Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, aprile 28, 2012

World Bach Fest 2012: corde rotte e stonate al clavicembalo

Il World Bach-Fest impone a noi clavicembalisti di suonare su uno strumento gravemente scordato e con delle corde rotte. Fra i miei colleghi ho visto la rassegnazione alla contingenza oppure la migrazione al pianoforte. Io rifiuto di suonare. Per rispetto del pubblico, di Bach, e di me stesso. Soffocare la voce di un artista è uno dei più grandi segni di inciviltà di una società.
Il clavicembalo stonato e con alcune corde rotte
Ma ciò che più mi amareggia è che quella stessa superficialità e approssimazione che il maestro Bahrami descrive come uno degli aspetti più tristi del nostro tempo, si sia riuscita ad insinuare anche nel World Bach-Fest.
Nonostante le segnalazioni mie e degli altri clavicembalisti e la nostra disponibilità ad effettuare l’accordatura, non si è voluto nemmeno reperire la chiave per accordare.
Ma se da un lato questa approssimazione e indifferenza è riuscita ad arrivare sino ai vertici del Bach-Fest, dall’altro, sui Social Network, si è mossa e si sta muovendo l’indignazione di chi invece rappresenta lo spassionato amore per l’arte e per Bach.
Chiedo che questo mio appello arrivi al maestro Bahrami, a lui che certamente sa quanto è grave che ad un artista venga tolta o limitata la possibilità di esprimere il proprio canto.
Il clavicembalo è lo strumento per il quale Bach scriveva.
Mi piace dire che suono uno strumento morto 250 anni e tuttavia ancora assolutamente attuale.
Uno strumento che ti obbliga a guardare i dettagli, a entrare nelle pieghe più sottili dell’arte e dell’anima.
Sono fiero di poter firmare questo appello con il titolo di “custode” della parola “clavicembalista”, scelto in quanto tale dalla Società Dante Alighieri, con il compito di difenderne l’integrità, la dignità e il valore.
Luca Oberti (www.lucaoberti.it)

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Gentile Maestro Oberti,
leggo il Suo messaggio solo oggi in quanto, come avrà avuto modo di vedere, sono stati per me giorni massacranti, anche se ricchi di soddisfazioni: le immagini di Firenze in queste tre giornate rimarranno a lungo nella nostra memoria. Nella giornata di ieri ho presentato alle tre del mattino il film dedicato al Maestro Weissenberg, ho dedicato tutta la mattina alle master class per i giovani e nel pomeriggio ho dapprima fatto da interprete per il Dottor Glöckner, dopodiché ho avuto l’incontro con Vinicio Capossela e il concerto con le Variazioni Goldberg. Davvero non avevo tempo per connettermi a Facebook.
Tornerò dopo al successo del WBF, totalmente inaspettato nelle sue dimensioni. Da musicista a musicista mi preme dirLe senza alcuna incertezza che condivido tutta la Sua amarezza e giudico davvero deprimente quanto Le è successo, che non conoscevo e che La ringrazio di avermi comunicato. Comprenderà che il mio ruolo nella manifestazione aveva un contenuto prevalentemente musicale, più che organizzativo, anche se ho aiutato in questi aspetti in tutti i modi in cui ho potuto, ma non voglio “lavarmi le mani”.
Mi spiace enormemente leggere ciò che Lei scrive, proprio all’interno di una manifestazione che aveva come unico scopo di esaltare il grande Johann Sebastian.
Naturalmente mi riprometto di verificare cosa sia esattamente successo e perché, perché nel Suo messaggio dice bene: odio la superficialità.
Il successo di questo WBF, ben al di là di ogni previsione, è dovuto al contributo di tanti volontari, e soprattutto di tanti musicisti e critici che si sono messi a disposizione. Qualche piccolo inconveniente era da mettere in preventivo, visto il succedersi enorme di concerti e avvenimenti, ma il verbo “imporre” è totalmente estraneo al mio mondo, musicale e non. Voglio immaginare che ci siano state delle ragioni serie che hanno impedito di risolvere il suo problema. Francamente poco importa che si parli di un clavicembalo o di un altro strumento: La ringrazio di avermi messo al corrente di un fatto che non avrebbe dovuto avvenire e che non dovrà avvenire più.
Colgo l’occasione per ringraziare Lei, insieme a tutti, ma proprio tutti, i musicisti che con grande generosità hanno aderito a questa iniziativa. Lo hanno fatto tutti con assoluto disinteresse, nel nome di Bach. Non appena l’organizzazione me lo fornirà, desidero riportare l’elenco completo e definitivo di tutti gli artisti partecipanti sulla mia pagina personale di Facebook.
Se e quando ci incontreremo sarò lieto di poterLa conoscere personalmente.
Ramin Bahrami

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Caro Maestro Bahrami,
sono felice della Sua risposta, che ero certo sarebbe arrivata appena possibile.
Vorrei riportare l’attenzione sul fatto che il problema non ha riguardato solo me, ma tutti i clavicembalisti che hanno partecipato, come sa, volontariamente e gratuitamente al World Bach Fest.
Solo nella prima delle esecuzioni previste sabato l’accordatura del clavicembalo era ai limiti della tollerabilità, poi la situazione è degenerata, costringendo gli altri clavicembalisti a migrare al pianoforte oppure a dare forfait.
La situazione era ben chiara allo staff presente a Palazzo Vecchio, dato che mi è stata comunicata appena arrivato e tuttavia è stato inspiegabilmente impossibile rintracciare il tecnico che aveva in cura lo strumento (la più famosa ditta che noleggia pianoforti a Firenze irreperibile?) o trovare una chiave per l’accordatura affinchè potessimo procedere noi stessi alla sistemazione del clavicembalo.
In tutto questo lo staff del World Bach Fest rimpallava la responsabilità fino a quando, messo faccia a faccia con Mario Ruffini, indicatomi come “responsabile”, mi è stato seccatamente detto “Suoni al pianoforte o lasci perdere”.
Trovo che questo sia un alone di superficialità (la odio anch’io) inaccettabile, soprattutto quando proveniente da un vertice organizzativo con competenze artistiche.
Apprezzo la Sua solidarietà, ma noi clavicembalisti, il pubblico, e la comunità dei musicisti indignati che si sta muovendo sui Social Network, chiediamo che la questione venga chiarita, con le scuse per tutti coloro che da questa vicenda hanno riportato un danno e prendendo nettamente le distanze dalla linea manifestata da Mario Ruffini.

Luca Oberti (www.lucaoberti.it)

sabato, aprile 21, 2012

Udo Steingraeber: un costruttore di pianoforti a Bayreuth

A poche centinaia di metri in linea d’aria dal Festspielhaus, nel centro storico di Bayreuth, davanti al monumento dedicato a Jean-Paul, sorge un austero edificio in pietra addolcito da una cancellata neorococò che si apre su un cortile adibito a spazio teatrale. All’interno, separati da un tappeto rosso, che attenua un poco lo scricchiolio dell’assito, pianoforti a coda accolgono come due ali di granatieri il viaggiatore wagneriano. Non di rado è lo stesso proprietario, Udo Steingraeber, che ancora vive con la famiglia nella casa-manifattura degli avi, ad accogliere il viaggiatore con innata cortesia e a illustrare la curiosa storia di una manifattura che segue gli artisti del Festival dalla sua nascita.

Che cosa significa per Lei essere costruttore di pianoforti a Bayreuth?
Costruire pianoforti a Bayreuth significa...toccare il cielo con un dito! Da nessuna parte al mondo vi sono i desideri e le esigenze più disparate: qui lavorano pianisti solisti, direttori, compositori, cameristi e cantanti. Essi ci svelano l’intera gamma dei loro bisogni e delle loro aspirazioni al fine di preparare degli strumenti di qualità sempre più elevata.

Ritiene che la tipica sonorità wagneriana, accentuata dall’acustica del Festspielhaus, abbia influenzato la concezione del suono di Steingraeber?
Richard Wagner non suonava volentieri il pianoforte, non scrisse nulla di importante per quello strumento e, contrariamente a suo suocero Franz Liszt, non diede nessun contributo alla sua evoluzione tecnica. Con un’eccezione però: le campane del Graal nel Parsifal! Per la prima rappresentazione del 1882 il mio trisavolo Eduard Steingraeber costruì per Wagner un «piano a campane» con solo quattro note, quelle del motivo del Graal, appunto. Ovviamente Steingraeber fornì degli strumenti alla famiglia Wagner e al Festival fin dalle primissime sessioni di prove del 1875, un anno prima dell’apertura ufficiale e, in modo indiretto, un grande influsso permane a tutt’oggi, un’influenza che, inizialmente, si faceva già sentire attraverso l’operato della cosiddetta Cancelleria dei Nibelunghi,ossia i gruppi dei copisti e dei trascrittori delle parti orchestrali. Qui si potevano incontrare personaggi come Engelbert Humperdinck e Josef Rubinstein, ma anche direttori d’orchestra (da Hans Richter fino ad arrivare a Giuseppe Sinopoli e a Daniel Barenboim) e assistenti musicali come Alfred Cortot. Tutti suonavano su uno Steingraeber e tutti davano concerti nella Rokokosaal (compreso Franz Liszt, naturalmente!). Alcuni hanno anche contribuito all’ideazione di uno Steingraeber ad hoc,influenzando così, verso la fine del XIX secolo, l’immagine sonora della marca. Engelbert Humperdinck, ad esempio, fece applicare al suo Steingraeber uno speciale pedale per il pianissimo.

Gli Steingraeber erano apprezzati da Liszt. Egli suonò su un particolare modello «neorococò», ancora oggi utilizzabile. Che cosa lo spinse, secondo Lei, ad orientarsi su quel prototipo?
Le ultime composizioni di Liszt sono radicali e moderne. A Liszt non occorreva più il suono sontuoso dei Romantici. Nel 1873 Steingraeber aveva iniziato a fare esperimenti con tavole armoniche insolitamente rigide: la conseguenza si traduceva in armoniche molto chiare, suoni lunghi a lento decadimento e perfettamente idonei alla polifonia. La parola d’ordine del Romanticismo era stata: «Più forte! Suoni più densi!».
Presso Steingraeber, certo, anche la dinamica si accrebbe, ma il dettato musicale rimaneva sempre trasparente all’ascolto. Liszt incontrò Eduard Steingraeber già a Vienna nel 1846 quando il giovane esordiente costruttore lavorava per la casa Streicher e seguiva le tournée del compositore ungherese. Più tardi Eduard descrisse questo periodo come «la peggiore esperienza della mia carriera» perché, durante i concerti, davanti al pubblico, doveva riparare tasti, martelli e corde devastati dal funambolico solista. Ma forse ciò costituì un buon inizio per la successiva collaborazione a Bayreuth... Probabilmente Liszt conobbe la Rokokosaal con il suo moderno pianoforte solo nel 1878. Liszt era alla ricerca di un nuovo Salon, poiché a Villa Wahnfried dal 1878 non poteva più suonare per non disturbare la quiete del Maestro...
Più tardi tuttavia acquisì uno Steingraeber a coda da 200 cm da piazzare a casa sua. Sembra che per l’anziano Abbè si sia trattato di una scelta molto soddisfacente: oltre che nell’intimità della sua abitazione, infatti, nel 1878 e nel 1882 egli si esibì alla Rokokosaal suonando proprio su quel modello.

Le ditte di pianoforti oggi tendono a evitare ai pianisti problemi di adattamento, e offrono così strumenti che si assomigliano sempre di più nella meccanica e nel suono. Se è d’accordo con questa analisi, come si pone Steingraeber in un simile contesto?
I buoni costruttori di pianoforti si considerano servitori degli artisti e della musica. Ne consegue che, ovviamente, ai pianisti non si riservano mai «brutte» sorprese. E ciò riguarda soprattutto la meccanica. Oggi vige un accordo internazionale sugli standard di pesatura e misura proprio per questioni legate alla meccanica e alla tastiera, e ovviamente Steingraeber si attiene ad essi. Tuttavia, per ciò che concerne la sonorità ogni manifattura dovrebbe vivere di vita propria. Le caratteristiche di Steingraeber sono molto individuali e si ispirano ancora interamente al pianoforte di Franz Liszt, con la sua forza, la sua lucentezza e la sua leggerezza. In fatto di «peso», ad esempio, noi ci allontaniamo, e non di poco, dal concetto di peso pianistico romantico. Quest’ultimo domina tuttora il mercato; anzi, oggi il suono è ancora più denso e metallico. Ma con questa tendenza all’uniformità Steingraeber, in compagnia di altre poche ditte in verità,non ha niente da spartire.

Steingraeber ha brevettato un particolare dispositivo che consente un maggiore controllo della dinamica. Vorrebbe spiegarci come funziona?
Lei intende le Phoenix-Agraffe, vero? Esse aumentano l’efficacia dinamica di un pianoforte fino a quasi il cinquanta percento e forniscono centinaia di armonici aggiuntivi. Tutto ciò comporta una sonorità inaspettata che raccoglie sempre più sostenitori, ma che si è fatta anche molti nemici. Per i «classici» i nostri Phoenix sarebbero indicati solo per la musica sperimentale... Anche oggi vi sono colleghi che applicano soluzioni analoghe ai loro strumenti (Wayne Stuart & Sons Newcastle e Paulello, Paris), ma Steingraeber è l’unico costruttore che offre queste innovazioni come alternativa, come seconda linea rispetto ai modelli strettamente classici.

Oltre a Wagner e Liszt, quale altra musica ama Udo Steingraeber?
Tutto ciò che è buona musica! Ed essa si trova in tutti i secoli e in tutti gli stili. I miei figli (Fanny di tredici anni e Alben di sedici) mi danno lezioni nel campo del pop contemporaneo, ma per me nel cielo musicale sulla terra rimangono Schubert, Scarlatti, Bach, Alban Berg e Palestrina: l’ultimo senza pianoforte, eppure per me irrinunciabile!
 
Massimo Viazzo (Rivista "Musica", n.227, giugno 2011)

sabato, aprile 14, 2012

Monteverdi: "Il Terzo Libro de' Madrigali" (1592)

Il Terzo Libro de' Madrigali, pubblicato nel 1592 a Venezia dall'editore Ricciardo Amadino, ebbe un notevole successo editoriale, tanto da essere ristampato cinque volte fino al 161l; poi, altre due edizioni verranno stampate nel 1615 e 1621 con aggiunta di basso continuo "per il Clavicembano, Cittharone od altro simile Istromento", con l'intento di facilitare lo strumentista che altrimenti doveva trascrivere la sua parte a mano, deducendola da quella delle voci. Questo Libro dunque fu eseguito per ben trent'anni (notevole spazio di tempo, visto il veloce cambiare del gusto musicale in quegl'anni segnati dall'affermarsi della monodia e dell'opera), segnando il primo vero grande successo dell'autore. Assunto due anni prima al servizio della corte mantovana dei Gonzaga, come umile cantore e suonatore di vivuola (vale a dire viola da gamba), Monteverdi ora si afferma anche come compositore all'interno della corte, ponendosi accanto a Jacques de Wert, maestro ufficiale di corte nonché maestro della cappella palatina di Santa Barbara (la chiesa dove avvenivano le importanti celebrazioni della vita sacra di corte). Desideroso di mettersi in mostra e sperando di succedere al De Wert, in quegli anni provato da gravi malattie quali vaiolo e malaria, il giovane compositore dedica il suo lavoro al Duca Vincenzo Gonzaga, con devozione, ma anche con la velata consapevolezza di offrire dei "frutti" maturi e saporiti che faranno parlare e discutere nell'ambiente culturale del tempo. Per la prima volta, evita di menzionare le origini natali nonché il maestro, come invece aveva fatto nel Primo e Secondo Libro: ora egli è, sotto tutti i punti di vista, un "musicista di corte" e come tale produce e assimila quella cultura raffinata che l'aveva sempre affascinato. Questa pubblicazione è proprio il risultato dell'approccio a quello splendido ambiente musicale, letterario, architettonico e artistico in generale che era la corte di Mantova e a tutto ciò che era ad essa collegata. Il Terzo Libro è un'opera sostanzialmente innovativa, a tratti rivoluzionaria, colma d'ardite soluzioni espressive, mai sperimentate fino a quel momento: la fonte ispiratrice di questi procedimenti inventivi è ancor una volta la poesia di Torquato Tasso, affiancato dal ferrarese Battista Guarini (che in quel periodo soggiornava alla corte mantovana) autore del Pastor Fido, 1589, uno dei più famosi testi del Rinascimento.
Il Libro si apre con un insolito madrigale La giovinetta pianta, dal testo anonimo, ben costruito ma non particolarmente interessante musicalmente per essere un madrigale d'apertura: infatti, solitamente s'usava introdurre un libro con un brano che si distinguesse (insieme a quello finale) per gl'insoliti procedimenti compositivi (come era accaduto nel secondo libro e accadrà nel quarto, quinto e sesto. Analogamente a quanto era accaduto per il Primo Libro, qui non si privilegia la novità musicale ma l'omaggio al dedicatario Vincenzo Gonzaga: egli avrà sicuramente gradito, da duca festaiolo, spendereccio e libertino (ricordate il personaggio del Duca di Mantova nell'opera Rigoletto di Giuseppe Verdi?), quell'esplicito richiamo sensuale e malizioso del testo che stimola le giovani ragazze a godere dell'amore.
L'amore, anche in questo libro, è il tema principale sia quando emana raffinate descrizioni di scene sensuali, come in Sovra tenere erbette, sia quando diventa fonte di dolore a causa della mancata corrispondenza o del tradimento: a quest'ultimo tema si rifanno i bellissimi Ch'io non t'ami con lo struggente finale sulle parole "come poss'io lasciarti e non morire", o anche Occhi un tempo mia vita ricco di contrastanti stati d'animo mirabilmente evidenziati dall'uso sapiente e alterno di contrappunto orizzontale (per esprimere gli scatti d'amore) e armonia verticale (per offrire momenti di ritroso sentimento verso introverso dolore).
Sempre appartenenti a questi tematiche, troviamo molti brani caratterizzati da un lungo episodio iniziale dedicato ad una voce, (sintomo di quanto il madrigale in quel momento tendi a smembrare le voci personalizzandole con esordi solistici), o anche al terzetto delle tre voci superiori: questo esordio musicale delle tre voci "acute" ha spesso evocato agli studiosi il famoso "Concerto delle Dame di Ferrara", uno dei rari gruppi musicali presenti nell'Italia rinascimentale in cui le nobildonne della corte e alcune cantanti ospiti avevano un sicuro ruolo da protagoniste. La loro perfezione, gusto, tecnica e raffinatezza era nota in tutt'Europa: mentre l'usuale cappella musicale era composta da pochi cantanti maschi e alcuni strumentisti, sappiamo che fino al 1598 (anno in cui l'ultimo erede Alfonso II d'Este muore e tutto il ducato fu trasferito in mano della Chiesa romana), si eseguivano "concertoni di musica di circa sessanta fra voci e strumenti", come scrive l'ambasciatore fiorentino nel 1571. Erano sicuramente eccezioni che indicano quanto fosse considerata l'arte e che ampie possibilità finanziarie avesse una città come Ferrara. Visto i continui scambi e le gare culturali fra le due città, è sicuramente plausibile pensare che anche Monteverdí abbia composto alcuni brani espressamente dedicati a tale compagine musicale: qui abbiamo tre madrigali che potrebbero evidenziare quelle voci femminili con un esordio musicale loro dedicato. 0 come è gran martire, superbo affresco di questo mondo raffinato, notevole esempio di come il sentimento dovesse essere vissuto intimamente e senza palese ostentazione all'intemo della corte; Lumi, miei cari lumi e 0 rossignuol che utilizzano copiosamente i madrigalismi, cioè quei procedimenti della scrittura musicale che disegnano la parola testuale con immagini sullo spartito e nella musica.
Uno dei più celebri brani del Terzo Libro, 0 primavera gioventù dell'anno, è tratto dal monologo recitato da Mirtillo all'apertura del terzo atto del Pastor Fido. Questo dramma pastorale fu molto amato dal Duca Vincenzo Gonzaga, tanto da desiderarne la suntuosa rappresentazione avvenuta nel 1598, dopo un fallito tentativo del 1591: non sappiamo se questo madrigale fosse incluso in quella rappresentazione teatrale ma è plausibile supporlo. 11 testo è polarizzato da due sentimenti contrastanti che la musica amplifica rispettivamente con episodi a valori veloci e giocosi opposti a lenti incedere doloranti e dissonanti: è il conflitto fra la natura, che rinnovandosi offre la gioia di una nuova vita, e l'animo infelice, che nostalgicamente ricorda la gioia d'un amore passato inesorabilmente perduto.
La forza innovatrice di questa pubblicazione, si evidenzia particolarmente nei madrigali composti da più parti: molte pagine sono state scritte per l'uso della parola declamata che Monteverdi propone in Vattene pur crudel e sul fascino che offre la trasposizione musicale dei due cieli tratti dalla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, dalla quale il compositore cremonese trarrà successivamente il celeberrimo Combattimento di Tancredi e Clorinda. N. Pirrotta in "Scelte poetiche di musicisti», 1987, scrive che in queste opere troviamo il "cantare prima che recitare, perché la forma implicita della rappresentazione può evitare le esigenze pratiche di realistico parlato alle quali è più spesso soggetta la vera rappresentazione (...) Il canto, la rappresentazione nel canto, è il fine artistico dichiarato". Proprio il momento successivo al Combattimento, quando Tancredi, sfilato l'elmo del guerriero che l'aveva sfidato, riconosce d'aver ucciso inconsapevolmente l'amata Clorinda, è musicato dalla sequenza dei tre madrigali che iniziano con le disperate parole Vivrò fra i miei tormenti. L'atmosfera è visionaria. Le voci sembrano farsi forza l'una con l'altra proponendo impeti d'ira alternati a lunghi momenti di riflessione: accecato dall'ira e dalla sfida guerriera, il protagonista sarà eternamente condannato a vagare nel rimorso e nel disprezzo verso se stesso. La musica è fantasticamente descrittiva di questo stato d'animo confuso e smarrito di Tancredi: le melodie vagano armonicamente, sostenute solo dalla ripetizione sillabica intonata su una nota sola, ripetuta ossessivamente, quasi recitata; ma ogni volta che viene ripercossa acquista forza espressiva per sfociare in una nuova situazione in cui altre voci si accavallano nella ripetitiva ossessione, lacerate dalle disperate grida "Ahi sfortunato". L'epilogo di tanto dolore non può essere altro che la morte, la "tomba felice", che esprime ermeticamente il concetto del contraddittorio nel barocco.
Già nel Primo Libro come nel Secondo avevamo trovato brani del Tasso estremamente espressivi, ma mai come nel Terzo la musica diventa così drammaticamente intensa: lo sarà ancora con l'unico brano del "poeta maledetto" presente nel Quarto. Tasso, poi, scompare totalmente nel Quinto e Sesto Libro, per riapparire con tutta la forza della rappresentazione scenica nel Combattimento quando lo stesso Monteverdi scriverà nella prefazione alla pubblicazione dell'Ottavo Libro nel 1638 'diedi piglio al divin Tasso, come poeta che esprime, con ogni proprietà et naturalezza con la sua oratione, quelle passioni che tende a voler descrivere, et ritrovai la descrittione che fa del combattimento di Tancredi con Clorinda, per aver io le due passioni contrarie da mettere in canto, guerra, cioè preghiera, et morte".
Esprimere queste passioni non è solo un dovere compositivo ma anche un problema esecutivo: l'inizio di Vattene pur crudel deve esprimere tutta la forza e o stato d'animo della maga Armida che inveisce, ma con smarrito dolore, mentre Rinaldo poco prima aveva deciso di abbandonare l'amore e il castello incantato costruiti dalla maga stessa. Rimanti in pace le aveva detto poco prima il cavaliere decidendo d'abbandonarla per tornare a combattere e lei sarcasticamente risponde Vattene... con quella pace che lasci a me. Armida, quale amante tradita, prima di svenire dal dolore, vorrebbe gettare i più crudeli incantesimi (tanto più terribili quanto grande fu il suo vero amore) perché, nella sofferenza degli ultimi istanti, egli possa ripensare a lei con un disperato ultimo grido d'amore. Monteverdi è geniale e sconvolgente nella sua trasposizione: le note grondano di sentimenti accesi e contrastanti. Amore, odio, si scontrano agitando il mare delle passioni come onde s'infrangono sugli scogli: poi la protagonista sviene lentamente con una sequenza di note discendenti, sinuose e cromatiche, al termine delle quali cade a terra tra vampate di freddi sudori. Riaprendo gl'occhi, ella non può far altro che costatare il suo effettivo abbandono: con la stessa tecnica ripetizione sillabica, lanciando il suo ultimo disperato grido, ella si sdraia (assido) piangendo disperata.
Come afferma C. Gallico in Monteverdi, 1979, sono "semi teatrali dal romanzo del Rinascimento estremo" opere cioè che hanno già una vera e propria "teatralità rappresentativa".
Come l'intensità e la passione insita in questi due cicli ci ricorda il celebre Lamento d'Arianna del Sesto Libro, l'ultimo madrigale (diviso in due parti) ci ricorda l'ultimo intenso trittico del Primo Libro, dove brani d'autore diverso (Guarini e Tasso) venivano accostati per analogia testuale. Non a caso, al termine del libro dove all'epoca era uso inserire le opere più innovative, Monteverdi inserisce un capolavoro: un madrigale in due parti, Rimanti in pace che potrebbe apparentemente essere legato alla vicenda di Rinaldo. Se il titolo ci ricorda la Gerusalemme Liberata e il soggetto tratta ancora la separazione fra due amati, notiamo viceversa che l'atmosfera immaginata dal poeta Livio Celiano non è epica: Tirsi e Fillida sono solo due pastori che, senza distogliere lo sguardo l'uno dall'altra, dolorosamente si separarano, offrendoci forti frasi d'amore, lacrime agl'occhi, sospiri interrotti, singhiozzi. Seguendo il testo, la musica procede a scatti, per contrasti, condotta solo dai sentimenti dei protagonisti che sembrano quasi parlare a voce sola. L'uso sapiente ed espressivo del madrigalismo, la maestria inventiva della scala cromatica discendente (quella usata per far svenire Armida) sul testo "or qui mancò lo spirto" e nel lento cadere delle lacrime in "stilland'amaro umore", l'instabilità armonica in "di martir in martir, di doglie in doglie", l'uso della ripetizione sillabica unito all'accostamento tra accordi lontani in "gli trafisse il cor", ci presentano uno dei capolavori assoluti di quest'epoca.
Ancora a sostegno dell'uso delle sole voci maschili desidero ricordare che anche G. Reese nel suo fondamentale e copioso studio La Musica nel Rinascimento, scrive: "un riesame degli archivi di Mantova porta alla conclusione, nonostante l'opinione contraria di alcuni storici, che la cappella serviva sia la Chiesa di Santa Barbara (che era l'unica chiesa ducale ai tempi di Wert) sia la corte (come cappella di camera ducale)" (Cap.VIII nota 162). Vista l'impossibilità delle donne di cantare in chiesa, deduciamo che la prassi di cantare madrigali con sole voci maschili era solita e gradita anche nel campo madrigalistico alla corte di Mantova di quel periodo (come in tutt'Italia): tali sonorità (sicuramente molto affascinanti) potranno apparire strane alle nostre orecchie moderne, abituate da anni d'interpretazioni con voci femminili. Riprendere questa prassi è per noi un dovere di ricerca e un piacere, sperando che in futuro possa incontrare, tanto quanto l'uso degli "strumenti originali" per quanto riguarda l'esecuzione strumentale "barocca", il favore dei critici, studiosi e tutti coloro che amano la vera Musica.
Marco Longhini
(note al CD Naxos 8.555309)

domenica, aprile 08, 2012

Suonare a memoria...

La fatica dell'interprete nelle maratone concertistiche della fine del diciannovesimo secolo era persino maggiore di quella del pubblico, soprattutto se si considera la tendenza a suonare recital interi a memoria, con il dovuto rispetto verso i grandi capolavori musicali (in genere tedeschi) del passato. Possiamo, tuttavia, esprimere un certo scetticismo nei confronti della convinzione di Amy Fay secondo la quale Tausig «morì [...] di febbre tifoidea, provocata dal sovraffaticamento della sua memoria musicale».
Rubinštejn, quantomeno, non patì una "morte da sforzo mnemonico", nonostante la lunghezza dei suoi programmi. Ma non sorprende che la sua leggendaria memoria soffrisse di lapsus altrettanto leggendari, che divennero sempre più gravi via via che invecchiava. Forse, persino lui sottovalutava la questione, pur ammettendo quanto segue: "La mia memoria musicale è stata prodigiosa fino ai cinquant'anni, ma da allora mi sono reso conto di un suo indebolimento progressivo. Inizio a percepire un senso di incertezza; quando mi trovo sul palco alla presenza di un vasto pubblico, qualcosa di simile a una paura nervosa si impossessa di me. È difficile immaginare quanto questa sensazione possa essere dolorosa. Spesso temo che la memoria mi tradisca facendomi dimenticare un passaggio e che io possa modificarlo inconsapevolmente. Il pubblico è abituato da sempre a vedermi suonare senza spartiti, perché non li ho mai usati, e non mi concedo di fare affidamento sulle mie sole risorse per rimpiazzare qualche passaggio dimenticato, perché so che nel pubblico ci saranno sempre diversi spettatori che conoscono bene il pezzo che sto interpretando e che individueranno prontamente qualunque modifica. Questa sensazione di incertezza ha spesso costituito per me una tortura paragonabile soltanto a quella dell'Inquisizione, mentre il pubblico che mi ascolta pensa che io sia perfettamente calmo".
I racconti sulle difficoltà mnemoniche di Anton Rubinštejn durante le sue esibizioni sono innumerevoli; in alcuni si narra di come dimenticasse parti del suo Concerto per pianoforte e orchestra in re minore. Quando Leschetizky diresse il Concerto per pianoforte e orchestra di Schumann con Rubinštejn come solista, fu costretto a interrompere l'orchestra perché nel primo movimento il pianista aveva preso una direzione disastrosamente sbagliata. Rubinštejn imperversò per diversi minuti suonando qualunque cosa gli venisse in mente, finché per fortuna arrivò a un passaggio della cadenza che Leschetizky riconobbe e che gli permise di dare affannosamente la battuta d'entrata all'orchestra confusa. Disastri simili accadevano non di rado anche ad Alfred Cortot, a proposito del quale il direttore Sir Thomas Beecham, in un'occasione memorabile (o forse no!), scherzava affabilmente: «Abbiamo cominciato con Beethoven, e poi sono stato al passo con Cortot attraverso Grieg, Schumann, Bach e Čajkovskij, poi però si è imbarcato in una cosa che non conoscevo e così ho dovuto gettare la spugna».
Paradossalmente, Cortot era un fedele sostenitore dell'idea che i pianisti dovessero suonare a memoria il loro repertorio da solista. Suonare con lo spartito «non faceva sicuramente alcun danno», ammetteva Cortot, ma lo studio serio di un pezzo ne richiedeva la memorizzazione. Josef Hofmann concordava sul fatto che suonare a memoria fosse «indispensabile per la libertà della resa». Nonostante le sue esperienze con Rubinštejn, Leschetizky suggeriva ai propri allievi di imparare i pezzi a memoria prima di iniziare a esercitarsi dettagliatamente su di essi; in seguito, li scoraggiava dal consultare lo spartito tranne quando la memoria falliva. Tuttavia, Leschetizky espose alcuni astuti espedienti da adottare in questi casi, fra cui rivolgersi al pubblico con aria seccata, lamentandosi che una nota suonava scandalosamente stonata, e poi lasciare il palco chiedendo che fosse chiamato un accordatore. Il pianista poteva quindi consultare surrettiziamente lo spartito nel suo camerino, mentre l'accordatore si occupava della nota incriminata.
Von Bülow, con il suo consueto dogmatismo, dichiarava seccamente che nessuno poteva dirsi un artista se non conosceva perfettamente a memoria almeno duecento pezzi. Il modo in cui fosse arrivato a questo numero magico non è riportato da alcuna fonte. [...] Alcuni disegni di Liszt in concerto lo mostrano chiaramente con uno spartito davanti a sé, per quanto suonasse molti pezzi del suo repertorio principale senza musica. Un articolo sul «Wiener Zeitschrift für Kunst» del 5 maggio 1838 mostrava un rispetto reverenziale per la sua «sorprendente memoria, che gli permette di suonare diverse centinaia di pezzi», ma poiché il servizio fu scritto (con uno pseudonimo) da uno degli editori viennesi di Liszt, Pietro Mechetti, e poiché il musicista non aveva certo suonato centinaia di pezzi (circa venti, in effetti) nei quattro concerti viennesi che aveva dato prima dell'encomio di Mechetti, si può ragionevolmente sospettare che si stesse alquanto esagerando. Tutto ciò faceva parte della fi orente leggenda lisztiana.
In effetti Liszt aveva suonato a memoria il Concerto "Imperatore" di Beethoven (uno dei non molti concerti per pianoforte e orchestra del suo repertorio) talmente spesso che il critico J.W. Davison sottolineò quanto fosse insolito che tenesse lo spartito davanti a sé durante l'esibizione del 1845, in occasione delle commemorazioni beethoveniane a Bonn. Ma quando Davison iniziò a riflettere su tutte le difficoltà che Liszt aveva dovuto affrontare durante l'organizzazione dell'evento, trovò notevole che fosse addirittura riuscito a suonare. In occasione dei recital berlinesi di Liszt nel 1841-42, il musicista eseguì senza spartito più di metà dei pezzi (che in totale erano poche dozzine): siamo ben lontani dal livello che ci si aspetta oggi da un pianista, e la meraviglia espressa da alcuni biografi non era certo meritata, ma l'esibizione fu sufficiente a stupire il pubblico. Il fatto che, durante un concerto del 1840 ad Amburgo, Liszt suonasse a memoria la Sonata "Al chiaro di luna" di Beethoven fra i bis richiesti dal pubblico fu acclamato dai giornali come un'impresa eccezionale.
Nel 1874, molto tempo dopo il suo "ritiro" ufficiale dal palco, Liszt prese parte a un concerto di benefi cenza a Vienna, nel quale suonò la sua Fantasia ungherese per pianoforte e orchestra e la sua trascrizione della Fantasia "Wanderer" di Schubert per il medesimo organico. Com'era tipico di Liszt, il fatto che in alcuni momenti guardasse lo spartito e in altri ne facesse a meno, e perfino la sua leggera miopia divennero parte dello spettacolo. Osservò Hanslick: «Non solo si ascolta la sua interpretazione con il fiato sospeso, ma se ne osservano i riflessi nelle linee eleganti del suo volto. La testa, buttata all'indietro, fa pensare a Giove. A volte gli occhi lampeggiano sotto le sopracciglia prominenti; altre volte gli angoli della bocca, normalmente all'insù, si sollevano ulteriormente in un lieve sorriso. La testa, gli occhi, e a volte anche la mano mantengono una comunicazione costante con l'orchestra e il pubblico. A volte suona guardando lo spartito, altre volte a memoria, mettendo e togliendo gli occhiali di conseguenza. In altri momenti la testa è piegata attentamente in avanti, in altri momenti è buttata baldanzosamente all'indietro. Tutto questo esercita un grandissimo fascino sugli ascoltatori, soprattutto sul pubblico femminile».
Ma Liszt era Liszt, e non ci si aspettava che si conformasse alla spinta crescente verso la memorizzazione, che nel 1874 stava già progressivamente prendendo piede. Nel 1878 il «Musical Times» poteva ancora descrivere un'esecuzione a memoria delle Variazioni su un tema di Händel di Brahms come un'«impresa eccezionale», aggiungendo che «simili sforzi mentali, in realtà, non sono più così rari tra gli interpreti, ma finora non mancano di apparire sorprendenti quando vengono esibiti».

Kenneth Hamilton (da "Il trionfo del pianoforte", Edt, 2012)