Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, luglio 29, 2012

La nona di Bruckner e quell'irresolubile problema dei corni

Anton Bruckner (1824-1896)
Le ultime cinque battute della nona sinfonia di Bruckner pongono un problema che viene considerato di solito irresolubile: i corni devono tenere la medesina nota per un tempo interminabile e non c'è potenza di fiato che basti, soprattutto se si tiene conto che siamo in un "Adagio" in cui il tempo scorre lentissimo. Come fare? Di solito si ricorre ad una leggera e impercettibile presa di fiato che salvi i cornisti dall'asfissia. Per quanto è dato di sapere solo Furtwängler riuscì nel 1944 a indurre i cornisti della Filarmonica di Berlino ad eseguire il passo con un'unica presa di fiato. Questo problema al limite tra la musica e l'atletica potrebbe a prima vista sembrare una sciocchezza ma è proprio partendo di lì che ci si trova davanti a problemi di enorme portata. Innanzi tutto la nona ed ultima sinfonia di Bruckner è notoriamente un'opera incompiuta: Bruckner morì l'11 ottobre 1896 mentre era intento a comporre il quarto ed ultimo movimento della sinfonia. Così come la conosciamo la nona sinfonia consta di soli tre movimenti e l'Adagio conclusivo avrebbe dovuto essere il cuore dell'opera, ovvero il luogo in cui s'addensavano le maggiori tensioni e contraddizioni. Tutta la musica di Bruckner è colma di tensioni e contraddizioni di questo genere ma nella nona sinfonia quegli elementi esplodono con una violenza che dovrebbe indurre a riconsiderare l'intera carriera del musicista austriaco.
Si dice che era un mistico, ed era vero, che era stato allevato dai monaci e che aveva trascorso gran parte della vita nelle grandi abbazie barocche dell'Austria ed anche questo era vero. La sua musica rivela una fantasia ed una sensibilità in cui è dato riconoscere alcuni degli attributi principali del mistico. Quando si ascolta la settima sinfonia non si può fare a meno di essere colpiti dalla veemenza di un sentimento che continuamente sconfina con la più accesa sensualità; cosa che comprese benissimo Luchino Visconti scegliendo proprio quella musica come colonna sonora per il suo film "Senso". Mistico e sensuale, sperduto nei meandri di una fantasia senza tempo, fornito di una fede granitica che lo induceva a dedicare le sue gigantesche sinfonie "Al buon Dio". Probabilmente è tutto vero ma è proprio grazie alla nona sinfonia che il personaggio di Bruckner riesce ad acquistare un'identità che diversamente continuerebbe a sfuggirci. L'incompiuta nona è a considerare prima di tutto il libro delle grandi tentazioni, l'analogo musicale di quello che fu "La tentation de Saint Antoine" per il letterato Flaubert. Da buon mistico Bruckner aveva le sue crisi, i suoi terrori e le sue angosce e all'epoca della nona sinfonia, dunque alla fine della vita, queste crisi dovevano raggiungere la fase più acuta. La fede doveva rivelarsi molto meno granitica e attraverso le sue incrinature si spalancavano abissi d'inferno. Questa è la trama che con sconvolgente violenza viene narrata dalla nona sinfonia. Visioni celesti e fantasmi d'inferno si intrecciano già nel vasto primo movimento, ma è nel secondo, uno Scherzo seguito da un Trio, che gli elementi inferi prendono il sopravvento. Quel tema di pizzicati agli archi, sostenuto da un lungo pedale dissonante dei fiati, è quanto di più sinistro Bruckner abbia mai scritto e le violenti esplosioni degli ottoni compaiono qui con una durezza che niente riesce a temperare. Il terzo movimento, quell'Adagio che il compositore voleva fosse il più bello di tutti, reca all'estremo tutte quelle contraddizioni. All'inizio i violini pongono il famoso tema ascendente, cantabile come una preghiera al quale segue immediatamente un originale episodio che alcuni commentatori hanno voluto definire "Addio alla vita". Può darsi che le cose stiano così; in ogni caso è certo che le brevi interiezioni delle trombe che segnano questo tema fatto solo di tremoli, sembrano colpi d'ala librati verso l'alto. Il tema successivo è ancora lirico e cantabile ma a differenza del primo più intriso di nostalgie terrestri. Seguirà un travaglio senza precedenti in cui le tentazioni, i dubbi e le angosce scuotono implacabilmente il cielo della fede, lo dilaniano con violenza terrificante. Dissonanze feroci, cataclismi sonori, abissi improvvisi si spalancano in questa confessione scritta con i suoni, e solo con enorme fatica gli sviluppi formali riusciranno attraverso una rapsodia di citazioni a riconquistare un sentimento di calma che va a culminare proprio in quell'interminabile nota tenuta dai corni. Quel venire meno del suono, il suo progressivo impallidire, è molto più inquietante dei finali agonici delle sinfonie di Mahler perchè qui la pace, il mistero e la sofferenza si confondono in maniera inestrivabile.
Di questa nona sinfonia di Bruckner abbiamo parlato un poco grazie alla nuova incisione che ce ne offre la Deutsche Grammophon con l'orchestra dei Wiener Philharmoniker diretta da Carlo Maria Giulini. I tempi sono lentissimi, meravigliosamente in sintonia con i presagi di eternità che si irradiano da tutta la partitura, e l'intensità sofferta del fraseggio è tra le cose più grandi che Giulini sappia raccontare con la sua raffinata arte direttoriale. Un'interpretazione così è destinata a diventare per anni un punto di riferimento e, giusto per la cronaca, segnaliamo che il grande direttore italiano non ha voluto sottoporre i bravissimi cornisti viennesi alla terribile prova del fiato concedendo loro qualche impercettibile respito.

Enzo Restagno ("La Stampa", 7 settembre 1990)

sabato, luglio 21, 2012

Federico Incardona: soave sia il vento...

Federico Incardona (1958-2006)
Federico Incardona, 48 anni, musicista «novissimo» della fine degli anni Settanta, nostra avanguardia degli anni Ottanta, profeta maudit di una intera generazione di resistenti alla realtà in nome della musica e della sua capacità negatoria, è morto il 29 marzo stroncato da una malattia lunga dolorosa inesorabile che gli aveva scalfito la magia della sua voce. Con lui se ne va un pezzo della nostra vita, della nostra memoria, della nostra speranza.
Datava maggio 2000 il suo ritorno, dopo un periodo «di silenzio intenzionale, studiato», con una prima assoluta Per fretum febbis (per flauto contrabbasso obbligato coro di voci bianche e orchestra) al Politeama su commissione del teatro Massimo, direttore artistico Marco Betta. Era un requiem in memoria del dilettissimo fratello Marco, il frutto di una sofferta elaborazione del lutto. Lì l'idea-maestra e schoenberghiana che ha sempre sorretto la musica di Incardona ovvero della costruzione come espressione vi raggiunge un esito altissimo e lacerante. Larghe fasce sonore, il tipico procedere per accumulazione, per arresti e improvvisi ri-inizi, una struggente Klangfarbenmelodie tra coro-clarinetto contrabbasso infragilita da una sorta di esotismo orientale. Quella sera ascoltando l'opera mi sorpesi a disegnarne un diagramma: una linea che s'innalza precipita si rialza in un tracciato prima disteso poi sempre più serrato in guglie fittissime. Poi un pedale piatto ma sostenuto. In quella composizione, di un catalogo succinto che si ferma ben prima dei quaranta numeri, ma soprattutto nella successiva Nuova opera (titolo provvisorio, per flauto, clarinetto, sax, corno, due violini, viola, violoncello, pianoforte e percussioni) che fu eseguita a Gibellina nel settembre 2002, nell'ambito delle Orestiadi, si fa strada - come sottolineò Incardona - la possibilità di un «linguaggio nuovissmo che procedendo da Mahler e Webern affonda la sua radice nella profondità dell'Etnía». E ancora «di un procedere compositivo ed umano che sia realmente, secondo Kolisch, decifrato da Metzger, rivoluzione permanente come in quanto tradízione perpetua». Federico aveva maturato sempre più l'idea che il ricorso alle fonti popolari più che costituire identità forti e locali per esibire un neofolk più o meno aggiornato o contaminato, servisse ad elaborare il lutto per il danneggiamento della vita con una strategia della memoria-futuro. Questa sua attitudine rafforzava il legame con Mahler che nella musica popolare coglieva la traccia del dolore non risarcito.
Nuova opera che Incardona ha continuato ad «aumentare», concludeva a Gibellina, credo l'ultimo concerto monografico a lui dedicato e impaginato con le due versioni di Mehr Licht!: la prima, per violino e pianoforte del 1986, e la seconda per voce, violino, pianoforte, flauto, clarinetto, corno, violoncello e percussioni del 1989. Proseguiva con Sulla lontananza dell'amico dilettissimo (1986), e si condudeva con il Far della luna (2000, per flauto, clarinetto, violino, violoncello e pianoforte), e Obliquo di Luna (2000, per voce, flauto, clarinetto, violino, violoncello e pianoforte), un omaggio a Francesco Pennisi: un cammeo weberniano ma del Webern che trascrive Bach.
Se consideriamo che data ancora 2000 un nuovo trapianto sulla chanson di Ockeghem Malor me bat ed in cui Incardona con Webern e Nono si china su una tradizione radicale e dimenticata, l'inizio del millennio sembrava averci restituito nonostante le tremende difficoltà esistenziali e materiali il musicista. Nel giugno del 2003 con molta imprudenza l'assessore alla cultura Gianni Puglisi comunicò, in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria a Sylvano Bussotti, un punto di riferimento di Incardona, che sarebbero rinate le «Settimane di nuova musica» con Federico direttore artistico. Ci parve una notizia straordinaria. Chi meglio di Incardona che sin dall'89 a Gibellina e poi nei primi anni Novanta a Palermo con Ars Nova aveva organizzato delle gloriose giornate di musica contemporanea dedicate a Cage, a Maderna, ad Evangelisti ma dando spazio con molta generosità a giovanissimi, poteva riprendere quel filo interrottosi nel dicembre del '68? Chi meglio di Incardona poteva spiegare come la memoria divenga utopia se intesa come memoria del futuro? Ma non se ne fece nulla. Una delle tante robinsonate. L'ultima beffa di una città che non ha né saputo né voluto, ad eccezione dei dioscuri dell'Istituto di storia della musica e nel passato dell'Orchestra Sinfonica Siciliana e di pochi amici, capire quanto Federico fosse importante per la città, per la musica, per tutti.
Ha scritto Heinz-Klaus Metzger, una delle più alte coscienze critiche europee: «La forma estetica non è il bene, bensì il veicolo del giudizio su quel che è male... Da dove giungano quei compositori, tremendamente pochi, la cui musica, come quella di Federico Incardona, diviene veicolo del giudizio su quel che è male, come essi nascano, si sviluppino e si innalzino, a volte poi crollando, è difficilmente deducibile da un punto di vista filosofico».
Caro amico, soave sia il vento...

Piero Violante (da "I papillons di Brahms", Sellerio, 2009)

domenica, luglio 15, 2012

Genesis: "Tha Lamb Lies Down On Broadway"

"The Lamb Lies Down On Broadway" - Genesis (1974)
From Genesis to The Lamb
“The Lamb Lies Down On Broadway” (1974) è il secondo concept album dei Genesis e il loro primo doppio. E’ il lavoro di un gruppo ormai da tempo completamente maturo che con esso pose una tappa fondamentale in quel particolare genere trasversale che è l’opera rock, una pietra miliare soprattutto per quanto riguarda le rappresentazioni live di questo tipo da parte di quella che probabilmente era l’unica band che all’epoca poteva permetterselo, grazie al particolare modo di proporsi in scena.
I Genesis venivano da una serie di lavori che avevano visto una loro crescita esponenziale sia nella capacità compositiva sia nella tecnica individuale. Non è qui inutile ricordare rapidamente le tappe di questo percorso. “From Genesis To Revelation” (1968) fu l’ingenuo e pretenzioso disco d’esordio, un concept basato sulla Genesi e il Vecchio Testamento.
Trespass” (1970), il loro secondo album fu definito dagli stessi Genesis “Il passo più importante della nostra carriera” e contiene già pezzi storici come la violenta “The Knife”, rimasta cavallo di battaglia delle esibizioni live fino alla dipartita di Peter Gabriel.
Subito dopo “Trespass”, il primo chitarrista Anthony Phillips e il batterista John Mayhew lasciano il gruppo ed esso trova quello che per molto tempo sarà il suo assetto definitivo con l’ingresso di Steve Hackett (chitarra) e Phil Collins (batteria). Con questa formazione i Genesis incidono “Nursery Crime” (1971), dove la loro musica si definisce meglio, con composizioni che diventano più complesse, articolandosi in vari momenti di tono diverso che si alternano in uno stesso pezzo e testi che, grazie alla forza interpretativa di Gabriel, proiettano in un mondo di favola pieno di metafore e simbolismi. Arriverà presto in Italia sollevando il gruppo da una pericolosa depressione.
Segue il capolavoro del gruppo “Foxtrot” (1972), dove tutte le tessere vanno finalmente al loro posto e i cinque sono definitivamente proiettati, dopo anni di difficoltà anche economiche, tra le principali formazioni progressive-rock. “Supper’s ready”, la lunghissima suite che occupa quasi tutta la seconda facciata del disco, rappresenta per idee, complessità e freschezza uno dei migliori esempi del genere e uno dei più alti momenti di tutti gli anni '70.
A questo punto le rappresentazioni on stage subiscono una trasformazione fondamentale quando Peter Gabriel inizia a utilizzare tutta una serie di costumi e maschere, talvolta legate ai testi o allo spirito delle canzoni, talvolta, bisogna ammetterlo, un po’ fini a se stesse e dettate più che altro da intenti spettacolari (per esempio il travestimento da volpe), ma sempre estremamente affascinanti per il pubblico. Anche le scenografie e i light show diventano più complessi, e la fama del gruppo comincia così a crescere anche in patria, dopo i primi successi in Italia e Belgio.
I Genesis, anche su pressione della casa discografica, per consolidare la loro fama di gruppo che dal vivo dà il meglio di sé, rilasciano il loro primo live intitolato semplicemente “Genesis Live” (1973), che in effetti risulta un disco brillante e non “falso” come molti prodotti del genere. Probabilmente uno dei migliori live mai pubblicati.
Il gruppo, ormai entrato in un momento di grazia, senza pause significative torna in studio per "Selling England By the Pound" (1973), che se segna un passo indietro dal lato della produzione, è indubbiamente un ulteriore passo avanti quanto a complessità delle composizioni e tentativo di trovare nuove soluzioni in termini di suoni, strutture e rapporto tra gli strumenti. I pezzi “storici” o anche solo significativi ormai si sprecano e anche dal punto di vista delle performance dal vivo il gruppo è probabilmente ai suoi massimi livelli. Ciò non impedisce che affiorino i primi contrasti tra cantante e gruppo, il che ha una certa influenza anche su alcune composizioni che avrebbero potuto essere sviluppate meglio. E’ a questo punto che Peter Gabriel comincia a concepire il progetto ambizioso di un concept album basato su un racconto e tra le varie proposte presentate viene scelta la sua: “The Lamb Lies Down On Broadway”.

La trama
Rael è un teppista dei bassifondi di New York che una mattina, di ritorno da una delle sue scorribande notturne, viene colpito dalla visione di un agnello, un semplice ma incongruente agnello, sdraiato quasi a sbarrargli il cammino sul marciapiede di Broadway, tra i vapori che escono dalle grate degli impianti di riscaldamento. Mentre Rael fissa questo animale, una sorta di schermo solido su cui si proiettano immagini della vita di New York scende dal cielo e avanza verso di lui. Paralizzato dal terrore, egli non può fuggire finché lo schermo lo colpisce e al momento dell’urto egli sviene. Si riprende in uno strano mondo sotterraneo dove vivrà una fitta serie di avventure tra il mistico e il simbolico, imparando così a conoscere se stesso.
Dapprima è in un comodo bozzolo che lo fa sentire calmo e felice, tanto che si addormenta tranquillamente. Si sveglia sofferente in una vasta caverna dove deve combattere contro una gabbia di roccia che muovendosi rapidamente lo stringe fin quasi a soffocarlo. Egli scorge fuori dalla prigione suo fratello John che però, nonostante le sue invocazioni di aiuto, lo abbandona, e quando ormai è convinto di morire la gabbia sparisce e Rael è libero.
Giunge vagando a una strana fabbrica dove vengono assemblati esseri umani, ognuno con il suo bel futuro stampigliato come un marchio e tra i “prodotti finiti” pronti per la spedizione, insieme ad altri personaggi che hanno avuto un ruolo nella sua vita, egli può di nuovo scorgere il fratello. Questa visione di volti conosciuti fa riflettere Rael sul suo passato e sulle sue vicende di tutti i giorni.
Avanzando in una direzione apparentemente obbligata, il ragazzo giunge a un lungo corridoio dove molte persone si muovono lentamente carponi in direzione di una grossa e pesante porta di legno posta all’estremità opposta a quella da cui è entrato. Egli è l’unico che può muoversi liberamente e porre domande a quegli strani esseri condannati a strisciare. Giunto alla porta la apre e dietro trova una tavola imbandita con ogni ben di Dio, ma soprattutto, ben più importante per lui, una scala a chiocciola che sparisce in alto e che egli comincia subito a salire.
In cima alla scala si trova un’enorme caverna circolare dove una folla variegata discute animatamente su quale delle 32 porte che si trovano tutt’intorno alle pareti conduca alla libertà, dato che solo una conduce fuori mentre le altre riportano inesorabilmente indietro. Nella folla Rael incontra Lilith, una vecchia cieca che promette di portarlo in salvo grazie alla lieve brezza che soffia dalla porta giusta e che lei è in grado di cogliere grazie ai suoi sensi affinati da una vita vissuta al buio. Rael decide di fidarsi e si fa condurre in una stanza dove Lilith lo abbandona promettendogli che qualcuno verrà a prenderlo, però teme di essere caduto in trappola quando due globi luminosi entrano fluttuando a mezz’aria e sembrano volerlo aggredire. Terrorizzato, egli raccoglie delle pietre e manda i globi in frantumi, ma non appena questi si spezzano la volta crolla e per il protagonista sembra la fine. Trova però un passaggio tra le rocce e si salva ancora una volta.
Giunge così in una meravigliosa sala con un’ampia piscina di acqua calda e pensa di aver trovato un po’ di riposo, vede invece tre incredibili figure avanzare nuotando. Sono le meravigliose Lamia, esseri metà serpente e metà splendida donna, con le quali ha un’estatica esperienza sessuale. Non appena mordono la sua carne però, le Lamia muoiono e Rael, sconvolto per la perdita, si nutre dei loro corpi.
Lasciando la tragedia dietro di sé, il protagonista giunge a una strana colonia di grotteschi esseri deformi, gli Slippermen, che lo accolgono come uno di loro. Gli raccontano di essere tutti passati attraverso la stessa esperienza con le stesse Lamia, che si rigenerano ogni volta, e sono condannati per questo a passare la vita in una sfrenata e continua attività sessuale. Gli viene così svelata la tragica verità: anche lui è esattamente uguale agli altri e schiavo della stessa condanna, può però finalmente riunirsi al fratello, ridotto anch’egli a un informe ammasso di carne. Rael è sconfortato, ma dopo qualche tempo uno Slipperman gli rivela che se si ha il coraggio esiste una soluzione: si chiama castrazione. A praticarla è un medico pazzo che i fratelli dopo essersi consultati decidono di affrontare.
Il dottor Dyper, dopo averli operati consegna loro un ciondolo contenente il “frutto del peccato” da usare in caso di necessità e grazie al suo intervento, avvertendolo però con un certo anticipo. Mentre i due discutono della nuova situazione, un enorme corvo scende dall’alto e ruba il prezioso contenitore dalle mani di Rael.
Rael chiede aiuto a John, ma quest’ultimo non volendo rischiare il proprio carico, lo abbandona nuovamente al suo destino. Rael si lancia all’inseguimento del corvo in volo, solo per vederlo lasciar cadere il suo tesoro nelle tumultuose acque di un fiume sotterraneo. Mentre Rael scende una ripida parete per arrivare al fiume, ben deciso a riappropriarsi di ciò che è suo, sente delle grida di aiuto e vede il fratello dibattersi tra i flutti del fiume. Contemporaneamente scorge nella parete di roccia un’apertura che porta all’esterno, alla sua vecchia vita, che però si sta rapidamente chiudendo. Deve dunque decidere se fuggire salvando se stesso o salvare John e, pur disperato, volta le spalle alla finestra e si tuffa per salvare il fratello.
La lotta con la corrente è estenuante, ma quando finalmente i due raggiungono la riva Rael si accorge di qualcosa di incredibile: John ha il suo stesso volto! E mentre lo fissa stupito, come guardandosi allo specchio, una nebbia violacea li avvolge entrambi e in essa i fratelli si dissolvono.
L’agnello, questo sconosciuto
Come si intuisce già dalla complicata trama, “The Lamb Lies Down On Broadway” è un lavoro monumentale. Nel suo percorso esso sembra procedere per addizioni, tante sono le complessità strumentali e di narrazione che lo infarciscono, non per nulla all’epoca molte critiche vertevano proprio sulla eccessiva mole del lavoro. In effetti, va detto subito che in un’opera di tale dimensione inevitabilmente ci sono dei momenti di “stanca” o pleonastici che rendono talvolta l’ascolto lento e su cui si tornerà nell’ultima parte, ma si tratta comunque di passaggi temporanei in un’opera di altissimo livello complessivo, per certi versi unica, certamente differente da quello che si era sentito fino a quel momento e da ciò che si sentirà successivamente.
Chi ha seguito il percorso “storico” della band, si accorge subito che qui il suono è diverso, molto più duro e pesante rispetto a quello che sembrava ormai il suo standard definito. La produzione fa in ogni caso un deciso salto di qualità, soprattutto se comparata al lavoro precedente che come accennato non rendeva giustizia al gruppo, si tratta infatti del disco dei Genesis meglio prodotto fino a quel momento. I suoni vogliono con ogni probabilità riflettere la “grana grezza” del protagonista, ovvero la sua materialità o non-spiritualità.
Soprattutto il lavoro di Hackett e Rutherford è molto più aggressivo che in passato. Il chitarrista sfodera assolo taglienti e lancinanti come lampi, sempre di personalissimo buon gusto e frutto di una tecnica mai fine a se stessa, anche se successivamente si dichiarerà sempre insoddisfatto del lavoro. La batteria è costantemente in primo piano e anzi viene ad assumere importanza col procedere del lavoro, mentre nelle opere precedenti risultava talvolta sacrificata probabilmente da ingegneri del suono impreparati al compito di trattare con uno dei più grandi batteristi di tutti i tempi. Phil Collins è decisamente a una delle migliori prove in carriera, se non la migliore in assoluto. Rafforza infatti gli aspetti personali del suo già ottimo stile e ne lascia intravedere gli sviluppi futuri, passando da momenti di potente ritmica (“The Lamb Lies Down On Broadway”, “Back in N.Y.C.”) a fasi di fuga quasi delirante (la strumentale “The Waiting Room”).
Tony Banks, per parte sua, tesse delle trame affascinanti soprattutto al piano, come nella iniziale title track o in “Cockoo Cocoon”, e per la prima volta lavora su quelli che all’epoca erano i primi sintetizzatori. Forse proprio qui sta talvolta il suo punto debole, dato che finisce per mostrare qualche ingenuità dovuta forse alla troppa fiducia nei nuovi mezzi. Tutti insieme i musicisti danno comunque vita a tessuti sonori estremamente complessi, sempre vibranti come un quadro impressionista. L’esempio migliore in questo senso è “The Carpet Crawlers”, che dall’avvio in sordina con una eterea dodici corde e voce, introducendo uno strumento per volta, arriva con un crescendo lentissimo a un climax dove tutto si fonde e si interseca in una grande armonia corale. Probabilmente la migliore canzone dell’album e da sempre un punto fermo per tutti i fan dei Genesis.
La lunghezza media e l’articolazione delle composizioni è minore rispetto agli album precedenti, le canzoni sono più compatte e i ritmi spesso più serrati. L’aggressività è maggiore anche da questo punto di vista, basti ascoltare “Back in N.Y.C., una delle canzoni più “dure” dei Genesis e una delle migliori dell’album, dove la rabbia fa da padrona.
Non mancano i momenti di sollievo, più morbidi, come la sequenza “Anyway” - “The Supernatural Anesthetist”, con due fulminanti assolo di Hackett, breve e deciso il primo, più complesso e spagnoleggiante il secondo, con una delle sue rare esibizioni di virtuosismo sul finale. In “Anyway” c’è anche la migliore interpretazione di Gabriel in tutto il disco. Da segnalare anche la cavalcata finale di “IT” dove sempre il chitarrista sforna un grande riff e Banks va in fuga costante sulla tastiera. Si ripete che il livello complessivo dell’opera è comunque elevatissimo per la lunghezza che presenta, e per questo pare ancor più curiosa la presenza di riempitivi, solitamente assenti nei precedenti dischi, dove ogni singola canzone aveva una ben precisa collocazione ed era studiata, limata e arrangiata ogni volta con cura, come avente un valore a sé stante, e mai si trovava più materiale del necessario. Ma su questo, come detto, torneremo oltre.
Ho volutamente lasciato per ultimo Peter Gabriel così da potermi soffermare. L’idea principale di dar vita a un concept album è sua, così come la trama e la quasi totalità dei testi. Se il suo lavoro al canto e sulle parole aveva già da tempo raggiunto livelli elevatissimi, con questo doppio album egli arriva a un gradino ulteriore, o forse solo diverso, di coscienza dei propri mezzi. I testi e l’interpretazione di Gabriel si erano sempre caratterizzati per una grande capacità di giocare con la lingua inglese, così ecco giochi di parole, doppi sensi, metafore, storpiature della voce, sussurri e grida alternati in una stessa canzone. In “The lamb” troviamo tutto questo all’ennesima potenza, ma anche di più. Per la prima volta, sepolta sotto tonnellate di figure retoriche, citazioni letterarie e riferimenti mitologici, fa capolino la vita reale o comunque troviamo questioni diverse dai tradizionali temi gabrieliani: la violenza, la lotta per emergere dalla massa, i rapporti familiari, l’educazione, il denaro, il sesso, la morte, il cinismo e la rabbia. Le numerose esperienze che Rael vive nell’assurdo mondo sotterraneo in cui è stato catapultato, sono la rappresentazione metaforica del percorso attraverso cui passa ogni adolescente per diventare uomo. Se il tema non pare poi avere tutta questa originalità, dato che il romanzo formativo è stata una costante della letteratura occidentale moderna, e successivamente sarà anche più volte ripreso nel rock (Husker Dü), è tuttavia qui sviluppato con una visione surreale e una forza immaginifica che non ha riscontri.
Nonostante vi siano alcune ingenuità linguistiche e di narrazione - per esempio non si è mai visto un teppista portoricano che per approcciare la sua prima ragazza va a comprarsi un manuale sul tema - la fantasia quasi onirica che Gabriel mostra nel rappresentare le vicende di Rael cattura davvero l’attenzione e, se si è capaci di penetrare il velo dei giochi di parole che costantemente egli pone tra l’ascoltatore e l’essenza del racconto, se si riesce a capire il meccanismo della narrazione, si entra in un mondo che riserva molte sorprese e darà per anni materia di riflessione e scoperte sempre nuove.
L’anagramma Rael - real = reale (ma perché trascurare un aggancio anche alla follia di Re Lear?) è solo il primo passo di un costante gioco a rimpiattino con i significati che stanno dietro alle parole. Così ecco che i “carpet crawlers” sono coloro che fanno della sete di ricchezza e dell’essere “in” l’unico faro della vita (“We gotta get in to get out” = “dobbiamo entrare per uscire”, ma anche “dobbiamo essere ‘in’ per emergere”); le splendide Lamia sono la metafora del sesso e della voluttà in cui è bello perdersi, ma hanno come controaltare gli orrendi Slippermen che ci dicono che questo può essere anche schiavitù quando è pura soddisfazione dei propri istinti egoistici impedendoci di amare realmente l’altro; l’IT finale in cui Rael e John si dissolvono è la raggiunta maturità del ragazzo finalmente uomo, che in ultimo riconosce come propria la sua parte razionale e così si completa. Magari restando ai significati più generali, si può accennare al fatto che l’intero mondo sotterraneo in cui si svolge la vicenda, oltre che un richiamo all’inferno della “Divina Commedia”, sembra rappresentare soprattutto il subconscio del protagonista, il “dentro di sé” nascosto con cui egli per la prima volta si trova ad avere a che fare, riflettendo invece di agire.
Però è bene non svelare troppo quelle che dopotutto sono interpretazioni personali, ognuno può divertirsi da solo a trovare i significati nascosti nelle liriche o a dar loro i propri, anche perché Gabriel non ha mai rilasciato interpretazioni “ufficiali” ed è sempre stato piuttosto vago nell’illustrare il significato delle liriche di questo disco.
Il tour e l’addio di Peter Gabriel
E’ credenza diffusa che Gabriel abbia scritto tutti i testi del doppio album, ma va ricordato che in realtà quelli della quarta facciata sono scritti in parte da Rutherford e Banks, perché altrimenti i tempi pattuiti con la Charisma per la consegna del lavoro non sarebbero stati rispettati. All’epoca molti pensavano addirittura che egli avesse scritto tutta la musica, invece questa è opera quasi esclusiva degli altri, dato che Gabriel e il gruppo si erano divisi i compiti all’inizio della lavorazione. Queste errate attribuzioni ovviamente accentuavano le tensioni interne già presenti tra il cantante e gli altri, che durante la lunga lavorazione di “The Lamb” si erano fatte particolarmente sentire. Un ruolo nei contrasti lo ebbe anche la volontà di Gabriel di creare una rappresentazione molto complessa on stage, al punto di condizionare anche la stessa realizzazione dell’album. Infatti la band, nella fattispecie Collins, ha testimoniato in interviste successive che dopo le composizioni collettive, mentre gli altri quattro avevano in pratica finito di incidere le basi musicali in due settimane, un mese dopo stavano ancora aspettando i testi. Gabriel, sollecitato, cominciò a dire che aveva bisogno di altre musiche sia per utilizzare testi privi di “appoggio”, sia per avere altri collegamenti tra le canzoni. Questo, anche se non viene detto esplicitamente, al fine chiaramente intuibile di cambiarsi costume o compiere altri spostamenti in scena. Ciò non fu per niente gradito dagli altri, che già lo contestavano per il modo “egoistico” di lavorare. E’ estremamente importante, dunque, affrontare quest’aspetto, perché si può affermare che alcune parti del doppio album sono frutto della prospettiva della sua integrale rappresentazione sul palco. E’ probabilmente il caso di certi passaggi strumentali che suonano molto come materiale di connessione, i famosi “riempitivi” di cui si diceva, vedi la strumentale “Silent Sorrow In Empty Boats”, che si trova tra “The Lamia”, in cui sul palco Gabriel indossava un incredibile “costume” costituito da un cono semitrasparente e dipinto, alto oltre due metri dentro il quale cantava, e “The Colony Of Slippermen”, in cui indossava una ingombrante veste da mostro bitorzoluto rimasta celebre. Tutto questo, però, non ha portato solo riempitivi, infatti, come afferma Banks, la magnifica “The Carpet Crawlers” è una canzone composta e aggiunta in una seconda fase su richiesta di Gabriel, basandola tra l’altro su un suo tema melodico.
L’album vendette abbastanza bene per essere un doppio, anche se considerevolmente meno dei due dischi immediatamente precedenti, arrivando al n. 10 in Uk e 41 negli Usa (comunque la più alta posizione raggiunta negli States fino ad allora). In ogni caso l’esplosione vera ci fu per il successo che ebbero le rappresentazioni live di cui si diffusero descrizioni con toni quasi da leggenda. Tutto il palco veniva completamente dipinto di nero, in qualunque teatro o arena fossero, per consentire la totale oscurità durante le fasi in cui il cantante si spostava sul palco per riapparire nei posti più impensati e per lo stesso motivo il gruppo pretendeva che tutte le luci fossero spente, comprese quelle pubblicitarie e delle uscite di sicurezza; su tre schermi posti dietro al gruppo, in sincrono con le musiche, tramite sette proiettori venivano proiettate 1.450 diapositive contenute in 18 cassette; a un certo punto veniva utilizzato un manichino-clone di Gabriel (il cui volto era una maschera di plastica fatta al cantante col sistema del calco dal vivo) cosicché due Peter Gabriel apparivano ai due lati opposti del palco e vi erano ovviamente i suoi famosi costumi, sebbene in realtà non ne indossasse fino a “The Lamia”, e in precedenza, cioè due terzi dello show, fosse “semplicemente” travestito e truccato da Rael.
I contrasti interni raggiunsero così il culmine proprio col colossale tour in cui il doppio album fu interamente rappresentato per 102 serate in Nord America ed Europa, e durante il quale Gabriel decise di abbandonare il gruppo.
Gabriel era ormai una stella di prima grandezza, il faro a cui tutto il pubblico e gran parte dei fan e della stampa guardavano, e gli altri finirono per restare in ombra nonostante fossero gli autori del 95 per cento della musica, e ciò si sommava alle frustrazioni della registrazione. Gabriel aveva anche problemi familiari, stava per avere il primo figlio e aveva soprattutto desiderio di stare vicino alla famiglia piuttosto che in tour permanente come il futuro nella band, divenuta ormai un mostro del rock, gli prospettava. Gli altri pativano la frustrazione di essere spesso considerati “il gruppo di Peter Gabriel” e la comunicativa tra i membri della band era ai minimi storici. L’abbandono del cantante fu la pressoché inevitabile conseguenza.
Probabilmente con la pubblicazione di questo disco, la sua rappresentazione dal vivo e la definitiva dipartita di Gabriel dai Genesis nel ‘75 proprio nel momento del loro massimo successo fino ad allora, abbiamo un punto di rottura nella storia del rock, l’ultimo atto della fase più fulgida del progressive e dunque la fine di un epoca. Il punk stava già battendo i primi colpi che di lì a poco avrebbero spazzato via convenzioni consolidate e Gabriel, che ha sempre avuto una particolare sensibilità per il nuovo, aveva intuito che qualcosa si era rotto e niente sarebbe più stato come prima. Salvo i Pink Floyd di “The Wall” che chiuderanno il cerchio, pur con modalità comunque diverse, nessuno riuscirà più a esprimersi con una complessità live del genere, come nessuno vi era riuscito fino a quel momento. Per limitarsi a nomi conosciuti, se Emerson, Lake & Palmer o Yes avevano dato vita a musiche complicate e tournée faraoniche, non avevano tuttavia l’ambizione di inscenare una vera e propria rappresentazione narrativa. Andando anche al di là del progressive, per esempio i Pink Floyd avevano dato vita con “The Dark Side Of The Moon” a un grande concept album, tuttavia non lo avevano basato su una trama, bensì appunto solo su un “concetto” di fondo. Altri che pure una trama l’avevano concepita come David Bowie, comunque quello che ci era andato più vicino con il personaggio di Ziggy Stardust, anche se era maggiormente ispirato al cabaret, non avevano tuttavia la macchina visuale di Gabriel e dei suoi costumi per dar vita a una forma di autentico teatro rock. Oppure gli Who con “Tommy” erano ricorsi al cinema per rappresentare visivamente la storia, pur essendo probabilmente autori del migliore lavoro del genere.
Insomma, solo i Genesis nel 1974 avevano tutti gli strumenti necessari per un’operazione di quel tipo, che è rimasta unica nella storia del rock e dei concerti dal vivo, e per mettere in scena quella che molti anni prima che il termine divenisse di uso comune il gruppo stesso definì una rappresentazione “multimediale”, fatta di musica rock, teatro, poesia e immagini.
Purtroppo di quel tour di “The Lamb Lies Down On Broadway” non esiste alcuna ripresa filmata ufficiale, così oggi è un patrimonio della musica popolare completamente perduto.
di Marco Simonetti (www.ondarock.it)

Fonti bibliografiche:
  • “Genesis, la loro leggenda” di Armando Gallo, D.I.Y. Books Europa 1981;
  • “Peter Gabriel”, nella collana Manuali Rock diretta da Riccardo Bertoncelli, Arcana Editrice 1985;
  • “Peter Gabriel. ‘Sognando un mondo reale’” di Tommaso Ridolfi, Gammalibri – Kaos Edizioni 1987;
  • “The annotated Lamb Lies Down on Broadway” by Jason Finnegan, Scott McMahan and other members of Paperlate, pubblicazione internet;
  • “Genesis chartography” by Shane Hegarty, pubblicazione internet.

sabato, luglio 07, 2012

Anton Webern: La crescita di un artista

Philips 420 796-2 (6/1970)
Nella produzione musicale più matura di Anton Webern, l'innovativa tecnica dodecafonica e l'antico espediente compositivo del canone si fondono in un linguaggio di grande compattezza: la fusione è assolutamente naturale. Anche se solo per reazione Webern era pur sempre un prodotto del tardo
Romanticismo austriaco: come allievo di Schoenberg, egli fece del metodo seriale del suo maestro il miglior "attrezzo" con il quale affrontare i problemi tecnici sollecitati dai travalicamenti cromatici wagneriani fuori dai confini della tonalità. Da un altro lato, laddove Schoenberg e un suo altro grande allievo, Alban Berg, rimanevano romantici nella loro essenza e tentavano di conciliare la nuova tecnica con le forme e i modi espressivi tradizionali, Webern era invece un integralista, costituzionalmente incapace di compromessi. La riabilitazione operata da Schoenberg nei confronti della sonata e della suite non poteva soddisfare il suo radicalismo.
Il metodo seriale diede a Webern, come ai suoi colleghi, una nuova fonte di materia musicale, ma egli era ancora in cerca dei suo modo personale per utilizzarla. Fortunatamente era uno studioso e i suoi trascorsi di musicologo gli fornirono ciò di cui aveva bisogno. Le lezioni di composizione di Schoenberg e la scuola musicologica di Guido Adler si combinavano in quella personalità d'artista complessa ma concreta cui si riferisce Robert Craft quando parla del "Webern studioso della polifonìa quattrocentesca, dei mottetti di Matteo da Perugia e di altri, i cui complicati ritmi verticali evocano i suoi, il Webern dell'ochetus, del canone, della forma chiusa, del sistema di proporzioni." Voltate le spalle al principio dualistico che aveva portato alla forma-sonata e di conseguenza alla maggior parte della letteratura musicale ottocentesca, Webern accolse questi più antichi principi ed elesse il canone a forma-chiave del suo linguaggio. Come la dodecafonia, il canone è un metodo per raggiungere l'unità e questa identità di scopi tra i due elementi principali del suo stile spiega la natura omogenea e intransigente della musica del suo periodo maturo.
Questa sintesi non fu certamente raggiunta di colpo e lo si può notare dalla presenza di elementi stilistici estranei nelle prime opere pubblicate mentre era ancora in vita il compositore. Ma negli anni '60 quel lungo processo di purificazione, che aveva indotto ad attribuire all'op. 1 una data di composizione precedente a quella reale, diventò ancora più chiaro con la scoperta di un'ampia raccolta di manoscritti inediti, che raddoppiavano la consistenza della produzione musicale di Webern. Il Tempo Lento e il Quartetto per archi risalgono entrambi al 1905 (tre anni prima della Passacaglia op. 1) e presentano un lato affatto nuovo di Webern, lontano dalla squisita levigatezza e brevità delle opere successive.
Il Tempo Lento è assai tradizionale nello stile e nei contorni. Il linguaggio è fortemente tonale, con spostamenti dalla tonalità di do minore alla relativa maggiore mi bemolle (come nella Seconda Sinfonia, completato undici anni prima). L'intonazione emotiva e il fraseggio ampio differiscono molto dal Webern più tardo, ma già qui la passione per lo stratagemma dell'inversione dei temi prefigura la sua successiva cura nei confronti dei metodi contrappuntistici di organizzazione dei suoni.
Il Quartetto per archi (1905) ha una struttura ancora più estesa. Il manoscritto reca una citazione da Jacobus Böhme (mistico e scrittore tedesco, 1575-1624): "Non posso descrivere il senso di trionfo che pervase il mio spirito; potrebbe essere paragonato solo alla nascita di una vita nel mezzo della morte, alla resurrezione dalla morte. In questa luce la mia mente vedeva immediatamente in tutte le cose e in tutte le creature, persino nelle erbacce, in tutto riconosceva Dio, chi Egli poteva mai essere e come e quale fosse la sua volontà." Il senso di queste parole si riflette nel tono misterioso delle prime battute, che presentano subito il motivo-chiave di tre note su cui l'intera opera si basa, sino alla ferma conclusione in mi maggiore. La musica ha continuità, anche se è fatta di molte brevi sezioni, compresa una lenta fuga di sole ventidue battute.
Cinque movimenti op. 5, composti nel 1909, mostrano la tendenza verso una struttura a cellule di tipo avanzato. Ogni motivo viene sviluppato non appena proposto. La tonalità è lasciata da parte, mentre all'organizzazione della materia provvede una complessa applicazione di tecniche contrappuntistiche. La brevità cui tendono naturalmente questi metodi raggiunge le estreme conseguenze nelle Sei bagattelle op. 9 del 1913, la cui durata in totale non raggiunge i quattro minuti. "Si consideri quale umiltà ci voglia per essere così concisi" scrisse Schoenberg nella prefazione allo spartito, "ogni sguardo può prolungarsi in una poesia, ogni sospiro in un romanzo. Ma esprimere un romanzo in un unico gesto, una felicità con un solo respiro... una simile concisione si può verificare solo in proporzione all'assenza di autocommisserazione."
Nel Quartetto per archi op. 28, dedicato a Elizabeth Sprague Coolidge, la purificazione di mezzi è al culmine. L'attenzione per timbri viene sostituita dal concentrarsi sulla linea melodica. Mentre le opere precedenti indulgevano spesso in effetti strumentali particolari, nell'op. 28 i tradizionali "arco" e "pizzicato" sono gli unici due modi di suonare, diversificati solo dall'uso della sordina e da un'unica misura da eseguire sul ponticello nella parte del secondo violino. Scritto nel 1938, cioè quattordici anni dopo che Webern aveva adottato la tecnica dodecafonica per la prima volta nei suoi Tre canti popolari sacri op. 17, il quartetto è un esempio dell'evoluzione che tale tecnica subì man mano che anche il compositore andava soggetto ad una maturazione artistica, raggiungendo i vertici del rigore e dell'economia espressiva. Il contrasto con il Tempo lento del 1905 è stupefacente, e la differenza è data dalla crescita di un artista nella sua inflessibile autonomia.

Note al CD Philips "L'Opera completa per Quartetto d'Archi", Quartetto Italiano, 420 796-2 (traduzione di Stefania Brizzolara)