Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, settembre 22, 2016

Olga Schnitzler ricorda Mahler

Olga Gussmann e Arthur Schnitzler
Olga, una giovanissima signorina borghese di Vienna che aspirava allora a diventare attrice, incontrò e sposò Arthur Schnitzler alla prima alba del nostro secolo, quando egli era già l'acclamato e discusso autore di Anatol e di Liebelei, del Girotondo e del Velo di Beatrice. Olga Schnitzler ha potuto così celebrare lo scorso anno, in lucidissima ed alacre vecchiaia, il centenario del proprio consorte, nato come Hauptmann nel 1862, ma morto, per fortuna sua, alla fine del 1931, poco prima che la barbarie nazista sommergesse il mondo tedesco. Essa ha dedicato al tramontante Ottocento viennese un piccolo libro (Spiegelbild der Freundschaft - Residenz Verlag, Salzburg, 1962, 154 pagg.) che davvero non merita di andare confuso con la malfamata letteratura agiografica od egocentrica delle "vedove". Da esso infatti la sua persona è del tutto cancellata, mentre in quelle pagine sfila l'intero gruppo dei più caratteristici campioni della vecchia Vienna. In queste Immagini d'amicizia si parla si Schnitzler, come è naturale, ma anche più di Peter Altenberge di Hermann Bahr, di Hofmannstahl, di Beer-Hofmann, di Theodor Herzl e di pochi altri. Le pagine così scevre di vanità e di sentimentalismo, così ricche di atmosfere, suscitarono in me il desiderio di conoscerne l'autrice, una delle ultime superstiti del gran diluvio, che sapevo reduce dall'emigrazione in America e stabilita a Lugano. Un paio di chiacchierate con la giovanissima vegliarda confermarono la simpatia. Quando seppi che l'Approdo faceva omaggio a Mahler, pensai di chiederle qualche personale ricordo del Maestro. Per vero dire nel volumetto Mahler si presenta parecchie volte, ma di scorcio; però nei colloqui con la devotissima, il cui volto si illumina al suo nome, a me era parso di capire che "il Maestro" fosse stato la sua diretta guida, quando Olga, non molto dopo il matrimonio, si era decisa a studiare canto. La cara signora mi rispose con una lunga lettera che io qui offro ai lettori italiani in fedele versione, pur col pericolo di deludere i mahleriani in caccia di fonti biografiche nuove. non sono che sereni ricordi di un remoto passato. Ma quanti sono ormai gli amici ancor vivi del Maestro, che con devozione e intenso rispetto per la sua personalità artistica ed etica, possono darci la misura della sua nobiltà umana?
Lavinia Mazzucchetti


Lugano, Settembre 1963

Cara Signora,

Lei è così gentile da chiedermi, a completamento della nostra amichevole chiacchierata sulla vecchia Vienna della mia gioventù, qualche preciso ricordo di Gustav Mahler, che Lei suppone sia stato mio maestro di Canto. Su questo punto debbo deluderla: io ho avuto da lui e dalla sua affettuosa benevolenza soltanto un primo prezioso "esame" della mia voce, un decisivo incoraggiamento, dopo il quale Mahler mi affidò per alcuni anni al suo giovane compagno di lavoro: a Bruno Walter. Ma può ben darsi che io di Mahler Le abbia parlato come della personalità musicale alla quale ancor oggi, mezzo secolo dopo la sua scomparsa, io più mi sento legata di gratitudine e di ammirazione. Bisogna sempre e prima di tutto proclamare che Gustav Mahler, pur affermatosi in un tempo non certo povero di personalità geniali in campi svariati, serba un suo posto unico ed incomparabile nel ricordo fedele di quanti lo hanno seguito da vicino, per la singolarità e l’altezza morale del suo carattere, per la lontananza da ogni meschina forma di vanità, per la illimitata dedizione al proprio compito d’arte. Naturalmente, a noi viennesi di quegli anni e di quell’ambiente teatrale e musicale, Mahler appariva il centro di ogni interesse. A noi arrivavano, è veto, anche tutti i pettegolezzi malevoli contro di lui, giacché era troppo naturale che un simile "despota" suscitasse ammirazione incondizionata ed insieme decisa ostilità. Ci giungevano inoltre, prima e dopo le famose impeccabili messe in scena realizzate con Roller, i sospiri disperati degli interpreti, che la sua incontentabilità torturava alle prove. L’Opera di Vienna negli anni della sua dittatura era chiarnata la Knochenmühle, la "macina delle ossa". D'altra parte, proprio noi di quel mondo non ignoravamo la sua umana generosità verso cantanti ed orchestrali, ai quali cercava sempre di procurare personalmente aumenti di paga e migliori contratti. In mano sua anche cantanti non eccelsi raggiungevano un livello insperato. Mi piace ricordare, per esempio, la Renard come Tatiana nell'Onegin. Mahler apprezzava gli interpreti non vanitosi. Del suo ottimo interprete della parte di Don Giovanni, il cantante Weidmann, mi disse una Volta: "Quello almeno non crede, come quasi tutti gli altri, di essere il centro dell’universo".
Mahler del resto non era incline a tranciar giudizi e tanto meno a lanciare condanne. Non diresse di persona, almeno a Vienna, certi compositori forse a lui meno grati, come Leoncavallo o Puccini, ma lo fece senza permettersi alcuna polemica. Alla sua ammirazione per il Falstaff di Verdi egli dava invece parole fervidissime appena ne aveva occasione. Una Volta, per un piccolo problema quasi di tecnica musicale, accennò con me ad un "oggi tanto celebre Hugo Wolf", e sostenne che quegli sbagliava affermando che "non si deve mai comporre contro la parola, mentre talvolta la linea della melodia impone di farlo". Però non ho mai udito una sua ripulsa totale dell’allora celebre Wolf.
Credo che talvolta egli non aderisse senza riserve alla musica moderna del nuovo indirizzo di Schönberg, tuttavia rispettava e stimava quei concerti famosi e famigerati del gruppo "Schaffende Tonkünstker" (ribattezzato dalle malelingue "Abzuschaffende Tonkünstler"!) e concedeva sempre la sua solidarietä e la sua presenza. Ricordo una scenetta dopo una serata schönberghiana finita fra un gran duello di fischi ed applausi. Mahler stava in piedi, abbastanza vicino al podio, e batteva le mani con ostentazione, quando gli si accostò un giovanotto che invece fischiava sfacciatamente. Mahler gli
si voltò contro e tuono: "Lei non ha da fischiare dove io applaudisco!", così che quello batté subito in ritirata.
E' nota la sua salda dignità nell’impedire alla Corte ogni intervento, sia 
pur larvato, nella vita del teatro; suppongo che altri amici suoi abbiano raccontato come egli seppe imporsi alla stima personale del principe Montenuovo, l'onnipotente Obersthofmeister che rappresentava l'imperatore, interrompendo la consuetudine servile di "fargli rapporto" restando in piedi di fronte a lui seduto dietro un grande scrittoio. Mahler senza chieder venia accostò, entrando, una sedia e vi si accomodò. Quando dovette decidersi ad andarsene, lasciò nel cassetto del suo ufficio all’Opera tutte le onorificenze ricevute con un foglietto: "Per il mio successore".
Il successore fu Weingartner, del quale noi mahleriani non siamo giudici imparziali. Quando ebbimo sentito il suo "nuovo" Fidelio, rimanemmo così scandalizzati dal suo voler "correggere" le interpretazioni di Mahler che da quella sera boicottammo senz’altro ogni spettacolo di Weingartner.
Quante belle premières viennesi sono ancora nella mia memoria! Lei del resto che ha letto il mio libriccino, conosce il modo gentile con cui il Maestro, che sapeva di avere in Arthur Schnitzler un ammiratore e intenditore devotissimo, lo incoraggiò ad un approccio personale, facendogli chiedere una sera in teatro, durante l'intervallo, le sigarette dimenticate a casa. Ne nacquero inviti ed incontri e a me fu facile avvicinare il grande Mahler, Arthur affermava che la sua alta stima per Mahler compositore era soprattutto dovuta al carattere autobiografico della sua musica che rifletteva una tragica anima in continua lotta.
Quando incominciai a coltivare la mia voce e a pensare ad un avvenire teatrale, non fui stupita di apprendere da un’amica che Mahler s’era informato della mia voce e le aveva anzi detto di farmi udire da lui. Era ben noto che l'incontentabile Kappellmeister andava a caccia di buone voci per ogni via, e che era sempre pronto ad esaminare, consigliare... od anche scoraggiare un principiante. Non avrei però trovato il coraggio di disturbarlo, se non ci fossimo incontrati in casa del violinista Rosé, e non mi fosse toccato Mahler come cavaliere a tavola, dove egli mi parlò appunto dello studio del canto, sottolineando la difficoltà di trovare insegnanti adatti "giacché chi talvolta è la provvidenza per un dato cantante, è poi la rovina per un altro". Fu lui quella sera a dirmi: "Chi è più capace di aiutare i miei cantanti, è il mio giovane condirettore Bruno Walter. Lei venga prima a farsi sentir da me e, se ne val la pena, io la raccomando a Walter. Non fissiamo date: venga il giorno in cui si sente meglio disposta". Mio marito dal suo posto di fronte commentava intanto: "In questo momento mia moglie vorrebbe esser sprofondata sottoterra!". Non aveva torto! Infatti solo dopo qualche settimana di esitazione trovai il coraggio di affrontare Mahler all’Opera, anzi prima, il cerbero famoso della sua anticamera, Hassinger. Il Maestro non mi fece però aspettar troppo e mi accolse poi affettuosamente, circondandomi le spalle col suo braccio e chiedendomi subito: "Ha paura?". "Oh, tanta!", replicai pronta; e lui rise: "Ma come? Chi mai ha paura di me?". Gli cantai quel giorno un'aria della Carmen ed una del Tannhäuser. Il verdetto fu: "Lei ha una voce molto originale. Una Voce che terrò presente. Ma non posso scritturarla così. Lei deve ancora studiate". (Si capisce che io non avevo neppur da lontano sognato una immediata scrittura!) "Parlerò io di lei a Walter e certo l'accoglierà come sua scolara. Di tanto in tanto la sentirò io. Lei deve andare molto spesso all’Opera, con lo spartito, e nei posti più vicini al palcoscenico, per studiare bene il contatto fra scena ed orchestra. Troverà sempre un posto a sua disposizione, basta si rivolga ad Hassinger!". Cominciarono così i miei due anni di prezioso lavoro con Bruno Walter, ma purtroppo, benché Mahler più volte incontrandomi mi chiedesse cortese:"Come va la voce?", non ebbi più l’onore di una sua audizione, poiché egli ben presto passò in America, di dove, come tutti sanno, ritorno moribondo...
E oggi anche Bruno Walter, il cui profondo e complesso rapporto con Gustav Mahler è a tutti presente, se ne è andato nel regno del ricordi...
Sua Olga Schnitzler

tratto da "L'Approdo Musicale", Quaderni di musica, N. 16-17, 1963

mercoledì, settembre 07, 2016

A proposito di un'edizione fonografica del Fidelio...

DGG - LPM 18390-1, 2 dischi LP
"Di tutte le mie creature è quella che mi ha causato le peggiori sofferenze" così scrive Beethoven del Fidelio e nella primavera del 1814, in una lettera a Friedrich Treitschke, ripete: "Tutta la faccenda di quest'opera è la cosa più faticosa del mondo. Gran parte di essa non mi soddisfa più. Si può dire che non vi sia un solo brano in cui non dovrei fare delle modifiche qua e là per sostituire alla mia insoddisfazione attuale qualche cosa che mi soddisfi. Questo modo di comporre, però, è ben diverso che il potersi abbandonare alla libera meditazione o all'entusiasmo". Parlando del rifacimento del Fidelio dice che si accinge "a ricostruire un vecchio castello sulle sue ruine deserte"; "questo lavoro - aggiunge - mi rende meritevole della corona dei martiri".
Alla sua prima rappresentazione l'opera non soddisfa né il pubblico, né i critici, né l'autore e da allora incomincia una ricerca angosciosa di elaborazione e definizione che dura nove anni: mai Beethoven ha avuto tante e così gravi incertezze.
Gli abbozzi di Fidelio compongono un volume di 350 pagine; sembra esistano diciotto varianti di due arie di Leonora e Florestano; tra il 1805 ed il 1814 Beethoven scrive tre ouvertures col nome di Leonora ed una quarta intitolata Fidelio; la prima stesura dell'opera è in tre atti ed è poi rimaneggiata in due atti. Perché?
A quest'opera, che evidentemente ha tormentato Beethoven più d'ogni altra, è rimasto legato fin dal suo primo apparire un complesso di luoghi comuni che tuttora sopravvivono nelle riserve più o meno palesi che ricompaiono ad ogni sua esecuzione: che Fidelio, per esempio, è un oratorio sceneggiato piuttosto che una vera e propria opera, che il suo linguaggio è più sinfonico che teatrale, che le voci sono trattate come strumentali e quindi violentate, e altri.
Non è questa la sede per una analisi critica della storia del Fidelio e ci limiteremo ad alcuni appunti marginali riferibili soprattutto ai luoghi comuni che, come abbiamo accennato, hanno accompagnato quest'opera sorprendente e geniale.
Alla morte di Beethoven si trovò tra i suoi libri il testo di Léonore ou l'Amour conjugal, fait historique espagnol, en deux actes. Paroles de J. N. Bouilly, musique de P. Gaveaux, auteur et acteur du Thèatre Feydeau. Représenté pour la première foi sur le Thèatre Feydeau le Ier Ventos de l'an VI (1798); a questo Gaveaux, autore di ben 32 opere, che si ricorda solo per merito di Beethoven, è opportuno aggiungere il Paer, fortunato autore di altre 43 inutili opere, che musica Leonora ossia l'Amour coniugale - Fatto storico in due atti (Dresda 1805); il terzo musicista che si rivolge al testo di Bouilly è Beethoven che a Ludwig Rellstab che gli chiedeva quale genere di libretto preferiva risponde: "Non m'importa molto il genere purchè l'argomento m'interessi. Dovrei potermi accostare ad esso con amore e con fervore. Non potrei comporre delle opere come Don Giovanni o Figaro, poiché contro di esse sento una vera repulsione. Né avrei mai potuto scegliere tali soggetti, essi sono troppo frivoli per me" (1825); e al cavaliere Ignazio von Seyfried scrive: "Il mio Fidelio non è stato compreso dal pubblico... io so che la sinfonia è il mio elemento naturale. Quando sento qualcosa in me è sempre la grande orchestra". Ecco quindi una indicazione che può in parte giustificare la scelta del modesto libretto del Bouilly; in questo, adattato prima dal Sonnleithner poi da Friedrich Treitschke, Beethoven trova l'esaltazione del dovere della fedeltà coniugale personificata in Leonora che, vestita da uomo (è di lunga tradizione questo uso del travesti), accetta di servire umilmente in casa del carceriere Rocco per tentare di avvicinare suo marito, Florstano, ingiustamente imprigionato da Pizzarro, lo spirito del male. Marcellina, la figlia del carceriere, si innamora di Fidelio-Leonora, anticipando in forma meno maliziosa il rapporto Ochs-Ottaviano del Cavaliere della rosa, e disdegna il suo innamorato Giaquino. E quando il nodo del dramma si scioglie, Beethoven trova nella sconfitta di Pizzarro la condanna dell'ingiustizia e l'esaltazione della libertà nella salvezza dei prigionieri: è questa esaltazione delle virtù morali che attira Beethoven verso Fidelio, Beethoven che in un suo quaderno aveva annotato: "La legge morale dentro di noi ed il cielo stellato sopra di noi! Kant!!!".
Anche in Don Giovanni il ribaldo si perde inghiottito dall'Inferno, e la giustizia alla fine trionfa, ma per giungere a tanto occorre un deus ex machina, l'intervento di forze sovrannaturali, si deve addirittura animare la marmorea statua del Commendatore; in Fidelio invece sono la forza di volontà di Leonora, il suo coraggio, il suo amore a determinare lo scioglimento del dramma; l'impostazione è più marcatamente laica, quale ci si poteva aspettare dall’uomo che toglierà dalla Terza Sinfonia la dedica a Napoleone il giorno che questi, dimenticando lo spirito liberale della Rivoluzione, si farà proclamare Imperatore.
E' l’aspetto eroico del dovere e dell'amore che attira Beethoven, questo innamorato sempre sfortunato, e sono di quel periodo, o poco dopo, tre sue lettere delle quali non si conosce il nome della donna cui sono indirizzate.
Ma dal tono di queste lettere è forse arbitrario dedurre la presenza nella vita sentimentale di Beethoven di elementi di squilibrio tali da turbare più del solito la disperata amarezza della sua solitudine intima, del suo esclusivismo moralistico il cui documento più dichiarato è ancora nel testamento di Heiligenstadt (1802). E' difficile quindi ritrovare in quel particolare momento della vita sentimentale di Beethoven la giustificazione di quello squilibrio che viene accusato nel Fidelio ben più che nelle altre opere. Più evidentemente deve aver influito sul compositore il momento storico.
L'opera va in scena mentre Vienna è invasa dalle truppe francesi. Tra il pubblico distratto, preoccupato e scarso siedono alcuni ufficiali di Napoleone nelle cui orecchie ancora risuona la musica di Cherubini o di Mehul, ammantata di una compostezza classicheggiante o razionale anche negli accenti preromantici. .
Ma forse la ragione di quegli squilibri che rendono ancora in gran parte problematica l’opera di Beethoven è da ricercarsi più che in particolari esasperazioni della sua vita sentimentale o nella eccezionalità del momento storico, elementi che pero non si possono sottovalutare, in una sua mancanza di esperienza di mestiere, esperienza artigianale nel senso più nobile: testimone della morte di un secolo, di un mondo, giunti al massimo splendore, e del sorgere di una nuova civiltà umana nutrita dalla sanguinosa linfa della Rivoluzione, confluiscono in lui gli elementi di un drammatico contrasto tra il rispetto per le secolari tradizioni, espresse in opere immortali, e il tempestoso anelito ad un rinnovamento della vita spirituale del nuovo Uomo, liberale e repubblicano, tra due contenuti ben diversi, tra una estetica edonistica ed una moralistica, tra lo spettacolo che vuole divertire e quello che vuole convincere. La sintesi non poteva essere facile per l’uomo che, a quanto riferisce il cavaliere Seyfried, aveva dichiarato: "Il capolavoro di Mozart resta Il flauto magico: è la ch'egli si rivela come un maestro tedesco. Don Giovanni mi ha ancora una foggia italiana, eppoi la sacra arte non dovrebbe mai lasciarsi disonorare dalla follia di un soggetto così scandaloso".
La mancanza di esperienza è già sensibile nella scelta poco felice del libretto, ché la tragedia del Bouilly ha un meccanismo eccessivamente semplicistico; articolato inoltre in tre atti, come nella prima edizione di Fidelio, rivela più evidentemente la mancanza di una dinamica drammatica. Ma Beethoven si lascia affascinare dal gioco delle grandi passioni; imbevuto di una austera moralità, concentrata sull’azione dei tre caratteri fondamentali, Leonora, Florestano, Pizzarro, gli sfuggono invece i necessari elementi marginali, i caratteri minori che debolmente impostati nel libretto non trovano nella musica una plastica evidenza. Così il rapporto amoroso tra Marcellina ed il falso Fidelio, tra Giaquino e Marcellina, che Beethoven tenta vanamente di portare su di un piano leggero o scherzoso per creare un contrasto alla tragedia di Leonora e Florestano, risuonano come una note falsa, senza convinzione; così la fiacca, passiva bonomia di Rocco resta, salvo in un concertato, una voce che canta senza diventare un personaggio, Si pensi alla genialissima capacità di Mozart nel rendere umani, vivi, con tratto leggero ma incisivo, anche i caratteri dei suoi personaggi minori: Osmino, Pedrillo, Barbarina, don Alfonso, Despina, Zerlina, Masetto, ecc. E' bensì vero che Bouilly non è nè Beaumarchais né Da Ponte, ma il problema è precisamente quello di trovare in ogni secolo il proprio Beaumarchais. Alban Berg lo ha saputo trovare.
Protagoniste in Fidelio sono alcune idee eterne: l’idea di libertà - i prigionieri -, l’idea di giustizia - Florestano -, l’idea di fedeltà - Leonora - e la loro negazione: Pizzarro; e non appena questi personaggi parlano si sente che la musica morde, attanaglia, scolpisce un carattere vero, umano, totale.
L’opera, che inizia con modi elusivi per la mancanza di caratterizzazione dei personaggi minori, acquista corpo e sostanza drammatica sempre più incisiva mentre appaiono successivamente sulla scena Leonora, Pizzarro, i prigionieri, Florestano, e infine Don Fernando, quando lo scontro delle passioni è scatenato dai fatti e diventa azione decisiva del destino dei personaggi. Tra i pochi meriti che il libretto è da notarsi  questo crescendo che porta, con innegabile abilità, al suspense dell’arrivo di Don Fernando; effetto drammatico, questo, che è tanto sentito da Beethoven da ricrearlo nelle ouvertures Leonora n. 2 e n. 3 con il crescendo la cui angoscia affannosa è spezzata bruscamente dagli squilli che annunciano l'arrivo del salvatore.
Riesaminando quanto è di vero e quanto di falso in altri luoghi comuni su Fidelio, che comunque contribuiscono a mantenere il giudizio su l’opera in una atmosfera di incertezza, di problematicità, è opportuno ricordare che a proposito di questa, come di tante altre opere, si usa sottolineare una "mancanza di senso teatrale". Se ne dovrebbe dedurre  che vi è più "senso teatrale" in Pagliacci, piuttosto che in Tristano e Isotta, in Tosca di Sardou piuttosto che nei Sei personaggi in cerca d'autore, in L'aigrette di Niccodemi piuttosto che in Re Lear, ecc. Vi sono indubbiamente parti caduche in Tristano, nei Sei personaggi, in Re Lear; ma l’errore, l'approssimazione d’un uomo geniale è sempre ad un livello superiore al1’ottimo di un mediocre, anche quando, come nel caso di Fidelio, l’inesperienza tecnica, di mestiere, ne è la causa.
Un altro luogo comune è l’accusa a Beethoven di incapacità nel modo di trattare le voci umane, accusa che ha toccato anche Rossini, Wagner, perfino Verdi, ed è normalissima nel confronto di gran parte dei compositori d’oggi. Anche in questo caso una parte di vero c'è: l’insistenza su certi registri è, con la maggior parte dei cantanti, improduttiva; il far gravitare certe frasi particolarmente espressive sulle note di passaggio mette in difficoltà i cantanti; d'altra parte è chiaro che Fidelio è scritto, ben intenzionalmente, come opera tedesca, per voci impostate alla maniera tedesca e non a quella italiana, quindi certe deformazioni, certe forzature sono chiaramente volute. Possono suonare in modo sgradevole alle orecchie latine ma sono anche giustificate da necessità espressive, come l’uso di registri anormali in certi strumenti e nelle voci; si pensi fino a dove è stato applicato questo espediente tecnico nella musica moderna e in particolare nel jazz. L’arte tedesca è piena di queste "inabilità" vocali, di questi goticismi, ma la musica è rimasta.
Un altro argomento bifronte che facilmente affiora nelle discussioni su questa opera problematica è la questione del rapporto tra linguaggio sinfonico e operistico che sotto certi aspetti porta alla conseguenza dell’affermare che Fidelio è un oratorio piuttosto che un’opera, proprio per questa predominanza di un linguaggio detto "sinfonico". Si può però identificare, così semplicemente, il linguaggio operistico con quello tradizionalmente vocale? E secondo quale tradizione di linguaggio? Indichiamo tre date: 1598, La pazzia senile, commedia a madrigale di Adriano Banchieri; 1600, l'Euridice, di Jacopo Peri; 1608, il Primo Libro delle Fantasie a 4 di Gerolamo Frescobaldi; nell’ambito di dieci anni è quindi possibile cogliere una evidentissima distinzione tra la scrittura polifonica e quella monodica vocale e tra queste e la scrittura strumentale (si pensi soprattutto all’ultima parte della prima delle Fantasie di Frescobaldi). Con l’avanzare del secolo la grafia polifonica tende a scomparire mentre le polemiche nate da casa Bardi rendono ad affermare l'esigenza della massima caratterizzazione dello stile recitativo; e il progressive affermarsi delle forme strumentali porta sempre più a strutture simmetriche con il fraseggio amministrato dal basso continuo, avvicinando sempre di più la linea melodica vocale a quella strumentale. Abbandonata definitivamente la scrittura della polifonia vocale, la storia dell’opera in musica in parte diventa, semplificando e portando agli estremi i termini, un gioco alterno tra due tradizioni: il "recitar cantando" e la linea vocale di origine strumentale. In Fidelio si accumulano le esperienze: il parlato alternato al canto, il parlato sovrapposto all'orchestra (il "melodramma"), la fusione tra preludio orchestrale e recitativo orchestrato, per esempio all’inizio del secondo atto, l’aria chiusa in cui la voce appare come uno strumento, ecc., esperienze che però già trenta anni prima del Fidelio avevano trovato, ad esempio nel Primo atto del Ratto dal Serraglio, una sintesi felice e spontanea, priva di ogni apparente problematicità.
Se si vuole chiarire il senso di questa affermata predominanza in Fidelio di un linguaggio di carattere sinfonico, occorre forse esaminare l'impostazione dei "concertati", che nell’opera di Beethoven acquistano uno sviluppo inusitato. Si pensi al finale del secondo atto delle Nozze di Figaro, in cui l’entrata di ogni personaggio crea una nuova situazione teatrale, una nuova prospettiva, una nuova tematica; cambia quindi continuamente l’atmosfera, la tensione, sotto l’impulso di nuovi fatti, di una azione che si sviluppa fino alla sintesi drammatica della "stretta del finale" che di colpo immobilizza i personaggi in una posa da "gruppo" per ritratto. In questo caso quindi lo sviluppo musicale si dispone nel tempo secondo una linea che possiamo immaginare orizzontale, ben diversamente di quanto avviene in generale nei concertati di Fidelio che si dispongono secondo una linea verticale, come sovrapposizioni progressivamente più ampie di una immagine lirica che fa da centro, da pernio all’architettura musicale. E' forse in questa staticità che è possibile ravvisare un procedimento inventivo più tradizionale nella musica sinfonica che in quella teatrale.
Abbiamo insistentemente fatto riferimento alle opere di Mozart come ai modelli più perfetti che Beethoven poteva considerare come il limite estremo di espressione di una estetica, di un mondo, di un concetto della personalità umana, ch’egli più non condivide. E' inevitabile quindi accennare al diverso rapporto esistente tra i due musicisti ed il loro pubblico: Mozart "lavora" per un pubblico essenzialmente aristocratico, per una élite colta, raffinata, al cui, giudizio crede e cede; si compenetra, si identifica con questa élite che specialmente a Vienna crea intorno alla musica un meccanismo di interessi tale da permettergli di scrivere e di vivere. Le innovazioni, e talvolta le rivoluzioni, che Mozart apporta al linguaggio musicale sollecitano senza violenze il gusto e le tradizioni del suo pubblico. Con Beethoven il rapporto cambia: la musica esce dai teatri di corte e dai salotti, aumenta l’organico dell’orchestra e la quantità del pubblico arricchito dall’apporto della nuova classe borghese, le figure dell'impresario teatrale e dell’editore acquistano una fisionomia ed una funzione economica sempre più precisa, il pubblico non è più l’ospite della classe aristocratica, accolto nel "loggione" del teatro o ai confini delle sale di ricevimento: questo nuovo pubblico paga per il suo posto, quindi esiste ed esige che lo spettacolo, la musica soddisfino il suo gusto, la sua aspirazione alla cultura.
Beethoven ha la chiara coscienza di questo allargarsi oltre i confini soliti, della possibilità di far giungere la sua voce all’umanità, capisce che la musica può essere qualcosa di Più del divertimento o del ritratto benevolo di una élite, di una classe ricca e privilegiata; i semi della Rivoluzione trovano in lui un solco fecondo, si sente uomo, libero, creatore nella creazione, partecipe di quella enorme crisi di valori che nasce dalla Rivoluzione francese, crisi della quale egli accetta e testimonia il conflitto. I germi erano già apparsi in Mozart quattro anni prima del 1790: il rapporto Beaumarchais-Mozart pur non essendo completamente occasionale era però restato alla superficie del solco; le impertinenze di Figaro e di Susanna verso il Conte, la mancanza di dignità di questi, la sua disfatta finale nel ridicolo hanno il tono di un pettegolezzo piccante e malizioso, lo stesso spirito che resterà vivo ancora nel Cavaliere della rosa; è la rappresentazione oggettiva di una società vista nelle faccette scintillanti di un prisma multicolore, lo spirito del witz viennese, ma non la critica.
In Beethoven l’episodio della dedica nella Terza Sinfonia, l’appello alla libertà, alla giustizia in Fidelio, alla pace nella grande Messa, alla gioia della fratellanza universale nella Nona Sinfonia non sono rappresentazione oggettiva ma bensì una partecipazione viva della sua personalità, sono battaglie combattute con le note anzichè con la picca o la spada. La società cui si rivolge Beethoven non è quella che ancora esiste in quel momento a Vienna, rimasta, ancora quindici anni dopo il 1790, in gran parte quella di Mozart, ma è una nuova società europea che si va formando nel predominio della borghesia liberale, e questo in  parte spiega l’apparente contraddizione in Beethoven tra l’aspirazione ad una comunicazione di carattere quasi messianico con l'umanità e le asprissime parole con le quali difende le sue esigenze di artista dalle richieste pratiche di adattamento del Fidelio alle esigenze e alle possibilità di comprensione del suo pubblico.
Queste annotazioni frammentarie non hanno evidentemente la pretesa di un esame critico del Fidelio ma vorrebbero, semplicemente, riproporre all’ascoltatore di questa ottima edizione fonografica alcuni problemi che affiorano ad ogni esecuzione di questa singolare e problematica opera di Beethoven.
La realizzazione radiofonica, o in dischi, del Fidelio pone sempre il problema di abbreviare al possibile la parte recitata senza rendere incomprensibile l’azione e senza smorzare il ritmo drammatico della stessa. Lo scarso valore letterario del testo autorizza però una certa libertà nei tagli che in questa edizione fonografica sono eseguiti con abilità, rispettando quei punti in cui il parlato si innesta sulla musica. Altro problema da affrontare è quello del doppiaggio dei cantanti nelle parti parlate, doppiaggio necessario perché la voce "impostata" dei cantanti in generale non si presta agli accenti drammatici del parlato; si tratta quindi di trovare alcuni attori la cui voce assomigli in modo sufficientemente convincente a quella dei cantanti e anche in questo caso i risultati ottenuti se non perfetti sono ampiamente soddisfacenti.
Per quanto riguarda l’esecuzione musicale non si può che fare le lodi più  ampie di questa edizione: incondizionatamente ottima è la scelta del complesso vocale che si avvale di Leonie Rysanek, dotata di forte accento drammatico ed insieme di agilità tale da affrontare con superba evidenza plastica la difficilissima parte di Leonora, che per queste sue esigenze apparentemente inconciliabili precorre le difficoltà imposte da Verdi alla parte di Violetta. Dietrich Fischer-Dieskau è un superbo Don Pizzarro dalla voce incisiva, da tipico "tiranno", fortemente caratterizzata, ma tenuta sempre a freno dal controllo stilistico di una musicalità precisa e intelligente. Giovanilmente dolce e brillante la voce di Irrmgard Seefried nella parte di Marcellina, e capace di accenti profondamente umani e toccanti e Ernst Häfliger nella difficile parte di Florestano. Da citare ancora sono Gottlob Frick (Rocco) e Friedrich Lenz (Giaquino).
Concertatore e direttore è Ferenc Fricsay - a capo di due organismi ottimi quali l'orchestra e il coro della Bayerischen Staatsoper - che riesce ad ottenere una esecuzione assai brillante e colorita ma di meditata coerenza stilistica. Ottima è anche la ripresa del suono e tutto il lavoro si dimostra affrontato con grande serietà di preparazione e con esecutori scelti tra o più autorizzati con notevole equilibrio. In totale una esecuzione che si può lodare come rare volte avviene.
 
Ferdinando Ballo ("L'Approdo Musicale", N. 6, Aprile-Giugno 1959)

venerdì, agosto 26, 2016

Vittorio Gui: "Ricordando Giacomo Puccini"

Vittorio Gui (1885-1975)
Quando incontrai Puccini, per la prima volta nella mia vita, io avevo appena ventisei anni, Lui circa cinquantadue; io all'alba della mia giornata lavorativa, Lui già al colmo della celebrità internazionale e al centro della sua attività di musicista; la distanza, però, non fu troppo grande difficoltà per avvicinarci l'uno all'altro assai rapidamente; oggi me ne domando le ragioni, e vedo che la principale fu, da parte sua, quel largo e profondo senso di simpatia umana che ne faceva un uomo amabile a chiunque (a parte l'ammirazione per l'artista) lo avvicinasse con amore. La Fanciulla del West in quel tempo era già stata eseguita al Metropolitan Theatre di New-York sotto la direzione di Toscanini, con artisti di non comune valore, scelti tra i migliori da ogni parte del mondo; venne poi immediatamente trasportata, quasi al completo (escluse le masse corali e orchestrali) al Teatro Costanzi di Roma (oggi Teatro dell'Opera) per l'Esposizione industriale del 1911. Là, io ebbi l'occasione di prendere il primo contatto con questa simpatica opera pucciniana, presentata in un'esecuzione di eccezionale bellezza. Proprio in quegli stessi giorni, io che ero a Torino direttore generale dell'orchestra sinfonica di quell'altra Esposizione industriale, fui scritturato dal vecchio impresario Pozzali (l'antico impresario di Toscanini giovane) per dirigere la successiva esecuzione italiana della Fanciulla del West, a Torino al Teatro Regio, nel prossimo autunno. La mia memoria, che a quei tempi era fuori del comune, la mia appassionata ammirazione per Toscanini che consideravo come il mio grande e amato Maestro, mi davano una certa garanzia di poter riprodurre con grande esattezza a Torino l'esecuzione romana, e già mi eccitavo all'idea di codesta impresa e nel desiderio di soddisfare le esigenze di uno dei maggiori musicisti del mio tempo. Ma avanti di incontrare Puccini, che non conoscevo, scoppiò la prima "grana". Nella scelta dei tre maggiori interpreti vocali, insieme col Pozzali si era riusciti ad assicurarci la collaborazione del soprano Eugenia Burzio, la prima interprete di quell’opera a New-York e a Roma, la quale per la drammaticità del suo accento, unita a una potenza di suoni veramente non comune, aveva molto contribuito al successo dell’opera, sopra tutto trascinando al più clamoroso entusiasmo il pubblico alla fine del secondo atto; e noi (gente di teatro) sappiamo troppo bene che il successo "centrale" in un'opera è il segno del successo duraturo di tutta l’opera e la maggiore garanzia per essa
di lunga vita.
Avevamo anche impegnato l’intelligente baritono Taurino Parvis, e tutto pareva andar bene, quando venne a mancare il tenore, niente meno che il tenore! Né il grande Caruso, né il suo sostituto di Roma Amedeo Bassi erano disponibili per l’autunno; che fare? Io avevo grande fiducia nel tenore Rinaldo Grassi, ma Puccini pare avesse dei seri dubbi su di lui. "Grassi - diceva - ha tante buone qualità, bella Voce, ma... stona!". Io avevo anche ben studiato dal punto di vista vocale la parte di Johnson e mi pareva che difficoltà gravi per lui non ci fossero; infine ero sicuro che non avrebbe stonato, e con quella sicumera che accompagna la giovine età, non esitai a dichiararmi garante, per lui, anche di fronte all’Autore. Un bel coraggio! Puccini, dietro le mie insistenze, comunicategli dal comune amico Carlo Clausetti, pare abbia detto: "E va bene! vedremo e sentiremo". Venne a Torino sin dall’inizio del periodo di prove che, a quei tempi d’oro, durava alcune settimane! non come adesso... Venne a sorvegliare, guidare, controllare; ma non posso davvero dire che la sua presenza pesasse su nessuno, anzi... Difficile è immaginare un autore così cordiale, così paterno e affettuoso, cosi amico di tutti, e sopra tutto così pronto sempre al buon umore, al motto di spirito... L’esecuzione, che insieme preparavamo, assumeva una grande importanza anche, diciamo così, commerciale sul futuro dell'opera; era facile infatti insinuare che il successone di Roma era dovuto in gran parte all'eccezionalità dell’esecuzione! Adesso si sarebbe rientrati nella normalità, e si sarebbe visto... Non dimentichiamo quel che Puccini ebbe a raccontarmi un giorno della sua Bohème; la quale, in prima esecuzione a Torino nel 1896, non conquistò il pubblico se non dopo la quarta sera!... prima, nessuno s’era accorto della sua vitalità teatrale; e s'è visto poi di quale vitalità si trattava!
La mia giovine età, con il conseguente aspetto fisico dei ventisei anni, unita con una sincera simpatia subito concepita da Puccini verso il giovane direttore, portarono lui a chiamar me con un vezzeggiativo, strano di suono, il cui ricordo però dopo tanti anni ancora mi commuove: "Guetto"... e
Puccini me lo conservò, anche dopo molti e molti anni, quando era diventato del tutto fuori di posto, se non altro per la mia calvizie!... Ma di questo avrò modo di riparlare più tardi. Ritorniamo alle nostre prove; io ero sicuro di riprodurre fedelmente l'interpretazione toscaniniana, e dopo qualche giorno osai domandare a Puccini se era contento del mio lavoro e che cosa aveva da dirmi. Fui assai sorpreso della risposta inattesa: "Va' pure avanti, Guetto, col tuo istinto; andrà tutto bene; per ora sento delle cose diverse da quelle cui m’ero abituato... ma va’ avanti tranquillo e ne riparleremo verso la fine delle prove". Durante tutta la mia vita ho ripensato spesso alla saggezza profonda di codeste parole, saggezza che assai raramente ho poi ritrovato in altri compositori, pure di alto merito. Puccini si affidava con pieno abbandono alle facoltà "essenziali" dell’interprete, il quale deve non rinunciare mai alla sua personalità, e lo lascia muoversi (liberamente) dentro i giusti limiti; preferiva sentire magari qualcosa di diverso da quanto aveva sentito lui stesso, pur di non soffocare nell'interprete la facoltà essenziale che è il risveglio dell’emozione e la fedeltà al proprio sentimento. Verso le ultime prove io ebbi la grande soddisfazione di sentirmi dire: "Va ben tutto, non cambiar niente anche se la tua interpretazione si distacca dal1'altra, in qualche particolare". Non sto qui a descrivere che cosa furono e rimasero nel ricordo, per anni e anni, dentro di me quelle giornate di perfetta felicità; il successo di Fanciulla fu grandissimo e definitivo per l'opera; l'autunno torinese era dolce e tepido; tutta la vita mi s’apriva dinanzi come uno scenario cosparso di fiori e pieno di luce! la presenza poi di altri amici, oltre che la comunanza di sensi con Puccini, le intelligenti conversazioni, lo spirito toscanissimo del Maestro, tutto codesto "condimento" - come direbbe Goethe - della vita d’allora fanno di quel ricordo uno dei punti più luminosi nella mia memoria; proprio come diceva Goethe: "il ricordo e la speranza sono i migliori condimenti della vita".
Passarono tre anni, eravamo tutti insieme nell’estate 1914 a Viareggio; Puccini, Toscanini e io, e fino a che non scoppio la tragica bomba della guerra passammo giorni divinamente sereni; Toscanini poi in quel tempo era eccezionalmente sereno come non l’ho forse visto mai più dopo; fu allora che un giorno incontrai Puccini, il quale tornava da Parigi dove pare fosse andato apposta per ascoltare Le sacre du printemps di Strawinsky. Mi mostrò anzi una sua riduzione per pianoforte, tutta annotata marginalmente a lapis da lui stesso; chissà dove sarà andata a finite? sarebbe assai interessante averla sott’occhio. E questo ho ricordato perché mi pare opportuno toccare a quel lato di Puccini-uomo, che riguarda la sua bella e costante curiosità rivolta verso tutti gli esperimenti i tentativi musicali e le nuove forme a lui contemporanee, da Debussy a Strawinsky e a Schoenberg. Sin dai primi giorni del nostro incontro a Torino s’era spesso parlato con Lui del Pelléas di cui era già ammiratore convinto; ricordiamo che a quel tempo eravamo ancora piuttosto vicini all’avvento memorabile del Pelléas et Mélisande a Parigi, che è del 1902; ricordiamo il fiasco clamoroso di Roma nel 1908, e le ancora accese polemiche sull’impressionismo musicale francese e via dicendo; altrimenti sembrerebbe una sciocchezza parlare oggi di tali cose, a proposito di Puccini, nella cui musica le influenze più o meno dirette della esafonia debussiana sono, da mezzo secolo, più che evidenti. Ancora nel 1914 o giù di lì la situazione italiana (anzi europea) per quel che tocca il melodramma è anche troppo chiara; due sono i melodrammisti che si contendono il campo (naturalmente tra i viventi e dopo Verdi): Massenet e Puccini, ambedue parlano un linguaggio che tende a essere internazionale, mentre d’altro lato l'invadente wagnerismo, in Italia specialmente, tiene le giovani generazioni lontane da quel culto di Verdi che doveva infine prevalere per sempre su tutto e tutti.
Ma Puccini rimase tutta la vita convinto ammiratore di Claudio Debussy, e mi ricordo che nel 1917 (se non sbaglio), durante un breve periodo di licenza, io, venendo a Roma dal fronte, lo incontrai nella vecchia Via dei Pontefici che era l'entratura del nostro caro e antico Augusteo; stava appoggiato allo stipite della porta, la sigaretta pendente dalle labbra... "Ohè, Guetto, tu qui? come stai? da dove vieni? che fai? è vero che stai guerreggiando al fronte?". Un po’ di ironia mista a tenerezza, come era sua abitudine.
Era decisamente contrario a qualunque forma di violenza, né poteva apprezzare le ragioni ideali della guerra, di nessuna guerra; Lui era a un punto della vita da dove si vedono cose che prima non si capiscono; io avevo meno di trent'anni... Evitammo ogni discussione, ma quando mi disse che veniva ancora da Parigi dove aveva risentito Pelléas, e aggiunse: "Quello è proprio un capolavoro" ci ritrovammo subito all’unisono. Davano in quei giorni al Costanzi le tre opere in un atto, Tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi, che Ricordi (non Puccini) aveva (discutibilmente) battezzato "Il trittico". "Vieni a sentirle?" mi domandò. E io la sera stessa ero al teatro; il caro e compianto Marinuzzi dirigeva (e come bene!). Il Tabarro, sin dal prima contatto, mi fece l'impressione d’un Puccini che andasse veramente a fondo delle cose, non così la Suor Angelica, e neppure lo Schicchi verso il quale però mi sentii subito attirato da un'ondata di forte simpatia che nasceva certo dalla stretta parentela che lo lega a uno dei capolavori da me più amati, il verdiano Falstaff... Nell'Angelica sentivo passare accenti super-drammatici, ma intenzionali più che raggiunti, e una certa quale retorica che in Puccini sopra tutto mi disturbava, come mi disturbava in Tosca...
Nel Tabarro apparivano già le  simpatie strawinskyane, l'organetto stonato dello scaricatore Tinca, progenitura diretta di quello petruskiano... ma come bene rivissuto, e con quale gusto! Ma a un certo momento si arrivava a un vertice dell'effetto drammatico, e con una semplicità di mezzi espressivi con una tale coraggiosa rinuncia a ogni orpello, a ogni lusinga, a ogni seduzione sonora, che mozzava il fiato. Qui veramente si ripensava alla grandezza di Debussy, che primo fra tutti (se si eccettua quel tale presentimento boitiano sul quale ho più volte insistito, la morte di Margherita nel Mefistofele... geniale intuizione rimasta isolata...)_ era arrivato a tanto; due sole note, l'orchestra sembra ritirarsi nella più misteriosa zona del silenzio, la voce umana "parla" più che cantare, eppure tutto "canta" mirabilmente, nel più profondo e definitivo senso della parola! "Penso che hai fatto bene a trattenerlo...". "Chi mai?". "Luigi...".
Passano altri anni, abbiamo di tanto in tanto qualche breve contatto, quasi sempre per ragioni professionali o di lavoro; io dirigo al "Massimo" di Palermo la seconda versione di quella Rondine nata sotto poca benigna stella; il successo non è esplosivo; Puccini se ne adonta un po', e mi scrive che abbiamo tutti torto di non considerate quella come forse la migliore opera da lui scritta... Io penso che a Lui accade come a certe madri che, tra tanti figli sani, ne hanno uno un po' gracile e malaticcio, e allora rivolgono su questo tutta la loro attenzione amorosa. Si arriva finalmente alla tragedia della Turandot e della malattia mortale... Puccini non è mai stato uno speculatore nel senso basso della parola; se lo fosse stato avrebbe scritto un’opera ogni due anni, invece tra un’opera e l’altra aspettò sempre parecchio, curandosi sopra tutto di trovare il soggetto adatto alla sua sensibilità; avrebbe potuto triplicate le sue rendite già considerevoli, e non lo fece; questo non si dice mai di Lui, ma è la verità; la sua onestà artistica non ebbe limiti.
L’unica scelta, secondo me, meno felice di soggetto fu la Tosca, il drammone del francese Sardou, dove al musicista furono offerte tutte le buone occasioni per scivolare nel grossolano e nel banale, in una atmosfera di falsa drammaticità, dove la poesia potè salvarsi appena per un momento in quell’alba d’una Roma piranesiana, nel canto del pastorello romanesco stornellante, e infine in quel delicato accento nell'ultimo dialogo tra i due amanti "Amaro sol per te m’era il morire", che è poi una melodia del giovanile Edgar trasportata là dentro di sana pianta. Ma quel "Te Deum" e quella cattiva parodia dei garzoni dei Maestri Cantori con David tramutato in sagrestano per l’occasione, e quegli urli di Cavaradossi, e quella scena di Scarpia col "parlato", e tutto il resto...! Venne poi l'"Oriente immaginario" col Giappone di fantasia, ma per la verità meno falso di quello illichiano di Iris; tanto è vero che Butterfly fu bene accolta a Tokio dove ancor oggi è opera popolare; era allora nell'aria ancora il sapore esotico dei libri di Pierre Loti, e Puccini sentì forse anche - con quell'istinto che non lo aveva tradito che una sola volta - l’odore del successo universale nel piccolo dramma. Dopo il Giappone, l'Oriente continuò a sedurre la sua fantasia e si arrivò alla Cina arcaica di Turandot. Ma qui avvenne quello che io chiamo "il tradimento". Puccini che aveva rifiutato innumerevoli offerte di libretti d’opera, seguendo sempre il suo fiuto che non errava, come mai potè lasciarsi trascinare in una via senza uscita come quella del terzo atto di Turandot? Quello che era il senso fiabesco e l'"humour" nella fiaba di Gozzi, fu deformato senza scampo nella trasposizione delle tre maschere italiane, nei tre bambocci di cartapesta Ping Pong Pang, stupidamente sentimentali, privi d’ogni spirito, canzonettisti "ante litteram" del Blu dipinto di blu... e mal travestiti... Ma il peggio non fu questo; si mise un Puccini già oramai indebolito dalla malattia e forse anche dal terrore della fine, avanti a uno scioglimento del dramma che più lontano dalla sua sensibilità poetica non poteva essere; una specie di retorico e magniloquente Inno al Sole e all’Amore. A Puccini, al dolce cantore della piccola "scuffiara" parigina, stretta le spalle dentro il suo scialletto di lana, e il petto scosso dalla tosse, a Puccini che per bocca della trasparente Cio-Cio-San aveva cantato al mondo la vera essenza della sua anima gentile e delicata: "Noi siamo gente avvezza alle piccole cose umili e silenziose" e poi: "Vogliatemi bene, un bene piccolino: un bene da bambino". Sembrano quasi parole di Lui rivolte a tutti noi; un bene piccolino... ma lungo lungo che non finisca mai. E aveva punteggiato la frase con quel delizioso fiore isolato che è la piccola e toccante melodia rimasta lì senza sviluppo... Mentre il dramma di Turandot cominciava in un’atmosfera perfettamente aderente alla sua sensibilità, e così rispondente a quel momento della sua esistenza; dove i cori della marcia funebre del Principe di Persia e l’invocazione alla luna sono un capolavoro di malinconia leopardiana che rispecchiano la storia interiore di un’anima che non sa più sorridere; lo scioglimento non era trovabile. Toscanini che nel suo istinto infallibile non sbagliava mai, un giorno mentre Puccini gli mostrava il quinto (dico il "quinto") tentativo di rifacimento dell’ultimo finale, irruppe con la sua abituale irruenza: "Ma questo finale non lo scriverai mai, tu!" e aveva perfettamente ragione. La Turandot non fu compiuta da Puccini perché la Parca tagliò il filo di quella vita, ma fu solo apparentemente; in realtà la Turandot non poteva essere compiuta da un Puccini che era stato sempre nella sua opera di creazione il più sincero dei musicisti nostri. La stessa Liù non mi pare, sentimentalmente e neppure musicalmente, all’altezza delle altre figure femminili create da Puccini e da lui tanto amate, come Mimì, Manon, Butterfly e nemmeno Minnie... D’Annunzio mi disse che a lui sembrava una "figura di cartapesta"; giudizio crudele ma forse non del tutto ingiusto; sentimento e sentimentalismo in Puccini molte volte si sono toccati di gomito, ma nella Liù il sentimentalismo mi sembra abbia prevalso.
Si sarebbe tentati di parlare ancora e a lungo di Puccini uomo; del buon borghesotto toscano amante di caccia, ma anche buon dilettante di letteratura e di pittura; semplice sempre sino all'estremo; scrittore di deliziose lettere agli amici, spesso infiorate da umoristiche improvvisazioni poetiche; si potrebbe ancora rievocare una quantità di episodi che toccarono le nostre due vite, la sua, finita, la mia, in declino; ma che vale? Un’ultima parola: era un uomo a cui si poteva voler bene così facilmente! è detto tutto di Lui in queste due parole; e a pensarci bene, di quanti altri si potrebbe dire lo stesso? Era di un’ingenuità a volte quasi infantile; perdeva così il senso delle proporzioni come farebbe un fanciullo; soffrì tutta la vita per quelle basse e sciocche ingiurie lanciategli contro nel libello di Fausto Torrefranca G. Puccini e l'opera internazionale dando loro un’importanza che non meritavano neppure. Quando nel lontano 1921 (o '22, non ricordo bene) io, invitato da Guido M. Gatti, scrissi sulla rivista musicale Il Pianoforte un articolo che tentava mettere a fuoco la sua figura di musicista, sebbene lo scritto non fosse assolutamente laudativo al cento per cento, fu talmente contento che scrisse a me, e poi subito al suo amico Giuseppe Adami: "è la prima volta che una voce autorevole si leva..." con quel che segue, e che non è il caso qui di ripetere.
L'ultimo saluto al suo "Guetto" lo diede poco meno di un mese prima del tragico viaggio a Bruxelles, nell’autunno del 1924. Eravamo nei corridoi della Scala, ci incontrammo dopo una prova e mentre io uscivo avendolo già salutato (aveva sul viso i segni inequivocabili della distruzione fisica) mi sentii raggiungere per di dietro da Lui, sentii le sue braccia che mi circondavano le spalle, e un bacio sulla mia guancia sinistra: "Addio, Guetto, addio, addio!": la sua voce che non ho più sentito; e dentro quel vezzeggiativo, in quel momento così fuori di posto, suonava la nostalgia accorata d’un ricordo del tempo che fu, tremava la lagrima nascosta che non vuol farsi vedere... Sì,... un uomo al quale era tanto facile voler bene...! Che non sia forse questo quel che l'anima delle folle in tutto il mondo ha sentito e ancora sente a traverso il suo dolce canto?
 
Vittorio Gui ("L'Approdo Musicale", n.6, Anno II, Aprile-Giugno 1959)

martedì, agosto 02, 2016

Sakari Oramo: un direttore venuto dal freddo

Sakari Oramo (26 ottobre 1965)
Per il suo atteso ritorno a Roma alla fine di febbraio, nel cartellone sinfonico dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, dove aveva nel 2012 diretto la Quinta Sinfonia del connazionale Jean Sibelius, il violinista e direttore finlandese cinquantenne Sakari Oramo ha scelto il pietrificato oratorio Oedipus Rex di Stravinski (con la voce recitante dell’attore Massimo De Francovich nel ruolo del narratore) e la Sinfonia n. 22 “Il filosofo” di Franz Joseph Haydn.
A lungo direttore della BBC Symphony e della Royal Stockholm Philharmonic Orchestra, poi dal 1998 al 2008 della City of Birmingham Symphony Orchestra, ospite regolare dei prestigiosi Wiener Philarmoniker, Oramo si è anche distinto nella proposta di numerose “prime” di compositori inglesi come Norman (Concerto per percussioni) o Clyne (Concerto per violino), oltre che in una grande quantità di partiture di Richard Strauss e nelle Sinfonie di Edward Elgar.
Ma fra gli autori da lui più eseguiti ci sono certamente il danese Carl Nielsen (le Sinfonie), specie in occasione del centocinquantenario della nascita, celebrato nel 2015, e il norvegese Edward Grieg. Il prossimo CD sarà pubblicato da Decca e conterrà musica di Anders Hillborg e Samuel Barber, con la partecipazione di Renée Fleming. Un’occasione ghiotta quindi, tra una prova e l’altra del concerto ceciliano, per interrogare il maestro, venuto dal profondo nord e alla ricerca di terreni nuovi di conquista a sud della mitteleuropa, in merito a questo repertorio ancora poco eseguito dalle nostre orchestre.

Autori come Grieg, Nielsen, Sibelius sono ancora troppo poco eseguiti in Italia. Che contributo possono portare, secondo lei, alla conoscenza complessiva della musica europea?
Sibelius, Nielsen e Grieg sono certamente nordici di nascita, ma di tradizione europea, perché hanno studiato in Germania, risentendo dell’influenza di Brahms e Wagner. Sibelius ha molto a che fare con la natura, ma intesa come stato reale della mente e non come cartolina. Sibelius e la sua musica conservano il senso ciclico del tempo, come le stagioni. La dimensione del tempo è diversa. Grieg, invece, ha composto in stile più tradizionalmente romantico. Nielsen, infine, è interessante perché acusticamente considera in maniera separata spazio e natura, ma anche eticamente, perchè mette il bene contro il male. Gli elementi si scontrano frontalmente.
In Sibelius, nelle sue semibrevi legate per decine di battute, si avverte una nuova dimensione del tempo e dello spazio. Si ravvisano i chilometri della regione dei laghi, tra acqua e conifere. Ma il clima può influire sulla musica?
Certamente. Vale anche per Verdi e Puccini, che non sono pensabili senza il sole italiano e la mentalità della gente, o per Debussy, inimmaginabile senza i paesaggi francesi
Quali sono stati i direttori che più si sono spesi per questa musica? Le cito Vladimir Ashkenazy che ha registrato tutte le sinfonie di Sibelius...
Un direttore importante è stato Paavo Berglund, centrale nella diffusione di Sibelius e Nielsen diversi anni fa. Ha lavorato molto in America e in Germania. Anche Simon Rattle con i Berliner, anche se il suono non è proprio quello adatto a Sibelius. E` ottimo, invece, quello dell’orchestra dell’Accademia di S. Cecilia. Anche nelle migliori orchestre scandinave e inglesi Sibelius risulta sempre un po’ pesante.
Paesi come la Finlandia coltivano in modo particolare la musica contemporanea. Forse perché è una nazione molto recente e un compositore moderno come Sibelius è una sorta di padre della patria?
Sibelius è un padre, ma anche un’ombra onnipresente. I compositori venuti dopo di lui hanno avuto difficoltà a comporre in modo diverso. Sibelius è stato così enorme che c’è stata una “efflorescenza” naturale nella musica finlandese. Oggi la musica contemporanea in Finlandia è rappresentata da molti stili. Sul ceppo di Sibelius, come una quercia, la musica è cresciuta in direzioni diverse. Sibelius ha avuto molti ammiratori come William Walton, Lindberg, Sallinen. Ci sono state generazioni di musicisti, durante e dopo Sibelius. E` accaduto anche per la musica italiana con Donatoni, Sciarrino, Francesconi. In Italia, dopo la seconda guerra mondiale, c’è stata una rottura grazie a Berio e Maderna.
Esiste una tradizione interpretativa nordica (penso a Leif Segerstam, Esa-Pekka Salonen o agli Järvi) differente da quella mitteleuropea o mediterranea?
Sono strade del tutto individuali, non c’è una tradizione vera e propria. In Italia ci sono, ad esempio, Abbado o Muti, che hanno caratteri individuali, pur venendo dalla radice dell’opera italiana. I finlandesi vengono anch’essi da Sibelius, ma per vie individuali. Ci sono anche orchestre che influenzano i direttori: l’importante è dialogare sempre con i musicisti.
Come mai a Roma ha scelto la Sinfonia “Il filosofo” di Haydn per accompagnare l’Oedipus Rex di Stravinski?
Haydn e Stravinski sono quasi "fratelli di artigianato" musicale in tempi diversi. Edipo viene da Sofocle, mentre Haydn dà come sottotitolo “Il filosofo” alla propria partitura. Più in genere, è interessante accostare musica antica e moderna. E l’Oedipus è una delle opere più spettacolari di Stravinski, un compositore che amo in tutti i suoi cosiddetti “tre stili”.
Ma in cosa consiste la modernità di Stravinski? Ha ancora senso la contrapposizione Schönberg-Stravinski, di cui hanno parlato Adorno e Boulez?
Schönberg è stato tanto radicale nel trattamento della tonalità quanto conservatore nell’utilizzo delle forme; Stravinski, invece, sviluppa ogni singolo aspetto della musica e per questo, secondo me, è piu` importante. La sua attualità consiste nella concentrazione dei materiali, intelletto e emozione: parte da elementi semplici, e mette insieme i materiali più disparati, anche di origine popolare. All’epoca, e oggi ancora di più, la dissonanza ha perso significato: quando nella Prima Sinfonia Beethoven iniziava con una dissonanza, era per tutti uno shock, mentre oggi suona "bene" al nostro orecchio.
Ma quali sono le pietre miliari del sinfonismo europeo?
Beethoven e Brahms, innanzitutto, poi Sibelius, Nielsen e Shostakovich.
E` più difficile dirigere una grande orchestra o una di medio livello?
Dipende dal repertorio e dall’orchestra. Quando ho diretto i Wiener nel “grande repertorio”, sono rimasto impressionato dalla loro professionalità. Lavoravano molto anche nelle prove.
Cosa pensa del dirigere a memoria, è importante? E poi, lei usa o no la bacchetta?
Se non si ha la sicurezza necessaria, non è obbligatorio dirigere a memoria. Ma se sei tranquillo, allora devi, perché sei più libero. La bacchetta resta un oggetto magico, così almeno la definì un vecchio orchestrale. Ma ci sono direttori come Pappano o Temirkanov che dirigono senza.
Quanto conta il gesto di un direttore da un punto di vista anche estetico?
Il gesto è il biglietto da visita del direttore, è la sua firma.
Per quanto riguarda la direzione d’orchestra, il ricambio generazionale appare rassicurante?
Si. Ma le carriere iniziano prima e finiscono prima. Pochi riescono ad andare avanti. C’è ad esempio un giovane finlandese di cui prendere nota, si chiama Santtu-Matias Rouvali, e poi una donna che è appena stata nominata direttore musicale della City of Birmingham Symphony Orchestra: Mirga Grazinyté-Tyla.
E`plausibile che un direttore appaia più dotato nel repertorio sinfonico che in quello operistico, o viceversa?
Certamente: io amo l’opera tedesca, ma non dirigerei mai Verdi, ho diretto Tosca, ma preferisco dedicarmi al repertorio sinfonico.
Quale è, tra quelle di repertorio, la partitura più difficile in assoluto da dirigere?
La trasfigurazione di Nostro Signore di Olivier Messiaen, un imponente oratorio per grande orchestra, difficile perché non è scritto in modo “pratico”. C’è bisogno di virtuosismo da parte di tutti. Anche la Quinta di Beethoven, però, è difficile: la mia orchestra da due anni vuole che la diriga. Ma ci ho pensato troppo, e ogni orchestra ha già la sua idea di una sinfonia così famosa.
Solo se sei sicuro di quello che vuoi, allora puoi guidare, dominare l’orchestra.
Lorenzo Tozzi (“Musica”, n.275, aprile 2016)

domenica, luglio 17, 2016

La strana storia dell'organo che Luciano Berio non volle

Progetto dello Studio Piano (18/07/1995)
La sala grande dell'Auditorium di Roma avrebbe dovuto avere un organo a canne da concerto. Fu costituita una commissione di esperti, interpellato lo studio Renzo Piano, per la collocazione dello strumento; ma alla fine l'organo saltò. Per decisione di Luciano Berio il quale, in una lettera pubblica invita a Italia Nostra che aveva caldeggiato il progetto della costruzione dell'organo, spiegò le assurde e, per un musicista, indegne ragioni della sua insana decisione.
 
L'ingresso dell'organo sulla scena concertistica con la conseguente ed inevitabile accoglienza nelle grandi sale come parte integrante di esse non data da oggi. L'epoca è la congiuntura otto-novecentesca; il paese che probabilmente dà il maggiore impulso sono gli Stati Uniti d'America che, sviluppando tardivamente l'arte organaria, si proiettano direttamente nella concezione sinfonico-monumentale, giungendo, nelle città di Atlantic City e di Philadelphia, all'edificazione di gigantesche macchine sonore ad aria compressa, che ancora oggi detengono il record mondiale di grandezza e potenza; e le prime figure di concertisti internazionali d'organo furono gli inglesi Edwin Lemare e George Cunningham, i francesi Alexandre Guillmant e Marcel Dupré, e gli italiani Marco Enrico Bossi e Fernando Germani - invitati ad intrattenere le folle (talvolta oceaniche) nelle grandi sale del vecchio e nuovo continente, animati dal nobile intento di far evolvere l'arte organistica, conservandone l'enorme patrimonio cumulato in secoli di alloggio nelle cantorie delle chiese e rivestendola di piena e completa funzione concertistica (nuova tecnica, nuovo repertorio).
Grandi organi da concerto arrivano così ad essere scrupolosamente progettati e installati pressoché in tutti i principali auditorium del mondo, tenuti in gran conto sia nel mondo cosiddetto "libero" (dagli Stati Uniti all'Australia, dove troneggia il magnifico strumento nell'Opera House di Sydney - simbolo architettonico dell'era postmoderna) che in alcuni storici regimi dittatoriali. La Sala Gande del Congresso del Partito Nazionalsocialista in Norimberga si dota, nel 1936, di un mastodontico organo Walcker a 220 registro. In tempi più recenti, un organo monumentale viene costruito anche nell'Oriental Art Center di Shangai (cosa curiosa: anch'esso di matrice e fabbricazione germanica!). L'Italia, nel particolare della capitale romana, sia col regime sia con la democrazia si è posta a riguardo in maniera eufemisticamente "controcorrente", al punto da dar corpo alla leggenda di una "maledizione" che impedisce l'esistenza di un organo in un auditorium nazionale romano.
Tutto inizia nel 1908 quanto il conte di San Martino, insigne e pluridecennale presidente dell'Accademia Nazionale "Santa Cecilia", inaugura lo storico "Augusteo", meravigliosa sala da concerti romana di oltre tremila posti fornita di un altrettanto meraviglioso organo sinfonico "Balbiani-Vegezzi-Bossi" ed alla cui consolle un adolescente Fernando Germani accompagna l'orchestra dell'Academia. Poi arriva il fascismo con i suoi progetti di riurbanizzazione della città capitolina, in ragione dei quali l'Augusteo viene abbattuto e cumulate, assieme alle macerie, vane promesse di ricostruzioni e risarcimenti vari (quando si dice: oltre al danno, pure la beffa!). Inizia così il peregrinare delle manifestazioni artistiche dell'Accademia, in particolare sinfoniche, che trovano, dopo lungo tempo (Adriano, Tetro Argentina), momentanea ubicazione nell'Auditorium ex "Pio XII" in via della Conciliazione, che guarda caso, quando vi entra Santa Cecilia, viene "svuotato" di un grande organo Tamburini il cui progetto fu firmato proprio da Fernando Germani (quindi rimontato in malo modo in una chiesa di Bologna dove ancora oggi attende un destino, ancora incerto). Finalmente, sovrintendente l'Accademia Bruno Cagli, il Comune di Roma avvia dopo circa sessant'anni la costruzione di un nuovo nonché triplo auditorio la cui progettazione viene assegnata all'arch. Renzo Piano. Delle tre sale che lo comporranno si decide di dotare quella grande di un adeguato organo a canne. E' il 12 giugno 1995 quando un'apposita commissione, un una riunione "preliminare", mette nero su bianco due importanti decisioni (presenti: Maurizio Cagnoni - responsabile ufficio speciale Auditorio -, Maurizio Varratta - Studio Piano -, Bruno Cagli, Giorgio Carnini, Anna Maria Romagnoli, Quintilio Palozzi, Barthélemy Formentelli e Annalisa Bini, segretaria). La prima è quella di installare un organo di matrice "sinfonica", adatto cioè al repertorio otto-novecentesco cui è destinata la Sala Grande, e "nuovo" (nella stessa riunione era stata avanzata l'ipotesi di utilizzare l'organo di concezione 'barocca' di Barthélemy Formentelli, originariamente pensato per la Basilica "Ara Coeli" e poi finito, dopo lunghe traversie, nella Basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma). La seconda decisione è quella di nominare da parte dell'Accademia un'apposita commissione di consulenza tecnica per la progettazione dello strumento. Tale commissione, a seguito nominata, risulta così composta:
- M.° Luigi Ferdinando Tagliavini (Accademico di Santa Cecilia, presidente),
- M.° Giorgio Carnini,
- M.° Francesco Colamarino,
- M.° Concezio Panone,
- Dott. Annalisi Bibi (segretario)
Inizia dalle troppo varie personalità dei componenti la commissione, l'insorgere di ostacoli impliciti alla realizzazione dell'iniziativa. Innanzitutto l'ignoranza dei vertici accademici delle differenti e contrapposte scuole di pensiero 'organistiche', che li spinge a mettere insieme una squadra che perfino a che ne sa solo qualcosa di organistica italiana sembra tirata a sorte. A qualcuno apparirà forse audace squarciare certi veli che i benpensanti non osano mai toccare per quieto vivere?
Allora, sia detto in tutta chiarezza, uno dei componenti di questa commissione, altamente qualificato in fatto di organi sinfonico-eclettici, lavorò per circa un anno, abbozzando disposizioni foniche e schede tecniche, giungendo così ad un ottimo progetto ispirato a quello del monumentale Cavaillé-Coll che a fine '800 dovevasi edificare in S. Pietro ed i cui fondi faticosamente raccolti dai più illustri organisti dell'epoca (presieduti da Charles-Marie Widor, e ricordiamo che in precedenza patrocinò Franz Liszt in persona) furono dirottati per il rifacimento della pavimentazione del coro della basilica vaticana. Mentre, un altro componente della commissione, notoriamente legato al repertorio antico, pensò di mettere ai voti la possibilità che la disposizione fonica venisse affidata alle ditte organarie concorrenti all'appalto (malgrado sia ben noto che, in materia di costruzione, restauro ecc. organista progettista e organaro costruttore devono essere figure nettamente distinte per buona riuscita dell'opera); la votazione risultò favorevole a tale inverosimile mozione! Della dettagliata e raffinata proposta di 'organo sinfonico' (doppia consolle con 4 tastiere e pedaliera, 97 registri ripartiti in 6 sezioni ecc. ecc.) non rimarrà che la sola, grottesca indicazione: "L'impostazione dello strumento dovrà ispirarsi prevalentemente al repertorio sinfonico e contemporaneo, e all'estetica dell'organaria francese". Un nulla di fatto nella cronistoria della commissione "di consulenza tecnica", dato che questa elementare linea guida, come si è visto, era stata formulata negli stessi minimi termini già nella storica riunione preliminare del 12 giugno 1995. Un'altra inefficienza organizzativa viene invece risolta con scioltezza: in prima battuta la Sala Grande, progettata architettonicamente da Renzo Piano, prevedeva una dislocazione dell'organo in corpi fonici separati e distanziati in maniera dispersiva, certamente inadeguata. Con chiari e precisi colloqui tra Piano e un componente della commissione (esperto in organi sinfonico-eclettici che da mesi stava lavorando invano al progetto tecnico e fonico) si rivedono appositi dettagli architettonici per i quali si sarebbe visto e udito l'organo, strutturalmente compatto, ergersi dietro il palco dell'orchestra mediante la rimozione di poche file di posti.
Malgrado queste vicissitudini, si giunge, nei primi anni 2000, a un passo dal bando della gara d'appalto quando subentra come Sovrintendente dell'Accademia Luciano Berio e con questi il puntuale ripetersi della negativa "leggenda" sull'organo dell'auditorium romano. Il progetto viene bloccato con comunicazione scritta, di poche righe, ai membri della commissione (nessuno dei quali curiosamente ha conservato copia di detta comunicazione!) e qui la storia sprofonda nelle tenebre del mistero e del torbido. Ecco una lista di motivi addotti da Berio, così come li riportano giornali dell'epoca:
  • mancanza di fondi,
  • confluenza dei fondi espressamente destinati all'organo in un fondo unico pro Auditorio per far fronte a spese ulteriori sopraggiunte in corso d'opera (motivazione che non spiega nulla e comunque storia che si ripete!),
  • spesa troppo alta per uno strumento utilizzato concretamente una manciata di volte l'anno,
  • inadeguatezza in sé di un organo a canne in un luogo che non sia sacro,
  • inadeguatezza di un organo in una sala tanto grande (2700 posti),
  • accordi taciti fra Vaticano e Accademia per la preservazione del monopolio organistico romano a favore del primo,
  • presunta antipatia e insofferenza di Berio nei confronti dell'organo (egli figlio e nipote d'organisti!).
Insomma, davanti a tanta nebbia lo sconcerto fu grande e fortunatamente non furono in poche a gridare allo scandalo. Tagliavini minacciò le dimissioni anche da accademico di Santa Cecilia (dimissioni che tuttavia non vennero date; per protesta non venne a Roma all'inaugurazione dell'Auditorium, probabilmente non fu neanche invitato), Radicali e Italia Nostra avviano una campagna di pubblico sdegno. Ma i tanti sforzi andarono in fumo: nel 2002 il Parco della Musica viene inaugurato e, con filiale quanto agghiacciante obbedienza alle parole di Berio, ad ogni occorrenza si fa uso di un organo elettrofono, un "clone elettronico" come lo chiosano i rilievi stampa dell'epoca.
Come accadde proprio il giorno dell'inaugurazione della sala grande dell'Auditorium, quando la sinfonia di Mahler scelta per il concerto inaugurale, prevedeva proprio la presenza di un organo. Tutto ciò ha dell'inverosimile. Con il dovuto rispetto, il fosco giustificazionismo dell'allora Sovrintendente pare oscillare fra clamorosa ignoranza e consapevole malafede... Nel frattempo, finché non sia costruito l'organo della Sala Grande "Santa Cecilia", l'Accademia Nazionale "Santa Cecilia" rimuova dal proprio simbolo le canne d'organo che lo fregiano. Che almeno si salvi la forma...
Giovanni Di Giacomo
(Music@ n.24, luglio/agosto 2011) 

sabato, luglio 02, 2016

"Musica Ricercata" di György Ligeti


"Musica ricercata" - I
Cosa c’è di più inquietante di un foglio bianco da riempire? Per giunta un foglio pentagrammato. Molti compositori raccontano del senso di panico che può assalire. Tra le possibili soluzioni c’è quella di darsi limiti severi, lanciare a se stessi delle sfide ed ingegnarsi a risolverle. Non per questo le soluzioni saranno cervellotiche, tutt’altro, il limite può servire a trovare il meglio di sé.
E non è peculiarità dei soli musicisti, basti pensare agli Esercizi di Stile di Raymond Queneau o alle regola del Dogma di Lars von Triar.
In questo contesto si inserisce György Ligeti, ungherese, nato in una città della Transilvania che ha più volte cambiato nazionalità tra Ungheria e Romania, che dopo la Seconda Guerra Mondiale avvia la sua attività di compositore e scrive la raccolta di brani per pianoforte intitolata “Musica Ricercata”.
Undici brani in cui il punto di partenza è nel medesimo tempo semplice e severo: il primo brano potrà utilizzare solo due note (ripetute a piacere, si intende), il secondo tre e così via fino al totale delle dodici note nell’undicesimo e ultimo brano. La sfida è notevole, occorre maneggiare la materia musicale con maestria, chiamando in soccorso l’invenzione ritmica, la creazione di atmosfere molto particolari, la musica popolare che usava melodie fatte di poche note, il coraggio della reiterazione come cardine per affascinare il pubblico.
E’ facilmente intuibile che i brani più difficile da scrivere siano i primi. Ligeti li risolve con astuzia e immaginazione, richiamandosi a quello che a quell’epoca era il suo padre spirituale: Bèla Bartòk, anche egli ungherese e morto nel 1945. Il pianoforte inteso come strumento a percussione (ma espressivo, non solo ritmico) è proprio un’invenzione bartòkiana. Così il brano I è risolto ed anche il secondo, che Stanley Kubrik utilizza in Eyes Wide Shut proprio per il suo carattere solenne e quasi morboso. Poi è un susseguirsi di invenzioni: il III è un indiavolato “presto”, il IV è un valzer irriverente, nello stile della musica di strada, di quegli organetti che una volta musicavano la passeggiata in centro o al parco. Il V è un gioco di inseguimenti tra le due mani, il VI richiama le melodie mediorientali (la musica popolare del medio oriente e quella dell’Europa dell’est hanno più di un punto in comune, del resto l’Impero Ottomano…). Il VII è un vero prodigio avveniristico: nel 1950 e senza l’ausilio delle macchine Ligeti inventa il “loop” e i procedimenti tanto cari ai nostri dj: le mani suonano in tempi diversi, il pianista si sdoppia, l’ascoltatore resta stupito. L’VIII è un omaggio alle danze popolari: tempi dispari e aria di festa. Il IX è un dichiarato omaggio a Bartòk, alla sue musiche notturne fatte di campane, rumori, spaventi, magie. Il X è un altro “presto”, ma la tavolozza di note da usare è molto più grande e quindi la musica è molto meno stilizzata. Infine, e siamo arrivati al totale delle dodici note, l’ultimo brano è una fuga ipercromatica dedicata a Frescobaldi, compositore ferrarese del 1600 e primo grande rivoluzionario della tastiera. Molto spesso i compositori degli ultimi decenni hanno preso come esempio i maestri del 1500 e 1600 vedendo in loro quella purezza e quel rigore che poi nei secoli a venire non ritroveranno, in virtù di altri bisogni.
Musica Ricercata, oltre al piacere dell’ascolto, che non è poco, anzi forse è già tutto, ha aperto molte strade alla musica: è stata una di quelle fonti da cui tutti i compositori prima o poi hanno attinto, liberando le ulteriori energie che la musica di oggi ancora possiede.
 
Andrea Rebaudengo (http://it.peacereporter.net)

mercoledì, giugno 15, 2016

In memoriam Mario Delli Ponti...

Mario Delli Ponti (1931-2010)
Quando morì un grande direttore d’orchestra, Mario Delli Ponti mi disse: “se dovessi commemorarlo io, mi presenterei e resterei in silenzio.” Lo vorrei fare anch’io. Vorrei lasciare il tempo a chi l’ha ascoltato per ricordare qualche suo momento in cui la luce d’una verità nuova si è rivelata, e a chi l’ha conosciuto anche personalmente quella calda fiducia, quel sentirsi a posto, quella intelligente felicità che si provavano in sua compagnia.
Come pianista, Mario Delli Ponti possedeva una tecnica granitica e una qualità rarissima di conoscere e rivelare l’indomabile ricchezza del suono. Ascoltarlo dava linee forti d’interpretazione, riascoltarlo portava a scoprire continuamente compresenze segrete, come risonanze, emozioni, idee che poco a poco prendevano forza e si riunivano in una nuova semplicità.
Non era carrierista, amava un poco la pigrizia e troppo la libertà. Non si voleva imporre. Non era facile avere confidenze sul suo lavoro. Lo scrittore Riccardo Bacchelli, che gli era amico, una volta gli disse, sorridendo: “Delli Ponti, lei come personaggio pubblico è reticente”.
Una volta leggemmo su un giornale che il calciatore Zoff si sentiva estraneo al mondo d’oggi perché, parole sue, “prima di sapere di che cosa parlare fanno una tavola rotonda”. Commentò: “Come lo capisco”.
Se si entrava nella sua amicizia, rivelava cose sottilissime del suo atteggiamento d’artista. Come, suonando, ascoltasse il diverso, toccante silenzio del pubblico, nei concerti ufficiali a Tokyo o a New York ma più ancora in quelli più alternativi, nei kibbutz o nelle sedi sperdute della Gioventù Musicale.
Era imprevedibile. Quando non esisteva ancora la segreteria telefonica, raccomandava agli amici più vicini di dire il loro nome quando telefonavano e non impressionarsi se, per evitare gli importuni, lui avrebbe risposto: “Pronti. Fiaschetteria Basletti. Chi è che cerca? Il maestro Delli Ponti? Vado a vedere, sarà uno della banda”. Era il suo aspetto fantasioso e brillante. Poi c’era quello pensoso, da uomo di fede.
Quando gli chiesi in che momento sentiva che la sua scelta interpretativa di Brahms, di cui era specialista, doveva essere giusta, rispose: “Quando sento che comincia a rendermi migliore”.
Non si lasciava condizionare, dalle mode, dalle amicizie, dal successo e dalla voglia di averne di più. “Coraggioso”, mi lasciai sfuggire un giorno. Mi corresse: “Cocciuto”.
Aveva le sue felicità, la moglie Liliana, la figlia Sissi, il ricordo della madre e delle persone care incontrate, le letture vaste, fonde e accurate, il piacere dell’insegnamento. Del dolore, dei crucci, delle delusioni sugli altri, delle tormentose conquiste di se stesso nel mondo duro e distratto d’oggi non parlava. Si sentiva che attraversava costantemente queste realtà per come suonava. Penso a Schubert, l’Adagio della Sonata in Si bemolle, postuma. Delli Ponti l’eseguiva con attesa, più che con ansia. C’è un tema breve, un canto che s’affatica a dispiegarsi, struggente, sull’armonia inquieta; al culmine, una prima volta s’arricchisce di una specie di commozione cara, ma la seconda, sfocia in una miracolosa modulazione in do maggiore, pacificata, sacra, segreta, e pare che sprigioni la luce, tutta la luce. Dev’essere stata così la sua morte.
 
Lorenzo Arruga in memomiam Mario Delli Ponti