Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, agosto 21, 2020

Brian Eno: l'evoluzione del rock

Brian Eno nel 1973
Le ultime tappe dell’evoluzione del rock trovano con una mirabile costanza la presenza di un nome che è diventato inscindibile con l’idea del rinnovamento del rock e con altre pratiche musicali che portano inequivocabilmente il segno del nuovo. Brian Eno, alchimista principe della nuova ondata, aspirante sonorizzatore d’ambienti, non-musicista per definizione e manipolatore di suoni per eccellenza. Alcuni lo ricorderanno negli abiti colorati e provocanti dei Roxy Music, interferire nelle atmosfere di Ferry e compagni, altri per le collaborazioni con Robert Fripp, David Bowie, Talking Heads, Ultravox, o per le sue performance solistiche, ma chiunque voglia accostarsi al nuovo rock deve necessariamente interessarsi di questo personaggio, costantemente in bilico sul crinale della musica di consumo e l’avanguardia piu decisa. Brian Peter St. John La Baptiste de La Salle Eno, così all’anagrafe, nato in Inghilterra nel 1948; nome altolocato ed educazione classicamente artistica nel St. Joseph College di Ipswich e nel Wincheste College of Arts, segnano le scarse note biografiche giovanili, dandoci le prime notizie musicali attorno al 1969, in quell’organico rumoroso dal nome programmatico di Scratch Orchestra di Cornelius Cardew, dove il nostro si fa le ossa sulle strategie del rumore. Eno impara la lezione e cerca di superare i maestri sfoderando un manifesto teorico dal titolo "Music for no-musician" dove si teorizza che l’unico modo per garantire la frantumazione dei codici espressivi e lasciare spazio alla libera creatività di chi suona è non aver conoscenza musicale, per lasciar spazio all’eventuale, per poter creare libere associazioni e costruzioni che altrimenti sarebbero impossibili. Farina cageana e nobile piglio deculturale si fondono nelle prime esperienze musicali con la Portsmouth Sinfonia, un drappello di giovani non-musicisti pronti a far a brandelli le più celebri pagine della musica colta. Ma è con i Roxy Music, nel 1972, che Brian Eno arriva al contatto con il grosso pubblico e il rapporto non è tra ipiu facili. Il ruolo di Eno nel gruppo è smaccatamente ambiguo, a metà tra lo sfacciato travestitismo e le pratiche di scardinamento ambigue, a metà tra lo sfacciato travestitismo e le pratiche di scardinamento del rock "evidente" dei Roxy. Il gruppo porta all’eccesso di kitsch del "glitter-rock", con abbigliamenti fantasiosi ed osceni, avendo in Brian Eno una magnifica cover-girl anni ’50, e contemporaneamente semina i germi di molto del nuovo rock inglese. Il meccanismo che faceva funzionare i Roxy Music era quello di usare delle semplici melodie, ritmarle ben bene, e stravolgerle il più possibile attraverso gli interventi al sintetizzatore di Eno, dare, con mano pesante, lo spettacolo del falso e del costruito negli atteggiamenti sul palco e allo stesso tempo colpire l’ostentata facilità dei temi musicali esposti, la sicurezza del classico tempo rock ballabile con l’eccesso dell’evidenza, con i sintetizzatori di Eno pronti a far notare che il kitsch è voluto ed eclatante. I Roxy Music e la loro pantomima del consumo, mostrano sfacciatamente i fondali di cartapesta sui quali si muovono con gesti vistosi e melodrammatici, contemporaneamente lavorando su schemi nuovi, assimilando nel rock l’elettronica non come elemento decorativo (quanti strumenti elettronici inutili hanno invaso il rock) ma come parte costituente della struttura dei brani. Quando il gruppo preferisce seguire il gioco dandy di Brian Ferry, Eno abbandona il gruppo.
Terminata l’esperienza con i Roxy Music, Eno inizia un fortunato sodalizio con Robert Fripp, chitarrista dei King Crimson, e lascia spazio alle possibilità della sua creatività senza limitazioni di stile e di genere. Infatti il nuovo corso della musica di Eno si snoda in due direzioni divaricate, che spesso però troveranno momenti di fusione e che tuttora sono riscontrabili nella sua produzione. Escono infatti due album accreditati a Fripp e Eno, No Pussyfooting e Evening Star, che seguono la linea della sperimentazione e della suggestione sonora: Fripp e Eno lavorano sulle stratificazioni dei suoni attraverso l’esposizione di diversi fasi musicali, il loro ripetersi e sulla manipolazione-modellamento del suono attraverso i mille congegni di uno studio di registrazione. Un lavoro che tiene ben presente Riley e Reich, ma che si muove in uno spazio che, a differenza dell’avanguardia minimale, proviene dalla musica rock e quindi conosce i procedimenti della diffusione di massa. No pussyfooting e Evening Star si muovono fuori da qualunque tipo di strutturazione e si prestano con agilità ad una lettura "emozionale", quasi ludica dell’evento sonoro, vogliono meravigliare e superare le categorie, ponendo le prime basi di quella musica indifferente che si svilupperà piu tardi. Poche frasi bastano a spiegare la ricerca di Eno in questo primo periodo: "L’arte è un metodo di conoscenza, un modo di investigare il mondo. E' una cosa diversa da un’analisi razionale del mondo perché nasce direttamente da un’eccitazione. E ciò che mi sembra piu importante è che nel lavorare artisticamente ci si muove deliberatamente verso una zona d’incertezza".
D'altro canto Eno si preoccupa di continuare il discorso cominciato con le sue apparizioni con i Roxy
Music: analizzare la musica di consumo con interventi paradossali, scoprire dietro la patina del "facile ascolto" nuove consonanze, rinnovare il divertissment di chiara marca warholiana in un ambito che contribuisca a creare una nuova musica da "consumare", che conceda se stessa allo spettacolo senza esserne compressa o avvilita. Ecco quindi Here comes the warm jets, Takings tiger mountain by strategy, Another green world, dove creatività e spettacolo parlano la lingua del rock e dell’azzardo. Eno non lavora sull'involucro della canzone ma ne incrina i movimenti interni, non rompe le evidenze del rock ma il cocciuto conformismo delle tinte e degli stilemi. Da notare che in questi lavori l'elettronica e i procedimenti aleatori sono stati abilmente occultati ma hanno una centralità non indifferente. Eno infatti parlando di Taking Tiger Mountain... affermerà: "Una delle affermazioni care a Mc Luhan è che i conflitti internazionali si rivelano sempre come conflitti tra diverse tecnologie, non fra diverse concezioni etiche. La morale deriva dalle tecnologie in conflitto. Io ho preso in esame il conflitto ipotetico fra soldati organizzati in un esercito regolare e sovversivi guerriglieri. I primi, che potremmo definire soldati regolari si appoggiano a sistemi di comunicazione meccanici, i secondi, i guerriglieri, a sistemi elettronici".
La tecnica quindi è quella dell'interferenza e del conflitto anche se tutto pare pacifico dalle protettive mura del rock.
Nel 1975 vede la luce Discreet Music, album con il quale Eno inaugura la sua musica, accidiosa ed indifferente, dedicata ecologicamente all’ambiente nel quale si iscrive, fatta per essere "mischiata al suono delle forchette e dei coltelli a tavola" citando Satie. Eno relega il suo ruolo a quello di una singolare passività rispetto al sistema elettronico che si preoccupa unicamente di alimentare con frasi melodiche semplici. Eno veste il saio dell'organizzatore di suoni ignorando la figura dell’artista che interviene, dimostrando interesse per situazioni e sistemi che una volta impostati abbiano scarso bisogno del suo apporto. Nella stessa linea di condotta avevano visto la luce le "Obliques strategies" un sistema semi-aleatorio organizzato su di una serie di estrazioni programmate con un apposito mazzo di carte ognuna delle quali contiene l’indicazione di un’operazione da eseguire, sistema in cui l’"eventuale" domina il campo delle possibilità fino all’eccesso estremo.
Ora le nuove ambientazioni e con esse il capolavoro di Music for airports, musica che si stacca dal solo ruolo definito per andare ad interagire direttamente con l’ambiente. Musica che si propone l’utopia di cambiare il volto del mondo e che nell’impatto con il reale non può non restar mutata essa stessa. Musica dell’indifferenza, anche, registrata a volumi bassissimi, musica discreta che timidamente vuol non farsi ascoltare; ma allo stesso tempo attentissima alle variazioni minori, strutturata in un unico flusso ma scomponibile in molte parti. E' interessante vedere il metodo di realizzazione del brano, dove viene ancora una volta rimarcata l’ineffabile passività dell’autore: "Music for airports è stato fatto usando una serie di nastri magnetici molto lunghi, ventidue per la precisione; uno aveva una sola nota di piano incisa, un altro aveva due note di piano e così via, mentre in un’altra serie di nastri c’erano le voci di un gruppo di ragazze che cantavano una nota tenendola per circa dieci secondi. In tutto c’erano otto nastri di voci di ragazze e circa quattordici nastri di piano. Io ho soltanto azionato i registratori, lasciando al suono la possibilità di configurarsi liberamente e il risultato è stato molto positivo. La cosa interessante è che tutto questo non suona meccanico o matematico, ma sembra che ci sia qualcuno a suonare il piano con un feeling intenso". L’ascolto viene quindi defocalizzato puntando su un ascolto diffuso capace di creare nuove sonorità, di annullare all’interno del suono reiterato la ripetizione (ma alle estreme conseguenze di questo è già arrivato Palestine). Before and after science, segna le linee di tendenza per il rock degli anni ’80, è un catalogo di possibilità impressionanti, e la rivitalizzazione del rock senza procedimenti costruttivi per l’ascolto: scardinando le certezze del rock, Eno permette un florilegio di musiche ubique, pronte a prestarsi all’ascolto delle variazioni minori che le compongono.
Tra le attività di Eno, quella che lo sta rendendo più noto è quella di produttore; molte cose delle migliori della new wave inglese e americana sono prodotte e manipolate da lui, come gli Ultravox, diretti discendenti della famiglia Roxy Music, ai Devo, che quando hanno cambiato produttore hanno peggiorato di molto le loro storie. Ma le due produzioni più importanti sono quelle dei Talking Heads, dove l’analisi della musica di consumo raggiunge vette insperate, dove new wave e grandi speranze sono interpretate alla perfezione da un gruppo dotato di un’ottima tecnica e di una vena compositiva nuova ed intelligente; e poi No New York, il disco più incredibile dell’anno, fatto da quattro band newyorkesi, Mars, Dna, Contorsions, Teenage Jesus and the Jerks, campioni del rock dell’eccesso, autori di musiche spasmodiche e terrificanti. Eno ha setacciato le cantine del Bronx e di Manhattan alla caccia di questi terribili stilnovisti che eseguono una musica nevrotica, aggressiva, balbettata e lancinante, ai limiti dell’ascoltabilità, armati di un furore distruttivo da far paura; musiche del delirio urbano, agghiaccianti spaccati di realtà, resi taglienti dalla produzione di Eno. Ed ancora l’imperdibile Catalogo della Obscure, dieci album che costituiscono una delle perle della produzione dell’avanguardia di questo decennio.
Il bilancio, come si può vedere, è ampio e positivo, sulla figura di questo musicista poliedrico ed eclettico, artefice di molte delle linee guida per la musica degli anni ’80.
Ernesto Assante
("Laboratorio MUSICA", Anno II, Numero 11, Aprile 1980)

sabato, agosto 15, 2020

Arturo Benedetti Michelangeli ovvero la forza del potere...

Arturo Benedetti Michelangeli (1920-1995)
Erano gli anni in cui Arturo Benedetti Michelangeli faceva impazzire il pubblico dei piu grandi teatri del mondo. Richiestissimo, passava da una tournée all’altra; impossibile, catturarlo. Ma finalmente la Direzione del Teatro Massimo di Palermo vi riuscì impegnandolo per una speciale serata di gala. Io stavo cantando proprio in quel periodo il ruolo di Dositeo nella Kovancina diretta dal Maestro Nino Sanzogno e già pregustavo il piacere del raro avvenimento. “Lui”, il divino, era appena arrivato con una stupenda Maserati nuova fiammante, con la quale puntualmente si recava alle prove.
Ma una sera lo attendeva una sgradita sorpresa. Uscendo, non trovò piu la sua stupenda super-macchina, che aveva posteggiato proprio davanti al cancello principale del Teatro Massimo. Dopo il primo comprensibile smarrimento e dopo averla cercata in lungo e in largo senza trovarla, cominciò ad imprecare ed a chiedere l’intervento della forza pubblica. Intanto si era creato intorno a lui un “capannello” di gente che commentava l’increscioso fatto, quando, dal fondo dell’assembramento, si levò una voce anonima che suggeriva con un pizzico di ironia: "Altro che forza pubblica, qui i picciotti ci vogliono, se vuol riavere la sua macchina". Benedetti Michelangeli, per nulla intimidito, si diresse a grandi passi verso la Direzione del Teatro, raccontando esterrefatto l’accaduto e minacciando i presenti che, se la sua macchina non si fosse ritrovata prima del concerto, il concerto non ci sarebbe stato!
A quell’epoca sovrintendente del teatro era il barone De Simone che, giustamente preoccupato, cominciò a sguinzagliare i suoi sottoposti nei meandri della malavita palermitana, cercando di battere in volata la lenta macchina della legge.
Intanto Benedetti Michelangeli, barricato nella sua stanza dell’Albergo delle Palme che fungeva da quartier generale delle operazioni, attendeva irremovibile lo svolgimento degli eventi. Ma ecco che, di lì a qualche ora, giunse una misteriosa telefonata. Gli annunciava che avrebbe potuto ritrovare la sua fiammante macchina esattamente al posto dove l’aveva lasciata. Ancora incredulo, e quasi temendo si trattasse di uno scherzo, corse velocemente davanti al cancello del teatro, ma constatata la veridicità dell’annuncio, si diresse in Direzione per congratularsi sull’efficienza della fulminea azione e mostrare un elegante biglietto che accompagnava la stupenda Maserati e che diceva: "All’illustre Maestro, con tutte le nostre scuse".
Dai Ricordi teatrali di Raffaele Arié

sabato, agosto 01, 2020

Quirino Principe: Musica e filosofia (11/14)

Nel canto e nell'accordo lirico di tutta la gamma dei sentimenti si riversano
la volontà e la pura intuizione, mirabilmente l'una all'altra miste.
Di tutta questa disposizione d'animo, così mista e divisa, l'espressione è il canto puro.
Arthur SCHOPENHAUER, Die Welt als Wille und Vortellung, I, 3, 28

ALLE RADICI DEL GRANDE ACCORDO UNIVERSALE
Undicesima parte.
 
La filosofia musicale di Platone, definita in termini supremi nella forma di un mito, è una delle più vitali e durevoli nella storia del pensiero, una delle più resistenti alla corrosione del tempo. Protesa come un ponte su epoche e fasi culturali in fuga, sopravvive in condizioni diversissime da quella in cui nasce. Tale persistenza ha molte cause, ma la più forte è una causa negativa, un argumentum ex silentio: per la metafisica musicale della Politeia, inarcarsi sulla storia d'Occidente senza quasi essere scalfita dal logorio di duemila anni - quanti ne intercorrono tra il terzo secolo a.C. e il XVI I secolo dell'era volgare - significa trarre forza dalle innumerevoli postille, anche da quelle più critiche, e riconoscerle sempre iuxta propria principia, poiché sino alla piena maturità del pensiero illuministico nessuna visione della musica parte da premesse radicalmente diverse da quelle di Platone. La musica di sfere, che nel mito di Er si colloca al di là della storia umana e dei fenomeni, in una zona ultramondana e incorruttibile, indica un limite estremo e l'audacia di una provocazione assoluta; l'unica alternativa a tale visione non può essere se non una visione in cui la radice, l'origine e il modello universale della musica siano collocati all'estremo opposto, nell'assoluto dentro anziché nell'assoluto fuori. Se l'essenza della musica, come dichiara Platone riassumendo tutta la linea di pensiero ellenico che lo precede a partire dai pitagorici, è metafisico, non naturalistica, ciò che poteva corrodere quell'interpretazione era soltanto il riconoscere l'origine della musica nella psiche, il più addentro possibile nell'interiorità, e possibilmente nei recessi psichici più profondi e segreti: un'interpretazione fisiologica, o biologica, o sociale, non sarebbe bastata (e infatti non bastò) a togliere attualità al finale della Politeia.
Questo nostro assumere la categoria psicologica di giudizio come l'unico vero oppositum alla categoria metafisica dovrebbe essere chiaro in sé; possiamo illustrarlo meglio con un'analogia riferita alla tradizione religiosa dell'Occidente cristiano. Che esistano non uno ma due cristianesimi dovrebbe essere noto, e soltanto un ipocrita opportunismo intellettuale impedisce di ammetterlo. Esiste un cristianesimo estetico-metafisico-visivo, che affronta il mistero con gli occhi dell'intelletto e con la fantasia poetica; è una forma di libertà, d'intelligenza e di leggerezza dell'anima. Esiste un cristianesimo etico-psicologico-precettistico, che affronta il reale con un moralistico codice di comandamenti e di divieti; è stato, per l'Occidente, oppressione, oscurità, peso. Il primo ha le sue radici vigorose nel pensiero precristiano ("pagano", se vogliamo usare questo aggettivo improprio), nei pitagorici e in Platone, nella dottrina del logos e degli archetipi; è proiettato verso il mondo esterno e la natura, ama la natura, gli animali e le piante (in tal senso, ha persino una sua connotazione ecologica), non disprezza il piacere, non penalizza la sessualità, è affascinato dalla bellezza; è riconoscibile in rari momenti della tradizione cristiana, e neppure tanto "ortodossi", in Origene, negli gnostici, in Francesco d'Assisi; i suoi rappresentanti sono una minoranza. Il secondo ha le sue radici tristi e malate in Paolo di Tarso, e, ancora risalendo, nei testi più cupi, moralistici e colpevolizzanti sparsi nell'Antico Testamento (chiedo scusa: mi si dice che tra poco "Nuovo" e "Antico Testamemo" saranno termini aboliti da una più aggiornata e ahimé più piatta terminologia); dà frutti in interiore homine, quasi una polizia dell'anima, alla ricerca di sussulti d'orgoglio e di tracce dei vizi capitali (alcuni dei quali noi giudichiamo virtù, come la superbia e l'ira); disprezza la natura, gli animali e le piante, ritenuti "inferiori" all'uomo, odia la sessualità, perseguita ogni forma di edonismo, privilegia la bruttezza da esso giustificata come "umiltà"; è riconoscibile negli Atti degli Apostoli (nel raccapricciante episodio di Anania), nelle letture paoline, negli agostiniani conati di "povertà" intellettuale, nell'eresia anabattista, nella struttura stessa della gerarchia ecclesiastica e nella fisionomia punitiva della morale cattolica; oggi, nei cosiddetti movimenti ecclesiali; i suoi rappresentanti sono, nella tradizione cristiana, la strabocchevole maggioranza. Il primo è il germe da cui è nata ogni forma d'arte cristiana, e quindi ogni bellezza fiorita sulla terra sotto il segno del cristianesimo. In particolare, quel germe ha permesso alla musica di rinascere con fatica ma con gloria nei primi secoli del cristianesimo occidentale, dopo che l'azione persecutoria della Chiesa vittoriosa nelle istituzioni aveva posto al bando della comunità la musica, arte peccaminosa e pagana, regno di bellezza, fonte di alto piacere fisico e intellettuale, e perciò rea di edonismo. Quella forma "platonica" di cristianesimo, perdente nella realtà storica, ci ha donato il Graduale triplex e la Missa de angelis, la scuola di Notre-Dame e il discanto, Guillaume de Machaut e Johannes Okeghem, Guillaume Dufay e Gilles Binchois, gli organi Antegnati e la Matthäus-Passion. La seconda, vincente forma di cristianesimo ha tenuto per alcuni secoli la musica in quarantena, e si è espressa attraverso i teologi che, nel Quattrocento, reagivano contro la polifonia dei fiamminghi con argomenti del genere: "Questa concinnitas di voci diverse, a parte il pericoloso individualismo che si annida in ogni pretesa di diversità, solletica i sensi provocando piacere, anzi, è d'irresistibile attrattiva: ergo, è peccato". Oggi invece questo cristianesimo istituzionale sembra colto da una frenesia musicale, e si esprime mediante miriadi di canti del tipo "Dov'è carità e amore, qui c'è Dio": sintassi perfetta, musica adeguata. Quanto alla diversità, rileggiamo la Commedia dantesca: "Diverse voci fanno dolci note" (Paradiso, VI, 124), dove il dissimile e perciò attraente è necessario all'essenza della beatitudine celeste, antitesi del peccato. E' superfluo precisare a quale dei due cristianesimi appartenga il cristiano Dante Alighieri, difensore dei filosofi eretici Sigieri di Brabante e Gioachino da Fiore, affettuoso biografo dell'antiecclesiastico Francesco d'Assisi. Superfluo è anche segnalare l'inconfondibile ispirazione platonica, guida alla filosofia della musica che Dante poeticamente enuncia.
Troppo lunga, l'esposizione di questa analogia? Lunga, può darsi; troppo, niente affatto. Infatti era più che un'analogia; piuttosto, il sommario per una monografia ampia, quasi onnicomprensiva e non scritta, nodo centrale delle croci e delizie d'Occidente, di cui le opposte concezioni della musica costituiscono un capitolo particolare. Se poi quel che è stato detto nelle righe precedenti sia poco oggettivo o troppo ispirato da animus polemico e fazioso, è da discutere. Lo proponiamo, infatti, come oggetto di discussione ai volonterosi e non superciliosi. Nel nostro caso, per giunta, essere faziosi o tendenziosi o partigiani non sarebbe un gran male. Abbiamo denunciato un nemico mortale, il nemico storico della libertà, della giustizia e dell'intelligenza, ma soprattutto il nemico capitale di tre cose più importanti dell'intelligenza, della libertà e della giustizia: il nemico del piacere, della felicità e della bellezza. Siamo convinti che un simile nemico vada combattuto con armi non cavalleresche, ma distruttive; se è possibile, con tecniche d'annientamento. Anche su questo, e sulle applicazioni intellettuali di questa formula, si potrebbe discutere. Molti secoli fa è avvenuto che sia stata posta in forse la legittimità della musica, la sua stessa presenza nella civiltà; la persecuzione potrebbe sempre ripetersi, poiché la storia è imprevedibile, e nessuna vittoria è acquisita per sempre. Una difesa postuma è troppo facile, ma non lo è una difesa atemporale, in assoluto.
Ecco perché abbiamo dato spazio all'analogia. Ci sembra che la moderna filosofia della musica, là dove essa cerca le radici di quest'arte in interiore homine piuttosto che nell'immutabile sfera sopramondana, sia una versione secolarizzata del cristianesimo paolino e moralistico. Poiché ogni posizione estrema genera paradossi, almeno in un aspetto le due concezioni della musica, quella metafisica e quella psicologica, si affiancano. Tanto la prima, culminante nell'eredità pitagorica presente in Platone, quanto la seconda, avviata sistematicamente da Kant con la Kritik der Urtheilskraft, riducono a ben poco il valore filosofico della musica diffusa in natura e del suo germe nascosto negli eventi mondani. La musica è dono cosmico o impulso interiore: è stato più difficile e meno frequente riconoscerla come parte del mondo naturale. La musica germinata dall'Io, ossia il pensiero di Kant e dei filosofi romantici sulla musica, sarà oggetto di nostre future riflessioni, e l'indagine non sarà breve né sommaria. Ora però siamo attratti da un altro terreno, e ci prepariamo a sorvolarlo. Il presupposto di un'origine della musica nel mondo naturale non è storicizzabile come una fase pura e semplice del pensiero, tra l'uno e l'altro estremo, tra Platone e Kant. Esso coesiste stabilmente con il platonismo precristiano e con quello cristiano. Si trova, per esempio, proprio in un dialogo platonico, il Timeo, in funzione dominante. Ciò significa che in Platone il Timeo e la Politeia sono due maniere diverse di concepire la musica come realtà universale: al vertice del mondo, oppure nella compagine del mondo, nelle sue venature, nei suoi meandri, nelle sue creature. Le due dottrine sono solidali in un punto, e ciò crea un secondo paradosso, ossia un affiancamento tutto diverso dal precedente: per l'una e per l'altra, la musica ha sede primaria nell'oggetto, non nel soggetto pensante. L'affinità è di prim'ordine, eppure non è né più né meno importante della drastica differenza in cui subito inciampiamo. Nel finale della Politeia, l'armonia è tutta raccolta e custodita nel sopramondo, intorno al fuso di Necessità; il mondo sublunare è disarmonico per definizione, e può soltanto tendere verso un'imperfetta mimesi dell'armonia. Nel Timeo, l'armonia universale è armonia del mondo, e lo stesso sistema della natura offre gli strumenti e i nessi perché l'armonia possa prodursi e persistere. Questa diversità, su cui si glissa, non potrebbe avere contorni più netti.
Ecco irrompere nei problemi affrontati dalla filosofia della musica il grande tema trattato in un celebre libro da un filosofo che fu anche sommo filologo, Leo Spitzer (Vienna 1887 - Forte dei Marmi 1960). Il libro è Classical and Christian Ideas of World Harmony (edited by Anna Granville Hatcher, John Hopkins Press, Baltimore 1963), pubblicato più di vent'anni fa in lingua italiana (trad. di Valentina Poggi, L'armonia del mondo: storia semantica di un'idea, Il Mulino, Bologna 1967). Il saggio di Spitzer, cui stranamente ricorrono di rado i filosofi, è in realtà un insostituibile strumento preliminare che si offre, come geniale repertorio già rielaborato ad alto livello speculativo, alla riflessione filosofica, imponendole l'obbligo di un'attenzione linguistica e filologica poco radicata nella tradizione, soprattutto italiana. Prima di accedere, nelle prossime puntate, ad alcuni importanti connotati del nesso musica-natura o musica-mondo, è necessario definire in termini essenziali il tema così come Spitzer lo individua.
Spitzer, filologo austriaco di nascita e di scuola (allievo del grande romanista Wilhelm Mayer-Lübke), filosofo di radice ebraica mitteleuropea, intellettuale enciclopedico e tale da rappresentare, come Ernst Robert Curtius ed Erich Auerbach, l'essenza della cultura occidentale e la sua summa di ellenicità, latinità precristiana, latinità bassa e medievale, cristianità romanza, cultura francese, italiana, inglese, germanica, tradizione artistica, musicale, estetica, filosofica, illuminò le proprie inesauribili conoscenze e il mirabile edificio mentale con cui le organizzò usando la vivida lanterna della linguistica, intesa anche come glottologia e studio delle etimologie; disciplina, quest'ultima, che nei padri della Chiesa, nei poeti provenzali e stilnovisti, in Dante stesso, aveva rappresentato un impegno di autentica natura filosofica. Di somma importanza è proprio il dato linguistico da cui Spitzer parte. Il libro, pubblicato postumo, nacque da corsi accademici tenuti in lingua inglese in un'università americana, la John Hopkins, e in lingua inglese fu redatto dalla curatrice, ma la lingua in cui esso fu "pensato" è il tedesco. E' significativo che l'idea di armonia del mondo sia sottoposta da Spitzer all'analisi linguistica preliminare attraverso un termine tedesco che non è, in corrispondenza con quello inglese o italiano o francese, Weltharmonie, bensì Stimmung: una parola ricca di significato musicale, e legata strettamente alla musica mediante la radice Stimme, "voce", nelle più svariate accezioni, da "voce cantante" a "voce di uno straniero" a "voce orchestrale individuabile nella partitura" a "parte strumentale" edita separatamente dalla partitura d'insieme. Presa a sé, la parola tedesca Stimmung è intraducibile. Ciò non vuol dire che frasi come "in guter (schlechter) Stimmung sein" non si possano tradurre con "étre en bonne (mauvaise) humeur" o "essere di buon (cattivo) umore", o che "Stimmung hervorrufen" non possa corrispondere esattamente a "creare un'atmosfera". Manca però nelle principali lingue d'Occidente un termine che, come Stimmung, esprima l'unità dei sentimenti avvertiti da un uomo dinanzi a ciò che lo circonda (un altro uomo, il paesaggio, la natura nel suo insieme) e sappia fondere il dato oggettivo (naturale, fattuale) e quello soggettivo (psicologico) in armoniosa unità. Il filosofo svizzero Henri-Frédéric Amiel (1821-1881), con la sua frase tratta dal Journal e spesso citata, "le paysage est un état d'áme", rivela, tramite l'uso francese di due parole, "état" e "áme", in luogo di una sola, Stimmung, il fondamentale dualismo imposto dalla sua lingua romanza. L'anima tedesca, panteistica per vocazione, tende a superare il dualismo. Un francese non può dire 'Thumeur d'un paysage" né "mori atmosphère", mentre il tedesco può dire "die Stimmung einer Landschaft" o "'meine Stimmung". Soltanto in tedesco il rapporto del soggetto con l'oggetto, dell'uomo con il mondo può alludere con esatta analogia a un accordo musicale, a un insieme sinfonico.
Naturalmente, questa unicità d'uso è esclusiva dello strumento linguistico tedesco, non della sensibilità o delle idee di tradizione germanica. In tal senso, Stimmung esprime un modo d'essere squisitamente europeo, occidentale in senso lato. Un cinese, erede di raffinatissime sottigliezze intellettuali, non potrebbe mai cogliere nel profondo il vero verso di Verlaine, "Il pleure dans mon coeur", né la musica associata da Debussy a quel verso nelle Ariettes oubliées. Se Stimmung allude a qualcosa di musicale, si tratta di musica come noi in Occidente la pensiamo, e la parola sottintende una filosofia della musica quale soltanto in Occidente è intelligibile. Nelle prossime occasioni del nostro discorso, esamineremo le situazioni culturali di rilievo in cui la filosofia ha visto il mondo, non il sopramondo, investito direttamente dal grande accordo universale di cui la musica, con radici propriamente mondane e naturali, è modello.
Quirino Principe
("Musica Viva", n.12, Dicembre 1990, Anno XIV)