto il pianoforte o il violino. Io mi sto avviando verso la fine della carriera, alla mia età suonare diventa sempre più difficile perché sei meno forte. Posso rompere qualche manico perché le mie mani sono ancora molto forti, ma non per molto.
Ha qualche consiglio da dare a chi voglia intraprendere questa carriera?
La cosa più importante è la pratica: pratica e ancora pratica. E dopo pensare a cosa si sta facendo non solo sedersi e ripetere su e giù, ma cercando se qualcosa non funziona, tirare fuori i problemi, le domande.
Pensa sia importante ascoltare gli altri musicisti?
Certo, registrazioni, concerti dal vivo. E non solo di musica per violoncello. Ho imparato di più ascoltando i violinisti e parlando e suonando con gli insegnanti di violino. E poi bisogna ascoltare la voce, i cantanti: la voce umana ci dà l'esatta idea di cosa significa fare musica.
Ho infatti letto da qualche parte che la voce del violoncello è come quella umana. Lei quindi è d'accordo?
Naturalmente, perché il violoncello non ha una, ma molte voci che vanno da quella più bassa alla "coloratura da soprano". L'altra sera al concerto non abbiamo ascoltato pezzi di coloratura, ma il violoncello può suonare tutti i registri della voce umana e può anche produrre i colori orchestrali. Questa è una delle cose più importanti: un musicista non può dire di eseguire la Sonata di Brahms perché ha studiato solo quella particolare sonata. Io suono tutte le sinfonie di Brahms, e tutti i concerti per violino e quelli per pianoforte e la musica da camera cioè uno deve entrare nel linguaggio di Brahms.
Cosa pensa degli strumenti originali?
Ritengo che sia importante per chi fa musica, anche se personalmente non sono molto interessato al problema: abbiamo strumenti diversi e suoniamo in sale più grandi. Le faccio un esempio: a me piace il rock, personalmente non ne faccio ma per la gente è molto importante.
Cosa ne pensa del Kronos Quartet?
Non suono la loro musica, ma è importante che loro la facciano. Le persone non fanno  sempre le stesse cose e questo è un problema soprattutto per i musicisti più giovani. Capisco che è difficile suonare il violoncello meglio di quanto non abbia fatto io che suono da cinquant'anni e più. L'importante è allora differenziarsi, con una personalità diversa, con un nuovo repertorio e così via. Io stesso eseguo opere nuove, lo scorso mese leggevo un concerto di un compositore cinese che presenta un tipo di musica che non ho mai fatto prima.
So che Lei è molto interessato alle tecnologie che migliorano l'incisione e l'ascolto. Cosa ne pensa dei moderni mezzi di riproduzione?
Il compact disc mi pare produca una qualità davvero alta, certo migliore di quelle precedenti. Ma molte delle mie vecchie incisioni discografiche ristampate in cd non sono digitali. Oltre alla tecnica di ripresa digitale oggi si può ottenere un suono migliore di una volta perché i microfoni, il montaggio e il sistema di riproduzione sono migliorati. L'attuale cd è entrato nel mercato circa otto anni fa, da allora ho fatto moltissime incisioni e molte sono state ristampate ma c'è sempre una novità perché ci sono i micro nastri, il disco digitale o il mini disc e sono supporti sempre più piccoli e perfetti. I cambiamenti dunque sono veloci ed è veramente difficile commentare cosa sia buono e cosa cattivo, perché arriva sempre qualcosa di nuovo. È davvero interessante per noi che abbiamo vissuto tanto a lungo vedere come improvvisamente ogni cosa cambi così velocemente, e non ha senso comprare nuovi riproduttori perché la prossima settimana chissà cosa può uscire.
Cosa chiede ad un tecnico del suono quando registrate?
Di ascoltare cosa stiamo realmente suonando e di essere sicuro che quello sia il suono che lui sta registrando. Il tecnico del suono non può inventare una grande esecuzione: può riprodurre il suono che uno fa ma esso a sua volta dipende solo dagli artisti. Se l'artista ha chiaramente nelle orecchie il tipo di suono che vuole ascoltare allora il tecnico del suono lo aiuterà a ottenerlo e il tecnico può evitare degli errori perché un disco non è come un concerto. Se nel concerto fai alcune note che non suonano o che sono leggermente variate di tempo non è una così grande catastrofe perché il suono fluisce. Ma se compri un disco e lo fai suonare e risuonare e c'è sempre lo stesso errore non va bene. Per questo gli errori devono essere eliminati nel disco. Questo è il lavoro del tecnico: far rieseguire un pezzo se necessario o produrre la registrazione.
Lei lavora con il tecnico del suono quando registra?
Naturalmente. Ho terminato tutte le sei Suites di Bach per la quinta volta. Il tecnico del suono era un ragazzo giovane che era anche un buon cantante e direttore, ha un orecchio eccezionale e aveva studiato lo strumento con me. Così egli sapeva come preparare la registrazione e come avrebbe suonato. Così se capiva che qualcosa non andava mi diceva “di nuovo, da capo".
Cosa prova quando sente una nuova edizione di un vecchio disco. Magari di vent'anni fa?
Sono contento di sentirmi, però oggi suono in modo diverso rispetto a quando ero giovane. Così per un disco di tanti anni fa, la questione è una sola: se era buona l'esecuzione. Rispetto ad allora penso che siano diventati più importanti altri elementi. A quel  tempo ero interessato a esser sicuro che ogni cosa fosse perfetta e le cose erano, non so come, più veloci di adesso, ma succede spesso nella vita di dover rallentare. Oggi mi interessa di più l'improvvisazione.
Ho letto in un suo scritto che lei parla di un "ascolto elettronico"...
È quello che dicevo, il poter ascoltare le registrazioni avanti e indietro e a qualsiasi velocità: questo ha sviluppato quello che  chiamo un orecchio elettronico.
Affronta questi argomenti con i suoi studenti?
Con loro parlo di tutto. La cosa più importante è che essi capiscano il mondo in cui vivono. Non c'è solo la musica: devono conoscere la letteratura, la storia, le altre arti, la filosofia.
In Italia i giovani musicisti spesso non pensano altro che a suonare...
È molto triste.
Cosa ne pensa dei giovani musicisti? Rispetto alla loro tecnica, e al loro approccio con la musica.
L'aspetto tecnico è certo più alto oggi che nel passato.
C'è qualche motivo particolare perché così poche donne suonano questo strumento?
Poche?
Sì, in Italia sono poche.
La domanda dovrebbe essere rovesciata: come mai così tante?
No, in Italia le donne preferiscono il pianoforte, e tra quelle che si avvicinano agli archi le violoncelliste sono davvero poche...
Forse perché in Italia le donne portano ancora le gonne, non i pantaloni. In America i miei studenti normalmente sono metà e metà. Anzi, in questo periodo ci sono più ragazze e anche la mia assistente è una ragazza.
È mai tornato o ha mai pensato di tornare in Ungheria?
Dopo 25 anni vi ho fatto un viaggio e adesso ogni tre anni circa vi ritorno.
Che impressione ne ebbe dopo tanti anni?
Quelle impressioni sono ora diverse perché è cambiato il sistema di governo e  quindi tutto il paese. La maggior parte dei  musicisti ungheresi ha lasciato il paese nel corso degli anni, ma oggi, dal momento  che si può viaggiare liberamente, essi stanno là come in altri posti.
In Ungheria c'è una grande tradizione musicale. È ancora viva?
La tradizione è notevole e nello stesso tempo la qualità è difficile da raggiungere perché le condizioni economiche non sono buone. Ma la stessa cosa sta accadendo in Italia e dovunque vado sento lamentele sul fatto che non ci sono soldi. Le Società che organizzano concerti non hanno soldi, le orchestre non hanno soldi, i governi non appoggiano le attività musicali. Succede che in giro, e così in Ungheria, ci siano molti musicisti non pagati e tanto pubblico che ha invece abbastanza denaro per andare ai concerti e tornarci. Questo non è un buon periodo per la musica. Non penso che sia la fine ma insomma...
Parliamo dello strumento: che differenze sente fra l'approccio moderno e quello più datato?
Sono stato uno dei responsabili di questo approccio più moderno circa quarant'anni fa. Adesso mi interessano altri temi. Una volta, all'inizio tenevo molto alla perfezione e ogni cosa doveva rispecchiare il più possibile il testo scritto. Ora mi interessano la costruzione, le relazioni, i movimenti, i colori e quello che chiamiamo i contenuti emozionali della musica.
Ci sono compositori che predilige?
Quelli buoni, naturalmente. Personalmente quello che sento più vicino è Brahms, ma ho suonato di tutto.
Lei ha scritto tre metodi per suonare il violoncello, è 1'unica sua attività come  autore?
No, ho pubblicato anche molta musica e un libro di fumetti. Io ne ho scritto i testi ed un amico mi fatto i disegni. Ne ha mai sentito parlare?
Veramente no.
Diventerà un libro famoso. Il libro parla di 54 famosi musicisti, comprende la mia caricatura. Per questo libro molti musicisti mi odiano. Ce n'e qualche brano tradotto nel giornale francese Le Monde de la Music.
Ci sono anche i disegni?
Sì, anche su personaggi come Karajan perché in quel periodo pubblicai solo su musicisti viventi, come Giulini, Copland, Messiaen, Richter, Horowitz. È un libro pericoloso perché da quando l'ho pubblicato molti sono morti. Così gli altri sono contenti di non essere stati inclusi nel volume.
Non posso non chiederle che cosa significa per lei, nella sua vita lo strumento.
Quando a 35 anni divorziai, su un giornale scrissero “Ha divorziato perché comprava i biglietti dell'aereo per il violoncello, ma non per la moglie”. Significa che il violoncello è sempre accanto a me mentre sono in volo, e il suo biglietto di prima classe mi costa un sacco di soldi. Per fortuna non mangia. Ma  qualche volta dico che lui beve, così mi danno da bere per me e per lui.
Ci parli un po' di lui. Come si chiama?
Molte mie registrazioni sono fatte con uno Stradivari, e ho anche un Guarnieri, ma adesso suono un Matteo Gofriller, l'unico con cui ho registrato negli ultimi ventisette anni. Anche Pablo Casals ne aveva uno. Il mio fu fatto a Venezia nel 1706. Oggi c'è una grande passione per i Gofriller così che in giro ce ne sono più di quanti Gofriller non ne abbia mai fatti. È uno strumento molto famoso e prezioso.
Ha mai qualche momento d'incontro con altri violoncellisti?
A Bloomìngton organizzo un incontro tra violoncellisti. C'è un Memorial Cello Center ogni anno condotto da un musicista che abbia superato i sessant'anni. Il primo fu Antonio Janigro, poi Paul Tortelier, Bernard Greenhouse e anche famosi liutai e molte donne musiciste come Zara Nelsova, Sara Garbusova, persone che hanno contribuito alla pratica dello strumento vengono a Bloomington non solo come concertisti, ma anche come insegnanti. Così ogni anno molti convergono in quel posto, passiamo un bel periodo, siamo  grandi amici e quell'anno rendiamo omaggio ad una persona in particolare. Una volta abbiamo organizzato un Cello Congress e abbiamo avuto 600 partecipanti: 250 tra loro, tutti violoncellisti, hanno suonato il Bolero di Ravel insieme a due percussionisti.
Vive ancora a Bloomington?
Ci vivo ormai da 36 anni. Lì i miei figli sono cresciuti, lì vive mia moglie, c'è il mio cane e la mia piscina. Così quando torno a casa di notte, anche se è inverno, mi butto nella piscina. Questa è la ragione per cui posso ancora muovermi come anziano: perché io nuoto ogni notte.
Intervista di Chiara Sirk
("Symphonia", N° 42 Anno V, Settembre 1994)

mercoledì, agosto 21, 2024

Edwin Loehrer, straniero in patria

Edwin Loehrer (1906-1991)
Il 26 ottobre 1985 la Banca della Svizzera Ita
liana, attraverso la sua Fondazione del Centenario, conferì a Edwin Loehrer il premio ch'essa annualmente dà a personalità segnalatesi nella promozione dei rapporti culturali tra l'Italia e il Canton Ticino. In quella circostanza fui invitato a tenere la laudatio per l'insigne musicista, allora quasi ottuagenario e ancora assai attivo.
Nel riproporre ai lettori di Symphonia quel profilo della personalità artistica di Edwin Loehrer ho, per due motivi, rinunziato a qualsiasi ritocco. Da un lato, l'occasione festosa del discorso, e la circostanza che nel Ticino - uno Stato che non ha la metà degli abitanti di Bologna - tutti si conoscono con tutti, giustificano un tono confidenziale che a tutta prima potrebbe disorientare il lettore italiano. Dall'altro lato, purtroppo, non c'è gran che da aggiungere al ritratto dell'artista Loehrer: che poco tempo dopo quella festa sospese l'attività, e che il 10 agosto dell'anno passato, dopo lunga invalidità, in silenzio se n'è andato a far musica cogli angeli.

Nell'esperienza vissuta da ciascuno di noi v'è sempre un episodio cruciale, un evento folgorante che, tra i 15 ei 20 anni, cade a determinare in maniera indelebile la cultura individuale, viene ad imprimere una svolta irreversibile negli orientamenti del gusto e della sensibilità, di quel corredo insomma che accompagna poi la vicenda d'un uomo attraverso la sua vita adulta. Quest'episodio, quest'evento - la lettura di un romanzo o di un poema, la visione di un grande film, la rivelazione d'una bellezza di natura, più di raro un accadimento storico di grande portata, ben più spesso un primo, bruciante amore - hanno, nella sfera delle facoltà cognitive e sensibili, una forza pari alla forza schiacciante di quegli eventi remoti e per lo più inconsci che, nei primissimi anni di vita d'un bambino, ne plasmano ineluttabilmente il carattere nella sfera della personalità: ma sono, a differenza da questi, il più delle volte palesi e consapevoli. Per me, quel coup de foudre al qual debbo, in un certo senso, tutto me stesso, la mia stessa vita professionale, promanò da un disco. Quel disco, che venne a squarciare la monotonia casalinga di un uggioso pomeriggio di sabato nel marzo o nell'aprile del 1962, era il Combattimento di Tancredi e Clorinda di Claudio Monteverdi; lo aveva spedito a casa nostra la RSI, più precisamente il Mo. Loehrer, che dell'esecuzione registrata su quel disco, il primo prodotto dalla sua Società Cameristica di Lugano e il primo subito insignito del Grand Prix du Disque, era il direttore.
Conoscevo Loehrer per qualche sbadato ascolto radiofonico, ma soprattutto ne sentivo parlare con grande simpatia e grande stima da due persone che amerei vedere sedute qui stasera ad onorare Edwin Loehrer (e so che egli stesso ne sarebbe felice), ossia mio padre e il mio padrino di battesimo Emilio Maria Beretta: l'entusiasmo ed il senso profondo del bello e dell'amicizia in Beretta e lo spirito scettico di mio padre erano, congiunti insieme, per me adolescente una garanzia indiscutibile dell'importanza e della qualità di quell'uomo che però di persona non conoscevo e che, dedito com'era alla produzione radiofonica vocale, interessava poco o nulla a uno come me che all'epoca badava soltanto a suonare il fagotto e a raccogliere musiche per gli strumenti a fiato. La rivelazione, abbagliante, venne da quel Combattimento del 1962, venne dalla straripante, contagiosa vitalità di una messa in scena sonora e canora che coniugava la flagranza palpitante dell'emozione con il fascino di una distanza storica ch'era, per me allora, vertiginosa. Fu la rivelazione  di una musica, di una concezione della musica, che da allora mi ha soggiogato: ipso facto m'innamorai perdutamente di Monteverdi; quasi senza ch'io me ne sia reso conto lì per lì, i miei interessi di studente prima, di studioso poi, si sono rivolti nelle due direzioni che s'irradiano da Monteverdi verso il madrigale italiano del Cinquecento da un  lato, verso il teatro d'opera del Seicento dall'altro.
Soltanto, quell'innamoramento fatale non si  sarebbe mai dato con una esecuzione qualsiasi del Combattimento: era occorsa quella di Loehrer per scatenare il meccanismo  d'una identificazione che, in un ragazzotto sedicenne, non poteva che essere totalitaria, a corpo morto, intransigente. (Di li a poco, senza saperlo, fu poi Giovanni Orelli, professore di italiano al Liceo di Lugano, a buttare benzina sul fuoco, quando si mise ad illustrarci la qualità visionaria e anzi la tecnica quasi cinematografica del montaggio narrativo nel poema epico del Tasso, che ai miei occhi era soprattutto il veicolo di quelle cruenti ma tenerissime scene musicali monteverdiane.)
Da quel sabato di primavera del 1962 in poi i dischi di Edwin Loehrer, e coi dischi i Grands Prix du Disque, fioccarono alla più bella. Il Laudario di Cortona, filtrato attraverso la luce opalina di un'orchestrazione soavemente neogotica di Luciano Sgrizzi, iPéchés de vieillesse e la Petite Messe Solennelle di Rossini, dell'altro e sconvolgentissimo Monteverdi (i Madrigali guerrieri e amorosi, che mi fecero scoprire il Marino, il Guarini, il Petrarca, dopo che il ginnasio me li aveva fatti detestare), e poi Antonio Lotti, Antonio Caldara, Antonio Vivaldi: e man mano anche i dischi di Luciano Sgrizzi, che, forte d'un certo suo clavicembalaccio sferragliante, imprimeva un piglio ghiribizzoso e impetuoso a Domenico Scarlatti, a Rutini, a Platti, a Paradisi, a Händel...
Tra il 1963 e il 1965 ebbi modo di presentare uno per uno i dischi della Società Cameristica di Loehrer e Sgrizzi alla radio di Lugano, in un ciclo di trasmissioni che furono il mio apprendistato radiofonico (poi vituperosamente tradito) e il mio apprendistato musicologico (poi proseguito con qualche soddisfazione). Loehrer volle ch'io scrivessi una serie di testi introduttivi per alcune delle quindici serie di "Rarità musicali dell'arte vocale italiana".
L'invenzione di questo ciclo pluriennale di sei trasmissioni annue, prodotte dalla RSI e ritrasmesse da un gruppo amplissimo di emittenti straniere, testimonia il genio programmatorio di Edwin Loehrer. Ogni anno, all'Accademia Musicale Chigiana di Siena, alle Vacanze Musicali di Venezia, e un po' dappertutto in Europa, Loehrer teneva d'occhio il mercato dei giovani musicisti e  delle novità musicologicamente interessanti, per includere gli uni e le altre in un ciclo di trasmissioni dedicate a compositori italiani dal Sei all'Ottocento. Erano cose pregevolissime per la loro rarità e qualità musicale, musiche sacre e teatrali e da camera di autori altrimenti poco frequentati, da Leonardo Leo a Giovanni Paisiello a un'opera "chiave" dello stesso Verdi, lo Stiffelio, curiosamente bandita dalla programmazione corrente, o dello stesso Rossini (il Mosè nella versione napoletana), cose che Loehrer ha diretto e concertato in proprio oppure affidato a direttori ospiti. Sono cose che mancano tutt'oggi sul mercato discografico, e la RTSI farebbe bene a farle stampare in disco il giorno che l'interesse delle emittenti straniere si andasse esaurendo. Sono, intanto, produzioni che hanno portato a Lugano musicisti di ogni parte d'Europa, e hanno diffuso in ogni parte del pianeta il nome di Radio Lugano.
La serie delle "Rarità" era a sua volta una continuazione ideale del primo ciclo organico prodotto da Loehrer, i "Monumenti musicali della polifonia vocale italiana", nove serie che avevano accompagnato la carriera del coro radiofonico e avevano introdotto da noi l'idea di una programmazione a lunghissima gittata, l'idea di una raccolta di "Monumenti", di Denkmäler, secondo una concezione e una denominazione che Loehrer ha evidentemente assorbito nella sua formazione musicologica, collaborando ai Denkmäler der Tonkunst in Bayern con l'edizione delle messe di Ludwig Senfl. Ora, ci voleva dal coraggio a trapiantare l'idea stessa di "monumento", intesa come "ammonimento" del passato storico alla posterità, come lascito e monito artistico ma anche morale e ideale rivolto al presente, in un mezzo antimonumentale come quello radiofonico e in un paese dal passato ben poco monumentale come il nostro. Ma l'azzardo e l'investimento - suo e dell'ente radiofonico - si rivelarono paganti, lo sforzo attecchì, in ragione della qualità artistica e insieme della tenacia realizzativa dell' uomo, nonché della struttura aziendale della radio di Lugano che, con tutti i condizionamenti e le limitazioni derivanti dalla sua esiguità, ha sempre coltivato un suo profilo sufficientemente duttile e agile. Tra quei "monumenti" polifonici registrati da Loehrer col suo coro, misto di professionisti ospiti e dilettanti indigeni, c'erano poi cose per loro natura tutt'altro che monumentali, come le carnevalesche, giocose "commedie armoniche" di Adriano Banchieri e Orazio Vecchi, opere alle quali Loehrer è ritornato nelle sue ultimissime produzioni discografiche, roba dell'altro ieri, quasi le avesse covate e ricovate per trenta e passa anni, come per suggellare un suo ciclo interiore e per delibare tutta la vitalità che ancora racchiudono quei suoi "monumenti" null'affatto statuarii e così eccitatamente "presenti" davanti a noi, dentro di noi.
Quello che ho tracciato è il riassunto sommario del Loehrer che ho conosciuto io, e mi scuso, con Loehrer e con il pubblico, per aver parlato molto di me oltre che di lui: ma non poteva essere altrimenti, visto che debbo letteralmente buona parte di me a Loehrer. Se tuttavia cerco di interrogare il senso di ciò che costituisce l'inimitabile peculiarità dell'artista Loehrer, e di ciò che essa ha significato per questo paese, debbo rivolgermi ad altre considerazioni, a momenti ed episodi della sua attività che non riguardano più me bensì tutti noi e, innanzitutto, lui medesimo. Ignoro quale sia stata per Loehrer quella folgorazione della sua vita di adolescente che ne ha coniato irredimibilmente il profilo artistico e culturale: ed è ovvio ch'io lo ignori, vista la riservatezza dell'uomo, poco incline a lasciar trapelare le sue confidenze sotto la scorza ruvida di una, come dire, affabile misantropia. Credo però di cogliere una congiuntura rivelatrice nella sua precoce e poi interrotta formazione di musicologo, svoltasi fianco a fianco con quella di musicista. Dal 1928 al '30, ossia dai 22 ai 24 anni, Loehrer studiò alla Akademie der Tonkunst di Monaco di Baviera, indi al Conservatorio di Zurigo; parallelamente studia musicologia, e si laurea nel 1936 a Zurigo con Antoine-Elisée Cherbuliez, con una tesi sulle Messe di Ludwig Senfl. Delle Messe di Senfl, per incarico de1l'Associazione dei Musicisti Svizzeri, cura l'edizione "monumentale" insieme col musicologo e sacerdote bavarese Otto Ursprung, per la serie bavarese di Das Erbe deutscher Musik, nell'ambito di una frastagliatissima edizione delle musiche di Senfl che fu voluta congiuntamente dalla Schweizerische Musikforschende Gesellschaft, dallo Staatliches Institut für deutsche Musikwissenschaft dall'Associazione dei Musicisti Svizzeri. Ora, Ludwig Senfl non era un argomento neutro, innocuo, innocente, un oggetto candido di erudizione, in quegli anni. Ricordo che l'edizione apparve soltanto nel 1936, quando l'aria che tirava in Germania, e di riflesso in Svizzera, era cambiata non poco, e non in bene. Al Doktorvater di Loehrer, a Cherbuliez, si deve un contributo decisivo Zur Kontroverse über die Herkunft von Ludwig Senfl (della controversia intorno all'origine di Ludwig Senfl), apparso in Acta Musicologica, organo della Società Internazionale di Musicologia, nel 1933: questo contributo portava la prova irrefutabile del fatto che Senfl era nato sì da genitori originari della Brisgovia, ma probabilmente a Basilea intorno al 1486 ed era vissuto, fino all'età di 10 anni, in territorio elvetico, prima di entrare stabilmente al servizio della corte imperiale di Massimiliano
I. La cosa a noi, oggi, pare di nessun momento: ma allora, negli anni trenta, la questione della "elveticità" di Senfl era cruciale. Nel 1938, in simultanea con l'uscita della sobria dissertazione filologica di Loehrer sulle Messe di Senfl, Willi Schuh, docente al conservatorio di Zurigo e critico musicale della "Neue Zürcher Zeitung", che ha dedicato gran parte della sua attività di allora alla valorizzazione del patrimonio musicale "nazionale" svizzero, pubblicava una monografia su Senfl nella serie editoriale "Grosse Schweizer", "Grandi Svizzeri". Di Senfl si occupava allora anche Arnold Geering, benemerito musicologo poi cattedratico a Berna, autore di uno studio su Die Vokalmusik in der Schweiz zur Zeit der Reformation (la musica vocale in Svizzera nell'età della Riforma), del 1939. Cherbuliez medesimo dava la spinta e la stura a quest'euforia elvetica, a questa storiografia musicale che affrontava nodi remoti d'un problema in realtà attualissimo: un suo saggio s'intitola sintomaticamente Die Schweiz in der deutschen Musikgeschischte (La Svizzera nella storia musicale tedesca) apparso in una serie, Die Schweiz im deutschen Geistesleben, ossia la Svizzera nella vita culturale tedesca, che porta come luogo d'edizione il binomio Frauenfeld-Leipzig.
Insomma, nell'ambiente in cui lavorava il giovane Loehrer, l'elveticità di Senfl era un problema acuto di identità nazionale, e rientrava in quel problematico, sofferto processo di ricerca di un'identità, di una specificità svizzera che collocasse la Confederazione in un rapporto dialettico stretto ma distinto con la Germania, la quale stava anch'essa laboriosamente, e calamitosamente, ridefinendo la propria identità. Loehrer dev'essersi trovato fin da allora spiazzato in questo gioco congiunto di nazionalismi di diverso segno ma interagenti: svizzero che studia in Germania su un argomento che si presume elvetico per ragioni meramente anagrafiche, ma profondamente coinvolto nella materia stessa delle origini dello "spirito tedesco", cattolico che lavora sulla produzione genericamente "romana" (le Messe) di un musicista che visse in prima persona la crisi di identità della Riforma protestante, fino a divenirne uno dei primi e fulgidi esponenti musicali. E' questo l'ambiente che di colpo, nel '36, a 30 anni d'età, Loherer abbandona per assumere tutt'altro incarico, quello di formare e dirigere il coro in un ente radiofonico che sta agli estremi  opposti della Svizzera, in un Paese che ha per parte sua non meno ardui e virulenti problemi di identità, esposti però su tutt'altro versante. E allora impianta, con la sua esperienza e formazione musicale svizzero-tedesca e germanica, un coro italiano in un paese di dubbia elveticità privo però di qualsiasi aggancio profondamente vissuto né con la tradizione corale d'oltralpe né con quella canora d'Italia. Organizza il repertorio italiano di questo coro secondo il criterio squisitamente tedesco dei "Monumenti". Intesse, da Lugano, una rete di scambi con l'Italia, con la Svizzera, con la Germania, col nord d'Europa in genere. Sfrutta tutte le risorse di una condizione di ambivalenza, o di polivalenza periferica, che gli consente, fin da una data precocissima, di realizzare qualcosa che a ben vedere non si può ancor oggi dire integralmente realizzato su scala europea, e cioè una simbiosi vissuta tra il gusto esecutivo per la "musica antica", coltivato da decenni e decenni al nord delle Alpi, e la "buona pronunzia", la buona "gestualità" vocale italiana (col risultato paradossale che oggi la musica antica italiana è appannaggio pressoché esclusivo di esecutori nordici musicalmente agguerriti che però la storpiano in malo modo con la loro pessima pronuncia e ignoranza delle parole).
In tutto ciò che ha fatto e ciò che fa, Loehrer dimostra una capacità di sintesi che sconcerta, sorprende e affascina, né arretra di fronte alle contaminazioni, agl'ibridi, alle congiunzioni che in teoria si darebbero per fallite in partenza e invece alla resa dei conti funzionano perfettamente. Quel tal Combattimento sensazionale del 1962, per ritornare all'esempio iniziale, era eseguito sopra la discutibilissima "realizzazione" di Virgilio Mortari, una trascrizione che, tanto per dire, interpreta lo "stile concitato" di Monteverdi come tremolo pucciniano degli archi,  e non come brusca percussione di 16 semicrome ribattute per ciascuna semibreve. A Londra, in un paese dove la performance practice è di casa da sempre, il Combattimento di Loehrer suscitò reazioni tiepide nella critica musicale; a Parigi, le reazioni furono osannanti. In linea di diritto, avevano ragione gl'inglesi; in linea di fatto, l'impatto emozionale che soggiogò i francesi, e non solo loro, era enorme, ma lo era per intuizione, per facoltà mimetica sostanziale, e non per mimesi puramente formale. Ottenuto per vie improprie, ma catturando il nucleo recondito della musica di Monteverdi, il risultato finale era convincente e cogente ad onta delle improprietà filologiche: lo era e, aggiungerò, lo è tuttora, più di vent'anni dopo.
Per riassumere e per concludere: credo che una parte - una parte essenziale - del fascino delle esecuzioni di Loehrer stia nella sua necessità e capacità di impossessarsi, sempre, del linguaggio - verbale e poetico e musicale - ch'egli è chiamato a "parlare" di volta in volta. Edwin Loehrer non "parla" mai - né l'uomo, né il musicista - una lingua propria: la sua madrelingua è come franta, spiazzata, altrove, e il processo linguistico, come quello mjmetico, deve ricominciare ogni volta da zero: con lo stesso fervore, lo stesso quoziente di rischio, lo stesso brivido della riuscita finale come se fosse la prima volta. Edwin Loehrer vive costantemente in una condizione di alterità, fuori dal centro, ma però vicino ad esso, là dove la risonanza è distorta e obliqua, quanto basta per essere percepita come tale. La sua alterità è anche biografica: mai essere a casa, anzi, essere sempre straniero in casa propria: ed è alterità artistica, necessità di impossessarsi della materia fonica della  musica da una posizione di estraneità che è fruttuosa al massimo segno, perché impone una lucidità di sguardo, una vigilanza di concezione sempre all'erta, impedisce le incrostazioni dell'ovvio, dello scontato, costringe ad una invenzione costante. (Per questo, azzardo, i musicisti del XVIII secolo, che "parlano" un idioma più regolato, più levigato, più sciolto, come Caldara o Lotti o Pergolesi, gli sono riusciti tutto sommato meno congeniali di un Monteverdi - innovatore per antonomasia e uomo di sintesi come altri pochi nella storia della musica, dove ogni attimo e scoperta, invenzione, affioramento di una locuzione mai pronunziata prima di quel momento - meno congeniali di un testo "barbaro" come il laudario di Cortona, o su tutt'altro versante meno congeniali dell'eccentrico ed idiosincratico Rossini dei Péchés de vieillesse e della Petite Messe.)
Non parlo di un interesse preminente portato alla sostanza verbale dei brani della musica ch'egli esegue. Gli ho visto usare edizioni letterariamente scadenti, come l'edizione Malipiero delle opere di Monteverdi, e ricordo emendamenti di grossolane sviste poetiche fatti in extremis, in sala di registrazione, e con un disinteresse quasi infastidito. Parlo di un atteggiamento interiore portato a cogliere il senso della frase musicale nell'attimo medesimo della sua pronunzia: un atteggiamento che comporta  una ricerca spasmodica, una strenua messa a nudo della vitalità e della gestualità anche  fisica, corporea, dirò quasi erotica, dell'impulso musicale. Donde la spinta contraddittoria, nelle sedute di registrazione di Loehrer, a ripetere dozzine e dozzine di volte gli stessi passi, le stesse frasi, per catturare a pro della intrinseca ripetitività del disco gli attimi irripetibilmente vitali che affioravano da una ripetizione estenuante. Donde anche la spinta a rifare, a risperimentare sempre da zero gli stessi testi musicali, giacché l'atto del far musica, se riesce, è miracolo - arduo miracolo - che richiede di essere sempre rinnovato e però sempre si consuma.
Il Ticino deve molto a Loehrer: non è soltanto un debito d'immagine, di notorietà europea in campo musicale, è riconoscenza per quello che - come altri ha detto - è un suo momento peculiare, il "merito di non aver mai deflesso da un compito che ci ha aiutati a chiarire il concetto della nostra italianità". Ma la riconoscenza è, credo, reciproca. In nessun paese più del nostro è facile ed è, al tempo stesso, indispensabile sentirsi sempre stranieri in patria. In nessun altro paese al mondo la compresenza del coinvolgimento e del distacco è una condizione esistenziale  continua e vitale, penetrante e pervasiva. Il nostro è magari un paese distratto: ma alla lunga l'identificazione, paradossale, perché appunto coinvolta e distaccata al tempo stesso, viene alla luce. Qui da noi, per un lungo e meraviglioso mezzo secolo, Loehrer ha esibito, laboriosa e fiduciosa e fruttuosa, una duplicità coinvolta e distaccata ch'è intimamente sua e profondamente nostra, e le ha dato voce. Gliene siamo grati da sempre e per  sempre.
Lorenzo Bianconi
("Symphonia" N° 14 Anno III, marzo 1992)

domenica, agosto 11, 2024

Richard Wagner: La fine

Venezia, Caffè Lavena
Narra Paolo di Joukowsky nel suo Diario: «Il giorno 13 di feb
braio (1883) mi recai, come di consueto, a palazzo Vendramin, verso un'ora e un quarto del pomeriggio. Vi trovai donna Cosima che suonava al figlio Siegfried l'«elogio del pianto» di Schubert: fu quella la prima ed unica volta ch'io vidi l'inclita gentildonna seduta al pianoforte.
«Si chiacchierò fm verso le due; poi venne Giorgio, il servitore, ad avvertire che siccome il Maestro non si sentiva bene, potevamo pranzare da soli. Prima di sedere a tavola Cosima andò nella camera da lavoro del marito. Ritornò quasi subito, dicendo: «Mio marito ha uno de' suoi soliti accessi, ma un po' meno forte. L'ho lasciato perchè mi ha fatto segno di voler restar solo».
«Così, tranquilli, come sempre, ci mettemmo a tavola.
«Improvvisamente, sentimmo suonare due volte con forza. Quasi nello stesso tempo sopraggiunse la cameriera Betty, pallidissima, dicendo a Cosima di andare di là subito. Essa balzò in piedi e corse via. Intanto Betty mandava Ganasseta per il medico. Noi restammo, profondamente turbati, silenziosi, aspettando. Verso le 3 si sentì giungere il dottor Keppler. Poco dopo arrivò la gondola che ci doveva portare co'1 Maestro dal pittore Wolkoff. Mentre Daniela stava per uscire per far sapere al pittore che non si sarebbe andati da lui e per far avvertito il dottore di passare da noi prima di andarsene, entrò il servo Giorgio e singhiozzando rivolto a Daniela le disse: «Ah, graziosa Signorina, (gnädiges Frãulein) il grazioso Signore (gnädige Herr) è morto». Io feci appena in tempo di sorreggerla tra le braccia, mentre tutta la casa si riempiva di voci e di gemiti.
«Pochi minuti dopo entrò il dottor Keppler, dicendo che non c'era più niente da fare. Poi, voltosi ai bimbi esclamò:
- Il vostro signor padre è morto! - ».
Quella mattina del 13 febbraio il Maestro alzandosi aveva detto a Giorgio che lo aiutava a vestirsi: «Oggi io debbo stare in guardia! - ».
Dopo fatta colazione con la moglie, si chiuse nello studio, dove terminò il suo scritto: «Il femminino nell'umano».
Il cielo era serrato e grigio: cominciò a piovere.
Per tutta la mattina si sentì il Maestro camminare su e giù per la camera, com`era sua abitudine, fermandosi ogni tanto a scrivere.
Poi ebbe un accesso d'asma, che durava certo da qualche tempo, quando mandò il servo ad avvertire la moglie. Le accennò tuttavia che voleva superare da solo l'attacco; ma Cosima nel1'andarsene lasciò nella camera accanto la Betty, nel caso occorresse il suo aiuto. La cameriera, sentendolo lamentarsi, entrata nello studio, senza essere veduta da lui, lo trovò seduto al tavolo da lavoro, - su cui aveva deposto il berretto, - in fiera lotta col male.
A un tratto lo vide afferrare il campanello: accorse, ed egli le gridò con voce roca: «Mia moglie e il dottore».
Quando giunse, Cosima lo trovò in preda a un accesso terribile. Gli furono apprestate inutilmente le solite cure: i panni caldi, che già avevano servito in circostanze consimili, lo fecero gemere di dolore. Intanto, aiutata da Giorgio, Cosima lo aveva adagiato su un piccolo banco, in quella parte della camera che gli serviva da toletta.
Mentre gli toglievano di dosso le vesti più grevi, gli cadde di tasca sul tappeto il prezioso orologio donatogli da Cosima. Egli esclamò: «Il mio orologio!» (Meine Uhr!) e furono quelle le sue ultime parole. Chiuse gli occhi e non li riaperse più.
Durante la tremenda lotta co'l male, si era spezzato nel cuore un vaso sanguigno, determinando la morte.
Il dottor Keppler, che arrivò poco dopo, sentì che il polso non batteva più, Tuttavia, fattolo coricare sul letto, che era nella medesima stanza, lo spruzzò sul viso, lo strofinò sul corpo. Infine disse: «Non c`è più niente da fare». I presenti s'inginocchiarono muti intorno al cadavere del Maestro, la cui bianca testa era illuminata da una scialba luce crepuscolare.
Di fuori la bufera infuriava.
Giustamente il Glasenapp, da cui ho tratto i particolari che precedono, giunto a questo punto osserva che quanto avvenne di poi, nella intimità della famiglia, non deve essere raccontato: «Sono santità, egli scrive, che nessuno deve toccare».
Tuttavia e dalla stessa biografia del Glasenapp e dai telegrammi e corrispondenze inviate dal Mantovani (Sordello) al Capitan Fracassa, traggo le notizie che seguono, così un poco alla rinfusa, ma scrupolosamente esatte. (1)
Daniela, aiutata dalla principessa Hatzfeldt e da Joukowsky telegrafò subito ad Adolfo Gross per Bayreuth, a Bürkel pe'l re di Baviera, a Michalovich per Liszt, al conte Tasca per i coniugi Gravina. Venne pur avvertita telegraficamente Malvida di Meysenboug, a Roma (2).
Dopo alcune ore giungevano dispacci da ogni parte del mondo, chiedendo notizie e sperando falso l'annunzio della morte del Maestro. (3) Il re Luigi di Baviera telegrafò che desiderava ogni onore funebre al grande estinto fosse reso a Monaco: così fu evitata anzi qualsiasi cerimonia - accompagnamento o dimostrazione funebre - a Venezia.
Cosima vegliò la salma adorata venticinque ore di seguito senza lasciarla un momento.
Il mercoledì, verso le 5, il dottor Keppler la trascinò via, a forza. Allora ella si recise la bella capigliatura, - che il Maestro aveva tanto amato vederle disciolta lungo le spalle - per deporre poi le sue trecce nella bara, sul petto dell'estinto. (4)
Indi accompagnata dai figli entrò nella stanza dov'Egli era morto e ne raccolse religiosamente il berretto, la cravatta e fin gli spilli cadutigli di dosso.
Poco prima che la salma venisse trasportata nella camera da letto, già occupata da Liszt, per procedere al1'imbalsamazione, lo scultore Benvenuti, assistito dal pittore Passini, levò con ogni cura la maschera in gesso del volto. L'imbalsamazione, eseguita dal dottor Keppler e da' suoi aiutanti, riuscì benissimo (5).
La mattina del venerdì 16 giunse da Vienna il Sarcofago. «È di bronzo a due tinte, di sagoma snella, di lavoro finito: ha un crocefisso sul coperchio, quattro puttini rinascimento agli spigoli e quattro teste di leone come anelli. Contiene nell'interno una cassa di metallo chiusa superiormente da un gran coperchio di vetro» (6). Ivi, sul mezzogiorno, seguì la deposizione della salma. «Il medico municipale dottor Gallina (padre del nostro Giacinto) stese l'atto di morte e suggellò con dodici suggelli di stagno la triplice bara in cui stava racchiuso il corpo di Wagner.» (7)
Verso le 13 il feretro fu portato, attraverso all'appartamento fino alla scalinata sull'acqua, da Hans Richter, Joukowsky, Keppler, Passini, Ruben, conte Contin e prof. Frontali. Nel frattempo Cosima tutta vestita di nero, accomiatatasi dagli amici, accompagnata da Maria Gross e dal figlio Sigfrido, scese nella gondola dove l'attendevano il pittore Passini e Daniela. Joukowsky seguiva in altra barca con Eva e Isolda.
Le gondole ammantellate di nero, attraversarono in fila il Canal Grande, precedute da un vaporetto, ornato d'alloro e di palme, su cui era stato deposto il feretro.
Un magnifico sole primaverile illuminava il passaggio del funebre corteo.
Alla stazione la salma fu ricevuta piangendo dal fido «poppiere» Ganasseta.
«Il feretro venne portato a braccia entro il carro merci Ht. 6025, addobbato interamente in nero a frange bianche (8). Poi si riposero le corone tutt`intorno... Indi il carro fu suggellato ed attaccato primo alla locomotiva... La famiglia salì in un carrozzone-sala mandato a posta da Monaco... Poi giunse alquanto pubblico, silenzioso e riverente, per assistere alla partenza del treno, che avvenne alle 2 e pochi minuti. Esso partì per la via di Verona, Ala, Kufsten, Monaco, d'onde avrebbe proseguito per Bayreuth recando seco la salma gloriosa e la famiglia inconsolabile». (9)
Uscendo dalla stazione Dino Mantovani incontrò il buon Ganasseta, rigato dalle lagrime il volto maschio e fedele. Ed è con le semplici parole di «quell'uomo del remo, che era stato caro all'Eroe», quali nel dialetto nativo vengono riferite da Mantovani, che mi piace concludere queste note:
- Vedela, signor, el ne irnpeniva de bezzi, de regali e de carezze. Co lo condusevimo in gondola el ne dava una carta da diese, e pachi de sigari e tabaco da naso, e po bisogna veder come el ne tratava a palazzo. La sera del so concerto el n'ha dà cento e cinquanta franchi par omo, da tanto ch'el gera contento e beato. E adesso perchè el fusse ancora vivo, benedeto, dir che lo serviria tuta la vita de bando (gratis). El lo meritava dasseno, povareto, bon come un'ansolo e co' quel strasso de mal che lo tormentava ! -
Mario Panizzardi
(da "Richard Wagner - Diario Veneziano" a cura di Giuseppe Pugliese,
Corbo e Fiore Editori, Venezia, 1983)

(1) Al riguardo, nota argutamente il Damerini: «...pensate una morte simile oggi: tutti i giornali listati a lutto, pieni di ritratti e di biografie, e di lodi e di esegesi; le ondate telegrafiche e telefoniche verso Venezia e da Venezia, i referendum delle più cospicue personalità dell'arte e della musica; le cronache retoriche e pletoriche degli inviati speciali, la gare delle condoglianze, gli arrampicamenti dei piccoli sul feretro del Gigante, le commemorazioni; pensate tutto ciò, per una, per due settimane, senza tregua...
«Il giorno della catastrofe la Gazzetta di Venezia usciva alla solita ora con sedici righe di annuncio. Otto erano dedicate al palazzo Vendramin, al dolore della moglie, all'impressione in città... Le ultime tre promettevano un articolo a mente riposata «sul grande astro tramontato». Il 15 la Gazzetta spreca una colonna per la necrologia di tre illustri sconosciuti, ma non ritorna sulla morte del Maestro; il 16 dà, finalmente, qualche particolare, mezza colonna circa, sugli ultimi istanti di lui. Il 17 segue una cronaca degli onori funebri. La biografia invece sfuma. «Martedì - scrive - dicevamo, che a mente più riposata avremmo detto qualche cosa sul grande astro, ecc. ecc.; ma a giudizio meglio ponderata ci sembra miglior partito quello di condensare in poche formule ecc. ecc.» Olimpica serenità del giornalismo di or sono appena sei lustri dinanzi al trapasso di un genio, come dovresti esserci presente nella quotidiana fatica d`oggi, mentre ad ogni mediocrità che sparisce la stampa traduce in colonne plumbee il pianto immaginario della nazione!...»
(2) «Chi potrebbe descrivere la mia profonda costernazione quando la mattina presto del 14 febbraio '83, io ricevetti da Joukowsky un dispaccio così concepito: «Wagner è morto improvvisamente». Non volevo credere ai miei occhi: speravo che il telegrafista avesse letto male e male trascritto. Ma la triste verità mi afferrava mio malgrado. Corsi dalla mia amica, la figlia di Donna Laura Minghetti, ch'era a Roma da qualche giorno e che abitava ancora all'albergo. La trovai tutta in lagrime; essa pure aveva ricevuto la ferale notizia. Dividemmo il comune dolore e solo ci confortammo pensando che quanto avveniva era pur troppo fatale, dopo il compimento di quella sublime opera di riconciliazione e di pace. Era quella, difatti, la natural conclusione della sua apparizione su la terra dove ormai non avrebbe più potuto concepire un'idea più gloriosa e - adopero la parola proscritta con piena convinzione - più metafisica». Malvida von Meysenboug: Le soir de ma vie (Paris 1908) pp.l67-68.
Lo stesso concetto espresso dalla Meysenboug nelle ultime righe su riportate, manifestava sebbene un po' oscuramente, l'impresario Förster a un banchetto dopo la prima rappresentazione del Parsifal a Bayreuth: «Egli ci disse: - Vedrete che Wagner morirà presto... Un uomo il quale ha creato un'opera come il Parsifal che noi abbiamo udito stasera, non può vivere oltre; la vita di quell'uomo deve aver fine. Quell'uomo deve morir presto. - Egli proferì queste parole con una serietà così profonda, quasi con le lagrime agli occhi, che noi tutti ne rimanemmo profondamente turbati e ci volle molto tempo prima che i commensali riacquistassero, pur in minima parte, l'umore di prima». A. Neumann: Ricordi intorno a R. Wagner (Milano 1909) pp. 310-l 1. .
(3) Riferisco il telegramma inviato dal Sindaco di Bologna alla vedova Signora Cosima Wagner: «Venezia - Dolorosamente colpito notizia improvvisa morte M.° Wagner, mi affretto significarle parte vivissima che io prendo tanta sventura, esprimendole insieme sensi più profondo compianto in nome Bologna che gloriavasi annoverare illustre maestro fra suoi cittadini di onore». (Don Chischiotte di Bologna 15 febb. 1883).
(4) Altri scrisse: «...sotto il capo dell'amato, come un cuscino». (A. De Angelis: Cosima Wagner, Torino F.lli Bocca pag. 37).
(5) «Il cadavere conserva inalterati i tratti della fisionomia. La salma, vestita di raso nero, giace nella camera da letto ed è tutta ricoperta di bellissime corone di fiori freschi. Altre corone giungevano ad ogni momento. Notai quelle: del Comune di Venezia, del Liceo Benedetto Marcello, della signora Lucca, del Wagner-Verein di Berlino, del Conservatorio di Lipsia, della Società corale di Dresda e di Vienna, del Conservatorio di Monaco, del Circolo artistico Veneziano. Stavano raccolte in una stanza a terreno affatto disabitata, ma serbante ancora i resti dell'antica eleganza. Ha i travicelli stuccati a bianco e oro, il pavimento a ornati, le pareti frescate da qualche pittore francese del secolo scorso, e un'ampia portiera, donde si scorgono i viali del giardino. La stavano anche il sofà di broccatello antico coperto da una pelliccia d'orso, sul quale il Maestro fu trasportato quando il suo male lo attaccò l'ultima volta, e lo sgabello a fiorami Pompadour, sul quale aveva posto i piedi. E il sofà e lo sgabello e la grande poltrona, detta in famiglia il trono... furono trasferiti poi nel wagon salon per ostinata volontà della vedova sconsolata. Tutto questo mi fece vedere il portiere del palazzo, un bellissimo vecchio, un tipo tizianesco da profeta e da senatore, che Wagner chiamava scherzando, Garibaldi. Egli è fratello del celebre Tita, cameriere di Lord Giorgio Byron, morto presso di lui in Grecia. Come vedete, ogni cosa ha qui il suo interesse aneddotico». Sordello: Dispacci e corrispondenze al Cap. Fracassa del 17 febbraio 1883.
(6) Sordello: corr. cit.
(7) Sordello: corr. cit.
(8) «Alcuni amici del defunto compositore hanno acquistato il carro, su cui è stata trasportata la salma da Venezia a Bayreuth!» (Gazzetta musicale di Milano, 11 marzo '82).
(9) Sordello: corr. cit.

giovedì, agosto 01, 2024

Blandine Verlet

Blandine Verlet (Parigi, 27 febbraio 1942 - 30 dicembre 2018)
Ti accoglie serenamente sulla porta di un appartamento, che sembra dedicato alla riflessione, alla musica e alla lettura. Una scrivania in legno, un calamaio, un clavicembalo decorato in modo semplice, pareti e mobili con superfici bianche e blu. In questo mondo non c'è ovviamente nulla di "vecchio stile", con affinità e necessità guidate da qualche desiderio di ritorno al passato. Nella casa di Blandine Verlet si avverte, piuttosto, il bisogno di entrare in contatto con la cruda semplicità delle cose; e il pavimento in parquet semplice (ancora legno), questi spazi senza lustro, senza gadget, sono tuttavia pieni di calore e tenerezza.
Non sorprende che viva a pochi passi da un giardino botanico, dove i fiori sbocciano silenziosamente, senza clamore, senza esotismo. A modo suo, anche Blandine Verlet è come un giardino, un giardino un po' selvaggio, con erbe dolci e anche qualche rovo. Nel tempo libero coltiva i "giardini" di Couperin, giardini apparentemente troppo ordinati; ma in realtà, nel suo subconscio musicale, sa implicitamente esattamente quanti boschi oscuri e confini selvaggi si nascondono dietro quelle linee rassicuranti. Prende un brano semplice, una miniatura apparentemente insignificante, e ne fa emergere tutta la drammaticità: le fétes galantes à la Verlaine, dolcemente perverse, con le loro sfumature rosa-grigiastre, che virano improvvisamente ai colori dei Fauvisti: sono questi gli ambiti prediletti dal clavicembalista.
Come abbiamo capito, il mondo immaginario di Blandine Verlet va oltre le parrucche incipriate e le sete ornate che sono i simboli preferiti dagli amanti dell'arte antica, coloro che vorrebbero restaurare e fissare oggetti e suoni dietro la barriera sterile di un'immagine visiva e uditiva. ricostruzione. Come Louis Couperin, Blandine Verlet è sfuggente e ha la paglia tra i capelli. Sappiamo che è estrosa, imprevedibile, fuori dal comune (“en dehors”, come avrebbe detto Debussy), malinconica. È una “visionaria”, nel senso barocco del termine, come inteso da François Couperin. Con serenità e lucidità ha raggiunto l'età della ragione, se mai esiste, e, senza invidia, senza disprezzo, senza finzione, osserva i suoi 'giovani colleghi', che ormai suonano così bene una musica che quasi mai si sentiva da vent'anni o giù di lì. Il fatto che fossero appena nati quando lei stava intraprendendo una carriera discografica molto importante non le importa minimamente; il fatto di aver rifiutato molti concerti perché non le piace viaggiare o per motivi personali non la riempie di rammarico; il fatto di aver sospeso la ristampa di un certo numero di registrazioni che non riteneva “necessarie” non le provoca oggi alcuna amarezza. Blandine Verlet, con il suo nome molto classico, guarda il palcoscenico della vita, non dall'alto di una torre d'avorio, ma dalla sua finestra al piano terra, dove ama trascorrere lunghe ore con la musica che ama.
Morbidezza, tenerezza. Si potrebbe essere fuorviati: Blandine Verlet non è solo dolcezza e quiete. Lei è crepuscolo: quella regione ambivalente, obliqua, di fughe eloquenti, di «preludi smisurati» che potrebbero durare all'infinito, come nell'abnegazione, come nell'oblio della morte provocata dalla morfina del sonno; una regione di vegetazione aperta, proliferante, a tratti carnivora: il viso della musicista è liscio, i suoi occhi sono di un limpido grigio-azzurro, ma i suoi movimenti sono vivaci, la sua diteggiatura precisa e la sua mente assertiva. La dolcezza può essere davvero sconvolgente.
© 1997 Renaud Machart