Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, maggio 30, 2010

David Byrne: l'imitatore di voci

Se l'architettura è narrativa dello spazio, David Byrne è l'artista contemporaneo che meglio ha saputo interpretarla. Intervista con l'ex Talking Heads, che ora suona e fa suonare - gli edifici.

Un materasso adagiato per terra mette in mostra nei suoi angoli estremi, alla destra e alla sinistra del lato più corto, due microscopiche casse acustiche appartenenti a un sistema di amplificazione per lettori mp3: potrebbero essere due elementi decorativi, perché sembrano due pigne, ma lisce, bianche, simili alle impugnature che afferri quando scendi una scala e le dita scivolano sul corrimano. Ma non sono lì per ornare. Non sono oggetti muti. Le due pigne suonano. Stanno li per volontà di qualcuno che abita temporaneamente questa stanza, qualcuno che ha certi gusti, che ha sorpassato certi traumi e goduto di certi privilegi, certi e non altri, qualcuno che le ha sistemate in quel modo per ascoltare una canzone che inizia con le parole: «il suo scopo, nella vita, era di essere un'eco».
«Sono sempre più diffidente nei confronti della musica messa a riempire uno spazio, come nei bar e nei ristoranti, o mentre si sta conversando con qualcuno e la musica impedisce di ascoltare ciò che l'altra persona sta dicendo. I suoni in sé, i suoni prodotti dalla Vita, sono molto più interessanti, dal mio punto di vista, i suoni che gli oggetti producono, gli, oggetti di qualsiasi tipo, da quelli più semplici agli innumerevoli segnali acustici inviati di continuo dagli strumenti elettronici. Con Playing the Building l'intenzione era di mettere in relazione i corpi e le menti dei visitatori di uno spazio abitabile con le possibilità di generare suoni espressivi. Si tratta dunque di un'opera in cui gli autori sono le persone che usano e vivono quello spazio, liberamente, ma entro certe griglie che abbiamo stabilito, in modo che l'esperienza, non si trasformasse in una massa informe».
Per l'ennesima volta, le parole di David Byme confermano una delle idee che mi hanno ossessionato negli ultimi due anni: che l'architettura è narrativa calata nello spazio. L'architettura è narrativa calata nello spazio, e questa è una sensazione-verità. Le sensazioni-verità ritornano, seguendo regole indimostrabili, nei luoghi più impensati, attraverso la ruota di criceto delle ricorrenze casuali: percorrendo il corridoio di una casa di famiglia che non si visitava da undici anni; perlustrando in modo circolare il tetto di un palazzo che si affaccia sulla passeggiata di una grande metropoli di mare e anche muovendosi tra le pareti del Maritime Battery Building, un fascinoso sito di archeologia urbana lungo i moli di Manhattan, allestito da David Byrne in occasione del suo acclamato Playing the Building, un tentativo emotivo di far battere dentro a un edificio suoni vicini, mentali, reali, banali, ricorsivi, inevitabili - tecnicamente, un vecchio organo è stato piazzato al centro del luogo, e i presenti erano invitati a giocarci, toccarlo, suonarlo e far rimbalzare quel che ne usciva contro i muri quasi vittoriani dell'antico molo coperto di Lower Manhattan. L'architettura è narrativa senza autore suonata nello spazio: «Il Maritime Battery Building era perfetto per ambientare una storia i cui elementi fossero visivi, acustici, ambientali, fisici. Non si trattava dunque solo di usare un set architettonico preesistente, ma di applicare a esso una serie di echi e mettere i visitatori nella condizione di poterli applicare a loro volta». Essere un'eco, d'altronde, un'eco intelligente e colta, pare sia lo scopo interiore e profondo dell'architettura, e dell'installazione di David Byrne, e della carriera extramusicale di David Byrne, e magari della carriera solista di David Byrne, e forse addirittura dell'intera carriera di David Byrne.
Non è un caso che abbia a che fare con l'eco uno degli "effetti" sonori per cui gli autori di Remain in Light verranno ricordati (la musica pop, in mancanza di grandi innovazioni strutturali, melodiche e armoniche, potrà vantare se non altro di aver messo al mondo una gran quantità di timbri mai sentiti prima): quel magnifico, scottante riverbero ritmico della, batteria che introduce i primi sette secondi di "Warning Sign", capolavoro del 1978, inaudita rappresentazione acustica di ogni minuscola crepa nella naturale superficie delle cose, nelle nostre vite calate nello spazio, parzialmente prive di autore e in perenne stato di semi-automaticità. Ma quel solco così lancinante, quanto di più vicino a un acuto mai prodotto da uno strumento ritmico, è stato anche il primo grande segno dell'ambizione espressiva di Byrne, e di sicuro il primo grande risultato della principale mossa con cui quell'ambizione si è divincolata nella storia: la collaborazione con Brian Eno. Il cantante dei Talking Heads è da sempre - da molto prima che il gruppo si sciogliesse - un collezionista di echi, di voci prese in prestito, captate nel flusso caotico dei messaggi e dei media, imitate, rimodulate, rimesse in sesto e ripostulate, come note a margine di uno studente troppo brillante in un quinterno eccessivo di intenzioni.
Ora. Lo stato delle cose, nella vita artistica di David Byrne, in questo momento, si può sintetizzare così: prove per un tour americano e non solo che partirà il 16 settembre da Bethlehem in Pennsylvania e che proseguirà per tutto l'autunno 2008; un disco quasi finito; un altro, Everything That Happens Will Happen Today, con Brian Eno, uscito in questi giorni ; due appuntamenti extracurriculari, per così dire, Playing the Building e la collaborazione per una mostra a Madrid [Voice of Julio/Vox de Julio, con David Hanson]. Inoltre: il prossimo anno uscirà in forma di libro il progetto The Bicycle Diaries, che consiste in una serie di descrizioni di città e ambienti urbani vissuti su due ruote. David è sempre in giro in bicicletta per Manhattan con la sua compagna Cindy Sherman - uno dei nomi cruciali dell'arte americana negli ultimi vent'anni. Di recente c'è anche stata una caduta di sella. Se si vuole, si può aggiungere la presenza online costante del Byrne che tiene un blog chiamato semplicemente Journal, come dire che la vita espressiva è un contenitore pronto a tutto, o quasi dalla politica alle meditazioni estetiche, dalle note di lettura di libri appena conclusi a veri e propri baedeker di viaggio. Se si vuole, si può aggiungere il moto inerziale che viene generato comunque, mese dopo mese, giorno dopo giorno, nella "comunità di cittadini culturali globali' da una figura così rilevante, se non altro per i numeri cheha prodotto, per le vite che ha toccato, per la capacità che ha la musica di incollarsi allo spirito dei tempi. Ecco perché David Byrne è uno dei dilettanti che contano di più nel nostro mondo, ed è anche di questo che si parla al telefono nei due minuti strappati a questo e nei tre minuti strappati a quell'altro, ripromettendosi dopo numerosi appuntamenti newyorkesi e italiani saltati all'ultimo di portare a termine quel paio di iniziative da tenere in Italia.
«La curiosità è sempre stata il motore di tutte le mie scelte. Non mi fa paura non essere identificato in una casella precisa. Credo che una delle possibilità interessanti di questa epoca sia proprio la facoltà di trasmigrare da un ruolo temporaneo a un altro ruolo temporaneo, verso luoghi completamente inaspettati». A dire il vero l'idea di Playing the Building, comparata con i parametri dell'avanguardia, non è proprio - come dire - scintillante: è un'intenzione, un accenno; molto più interessante sarebbe stato orchestrare per davvero gli spazi di un edificio come se fossero elementi di una storia, e anche l'autorialità delegata al pubblico non è proprio una cosa nuova, eccetera. Anri Sala, giovane e dotatissimo artista albanese, sta lavorando per esempio a un'opera che consiste nel mostrare la partita dei Mondiali di calcio del 1986 in cui Maradona ha segnato all'Inghilterra con la mano, di mostrarla per intero ma con la telecronaca interamente coniugata al futuro: perché quando era ragazzino non c'era programma televisivo che non fosse differito dalla censura di Stato. Ecco, tanto per dire, un'idea veramente feconda: un misto di ambiguità e rapidità concettuale, un giocattolo linguistico rotto che irrompe nel mondo estemo come se l'intero mondo, l'intera Storia, fosse un giocattolo rotto. Eppure, David Byrne è un personaggio più "decisivo" di Anri Sala. E uno dei modi interessanti di capire come funziona, che impatto produce, che conseguenze ha, una personalità come Byrne è comportarsi come se si trattasse di un caso di pettegolezzo - mettere in moto una macchina di rumori, di opinioni più o meno riservate, di inserire in questo esperimento di cronaca culturale un corpo di voci rubate e prive di responsabilità: le voci del gossip. C'è forse un modo più adatto per farsi un'idea precisa di chi ha passato un terzo della sua vita discografica a imporre la propria voce e il proprio corpo (a proposito: da quanto tempo David non balla?) e due terzi a provare a essere il ventriloquo delle voci che lo circondavano. Come quella di un eminente, bravissimo scrittore americano intorno ai quarant'anni che conosce bene la scena pop contemporanea e liquida la personalità intellettuale di Byrne in modo lapidario. Gli domando se sia interessante come "intellettuale pubblico", e lui, via sms, con più messaggi mandati uno dopo l'altro: «No, direi che alcuni personaggi semplicemente sintetizzano idee che hanno captato nel proprio percorso da altri pensatori, artisti, opere, e nel contempo non utilizzano queste influenze per innovare ulteriormente, ma si limitano a giocarci. Susan Sontag è un esempio venerabile di questo tipo di strategia: se togli Roland Barthes, Robert Walser, Adorno e Artaud, non rimane niente di veramente suo. E lo stesso accade con David Byrne, secondo me». Un collaboratore di Byrne, invece, descrive così il suo qui e ora: «David: troppo talento e non abbastanza tempo, guerriero del capitale culturale, uomo dalle molte fogge, iperconscio della propria immagine, amateur professionale, nel senso di uno che ha fatto un lavoro dell'amare il proprio lavoro; e anche, a dirla tutta, uno che si prende dei rischi, ma con una certa cautela».
Torniamo a Playing the Building, e chiediamo se avrebbe mai scommesso su tanto successo e riconoscimento per un'operazione che al suo centro ha la "macchina" meno postmoderna immaginabile, un organo: «Avevo da tempo un vecchio, magnifico organo, e all'improvviso è sembrato ovvio usarlo per questo progetto ambientato all'interno di, un'architettura concepita per dare fiato alla crescente modernizzazione industriale di questa città: vapore, trasporto navale, una gigantesca cassa di risonanza che poteva accogliere e deformare in modi, inattesi i suoni -rodotti dallo strumento». Vedete? Il suo, scopo, nella vita, era essere un'eco. David ha qualcosa dell'etemo promesso talento di una scuola d'arte. Ma le circostanze - il pop - l'hanno messo in una posizione diversa. Dunque il problema è un altro: come accettare di essere un'eco quando ci è già riuscito una volta, nella vita, di coincidere in modo esemplare con noi stessi?

Gianluca Ricuperati ("il giornale della musica", Anno XXIV n.251, settembre 2008)

sabato, maggio 22, 2010

Reggio Emilia: "Soli Deo Gloria. Organi, Suoni e Voci della Città"

Crescente successo per la rassegna Soli Deo Gloria, fondata e diretta dal maestro Renato Negri. Grande novità del 2010 è la “Capella Regiensis", protagonista di alcuni concerti in cartellone.
La rassegna “Soli Deo Gloria. Organi, Suoni e Voci della Città" era partita sei anni fa con un numero limitato di date e la partecipazione di alcuni grandissimi dell'organo e del clavicembalo, come Koopman e Leonhardt. In breve tempo l'iniziativa, guidata con passione, competenza e spirito di sacrificio dall'instancabile direttore artistico, maestro Renato Negri, è cresciuta, fino a diventare un ricchissimo cartellone che copre l'intero anno solare e numerosi Comuni della provincia.
Un vero e proprio fenomeno artistico e culturale, che non ha molti eguali in Italia, e avvicina Reggio Emilia alle città europee - soprattutto a quelle austriache e tedesche - dove si fa buona musica in tutte le stagioni e in ogni angolo del territorio. In un primo momento sede dei concerti erano soprattutto le chiese, ma il crescente successo ha portato ad ampliare l'offerta e quindi a una sua ancor più capillare diffusione.
All’edizione 2010, infatti, hanno confermato la loro partecipazione, in qualità di promotori, il Comune di Reggio Emilia (assessorato Cultura e Università e le quattro Circoscrizioni cittadine: Città Storica, Nordest, Sud, Ovest), e la Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla (Museo Diocesano - Ufficio Beni culturali). La Diocesi quest’anno, oltre a consentire l’utilizzo delle chiese della città e della provincia, mette a disposizione la prestigiosa sala del Museo diocesano quale sede di concerti, la Chiesa di San Filippo Neri e il Battistero dove si è già svolto il concerto di anteprima di Soli Deo Gloria, in occasione della presentazione del restauro dell’affresco del Battesimo di Cristo di Cesare Cesariano Cesariano.
Allo sponsor storico di Soli Deo Gloria, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, quest’anno si aggiungono poi G.T. SRL Simonazzi Group ed ENIA. La rassegna gode del sostegno della Fondazione Manodori e della collaborazione dell’ Hotel Posta di Reggio Emilia.
La stagione prevede un totale di 43 appuntamenti che vedranno la partecipazione ed il coinvolgimento di grandi solisti (Andreas Staier, Gerhard Gnann), formazioni vocali e strumentali (Orchestra Regionale dell’Emilia-Romagna della Fondazione Arturo Toscanini di Parma, Orchestra dell’Università di Ratisbona Regensburg, Coro del Friuli Venezia-Giulia, Coro di voci Bianche dell’Istituto Superiore di Studi musicali “A. Peri”, Ensemble vocale e strumentale di Veche ”Anton Pann” proveniente dalla Romania) e cantanti (Monica Piccinini, Alice Borciani, Cristina Calzolari, Luigi Pagliarini, Anna Schiatti).
Non solo le perle del concertismo a livello internazionale, ma anche giovani talenti reggiani come Maria Vittoria Crotti, Marco Ariani, Alessandro Cannizzaro, Davide Berselli, Loredana Bigi, Clara Fanticini, Francesco Gibellini, Pasquale Massaro che, anche tramite la partecipazione a Soli Deo Gloria, arricchiscono il proprio curriculum di un importante traguardo, riconosciuto oltre i confini nazionali.
La direzione artistica di Soli Deo Gloria ha attivato importanti collaborazioni con prestigiose università che promuovono interessanti esperienze musicali. Dopo l’esibizione, nel 2009, del Coro dell’Università di Modena e Reggio Emilia, sono in programma collaborazioni con la Facoltà di Musica sacra dell’Università di Magonza (Mainz, Germania), la Facoltà di Musicologia dell’Università di Pavia-Cremona e l’Università di Ratisbona (Regensburg, Germania), la cui orchestra si esibirà domenica 23 maggio nella chiesa cittadina di san Domenico, eseguendo musiche di F. J. Haydn e R. Schumann. Le eventuali offerte raccolte nel corso della serata verranno devolute alla Mensa del Vescovo in ricordo della presidente Maria Vittoria Visconti Spallanzani “Joio”.
Novità significativa di questa nuova edizione è la volontà di promuovere anche l'integrazione e la partecipazione sociale, attraverso iniziative che avranno come protagonisti gruppi musicali provenienti dall’est Europa e dal continente africano.
Nel corso degli anni la rassegna si è infatti talmente radicata nel territorio che, oltre ai parroci, alcune comunità non cattoliche cittadine hanno chiesto di aderire all’iniziativa, attivando così nuove ed inaspettate collaborazioni: si tratta della Comunità Cristiano Evangelica e della Comunità della Parrocchia Ortodossa Romena “San Spiridione Gerarca”. La più curiosa tra queste serate, intitolata “Europa Africa. Suoniamo insieme!”, è in programma per sabato 12 giugno nella chiesa di San Filippo Neri, luogo simbolo dell’integrazione tra fede, espressione artistica e comunità attraverso l’arte, in cui avverrà una vera e propria “fusione”, attraverso un non scontato percorso musicale tra Johann Sebastian Bach e musiche tradizionali nigeriane.
Protagonisti della serata saranno la Capella Regiensis con il soprano Monica Piccinini che proporrà una cantata di Bach alquanto appropriata all’evento (Jauchzet Gott in allen Landen! BWV 51, ‘Lodate il Signore in tutte le nazioni!’), e l’ensemble ghanese Nzuko Di Igbo, composto da coro e percussioni. Atto finale della serata sarà la corale fusion dei due ensembles, per l’esecuzione di un brano composto per l’occasione dalla giovane compositrice Evelin Cavazzoni, riunendo così tutti i componenti delle due formazioni musicali.
Sabato 15 maggio ad Albinea (chiesa della Natività della Beata Vergine Maria e San Prospero) il concerto dal titolo “Magnificat, anima mea! Musiche mariane fra '600 e '800” vedrà interpretate
musiche di C. Monteverdi, G. Cavazzoni, G. B. Pergolesi, P. Terziani, J. Pachelbel, J. S. Bach, V. Bellini, F. Provesi; protagonisti saranno il soprano Claudia Bugli e Davide Zanasi all’organo. La serata è in collaborazione con la Scuola di Organo del Conservatorio di Musica “Arrigo Boito” di Parma. Altra grande novità di questa nuova edizione di Soli Deo Gloria risiede nella progettazione e realizzazione di inedite produzioni musicali: la Capella Regiensis - Cappella Musicale di Reggio Emilia, nuova formazione vocale e strumentale che ha felicemente debuttato nell’ottobre 2009 - proporrà infatti quattro appuntamenti confezionati appositamente per le singole occasioni. La formazione vocale e strumentale si caratterizza per la presenza di musicisti reggiani alcuni dei quali sono saliti ultimamente alle luci della ribalta, quando, per il tradizionale concerto di Natale tenutosi nell’aula del Senato della Repubblica, si sono esibiti, diretti da Riccardo Muti con l’Orchestra Luigi Cherubini, alla presenza delle più alte cariche dello Stato.
Mercoledì 28 luglio, giorno della morte di Bach, in piazza Prampolini la Capella Regiensis, il soprano Alice Borciani e il contralto Cristina Calzolari saranno protagonisti di una delle serate di OST (Festival di musica e cinema). Oltre a celebrare la musica di Bach sarà l’occasione per ricordare il cinema di Pier Paolo Pasolini in occasione del 35° anniversario della morte, il quale utilizzò in più occasioni la musica di Bach nelle sue produzioni cinematografiche; sul grande schermo allestito in Piazza Prampolini rivedremo quindi celebri ed indimenticabili scene tratte da alcuni suoi film, fra cui il Vangelo secondo Matteo. La drammaturgia della serata è affidata alla scrittura preziosa di Ludovico Parenti.
Nell’ambito poi di ‘Fotografia Europea’ dedicata al tema dell’incanto domenica 9 maggio Soli Deo Gloria propone il concerto "L’eterno in-canto del gruppo polifonico e scuola gregoriana Paer." Il tradizionale concerto sull’organo storico del Teatro Valli, in data da destinarsi, ad ingresso libero ma su prenotazione, verrà dedicato integralmente alla musica di Alberto Franchetti, compositore molto legato alla nostra città di cui si celebra quest’anno il 150° anniversario della nascita. La serata è in collaborazione con l’Associazione per il musicista Alberto Franchetti; le musiche franchettiane verranno eseguite dall’Ensemble vocale e strumentale dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “Achille Peri”, accompagnato all’organo da Luigi Fontana. Tutti i concerti sono ad ingresso libero e limitato ai posti disponibili. (nella foto la Capella Regiensis a cura di Luca Guerzoni)

di Paolo Borgognone ("Stampa Reggiana", Anno VIII, n.5, maggio 2010)

sabato, maggio 15, 2010

I Maestri Cantori

Tutta l'opera wagneriana è un'immedesimazione in miti e simboli: sta sotto il segno del sacro, e svolge la metafisica del mondo sulle ali dell'immagine scenica, poetica e sonora. Il dramma dei personaggi è dramma di figure imbevute di senso cosmico, che sono già per se stesse in rapporto universale con la realtà totale, negativo o positivo; sono gli arya e gli asura della mitologia indiana. Un solo dramma o commedia fa eccezione: I Maestri Cantori di Norimberga. Qui Wagner torna all'usato teatro di immedesimazione nella vita stessa qual'è, trovandovi l'armonia e la melodia delle cose e delle creature. Naturalmente non c'è commedia di alta perfezione che non sia un'armonia di suprema unità fra le creature e tutta la vicenda della vita che racchiude, e che quindi non divenga essa stessa una espansione in simboli universali, nei quali l'uomo ritrova se stesso, figure tipiche che si allargano oltre i tempi e gli spazi. Ma questi tipi sono il mondo in cui viviamo: il genio del teatro si immerge nella vita quotidiana e ne scorge e vive il destino sotto le apparenze banali, aleatorie e discordi, così che la vita quotidiana stessa diventa un quadro d'arte.
Wagner fu d'altronde colui che per primo immerse la musica nella natura, e ne trasse dall'orchestra tutte le voci. Seppe far cantare la materia vivente e cosmica, non soltanto le passioni umane, a cui quasi esclusivamente si era ristretta l'espressione musicale fino a lui. Se nei Maestri Cantori è la commedia umana che prevale, inevitabile era che anche qui il Maestro si valesse della magia di cui era grande evocatore per suscitare dall'orchestra gli incantesimi della notte lunare, le voci - dal coro - della folla discorde, i brusii notturni di una città addormentata. E questo è l'incanto del secondo atto, dove una strada di Norimberga diventa nell'alta notte un pezzo di cosmo in cui la natura vicina e lontana confluisce e si stempera.
Ma sopra l'intera magia di Norimberga si distende, come un diffuso vapore, la visione buddica del mondo; l'occhio del cantore vede dall'alto la città addormentata, e ne contempla poi il risveglio e l'incipiente giornata come una follia del gioco di lila della vita: «Wahn! Wahn! - Uberall Wahn!». E' l'antico saggio che lo dice attraverso Hans Sachs, il quale sta seduto nel mattino di San Giovanni nella grande poltrona della sua contemplazione interiore. Con ciò rivela il senso stesso dell'azione drammatica di ogni tempo, quando rappresenta la commedia umana: una visione ciclica della follia del mondo, speculum vanitatis.
Non è un'opera buffa, e neanche comica, I Maestri Cantori: è una melanconica visione della vita soffusa della sottilissima polvere di un sereno sorriso.
Vi si scarica una gran parte della considerazione che l'autore faceva del mondo. C'è il senso delle masse umane e del popolo, come vita innumerevole che è come una disseminazione di piccole pietre preziose. L'anima totale attraverso innumerevoli vite: non la passione individualista, il dramma di qualche personaggio storico o fantastico dell'opera usuale, ma il dramma ridevole di tutti. La passione di Walther ed Eva è come un bacino d'acqua chiara nel circuito sterminato della natura. Non essa, ma la vita sociale con i dolori e le gioie comuni dei giovani e dei vecchi, degli ambiziosi dei generosi, degli avari e dei bizzosi, degli orgogliosi e dei modesti è il tessuto in cui si tramano le voci dell'orchestra e dei cori. Ma su questo brulicare, anzi in esso stesso, si forma anche per crescita spontanea, che interamente lo pervade, il messaggio estetico e sociale, che Wagner era andato meditando attraverso la osservazione della vita, e i suoi stessi casi personali.
Si sa che ad Hans Sachs Wagner aveva originariamente contrapposto la pedante figura di Beckmesser sotto il nome di Hans Lich; e con questo nome aveva trovato durante la gestazione la concretezza del personaggìo. Ora Eduard Hanslick era quello che egli considerava il suo nemico personale: il teorico della musica pura, autore di quell'aureo saggio che è Vom Musikalisch-Schönen, tradotto in molte lingue e letto con interesse fino ad oggi, intorno all'essenza puramente architetturale delle forme sonore, cariche in sé di vitalità interiore, ma non espressive di sentimenti altri da loro, cioè extra-musicali (di cui cioè la musica sarebbe un veicolo espressivo) come tendeva invece a sostenere la corrente programmatica della concezione romantica della musica. Ma quella nobile figura di critico e cattedratico sbagliava nel ripudiare l'immensa vitalità sonora che era la stessa musica wagneriana, che gli sbaragliava le concezioni formali e puristiche, a cui la sua mentalità era abituata. Di qui la sua ostilità verso Wagner. E come non sapesse superare questa ostilità lo dimostra ciò che, certamente edotto del tiro che Wagner dapprima aveva tramato contro il suo nome, ebbe a scrivere dopo la prima dei Maestri Cantori: «Il preludio è un pezzo musicale di miserevole artificiosità e di effetto puramente e semplicemente brutale... la struttura dello spartito è assolutamente senza nerbo: un mollusco senz'ossa... Se i Maestri Cantori diventassero regola sarebbe la fine di tutta la musica... ».
In ogni tempo vi sono coloro che vogliono isolare: il sesso dall'amore, la fisiologia dalla psicologia, la musica dalla pittura, l'etica dalla logica, la filosofia dalla poesia. Ma Wagner apparteneva alla schiera dei grandissimi che sanno per esperienza interiore come in realtà nulla si possa isolare senza ucciderlo, e come in ogni momento della vita interiore confluisca tutta la vita; come le regole stesse nascano dalla vita e si dissolvano in essa, né si possano isolare i suoni e le forme sonore dalle visioni e dai sentimenti che suscitano proprio perché li contengono in sé transustanziati in suono; perché tutto è un circuito; e l'arte grande ha la sua eccellenza nel non estraniarsi, ma nel vivere nella sigla del simbolo sonoro (nel caso della musica) le universali rispondenze dell'umanità e della natura. Non nella rinuncia ad essere altro da se stessa - cioè in una marmorea nudità formale - ma nell'essere già in sé voce della vita universale consiste la grandezza dell'opera maggiore. Questo appunto è il dilemma che divide Hans Sachs e Walther da Beckmesser. Questo ultimo scorge solo l'astrazione del momento sonoro; è nevroticamente distaccato dell'esistenza e si ferma su un solo punto di essa. Perciò apprezza le regole arginatrici e basta; e naturalmente finisce per sbagliare tutto, come colui che vuol mettere accuratamente il piede sempre soltanto su determinate pietre e non su altre. Beckmesser è pedante perché è nevrotico, e perciò è buffo, e finisce per rivelare che ha perduto ogni contatto con i suoi, simili e con la vita. Ma è anche pericoloso perché pensa solo a se stesso. Su questo egoismo fondamentale si fonda la severità, l'acribia, l'inquisìzione poliziesca stessa nel punire e nel redarguire, senza un briciolo d'amore, che ha sempre caratterizzato la genia dei pedanti e dei professori troppo severi. Wagner, che ne aveva fatto l'esperienza, non li poteva soffrire: ma l'insofferenza era anche compassione, almeno nell'atto della creazione. Altrimenti non avrebbe potuto dipingere Beckmesser con tanta carezza di umanità in fondo serenamente sorridente e benevola, facendone una figura valida per ogni tempo. Ma di fronte alle regole, per esempio, della pedantesca tradizione musicale scolastica che ha imperversato quasi fino ad oggi nelle scuole di musica, non c'era se non da mettere a nudo la fondamentale cecità che vi stava sotto, la bisbeticità, cioè l'egoismo segreto di chi, una volta impossessatosi di un sistema, lo difende ad oltranza come un tesoro chiudendosi in un moralismo estetico che ricompare in ogni tempo, e che è insieme intransigenza, durezza d'animo, incomprensione e malvagità. Come Beckmesser è un egoista geloso nell'arte, così lo è nella vita; non vede Eva che quale oggetto d'acquisto del suo desiderio. E finisce come tutti gli avari e gli egoisti: credendo di tutelare il proprio vantaggio e interesse se ne va povero e scornato. Il trionfatore è Hans Sachs ancora più che Walther, figura un po' melodrammaticamente convenzionale; colui che ha saputo rinunciare anche ad Eva che gli si offriva, per una considerazione di superiore benevolenza, ovvia ma così difficile in certi casi. Sachs, che attraverso i dolori e le disgrazie della vita, ha imparato a rinunciare, vede l'arte e il popolo affluirgli incontro e donarglisi. Perché soltanto chi si sa dimenticare negli altri trionfa nella totalità della vita.
D'altra parte I Maestri Cantori è commedia del popolo, non delle corti, non dell'alta classe, ma del proletariato, allora piccola borghesia, di una città del cinquecento. La vita la sa e vive il popolo più dei privilegiati dell'arte e della vita. Non nell'eccellenza in sé, ma nella comunione è la grandezza; forme e scienza restano astratte se non sono al servizio dell'amore, cioè della comunione. Perciò le regole dei Maestri Cantori devono sgorgare dalla primavera della vita, e in essa sempre reimmergersi. Lo dice a chiare parole Hans Sachs, e in fondo lo stesso Pogner, il magnate del denaro che si fa mecenate dell'arte e dell'amore per non essere quel pescecane, che altrimenti lo reputano altrove. Non perché - come talvolta si sostiene - la regola democratica debba venire dal basso; ma perché deve venire dalla comunione. Wagner esprime in questa grande commedia umana il suo pensiero socialista, che fu la concezione che lo accompagnò per tutta la vita. Anche quando si inchinò ai principi e agli aristocratici disse loro a chiare parole che essi pure solo nell'amore dell'arte e della vita di tutti potevano trovare la consacrazione della loro esistenza e delle loro opere. Sino dal discorso al Vaterlandsverein di Dresda (1848) il suo non era populismo né marxismo, cioè lotta di classe, ma predicazione di comunione e collaborazione socialista fra tutte le classi. Egli sentiva sempre il valore come qualcosa di supremo che sgorga dalla più vaste visioni della vita interiore, anzi addirittura dallo spirito divino, e non dagli interessi o dall'economia soltanto. Ma avvertiva come lo spirito divino non è tirannia del Padre o dei magnati.
E' nel segno di questo amore che si conclude in uno splendore innumerevole la coralità dilagante sul prato della Pegnitz. Tutti che esistiamo non siamo che una muffa su questa palla che corre luminosa nel cosmo in uno spazio sterminato di stelle, pianeti e galassie, che di questa nostra vita terrestre non sanno nulla. Comprendere questo e riempirsi perciò di rinuncia a sé e di generosità universale è vedere oltre il limite.
E' d'altronde in tale spirito di universale comunione che I Maestri Cantori costituiscono anche una vasta contaminazione artistica, in cui il dramma si allea alla commedia, il linguaggio del cinquecento confluisce, come in un grande pasticcio, nel linguaggio di tutti i giorni e in quello dell'ottocento. La musica, per evocare lo spirito dell'antico contrappunto (che poi non era neanche proprio dei Cantori) contamina la cinquecentesca Norimberga con il barocco settecentesco e bachiano, mentre le armonie, i timbri, gli squilli e i modi sono dell'ottocento ed oltre, facendo sostanzialmente di questa vicenda scenica un Sammelsurium di universale umanità, dove vale soltanto l'universalità della vita che non ha limiti temporali. Non che Wagner, come facevano molti, abbia vestito personaggi antichi coi panni dell'ottocento; vero autore tragico, li ha rivestiti, valendosi anche della virtù trasfiguratrice della musica, dei panni di tutti i tempi, pur assumendo il quadro caratteristico di un'epoca e di un'età. Perciò ne è stata anche possibile qualche interpretazione elisabettiana e quasi dei tipo della rivista attuale, come ha fatto Wieland Wagner a Bayreuth. Quel mondo di Norimberga non è mai esistito a quel modo: eppure anche lo spirito rozzo e pretenzioso della musica dotta e popolare dell'antica città tedesca, su cui Wagner tanto si documentò, e il suo parlare ci sono dentro per evocazione e per sigla.
Il parlare popolare e discorsivo, come in ogni epoca, e come particolarmente risulta nelle farse (Fastnachtspiele, Schwänke) dello stesso Hans Sachs storico, non poteva non esprimersi in versi discorsivi, spesso contorti, perennemente allusivi alla facile arguzia attraverso la rima, soprattutto baciata (Knittelverse). E' il modo stesso di esprimersi, lievemente musicale, del popolo di ogni tempo, e soprattutto dei drammi popolari.
Nel tradurre questo grande e gustosissimo poema della commedia umana si pone quindi un problema essenziale. Riprodurre la vivacìtà intrinseca verbale del vero dialetto popolare, intriso di sonorità germanica, senza sciuparlo in un'altra lingua per di più così distante da quella, è impresa in sé disperata e presunzione che può sembrare addirittura dilettantesca. Sarebbe come voler tradurre in italiano le commedie veneziane di Goldoni. Tutti sanno che un riversamento nella lingua nazionale di quel vivacissimo dialetto, che vive soprattutto della sua sonorità specifica, non può che sciupare quelle grandi opere d'arte.
Perciò, quando Severino Pagani mi prospettò il problema di completare la serie dei grandi drammi wagneriani (esclusi, come già d'accordo, i primi, che, se pure eccellenti, hanno carattere specifico di libretti) con I Maestri Cantori, non potei non rispondere a lui, che è felice autore di vivaci e applaudite commedie in dialetto milanese, che, volendo fare qualcosa di diverso dalla traduzione già molto buona dal punto di vista filologico, ma artisticamente pesante e un po' accademica di Guido Manacorda, si incorreva in una difficoltà simile a quella di tradurre le sue stesse commedie milanesi in lingua italiana. Ma poi considerazioni editoriali ci hanno indotto a tentare una traduzione semplicemente onesta, che dapprima voleva essere ìn prosa. Senonché, accintomi al lavoro, ho comunque tentato il verso e la rima, e sono arrivato ìstintivamente a riprodurre, come si vedrà, quasi senza eccezione la struttura stessa delle rime dell'originale e dei loro metri, tolta qualche lieve licenza. Il risultato, che dapprima mi apparve deludente, mi stava inducendo ad abbandonare l'impresa, quando poi, rileggendo il lavoro compiuto, cominciò a sembrarmi che qualcosa del vino originario si fosse, come per istinto, travasato nelle rime e nei ritmi della versione, comunque assai più aderente alla verve dell'originale che non la prosa o gli incauti versi di altri traduttori. Allora mi sono deciso a presentare questo testo, con il semplice avvertimento che qui, se c'è arte, si tratta di un'impresa tecnica di riversamento condotta in porto con la maggiore onestà possibile. L'avvertimento è rivolto al lettore, che comunque ritroverà in questo libro nella parte italiana almeno una dose dello spirito del poema, il quale è certamente un capolavoro letterario del teatro germanico. Il linguaggio di questa commedia naturalmente non ha valore lirico, neanche nell'originale; i pochi squarci lirici delle canzoni di Walther non sono gran cosa neanche nel testo tedesco, ma divengono belli in virtù della musica. Ma come creazione linguistica di una commedia drammatica questa vicenda norimberghese è un grande testo, e lo è proprio perché discorsivo e immediato. Le rime stesse, proprio perché non poetiche ma grossolanamente discorsive, sono talmente essenziali che un esperimento di toglierle nella traduzione dimostra subito come così facendo si sciupi tutto: esse sono consustanziali al parlare dei personaggi; di qui la decisione di conservarle, anche se ciò costasse qualche forzatura. Un lavoro di questo genere è dunque sopratutto un risultato tecnico; e di questo modestamente crediamo di poter essere contenti. L'opera d'arte, risolto questo assunto, vien fuori da sé.
Va naturalmente perduto nella traduzione il linguaggio arcaizzante, di cui Wagner si valse: ma certo non ci sarebbe stato nessun peggiore gusto di una scimmiottatura in lingua arcaizzante italiana; è anche troppo se chi traduce riesce a rendere la spigliatezza popolare, spesso per sua natura alquanto contorta nell'espressione, che brilla ovunque nel vivacissimo originale. La necessità delle, rime e il ritmo tuttavia conferiscono anche al testo italiano una nota d'antico senza tempo preciso. E così è bene che sia.
Forse un paragone con il Falstaff boitiano e il Gianni Schicchi forzaniano - gustosissima commedia originale quest'ultima, matrice della musica - non sarebbe fuor di luogo. E' da questo poema pieno di vita che sgorga la musica, in cui tutto quanto qui è in nuce si allarga verso rive e lontananze di mari sonori, nei quali è dato riposare e sognare la magia delle notti di luna di antiche strade, e il fresco fulgore dei mattini di primavera in cui il mondo risorge sulla buona terra germanica insieme con il sole che raggia fiammante dalle nubi.

Giulio Cogni (introduzione a "I Maestri Cantori" di Wagner, Casa Editice Ceschina, 1972)

sabato, maggio 08, 2010

Musica trasmessa...

La radio è uno strumento universale d'istruzione e di svago: in questa definizione vi è l'obbligo, da parte della radio e dei suoi collaboratori, di formare il gusto degli ascoltatori e di educarli. Abbiamo scuole superiori aperte al popolo e insegnamento musicale nelle scuole secondarie; abbiamo istituti privati e pubblici dove si può imparare a sonare uno strumento e a leggere le note. Ma la radio adempie un compito incomparabilmente piú vasto: essa porta l'istruzione in casa. Chi vuole imparare non deve piú uscire; basta girare un interruttore, premere un tasto. Come in un gigantesco magazzino i tesori del sapere affluiscono all'ascoltatore. Un passo dopo l'altro un pubblico sempre piú vasto viene educato non solo a vedere ma anche a sentire il mondo... La radiocommedia, come il concerto trasmesso per radio, ha già avuto le sue conseguenze. Non è teatro acustico, cosí come il concerto trasmesso non è l'orchestra filarmonica senza la vista degli orchestrali e del direttore.
Veramente la musica è presa dalla sala dei concerti; non vi è nulla che disturbi: i rumori, la folla, la luce dei riflettori, i movimenti piú o meno fastidiosi del direttore che attirano l'occhio, il nervosismo del complesso orchestrale che suona i violini e soffia negli strumenti a fiato. L'ascoltatore non deve píú preoccuparsi dei biglietti; l'abito elegante è superfluo; non è piú necessario compiere il lungo o disagevole percorso fino alla sala dei concerti. Vicino all'altoparlante l'ascoltatore può immergersi nella musica senza essere disturbato da ciò che lo circonda. Egli può veramente ascoltare. E questo poter udire e dover udire - poiché non esiste alcun'altra via d'accesso alla musica trasmessa - conduce nel corso del tempo alla sorprendente scoperta del mondo sonoro. La radio è la sua voce; essa fornisce trasmissioni.
Ma il concerto trasmesso non è identico a quello sonato. Lungo il cammino dal microfono che accoglie i suoni all'altoparlante che li rende, e che passa attraverso l'ingegnere del suono, si perde qualcosa. Lo strumento radio ha dei difetti. Da trent'anni - da quando la radio uscí poco per volta dallo stadio dell'infanzia - si mira a raggiungere la perfezione tecnica. In questo tempo tecnici, fisici e collaboratori della radio hanno fatto cose meravigliose. Di una cosa però non sono stati capaci: trasmettere all'ascoltatore lontano il suono registrato senza che questo ne sia danneggiato. Ancor oggi si cerca di risolvere questo problema. Esistono intanto microfoni quasi perfetti; da lungo tempo è aperto il campo delle onde ultracorte per trasmissioni di altissima qualità. Si ebbero di conseguenza sostanziali miglioramenti nella ricezione. Lo splendore e la pienezza di un concerto per violino - sentito su onde ultracorte - si avvicinano a quelli di un'esecuzione nella sala da concerti. Manca ancora però l'altoparlante perfetto, l'ultimo anello della catena di trasmissione. All'Esposizione radiofonica di Berlino del 1930 la Primola-Lautsprecherwerk di Monaco presentò modelli «di forme lisce con ornamenti di rosette; impianti di lusso con ricche sculture; in tinta legno chiaro e scuro, oro antico, argento antico, bronzo, con una patina verde, maiolica ecc. ecc.», tutte esteriorità che dovevano mascherare il fatto che non esiste un altoparlante acusticamente perfetto. Noi siamo ora nel 1963, ma l'altoparlante acusticamente perfetto è ancor sempre un sogno dei tecnici.
E le molte centinaia di migliaia o milioni di altoparlanti negli apparecchi radio costruiti dalle industrie? Non è un segreto per nessuno che essi sono un ripiego. Ad esempio, in seguito a difetti meccanici come risonanza propria e resistenza di massa (impallamento), si producono negli altoparlanti piccoli effetti vettori dei suoni alti, mentre in quelli grandi i suoni alti vengono fortemente smorzati. Non ci si può far nulla. La cosa dipende dalla struttura dell'altoparlante, dai suoi elementi di costruzione. La modulazione colta dal trasmettitore deve essere resa percepibile, le vibrazioni elettriche devono essere trasformate in vibrazioni dell'aria. Negli altoparlanti tradizionali ciò avviene mediante una membrana, un sottilissimo disco di lamiera. La molteplicità delle vibrazioni e l'inerzia della membrana non vanno d'accordo; ne sono prova snaturamenti e diminuzione della qualità. Inoltre la qualità della trasmissione dipende dal punto dove è collocato l'altoparlante, dalla grandezza e dal materiale di cui è composta la superficie che esso fa vibrare, dalla grandezza e dal rivestimento delle pareti del locale in cui esso lavora e cosí via Non è possibile trasformare la modulazione a bassa frequenza in onde sonore, cioè le vibrazioni elettriche in vibrazioni meccaniche senza che ne soffra la fedeltà del suono.
Esiste però da alcuni anni un altoparlante quasi perfetto, chiamato «ionofono», il quale trasforma direttamente, cioè senza la deviazione attraverso un elemento meccanico intermedio, la modulazione elettrica in vibrazioni dell'aria. Il principio è già stato indicato negli anni dal 1915 al 1921 dagl'inventori del film sonoro Vogt, Massolle e Engel. Siegfried Klein ha poi costruito lo ionofono. Nucleo dell'altoparlante è un imbuto-megafono con aria ionizzata e resa perciò sensibile alle vibrazioni elettriche. L'intervento della modulazione a bassa frequenza fa vibrare il cono d'aria nell'imbuto-megafono. Il movimento si comunica all'altra aria e diventa udibile come suono. Sfera d'azione dello ionofono è l'intero campo di frequenza sopra gli 8oo hertz, cioè proprio all'altezza necessaria per la formazione dei timbri e per un'eccellente riproduzione degli armonici. La Telefunken ha presentato sul mercato una combinazione di un altoparlante a cono, che lavora sotto 1ooo hertz, con lo ionofono, che viene già usata per gli altoparlanti comuni e per quelli dei cinematografi. Prezzo e volume ne rendono per ora impossibile l'installazione in apparecchi radio costruiti in serie.
Ma i progettísti sono talmente rapidi nell'ideare sui loro tavoli da disegno nuovi modelli perfezionati dei vari strumenti, che il costruttore può appena mantenere lo stesso passo; prima che un'invenzione entri a far parte, con l'approvazione di tutti, del patrimonio della tecnica, intercorrono spesso decenni e devono essere superate difficoltà quasi insormontabili. Da lungo tempo il pubblico desidera ascoltare un concerto in casa. nella stanza di soggiorno; e quanto poco si cura della qualità della trasmissione, il piú delle volte pessima, degli apparecchi radio accesi giorno e notte, tanto è esigente per quel che riguarda «il concerto in casa». L'industria ha costruito apparecchi radio con numerosi altoparlanti e li ha messi in vendita con la fantasiosa indicazione «suono tridimensionale». Il suono è diventato piú pieno, piú brillante, per cosí dire «piú fiorito»; ma ciò non ha nulla a che fare con la spazialità e l'ascolto stereofonico. Il radioascoltatore non ha affatto l'impressione di essere seduto nella sala da concerti. Il primo violino non risuona davanti a sinistra, i contrabbassi non brontolano proprio a destra, l'acuto suono delle trombe non si spinge in avanti dal fondo. L'orecchio non distingue da dove giunge il suono di ogni strumento.
Nel giradischi abbiamo il microsolco, e la high fidelity; la perfezione della tecnica celebra un trionfo dopo l'altro. Il passo che si dovrebbe logicamente compiere sarebbe quello di giungere fino in fondo a questo processo di perfezionamento, di abolire completamente - o per lo meno quasi completamente - la differenza fra registrazione e riproduzione, fra l'orchestra sinfonica nella sala da concerti e l'orchestra sinfonica nella stanza di soggiorno, di rendere uguali la «conserva» musicale e l'avvenimento musicale vero e proprio. Da questo passo dovrebbe risultare la condizione dialettica apparentemente assurda per cui l'originale sarebbe identico alla copia. Il fatto, perciò, che un concerto che venga eseguito, diretto e ascoltato in apposita sala perderebbe ogni significato, posto naturalmente che il pubblico si accontenti di ascoltare.
La nostra vita musicale subirebbe allora senza dubbio una decisa trasformazione. Frattanto il passo è stato compiuto in via sperimentale. Esso fu la risposta dei tecnici alla richiesta degli ascoltatori di non sentire piú la musica da un unico altoparlante, cioè, per cosi dire, con un solo orecchio; un orecchio sarebbe infatti del tutto sufficiente per il vecchio sistema di trasmissione. Il consumatore vuole qualcosa di piú del «suono tridimensionale»; egli vuole la vera stereofonia. Esperimenti con trasmissioni spaziali non sono di oggi. Uno dei primi tentativi di riproduzione sonora plastica ebbe luogo nel 1881, quando si trasmisero telefonicamente concerti del Grand Opéra di Parigi, in modo tale che l'ascoltatore percepiva spazio e direzioni. Nel 1933 il direttore Leopold Stokowski, con l'aiuto di H. Fletcher, fece esperimenti di trasmissione di musica ad alta fedeltà. Per la registrazione egli impiegò tre microfoni e per la trasmissione del suono tre altoparlanti che furono collocati a sinistra, al centro e a destra dinanzi agli ascoltatori. Verso il 1940, nel laboratorio della Philips Gloeilampenfabrieken, Eindhoven, Olanda, si lavorava a un impianto per l'ascolto «binauricolare», Dapprima si misero due microfoni per la registrazione al posto delle orecchie in alcune teste di gesso e le si collocò dinanzi all'orchestra in modo tale che si trovassero all'altezza della testa di un uomo seduto, e si incise la musica. Per la riproduzione ci si serví dapprima di una cuffia, poi di due altoparlanti collocati a destra e a sinistra dinanzi al pubblico. La trasmissione avvenne su due canali separati: dal microfono di sinistra all'altoparlante di sinistra e dal microfono di destra all'altoparlante di destra; su questa disposizione si basa il segreto della stereofonia. Al posto delle teste di gesso, una sfera di legno della forma e della grandezza di una testa umana prestò gli stessi servizi.
Allo sviluppo dell'audizione spaziale contribuí notevolmente l'invenzione dei diversi sistemi della visione spaziale nel film. Nel 1950 e 1951 Norman MacLaren disegnò in via sperimentale i primi due film a colori tridimensionali. Il primo film tridimensionale Bwana der Teufel, ancora molto primitivo, apparve nel 1952; seguirono altri film basati sullo stesso sistema. Nel settembre del 1952 fu proiettato al Broadway Theatre, New York, il primo film in cinerama; un anno dopo si girarono i primi film con i sistemi cinemascope e vistavision. Quest'improvvísa spinta dell'industria cinematografica verso nuove direzioni ha dato origine a esperimenti intensivi con il suono spaziale, perché l'immagine spaziale - sia quella veramente tridimensionale, sia l'immagine apparentemente spaziale del cinemascope richiedeva naturalmente anche il suono a piú canali.
Da questo punto di vista sono degni di nota gli esperimenti che Hermann Scherchen fa nel suo studio sperimentale acustico di Gravesano con l'ultimo elemento di trasmissione, l'altoparlante. Egli prova altoparlanti d'ascolto costruiti dall'industria e cerca di trovare la disposizione ideale per trasmissioni realmente stereofoniche. Già nel 1954, in occasione del Congresso di musica ed elettroacustica, egli aveva stupito i partecipanti con un'esecuzione di musica apparentemente spaziale. Un'intera serie di altoparlanti, distribuiti nello studio oscurato, dava l'impressione di essere veramente in una sala da concerti. Da allora Scherchen ha continuato a dedicarsi a questi esperimenti, persuaso in fondo che la «fine della musica» è imminente e che rimane ancora da fare un'unica cosa, cioè conservare per cosí dire il patrimonio delle opere musicali con una perfetta tecnica della registrazione e della riproduzione.
Instancabilmente provò altre collocazioni degli strumenti, diverse marche di altoparlanti, condizioni acustiche variabili, impiegò risonanze di diversa lunghezza, con le quali poi animò composizioni registrate nel modo piú «asciutto» possibile. E' palese in tutto ciò l'intenzione di creare ogni volta lo «spazio» musicale conveniente, adatto solo all'opera in questione. Ogni epoca della musica conosce un diverso ideale spaziale; ogni periodo dà la preferenza a una differente atmosfera concertistica. Scherchen prende le mosse da questa constatazione. Fra l'altro egli tenta di ricreare la giusta atmosfera mediante l'inclusione dello spazio nell'incisione finita: per Bach la chiarezza e la linearità, per Mendelssohn la trasparenza, per Debussy il pittoresco, per Strawínsky durezza e pregnanza. Egli ha inciso per esempio un tempo di un quartetto di Haydn con un magnetofono a quattro piste, di modo che ognuno dei quattro strumenti sonava in un microfono particolare; ogni voce perciò scorreva separata dalle altre su una delle quattro piste del nastro.
[...]

di Fred K. Prieberg (da "Musica ex machina", Einaudi, 1963)

sabato, maggio 01, 2010

Schoenberg: Strumenti musicali meccanici

Quando disse «considero mio dovere principale costringere gli esecutori a suonare quello che sta scritto nella musica», Mahler era al culmine della sua carriera di interprete.
In effetti, su mille strumentisti non se ne trova forse nemmeno uno che ha la volontà e la capacità di intendere e suonare veramente quello che è scritto nella musica. Si suona rapido o lento, si eseguono note brevi o lunghe, forte o piano, per non dire addirittura acuto o grave, quasi solo in rapporto alla comodità di realizzazione sullo strumento. Unicamente per questo motivo sarebbe auspicabile la produzione meccanica dei suoni e la loro definitiva fissazione in relazione all'altezza, alla durata, e al loro rapporto con la scansione del tempo. Il pensiero reale difatti, il pensiero musicale, ciò che è immutabile, è stabilito nel rapporto delle altezze con la scansione temporale.
Tutto il resto invece, la dinamica, l'agogica, la sonorità e ciò che ne deriva (carattere, chiarezza, efficacia e cosí via) è propriamente solo un mezzo dell'interpretazione, serve a rendere comprensibile il pensiero, e ammette delle modifiche. In un tempo rapido, ad esempio, le dífferenze dinamiche devono essere diverse che in un tempo lento. Si dice che, quand'era già avanti negli anni, Beethoven prendesse tutti i tempi piú lenti che in precedenza, per far risultare la musica più comprensibile. Nel mio caso invece ho osservato il contrario: oggi nelle mie opere eseguo tutto molto piú svelto che nelle prime esecuzioni, quando sia per motivi tecnici, cioè per la difficoltà di realizzazione e la dinamica insufficiente, sia per raggiungere un effetto plastico, eseguivo tutto - consciamente o no - troppo lento. Quando si eseguono per la prima volta pezzi concettualmente non superficiali, non si possono per lo piú tenere i tempi giusti perché altrimenti tutto diventa di comprensione troppo difficile e troppo insolito. Cosí ho potuto capire la Prima Sinfonia di Mahler solo quando la sentii eseguire da un mediocre direttore in tempi del tutto inesatti. Qui tutte le tensioni erano mitigate, rese insipide, e cosí si poteva star dietro al discorso. Come ascoltatore infatti anche il miglior musicista non è meno tardo di comprendonio e bisognoso di soccorso del profano. D'altronde anche il miglior interprete, anche se è l'autore della musica che esegue, può ritenere possibili, anzi necessari, diversi punti di vista, dato che ogni realizzazione di ciò che si è pensato in astratto rimane inferiore alla lettera scritta: anche questo può essere confermato da un'affermazione di Mahler, che mi disse dopo la prima esecuzione assoluta della sua Settima Sinfonia: «Non so che cosa sia piú importante per lei. Nella prima esecuzione ho ottenuto maggior precisione, nella seconda sono riuscito a realizzare meglio i miei tempi». Dunque Mahler nella prima esecuzione non aveva potuto realizzare i suoi tempi, ma non intendeva decidere quale esecuzione fosse stata la migliore... E ancora un aneddoto mahleriano: una volta che alla Hofoper di Vienna egli aveva un Sarastro, non appartenente alla compagnia stabile, che prendeva tutti i tempi molto comodi, molto piú lenti di quanto intendesse Mahler, fu quest'ultimo ad adattarsi alla situazione negli altri pezzi dell'opera, modificando opportunamente tutti i tempi e dando cosí carattere unitario all'intera rappresentazione (ma per realizzare questo è necessario avere il senso della forma).
I rapporti di sonorità fissati per mezzo di note necessitano dell'interpretazione: senza questa, rimarrebbero incompresi. Non solo ogni epoca ha tempi di esecuzione diversi e diverse esigenze interpretative (piú rapido - piú lento, piú difficile - piú facile, piú patetico - meno patetico, piú dolce - piú aspro e simili si alternano irregolarmente), ma mutano addirittura le esigenze di maggiore o minore chiarificazione nella connessione del tessuto compositivo: pensiamo solo che nella nostra epoca ci si è per esempio limitati a far sentire, nelle fughe di Bach, solo il tema e ad eseguire tutto il resto in modo che dia il minor disturbo possibile, mentre probabilmente ai tempi di Bach non si dava risalto a nessuna parte, mentre un'interpretazione che corrisponda alla tecnica attuale deve rispondere all'esigenza di far sentire tutte le parti in modo omogeneo. Pensiamo come si declamava, invece di cantare, al tempo in cui Wagner era nuovo, mentre oggi ci si adopera a tener conto anche qui delle esigenze del bel canto; pensiamo al largo stile patetico che al tempo di Wagner influenzava anche l'esecuzione di composizioni classiche, e contrapponiamo invece a ciò il tono di commedia con cui oggi si eseguono i Meistersinger [I Maestri Cantori] , o il tono delicato e lirico che oggi viene spesso presentato come possibile nel Tristan, e rendiamoci conto che questo era necessario e può diventarlo di nuovo non appena vi sarà una nuova epoca che porrà nuove esigenze all'esecuzione. Si capirà allora che l'interpretazione è indispensabile, e fino a che punto lo è.
Se su mille esecutori ce ne fosse uno solo che avesse la volontà e la capacità di tirar fuori dalle note quello che è giusto e che rimane sempre costante, adattandolo alle necessità di un ascoltatore contemporaneo, ebbene, tutta questa Sodoma e Gomorra di cattivi interpreti, che vogliono solo esaltare sé stessi a spese della musica, meriterebbe indulgenza per amore di quest'unico musicista. L'interpretazione è necessaria per rendere accessibili i pensieri dell'autore all'orecchio del suo tempo, alla capacità di intendere di chi ascolta di volta in volta. E l'autore è di solito determinante come interprete delle sue opere piú per la variabilità del suo -modo di eseguirle che ad esempio per i tempi che si dice che egli avrebbe tenuto. (Nessuno infatti si segna tutti i tempi, nemmeno colui che ci fa attenzione, e si può dire che, non esiste un tempo in cui un musicista dotato non possa realizzare un'esecuzione giusta e viceversa uno non dotato un'esecuzione sbagliata).
Finché dunque si pensa che lo scopo principale della meccanizzazione della musica (espressione questa purtroppo molto poco felice) consista nella fissazione definitiva dell'interpretazione da parte dell'autore non vedrei in questo nessun vantaggio ma solo un danno, in quanto l'interpretazione data dall'autore non può in nessun caso restare quella definitiva. Ma se si tratta di liberare le esecuzioni da quelle carenze degli esecutori che oggi incombono a causa dello scarso impegno messo nelle prove; di eliminare dall'esecuzione tutto ciò che supera le difficoltà normalmente superabili; di stabilire in modo definitivo i rapporti fondamentali del pensiero realizzato nelle note e di garantire reciprocamente il loro rapporto esatto liberandolo dalle casualità di una realizzazione primitiva, recalcitrante e di scarso affidamento, l'utilizzazione di tutti gli strumenti meccanici potrebbe essere di enorme vantaggio. E' in questo senso che ho espresso piú di dieci anni fa questa idea, ed è in questo senso che la ritengo giusta ancor oggi.
Una proposta del genere comprensibilmente suscita la resistenza degli strumentisti, il cui interesse però viene minacciato da essa solo in apparenza, mentre in realtà la loro opera non diverrebbe superflua nemmeno se si facesse un uso molto ampio di strumenti meccanici: perché certamente nessuno diventerà mai musicista, nessuno potrà esercitare e sviluppare l'orecchio e il senso ritmico imparando a suonare l'organetto meccanico, ma solo se egli stesso suonerà imparando a impadronirsi a fondo di uno strumento. Ma le obiezioni a cui induce l'espressione un, po' irritante «meccanizzazione della musica» si annullano da sé se si pensa alla quantità di elementi meccanici che già da molto tempo sono presenti nei nostri strumenti piú importanti. Oltre a confrontare il violino e il pianoforte, nel quale ultimo (a parte la meccanica vera e propria, il sistema di leve) tutte le note sono fissate e immutabili mentre nel violino ogni suono deve essere prodotto a seconda della sua altezza, oppure l'organo (dove in realtà l'esecutore fa solo un movimento che non ha assolutamente niente a che fate con la produzione del suono ma serve solo da segnale a tale scopo) e il corno, basta pensare alle chiavi del clarinetto, ai pistoni del corno, ai pedali dell'arpa, alle traversine della chitarra e in definitiva anche ai piroli del violino, per capire se si può fare a meno dell'elemento meccanico nei nostri strumenti musicali, e se esso ha peggiorato la musica. E' un sentimentalismo lagnarsi per la meccanizzazione della musica e credere spensieratamente che lo spirito - quando c'è - possa essere soppresso dalla meccanica: sono solo gli spiriti piccini quelli che se ne hanno a male quando non si lascia loro abbastanza, spazio, spazio per lamentarsi. Lo spirito di Bach non verrebbe soppresso da nessun miglioramento della meccanica dell'organo, e quello di Beethoven ha sempre avuto il posto che gli compete anche con il pianoforte a martelli e il corno a pistoni.
Ecco come bisogna intendere l'opera di uno strumentista che suoni uno strumento meccanico che conosce bene: egli dovrebbe conoscere e capire perfettamente l'opera che vuole realizzare, e deve influire sull'apparato di riproduzione in modo tale che l'esecuzione raggiunga, per quanto riguarda la dinamica, i livelli di chiarezza e di espressività corrispondenti alla sua intenzione e al suo gusto; e inoltre dovrebbe essere in grado di servirsi anche di tutti i mezzi possibili per modificare il tempo e la sonorità. Il fatto che non sia lui stesso a produrre il suono, come del resto è il caso per l'organista, non gli nuocerà piú che al pianista, che dopo aver toccato il tasto non può piú modificare nulla. Nei rapporti ritmici comunque egli potrà introdurre tutte le modifiche di cui un buono strumentista ha bisogno nei casi estremi; non bisogna invece pensare che sia utile non eseguire simultaneamente note o accordi che sono notati musicalmente come tali: infatti, finché si tratta di migliorare l'effetto plastico (come nell'esecuzione arpeggiata al pianoforte) questo può essere conseguito in modo piú completo servendosi della dinamica e del timbro, mentre non è certo il caso di spendere nemmeno una parola sull'intenzione opposta, cioè di eseguire simultaneamente ciò che non è indicato come tale.
Naturalmente molti strumentisti risulterebbero superflui non appena esistessero strumenti di questo tipo. Ancora vent'anni fa avrei detto: tanto meglio, cosí rimarranno soltanto i migliori, e non come oggi i mediocri e gli incapaci. Oggi so che saranno in grado di far musica, anche quando si sarà giunti a questo, quegli stessi che abbiamo oggi. Ma questa non può essere una ragione per non desiderare per noi e per loro uno strumento migliore.

Arnold Schoenberg, 1926 (Einaudi, Saggi 532, 1974)