Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, aprile 20, 2024

Wagner a Palazzo Giustiniani

Tristano e Isotta
Ero nel settembre scorso a Venezia, di ritorno da un pellegrinaggio a Bayreuth, dove, a villa «Wahnfried››, avevo potuto esaminare alcune lettere autografe del Maestro. Appunto una di queste, diretta a Liszt e che fa parte del noto epistolario recava in testa la data - Venezia l2 settembre '58 - ed in calce un indirizzo, il suo preciso indirizzo: «Canal grande, palazzo Giustiniani, Campiello Squillini N. 3228 Venezia».
Ora, a Venezia i palazzi Giustiniani sul Canal Grande sono tre anzi quattro: quello posto quasi di fronte alla vecchia Dogana e che da oltre mezzo secolo è occupato dall'Hôtel d'Europa; altri due davvero monumentali, formano come una degna continuazione del magnifico palazzo Foscari: l'uno detto Giustinian del Vescovo ora Schiavoni Semagiotto, l'altro, pure Giustiniani, ora Brandolin: il quarto infine, di gran lunga più modesto, è separato da quest'ultimo da una stretta calle.
Ma con la scorta del miracoloso indirizzo fui sicuro di rintracciar quello dei palazzi Giustiniani, dove «Colui che aveva diffusa la potenza della sua anima oceanica sul mondo» tra il settembre '58 e il marzo '59, aveva composto il secondo atto del Tristano.
In una tiepida e rosea mattina d'autunno mi posi dunque alla ricerca della gloriosa dimora.
Disceso dal vaporetto a San Tomà e internatomi per un labirinto di calli di campielli e di canali, riuscii ad infilare un ponte oltre il quale, passando innanzi al grandioso portale cinquecentesco del palazzo Foscari, si perviene al solingo alberato Campiello dei Squillini. E poiché a Venezia la numerazione odierna delle case è ancora quella dei tempi del Goldoni (il quale è fama prediligesse questo «campiello» all'ora popolatissimo, per attingervi alle vive fonti i suoi dialoghi immortali) m'avvidi dai numeri intorno che il 3228 non doveva essere lontano. Lo trovai difatti in fondo a un vicolo chiuso tra due  muri alti e nerastri, da cui grandi alberi un poco ingialliti emergevano.
Alla squilla elettrica il portone s'aperse. Consegnata la mia carta da visita al portiere, questi, dopo un'assenza di qualche minuto mi invita a salire lo scalone del palazzo. Fatti due rami, mi trovai sopra un vasto loggiato dove il giovine conte Brandolino Brandolin mi accolse con la più cordiale amabilità. Mi chiarì subito che del grandioso palazzo le camere occupate del Maestro facevano parte degli ammezzati o mezzanini sotto il pian nobile. A quel punto l'edificio presentava uno stato di avanzato deperimento ed era proprietà di un austriaco, che lo affittava ai forestieri. Poco dopo la partenza di Wagner, e ciò tra la primavera e l'estate 1859, l'austriaco l'aveva venduto ad un russo milionario: il quale nella occasione del suo matrimonio con una leggiadra ballerina italiana, lo aveva sontuosamente restaurato e arredato, apportando molte modificazioni specialmente al cortile e al giardino. Ma pochi anni appresso quel russo essendosi incapricciato d'una giovanissima popolana chioggiotta, separatosi consensualmente dalla moglie, recavasi con l'amante a Costantinopoli, lasciando in proprietà il palazzo alla consorte. Questa allora trattò subito per la vendita dello stabile: di che essendo stato telegraficamente informato il marito, provvide senz'altro pe`l riacquisto di esso: dove, mortagli la moglie, si ridusse a vivere gli ultimi anni in compagnia della concubina.
Infine, nel 1876, il palazzo veniva acquistato dal conte Brandolin, padre del mio cortese informatore. Al quale, mentre mi andava esponendo la movimentata cronistoria del glorioso edificio erasi unito, nell'amabile ricevimento, un simpatico giovinetto della nobile famiglia Vendramin Calergi, con la quale i conti Brandolin si erano di recente imparentati. Ond'io non poteva a meno di avvertire la bizzarra coincidenza che aveva  riunite quelle due famiglie: l'una di cui il palagio aveva ospitato il Maestro nella piena vigoria delle sue forze e del suo genio possente, l'altra, nella cui principesca dimora l'autore di Parsifal, stremato dagli anni e dalle sofferenze fisiche era venuto a morire. Intanto eravamo entrati nella «vasta sala echeggiante» che serviva da stanza da lavoro del Maestro: quella appunto dov'egli, collocatovi il suo Erard ed apprestandosi a «tradurre in musica l'ammirabile Venezia», aveva composto la musica divina del secondo atto di Tristano.
Come era proprio quello, il «vasto ambiente prospettante il Canal Grande», dal «soffitto di buon gusto, interamente dipinto a fresco», su cui certo i suoi grandi occhi cerulei si erano tante volte affissati! Dai tre eleganti balconi, di stile archiacuto, la mirabile grande via d'acqua e di pietra appariva sotto un chiaro cielo tiepolesco solcato di nuvole; e appunto da quei balconi, «mirando con gioia ognora crescente il superbo canale», Colui che «aveva saputo dare alla sua vita la grande vittoria che le aveva promesso» si era detto: «È qui che terminerò Tristano
Lasciato, non senza rammarico, il memorabile salone, venni guidato nella «grande camera da letto contigua», pure prospettante il Canale, ed infine in una terza ampia stanza interna che riesce su la loggia dove, nelle lunghe giornate di pioggia e di neve «io poteva fare, egli scrive, i miei cento passi igienici».
La breve mia visita essendo terminata, io stava per accomiatarmi; ma l'ospite volle darmi il contentino finale e mi narrò che nell'autunno del '76, un giorno che la signora contessa Brandolin - madre al mio cortese interlocutore - era a letto indisposta, un forestiere si presentò chiedendo di visitare l'appartamento ai mezzanini in allora disabitato.
Avendo la nobile dama acconsentito, un servo accompagnò per le varie stanze lo sconosciuto visitatore, che vi si trattenne a lungo, ma soffermandosi con manifesta preferenza nell'ampio salone dal soffitto tiepolesco e affacciandosi ripetutamente or all'uno or all'altro dei balconi in vista al Canal Grande. Il servo ebbe a raccontare di poi che quella visita oltremodo prolungata e il contegno un poco strano del visitatore gli avevano persino destato qualche sospetto!... Finalmente il forestiero mostrò di volersene andare; ma prima chiese al domestico un foglio di carta e l'occorrente per iscrivere. Gli fu dato e colui, dopo scritto alcunché, se ne parti. Quando lo scritto dello sconosciuto fu portato alla contessa, questa ebbe la profonda sorpresa, mista di rimpianto e di gioia, di scorgere la firma autografa di Riccardo Wagner sotto una frase musicale ch'egli aveva trascritta dal secondo atto di Tristano: autografo preziosissimo che la famiglia Brandolin conserva religiosamente.
Mario Panizzardi
(da "Richard Wagner - Diario Veneziano" a cura di Giuseppe Pugliese,
Corbo e Fiore Editori, Venezia, 1983)

mercoledì, aprile 10, 2024

Fabio Vacchi: Teneke

Il tormentato percorso di un prefetto che non vuol farsi corrompere e viene cacciato. «E' un'opera di stampo sociale che racconta come il primo responsabile del conflitto fra uomini sia il denaro» racconta il regista Ermanno Olmi. Libretto di Franco Marcoaldi, scene di Arnaldo Pomodoro, dirige Roberto Abbado

La nuova opera di Fabio Vacchi, Teneke, su libretto di Franco Marcoaldi, scene di Arnaldo Pomodoro, regia di Ermanno Olmi, sul podio Roberto Abbado, vedrà la luce il 22 settembre alla Scala (la prima è dedicata all'associazione di volontariato Vidas). La vicenda è tratta dall'omonimo racconto di Yashar Kemal; il termine del titolo è intraducibile, indica un rudimentale strumento di percussione, un tamburo di latta, in italiano gode dell'assonanza con "tanica" ma con poco senso. Forte socialmente ed eticamente è invece il nocciolo della storia, il tormentato percorso di un "prefetto" alle prese con proprietari terrieri senza scrupoli, coltivatori di riso, che lo ammansiscono con doni quasi al punto di corromperlo per i loro tornaconti. Quando, in uno scatto di dignità, il protagonista decide di far applicare la legge, viene immediatamente cacciato.
Per presentare Teneke abbiamo seguito idealmente il passaggio dalla prosa originaria al palcoscenico.
«Definirei la mia un'operazione di doppio servizio - spiega Marcoaldi -. Il primo è stato quello di trasformare un racconto, che si affida a un tono epico, poco censorio alla nostra narrativa, in una scrittura drammaturgica. Bisognava trovare un taglio teatrale, adatto a un libretto d'opera, che però conservasse i modi originali. A questi ho voluto dare un andamento poetico, ne è uscito un italiano che ha la cantabilità propria della poesia. Il secondo servizio riguardava il rapporto con la composizione. Ho piena consapevolezza di quanto diceva Auden, cioè che i versi del librettista non si rivolgono al pubblico, sono una lettera privata diretta al compositore. Naturalmente ho portato a termine questa doppia mediazione tenendo presente che avevo a che fare con Fabio Vacchi, col quale sono legato da un'estetica, da un'etica comune e da una lunga collaborazione».
Ha dovuto fare ritocchi al Suo testo durante la lavorazione?
«Più che ritocchi, taglie aggiunte. Rispetto al racconto di Kemal, nel libretto per esempio viene data molta importanza alla fidanzata lontana del protagonista, una figura che consente di tenere un ponte sospeso fra Occidente e Oriente. Inoltre la fidanzata insieme alla madre contadina, donna di grande coraggio che sbeffeggia gli uomini che non riescono a sostenere la durezza della situazione, in qualche modo rafforza l'elemento femminile come uno degli elementi portanti della storia».
E il protagonista? Sconfitto eppure vincitore?
«Incarna l'idea stoica della morale, virtus ipsa praemium est. Il dramma scoppia quando si rende conto di non essere stato sufficientemente fermo nell'imporre la legalità. Viene cacciato, ma torna nel giusto, tranquillo con la propria coscienza. L'opera si chiude con la speranza dovuta a questa riappacificazione con se stesso, l'uomo se ne va, ma potrebbe anche tornare».
Nel racconto di Kemal si dice che il protagonista canterella il tema dell'Inno alla Gioia della Nona di Beethoven. Un segno musicale importante, che Vacchi ha però volutamente lasciato sullo sfondo.
«Non l'ho voluto inserire in partitura, l'ho fatto semplicemente fischiettare a un certo punto della vicenda - spiega il compositore -. Significa voglia di pace, di libertà, una voglia di Europa per i valori etici che teoricamente rappresenta. Nel senso della gioia come uno degli aspetti fondamentali del mondo illuminista. Quel piccolo fischiettare insomma rappresenta un anelito all'Illuminismo».
L'altra protagonista assente è Nermin, la fidanzata. I due hanno connotazioni musicali diverse?
«In Teneke è un continuo passaggio fra vari registri, etnico e colto, alto e basso. Generalmente nella mia musica questo procedimento è spesso rintracciabile in filigrana, qui invece risulta più marcato. Non si tratta di citazioni vere e proprie, è un materiale riconoscibile pur nella elaborazione che ne ho fatto. In Nermin invece non è nulla di tutto questo. Musicalmente la fidanzata è una specie di distillato della tradizione europea colta, dove è riconoscibile la mia matrice culturale. In altri momenti invece, come per esempio nella festa, saltano fuori spiccatamente dei dati etnici che vanno poi a fondersi col discorso prettamente compositivo. A parte Nermin, le connotazioni di tutti gli altri personaggi risultano sempre amalgamate, anche perché il più delle volte partecipano a scene d'insieme; le caratteristiche dell'uno e dell'altro sono abbastanza generiche, comunque si fondono continuamente a seconda del contesto in cui si trovano. Diciamo che non c'è un Leitmotiv, né uno strumento caratteristico che indica un volto particolare. E' la situazione scenica che determina il risultato musicale".
Quanto alle voci, ci sono combinazioni particolari?
«C'è il più grande assortimento possibile di atteggiamenti vocali, manca solo l'uso del recitato, ma il resto c'è. Le modalità di canto abbracciano tutto lo scibile vocale, sempre alla luce del mio concetto di grande forma che si basa, si puntella, sul gioco dei contrasti, sulle attese che vengono smentite dalle sorprese, ecc. Quindi grande varietà, però tutto molto unitario, compatto, mentre all'interno è la massima articolazione. Questo vale in generale per tutto il mio lavoro oltre che per Teneke».
Il coro come viene trattato?
«Per la prima volta nella mia produzione il coro ha una funzione da protagonista a pieno titolo. Il coro è spessissimo presente, Teneke è piena di scene concertate dove si fronteggiano due cori, in pratica dialogano: il coro dei proprietari e quello dei contadini che possono essere rappresentati da uomini e da donne o da soli uomini e da sole donne».
A ospitare tutto questo sarà una drammatica scenografia ideata da Arnaldo Pomodoro, giovane ottantenne, residente a Milano da 54 anni e che ora debutta alla Scala. Lui ci ride sopra, come a dire che era ora!
«Ad apertura di sipario si vede solo una montagna con terrazzamenti, sono le risaie della storia di Kernal - spiega Pomodoro. - Le risaie che ho visto in Kurdistan, Turchia, Madagascar, a Bali non sono sullo stesso piano come le nostre della Lomellina o del Pavese, ma a diversi livelli. In teatro non viene mai mostrato il cielo, quando i terrazzamenti vengono invasi dall'acqua, ne riflettono delle parti. Il cielo è proiettato su un grande telone in alto, non visibile in sala. Per far apparire via via le zone d'acqua ci sono dei mimi, visibili solo di schiena e camuffati da zolle di terra, che tolgono piano piano una specie di tappeto sotto il quale si vede un materiale acrilico color argento».
Ci sono elementi che richiamano le Sue sculture?
«La montagna ha un campo arato dall'aspetto molto inquietante, lascia supporre una tragedia; come i miei lavori, il campo è pieno di appigli, di intrighi... C'è un tessuto di tagli, di elementi cuneiformi. Dal basso sale poi una specie di medusa che lascia intravvedere degli artigli. Naturalmente è una forma astratta, ma mostra la forte aggressività della terra coltivata».
Non a caso agricoltura e mondo contadino sono temi cari a Ermanno Olmi, che proprio in questi giorni sta girando un documentario nell'ambito di Terra Madre, movimento promosso da Slow Food. La regia di Teneke rientra quindi a pieno diritto nei suoi attuali interessi.
«A dir la verità la mia partecipazione a questa avventura lirica è nata nel segno dell'amicizia. Tutto ha avuto origine da un incontro che ho avuto con Vacchi, dove invece di parlare di musica abbiamo parlato di letteratura. Gli ho segnalato i libri di Kernal che a mio avviso è una delle più belle penne del secolo, tanto che considero davvero un privilegio averlo incontrato e esserci reciprocamente capiti. Vacchi così si è innamorato di Teneke, al punto di confessarmi di volerne fare un'opera. Di qui è sorta una specie di gemellaggio ideale, che ha seguito il suo corso».
Rispetto a un titolo di repertorio che problemi ha posto l'opera di Vacchi?
«In Teneke non si ha a che fare col tipo di drammaturgia che ha caratterizzato la storia del melodramma, quando gli uomini parlavano con gli dei o si struggevano d'amore, tipicamente segnati dal loro tempo. Teneke, per dirla con un termine alla mano, è un'opera di stampo sociale, che racconta come il primo responsabile del conflitto fra uomini sia il denaro, il potere. In questo senso è un'opera che marchia il nostro tempo, suggerisce una musica aspra, tanto che il tamburo di latta è lo strumento sul quale si battono i colpi della festa o della protesta, non è, certo strumento classico. Dal punto di vista registico quindi non si è trattato di essere innovativi con qualcosa di preesistente e di tradizionale, ma di collocare nel filone del melodramma elementi che normalmente non gli appartengono. E' dalla stessa naturalità delle cose, dalla materia stessa della vicenda che abbiamo fatto affiorare questi elementi estranei alla tradizione operistica».
«Tra i momenti più lontani dalla consuetudine è senz'altro il finale aggiunge il direttore d'orchestra Roberto Abbado -. Un lungo brano puramente orchestrale, in cui il coro comincia a battere sui teneke, è un saluto al protagonista in partenza ma è anche una protesta. L'orchestra nel frattempo cresce d'intensità e quando cessano i teneke prorompe dall'orchestra un canto straziante. Ma non è ancora la chiusa, perchè ha l'ultima parola il ritmo. Un sovrapporsi di ritmi, direi africani».
Si tratta di una partitura generalmente molto complessa?
«Senz'altro. Le scene si differenziano una dall'altra, anche nello stile. I due cori per esempio danno vita a grandi affreschi, secondo la tradizione italiana, penso alle scene corali verdiane. Mentre la prima scena, dopo la brevissima introduzione orchestrale esplosiva, è un concertato rossiniano, una rivisitazione del sestetto della Cenerentola. Ci sono poi temi popolari, alcuni di questi anche se non esattamente turchi banno una matrice mediorientale; e c'è pure un canto friulano, ma la conformazione melodica e gli intervalli che lo compongono lo trasformano in qualcosa di mediorientale. Compare anche una situazione ricorrente, caratteristica dell'opera, quando una parte dell'orchestra, rappresentata anche da un solo strumento o una coppia, agisce indipendentemente dal tempo principale dell'orchestra, improvvisando su note e ritmi dati. Nella scena dello smarrimento totale del protagonista corrisponde addirittura a un'orchestra impazzita, dove non esiste più un tempo metronomico e dove il procedimento di accavallamento arriva al massimo grado, l'orchestra suona sulla base di un cronometro e non di un tempo scandito. Si passa da scene musicalmente violente ad altre poeticissime, come quelle di Nermin, l'amore assente».
Stefano Jacini
("il giornale della musica", 09/07)

lunedì, aprile 01, 2024

Ferruccio Busoni: Dalla teoria alla pratica

Ferruccio Busoni (1866-1924)
Studiando recentemente i primi lavori composti da 
Busoni, e in particolare l'opera Die Brautwahal («La sposa sorteggiata»), mi è capitato di riflettere alla notevole affinità che lega il compositore italiano ad Ernst Theodor Amadeus Hoffmann. Anzi più che di una particolare affinità, si dovrà parlare di parecchie affinità, di numerosi legami che corrono fra i due artisti.
Quando nel 1905 Busoni scelse come argomento per la sua prima opera teatrale un racconto di Hoffmann, intuì per il primo quanto vi fosse in comune tra lui e lo scrittore-musicista tedesco. Questo comune denominatore può essere chiaramente indicato con un'espressione che la critica letteraria ha adottato per designare la singolare problematica di uno scrittore italiano del nostro secolo: si tratta precisamente dell'espressione «realismo magico», e cioè di una definizione che, come tutti sanno, è stata, a suo tempo coniata a beneficio di Massimo Bontempelli. Ora se ci sono una produzione letteraria e una produzione musicale alle quali si addice tale definizione, queste sono appunto la produzione letteraria e musicale riferibili ai nomi di Hoffmann e di Busoni; l'uno e l'altro impegnati, e come si sa non soltanto nel caso della «Sposa sorteggiata», a cogliere nella realtà della vita quei caratteri che sono tanto più realistici quanto meno sembrano esserlo. Da qui il grottesco, il sovrannaturale, la caricaturale deformazione della realtà comune che consentono di assumere il vero e l'autentico al di fuori della banalità del documento veristico o delle mistificazioni di un irrazionalismo programmaticamente sprovvisto di qualsivoglia rapporto con la realtà.
Questo ricorso al grottesco risultò essere, e per Hoffmann e per Busoni, un'operazione non soltanto artisticamente valida, ma anche storicamente tempestiva: essendosi trovati, tanto il letterato quanto il musicista, a vivere in epoche nelle quali il ricorso all'epica era addirittura impensabile (se non nei termini della più superficiale retorica); quando invece  l'ironia e il grottesco potevano agevolmente esercitarsi sopra una realtà tutt'altro che eroica e dinamica. Se questa affinità tra Hoffmann e Busoni è certificata anche dallo specifico incontro che si realizzò fra i due a livello della «Sposa sorteggiata», va subito rilevato che tale maniera di concepire il rapporto dell'arte con la vita giocò a sfavore dello scrittore e musicista quasi in eguale misura: e anche questa incomprensione presso i contemporanei - la pedina  che apparentemente non partecipa al gioco come diceva Kafka! - è rimasto un dato comune ai due creatori d'arte. Per Hoffmann si arrivò, nel secolo scorso, alle più contrastanti valutazioni (valutazioni dei professionisti dell'arte, ben inteso, perché dal punto di vista del successo popolare Hoffmann poteva sempre contare sul pubblico delle bettole berlinesi a beneficio del quale improvvisò buona parte dei suoi racconti). Goethe, tanto per incominciare, riteneva che la produzione hoffmanniana fosse del tutto al di fuori della realtà: fosse cioè un campionario di «superlunarische Sprünge» di «salti superlunari», di fantasiose fughe dalla concretezza. Al contrario: per i letterati del secondo Ottocento (specie per quelli della Germania che dopo gli ardori rivoluzionari del 1848 puntava verso gli approdi del più marcato disimpegno ideologico), per questi letterati, dunque, Hoffmann era sterilmente improduttivo perché troppo legato ad una realtà non sufficientemente trasfigurata; opinione, codesta, del tutto condivisa, ma in senso positivo, da Carlo Marx, prima, da Gyorgij Lukàcs più recentemente (il che è ovvio, se si pensa che il satirico mordente delle narrazioni hoffmanniane, per nulla mistificato od oscurato da fantasiosi «salti superlunari», era fatto per dare soddisfazione a Marx quanto per dare fastidio ai protagonisti dell'irrazionalismo tardoromantico).
Il caso di Busoni è analogo, per quanto a distanza di un secolo circa dal caso Hoffmann e sul piano di un linguaggio avente caratteristiche ben differenziate da quelle del linguaggio letterario. Per quello che riguarda il giudizio dei contemporanei la situazione del compositore Busoni si presenta anche peggiore di quella toccata in sorte ad Hoffmann. È noto che, da vivo, Busoni ebbe molti riconoscimenti come pianista ma fu quasi del tutto ignorato come compositore, specialmente in Italia. Per cui su Busoni compositore si possono raccogliere a centinaia non tanto i giudizi sulla sua arte, quanto le testimonianze sulla scarsa circolazione della sua musica. A parte il caso di Arrigo Boito e di Anton Rubinstein che furono tra i primi a riconoscere il non dubbio talento del nostro, la «Busoni Renaissance», se così vogliamo chiamarla, seguì un processo lento e ancor oggi tutt'altro che definitivo. In Italia, in particolare, la musica di Busoni ebbe vita stentata; e altrettanto stentato fu il processo di rivalutazione critica: del quale va in grandissima parte riconosciuto il merito a Guido M. Gatti e alla «Rassegna Musicale» da lui diretta (e infatti tra le pagine della citata rivista troviamo, oltre a singoli articoli dedicati a Busoni un numero speciale a lui dedicato). L'attività pioneristica di Guido M. Gatti risulta anche, sul piano della diffusione della musica busoniana, in un articolo di Gui che figura, per l'appunto, nel numero speciale della «Rassegna Musicale» datato al 1940. «Che Ferruccio Busoni fosse anche un compositore di musica» scriveva Gui in quell'articolo «fino a qualche tempo fa la più gran parte degli italiani ignorava perfettamente, e parecchi ancora oggi purtroppo lo ignorano; che egli occupi poi un posto altamente importante nella storia della composizione italiana, credo che sia ancora da rivelare; questo io sto tentando di fare da parecchi anni, insieme con un esiguo ma energico gruppo di musicisti e musicologi nostri, primo fra tutti Guido M. Gatti, col quale fin dal 1926, quando insieme dirigevamo quel Teatro di Torino che in breve spazio di vita richiamo tanta attenzione da parte di tutti gli ambienti musicali europei e americani, dedicammo a Busoni compositore parte di programmi sinfonici, con la collaborazione del più grande discepolo e amico del Busoni stesso, il pianista Egon Petri...».
Ma quali furono le ragioni che, due anni dopo la morte del musicista, fecero sì che l'opera di rivalutazione iniziata da Gatti e da Gui dovesse avere, soprattutto in Italia, il carattere dell'assoluta novità? Alcune di queste ragioni erano di ordine casuale; la fama di grande interprete nuoceva al Busoni compositore, così come a Mahler compositore ebbe a nuocere la fama di grande direttore d'orchestra. Ma le ragioni prime dell'insuccesso «mondano» - se così si può chiamarlo - di Busoni, furono, a mio parere,  d'ordine stilistico: condizionate, cioè dalla provocatoria novità di linguaggio e d'espressione della musica busoniana. Già nel periodo 1905-1912, e cioè nel periodo in cui fu composta l'opera Die Braatwahl, Busoni batteva una strada solitaria e in gran parte contrastante con le tendenze dominanti nella produzione musicale di quegli anni: le quali, tanto per  dare qualche esempio, avevano, come capisaldi ufficialmente riconosciuti, lavori come L'uccello di fuoco di Strawinski (anno 1910); Petruska, ancora di Strawinski (anno 1911); Elektra di Richard Strauss (anno  1909); i Cinque Orchesterstücke op. 16 di Schönberg (anno 1908); La fanciulla del West di Puccini (anno1910). A parte il caso Schönberg, rispetto a cui il busoniano principio della mobilità polifonica si sintonizza con una prospettiva musicale allora peraltro assai meno diffusa di quelle riferibili ai nomi di Strawinski, Strauss e Puccini; a parte questa singolare convergenza, bisogna riconoscere che la problematica  compositiva di Busoni era del tutto estranea all'evoluzione musicale allora ufficialmente in corso: estranea, in particolare, sia al prezioso decadentismo dei tardoromantici francesi, sia all'estroversa turbolenza gestuale dell'opera straussiana, sia alla passionale pianificazione stilistica del teatro musicale verista, sia a quel nuovo classicismo che di lì a pochi anni avrebbe dominato le vicende internazionali della musica (nuovo classicismo, giova subito sottolinearlo, che avrebbe assunto caratteristiche in gran parte nettamente differenziate da quelle proposte da Busoni: il quale per «nuovo classicismo» intendeva - come si legge in una nota lettera a Paul Bekker sull'argomento - «il dominio e lo sfruttamento di tutte le conquiste di esperienze precedenti: il racchiuderle in forme solide e belle»; senza pretendere, quindi, utopistici ritorni allo stile della musica preromantica e senza rifiutare il patrimonio dell'esperienza musicale immediatamente precedente).
Già dall'epoca della Sposa sorteggiata, Busoni è quindi praticamente contro tutti e tutto. Contro «la musica a programma» tipica dei poemi sinfonici alla Strauss. Contro la Wagneriana melodia infinita, alla  quale Busoni preferisce, come si legge nel Saggio su di una nuova estetica della musica del 1905, «la formula dell'opera antica, che abbracciava in un pezzo chiuso lo stato d'animo ottenuto con una scena drammaticamente movimentata e poi lo lasciava esaurirsi nell'aria». Contro l'opera verista: perché, affermava Busoni, «la parola cantata sul palcoscenico rimarrà sempre una convenzione e un ostacolo per ogni veridico effetto»; ritenendo quindi «che il cosiddetto verismo italiano» (sono ancora parole di Busoni) «sia insostenibile sulla scena». Contro l'armonia verticale-parallela e a favore, nei fatti oltre che nella teoria, di strutture musicali «polifoniche e multi-versali». Contro l'usuale contrapposizione dissonanza-consonanza, e a favore di quella emancipazione della dissonanza che la mobile impalcatura della busoniana «polifonia multi-versale» riesce effettivamente a produrre in non pochi episodi della Sposa sorteggiatadel Doktor Faust (episodi nei quali l'ambiguità tonale è favorita dalla non percettibilità dei singoli rapporti d'intervallo, assorbiti dall'irrequieta proliferazione polimelodica del discorso musicale).
Questa polemica ricerca della propria individualità, il compositore Busoni la ha perseguita, come i testi delle sue musiche documentano, con la perseveranza dell'instancabile esploratore di nuove frontiere linguistiche ed espressive. Ma, nel passaggio dalla teoria alla pratica, può essere riconosciuta a Busoni la piena attuazione del suo programma estetico? Non del tutto: perché l'intera produzione musicale, e in particolare quella operistica, di Busoni, rimane quasi costantemente divisa tra l'aspirazione ad una mozartiana chiarezza delle strutture e la messa in opera di quella «musica assoluta», di quel polifonico sfaccettarsi del materiale sonoro che condurranno la fantasia musicale del nostro compositore sul terreno di un'esperienza assolutamente inedita. Sotto questo aspetto Die Brautwahal e il Doktor Faust, contrariamente a quanto avviene nella assai meno problematica prospettiva di Arlecchino e di Turandot, portano il segno di numerose contraddizioni: e anche questo squilibrio riesce in definitiva a rendere produttivo il significato artistico dei citati lavori. I modelli dei quali - taciuti o dichiarati che siano - sono contemporaneamente Falstaff e i Meistersingers, l'Otello e il Parsifal. Le costruzioni omofone-parallele vi coesistono con la polifonia «multi-versale»; i tormenti decadentistici vi si alternano alla «neutralità» quasi astratta dell'espressione (nelle pagine d'argomento amoroso, in particolare, dove Busoni, evidentemente, teneva d'occhio i pericoli delle cadute sentimentalistiche quando addirittura non le metteva, come fece nel Doktor Faust, fuori causa); le più scoperte contrapposizioni fra apertura della dissonanza e chiusura della consonanza vi si mescolano con episodi dove  la concitazione del discorso musicale e la multi-linearità polifonica toccano il vertice dell'ambiguità tonale.
Questa tormentata - e tutt'altro che futile od occasionale - prospettiva di Busoni riesce, come ho già detto, a fare della Sposa sorteggiata e del Doktor Faust due prodotti artistici tra i più notevoli del secolo in corso; tra i più dinamicamente aperti ad una trasformazione criticamente e storicamente consapevole del linguaggio musicale. Per cui, per concludere, non si può fare a meno di affermare, con Luigi Dallapiccola, che «nessun motto si addice di più a Ferruccio Busoni uomo e artista che la frase di Hölderlin: «Wir sind nichts; Was Wir suchen ist alles» ovvero «Noi siamo nulla; ciò che cerchiamo è tutto».
Proprio sul significato della «ricerca» busoniana si sono avute, in un recente dibattito tenutosi ad Empoli (8 settembre 1966), discordi valutazioni. Si è cominciato con il discutere se la «ricerca» musicale di Busoni avesse un carattere «italiano» o «tedesco»: italiano, secondo Rattalino, tedesco secondo Duse e Rognoni. In effetti, il problema è abbastanza intricato: non tanto, a mio parere, per il fatto che Busoni abbia formato la propria cultura in quel di Trieste o in paesi di lingua tedesca, quanto per il fatto che la sua stessa produzione musicale partecipa alternativamente a due ben differenziate e non sempre conciliabili prospettive. Per cui da una parte abbiamo il Busoni della Sposa sorteggiata e del Doktor Faust,opere per le quali Duse ha avuto effettivamente buon gioco ad affermare che chi scrive musica per un libretto tedesco appartiene di diritto alla cultura tedesca; dall'altra parte abbiamo il compositore di Turandot e di Arlecchino, e qui la struttura operistica e il linguaggio musicale dei testi appartengono di diritto all'area culturale dell'opera italiana, e questo indipendentemente dalla lingua adottata per il libretto originale e dai dati biografici che ci può offrire il cosmopolitico itinerario dell'uomo e del musicista Busoni. Ma il problema è poi tanto importante? Se lo è, non bisogna dimenticare a questo proposito tre speciali fattori: il primo riguarda la difficoltà di mettere in chiaro la più che intricata biografia del musicista provvedendo a porla in relazione - là dove è possibile - con l'evoluzione stilistica del medesimo; il secondo si riferisce al valore tutt'altro che definitivo di prove come quelle addotte da Duse a sostegno della qualificazione «tedesca» della musica di Busoni (ad esempio: l'uso di una determinata lingua per un libretto ha certamente la sua importanza; ma è una prova indiziaria che, se non è sostenuta dalle debite corrispondenze di natura propriamente musicale, non basta a chiudere l'argomento: le Nozze di Figaro e le Vepres Siciliennes - per non parlare delle molte partiture contemporanee che usano testi in lingue diverse da quella nativa del compositore - sono lì a dirci quanto la base linguistica non sia sempre confermata dai fatti musicali, spesso tutt'altro che condizionati dallo stile che quella lingua sembrerebbe dover suggerire); il terzo fattore, infine, è quello - da Guido M. Gatti sostenuto ad Empoli con calorosa animazione - che la nazionalità musicale di Busoni, ammesso che ne sia possibile la netta identificazione, è un problema di gran lunga meno importante di quello che si riferisce alla qualità dell'opera busoniana e al suo significato nell'ambito della storia musicale otto-novecentesca.
Il problema, si sa, è stato finora tutt'altro che esaurito (e forse non lo sarà mai, data l'estrema complessità e multi-linearità - tanto per rimanere ad una espressione cara al Busoni teorico - dell'evoluzione stilistica busoniana). Certo è che, per interessarsi fattivamente all'opera del nostro compositore, bisogna sgombrare il campo da pericolose pregiudiziali. Quando Duse per esempio afferma - come ad Empoli ha affermato - che Busoni oggi ci può anche interessare come teorico, ma non più come produttore di musica, la «Busoni Renaissance» ha tutta l'aria di sembrare un'operazione accademica, un'orazione funebre pronunciata distrattamente sulla tomba di una salma che si ha fretta di vedere sepolta. Se Busoni è un'appendice assai poco fruttifera del tardo romanticismo, che senso avrebbe cercarne i collegamenti con l'esperienza musicale del Novecento, sia pure attraverso i suggerimenti che le pagine teoriche del compositore propongono? Senza contare, poi, che anche nelle proposizioni teorico-estetiche di Busoni si possono leggere cose che non depongono certo a favore delle presunte propensioni rivoluzionarie del Nostro: per cui Duse, preoccupato forse di non abbandonarsi alle solite apologetiche esaltazioni del musicista, ha creduto bene di mettere sotto processo anche il Busoni foggiatore di teorie estetiche. In definitiva: ad un certo punto è sembrato che a Busoni non ne dovesse andar bene una: aveva sbagliato come compositore e aveva sbagliato come teorico. Il che è anche possibile, o perla prima, o per la seconda, o per tutte e due insieme le attività da Busoni praticate. L'indagine critica è fatta anche di stroncature feroci e di appassionate apologie e mai come oggi questo metodo è stato in voga. Ma nelle une e nelle altre c'è sempre un tocco di compiacimento all'assolutismo argomentativo che serve a ben poco, se non è aperto a successive aperture al confronto con le idee altrui (e perciò mi auguro che la passione polemica di Duse sia passibile di più pacati ripensamenti). Altrimenti il discorso è chiuso - e non soltanto per Busoni - e si continua a far la critica sulla scorta dei proclami e dell'affermazione categorica e non discutibile delle proprie opinioni: dopo di che può anche succedere che Tutti la vogliono di Paccagnini sia delegata a diventare il manifesto di una travolgente rivoluzione musicale e il Doktor Faust di Busoni a raffigurare il malinconico ripiegamento di un reazionario dell'esperienza musicale tardoromantica. Così come è potuto accadere per la produzione di Verdi, personaggio estraneo alle scottanti questioni degli anni correnti: quasi metà delle sue opere hanno potuto essere da una parte condannate con ferrea determinazione e dall'altra trasferite, con entusiastica passione. nell'Olimpo dei capolavori che non si discutono. E poi ci lamentiamo della mistica perentorietà della «rivoluzione culturale» nella Cina anno 1966!
Giovanni Ugolini
("Disclub" 22/23, anno IV, settembre-dicembre 1966)

giovedì, marzo 21, 2024

Gustav Mahler: Sinfonia n. 2 in Do minore, "Resurrezione"

Teatro Manzoni, Bologna- 4 febbraio 2024
«La cosa che colpisce di più in Mahler, a parte l'assoluta libertà della forma, è la ricchezza e la varietà dell'immaginazione. Non si possono pensare diversità più grandi di quelle che costituiscono le varie parti delle sue sinfonie. Varietà inesauribile, immaginazione prodigiosa: queste sono le prime impressioni che emergono da questa strana musica che una mano di ferro ha unito e combinato in un tutt'uno armonioso di elementi melodici, ritmici e armonici apparentemente incompatibili. Nel Prater si mescolano l'Ungheria e Praga. Anche la tecnica è variabile e sconcertante al massimo grado. [...] In ogni caso si può orgogliosamente affermare che fra tutti i sinfonisti dopo Beethoven, solo Mahler ha osato percorrere la strada dell'Ode alla gioia, e ha voluto continuare e sviluppare quanto Beethoven aveva iniziato, vale a dire un'arte sinfonica che fosse allo stesso tempo nazionale e universale». Questo scriveva sulle riviste «Monde musical» e «Comoedia» nel 1910 il primo e allora solo conoscitore italiano della musica di Mahler, Alfredo Casella.
Il compositore torinese che organizzò la prima esecuzione in Francia della Seconda sinfonia, diretta da Mahler, voleva presentare un'opera che doveva trovare accoglienza nel velenoso clima antisemita della Francia invischiata nelle tenebre dell'Affaire Dreyfus e superare l'ostilità di molti compositori francesi verso la nuova scuola tedesca rea di aver tradito Wagner e la sua tradizione beethoveniana (l'influente direttore della Schola Cantorum, il compositore antisemita e nazionalista Vincent d'Indy, proclamerà le sinfonie di Mahler “mostri musicali” che con la “smisurata lunghezza” cercano di nascondere “la povertà dell'invenzione” - chiara l'allusione ai cinque movimenti della Seconda e al suo organico enorme che prevede due soliste vocali, coro, fiati a 4, 10 corni e altrettante trombe, 6 timpani, grancassa, piatti e triangolo, 2 arpe, 3 campane, glockenspiel, organo).
Ancor più lungimirante la comprensione di Casella per la “sinfonia” mahleriana, vista come «libera da ogni laccio dogmatico, sufficiente in sé stessa, senza programma, senza teatro, né attori».
L'affermazione di Casella che si trattasse di musica “senza programma” era dettata dalla necessità di distinguere l'opera di Mahler dalla filiazione lisztiana che soprattutto in Francia fioriva fra i molti e importanti allievi di César Franck, capitanati da d'Indy e inserirla nel futuro aperto dal finale della Nona di Beethoven. Se da un punto di vista ideale la sua visione è comprensiva e corretta, non si può dimenticare quanto importante per la creatività di Mahler erano le esperienze musicali e di vita. Al critico Max Marschalk, il compositore rivelò di aver cominciato la Seconda sinfonia dove si era conclusa la Prima, vale a dire con il funerale dell'Eroe-Titano, «che io porto a seppellimento da un osservatorio più alto, raccolgo la sua vita come in un limpido specchio. E nello stesso tempo ci si pone la grande domanda: perché sei vissuto? Perché hai sofferto? È tutto solo un grande, atroce scherzo?».
Quando Mahler partecipò alla cerimonia funebre del grande direttore d'orchestra Hans von Bülow, morto nel 1894, ascoltò il coro accompagnato dall'organo eseguire un corale su testo di Klopstock “Auferstehen” (testo che Mahler inserirà aggiungendo anche versi propri nel Finale che evoca il Giudizio Ultimo e l'apoteosi della Resurrezione).
«Mi colpì come una folgore e tutto apparve limpido e chiaro alla mia anima! Chi crea attende questo lampo, è questo il sacro concepimento! L'esperienza che allora vissi, dovevo tradurla in suoni. Eppure se non avessi già portato in me quell'opera, come avrei potuto vivere tale esperienza? Così è sempre per me: soltanto se vivo un'esperienza, compongo; soltanto se compongo, la vivo!».
Pur ritenendo il poema sinfonico un'espressione logora e imprecisa, Mahler in occasione di una ripresa della Seconda sinfonia a Dresda scrisse un “programma” illuminante per la comprensione di questa colossale sinfonia-vita: «Primo movimento: Allegro maestoso [Mit durchhaus ernstem und feierlichem Ausdruck - con espressione assolutamente seria e solenne]. Siamo accanto alla bara di una persona amata. Ripercorriamo col pensiero ancora una volta, tutta la sua vita, le sue lotte, le sue sofferenze e i suoi successi. E ora, in questo momento grave e profondamente commovente, in cui ci liberiamo come di una benda davanti agli occhi di tutto quello che nella vita ci distrae e ci degrada, una voce di solenne maestosità calma il nostro cuore, una voce che, accecata dal miraggio della vita quotidiana, di solito ignoriamo: “E poi?”, ci domanda. “Cosa è la vita e cosa è la morte? Vivremo per sempre? È solo un sogno disordinato o la nostra vita e la nostra morte hanno un significato?". Dobbiamo rispondere a questa domanda, se vogliamo continuare a vivere. I successivi tre movimenti sono concepiti come intermezzi. Secondo movimento: Andante moderato [Sehr gamächlich - molto comodo]. Descrive un momento di beatitudine della vita del caro estinto e un mesto ricordo della giovinezza e della sua innocenza perduta. Terzo movimento: Scherzo [In ruhig fliessender Bewegung - con movimento tranquillo e scorrevole]. Uno spirito di incredula negatività lo ha colto. È sconcertato dal trambusto delle apparenze e perde la sua percezione dell'infanzia e la profonda forza che solo l'amore può dare. Dispera di sé stesso e di Dio. Il mondo e la vita cominciano a sembragli irreali. Un profondo disgusto per ogni forma di esistenza e d'evoluzione lo afferra come una mano di ferro, tormentandolo fino ad un grido disperato. Quarto movimento: a-solo del contralto “Urlícht” [Luce primigenia - Sehr feierlich, aber schlicht, Choralmässig - molto solenne, ma con semplicità, come un corale]. Le semplici parole emozionanti della fede risuonano nelle sue orecchie: “Io vengo da Dio e a Dio tornerò! Il buon Dio mi darà una piccola luce che illuminerà la strada che porta alla vita eterna e beata!". Quinto movimento: Auferstehung (Resurrezione) [Im Tempo des Scherzo. Wild herausfahrend - Selvaggiamente. Allegro energico. Langsam - Lento. Misterioso]. Ancora una volta dobbiamo affrontare domande terrificantí, e l'atmosfera è la stessa della fine del primo movimento. Si sente la voce di Colui che chiama. La fine di ogni essere vivente è giunta, il giudizio finale è a portata di mano e l'orrore del giorno dei giorni è piombato su di noi. La terra trema, le tombe si aprono, i morti sorgono e marciano in processione senza fine. Il grande e il piccolo della terra, i re e i mendicanti, i giusti e gli empi, procedono senza fine. [...] I nostri sensi ci abbandonano, la coscienza muore mentre si avvicina il Giudizio finale. L'ultima tromba suona; le trombe dell'Apocalisse squillano. Nel silenzio inquietante che segue possiamo a malapena sentire un lontano usignolo, ultima eco tremante della vita terrena. Si sente il dolce coro di santi e falangi celesti: “Risorgerai, sì, risorgerai”. Allora compare Dio in tutta la sua gloria: una luce meravigliosa, soave, ci penetra nel cuore. Vedi, tutto è tranquillo e beato. Non c'è giudizio e non ci sono peccatori, non ci sono giusti, non ci sono grandi né piccoli, non c'è punizione né ricompensa. Un sentimento d'amore travolgente ci riempie di conoscenza beata e illumina la nostra esistenza».
In momenti di tragici conflitti come gli attuali che insanguinano ancora il Medio Oriente, tornano in mente, come viatico per un futuro che riprenda quanto i padri fondatori dello Stato di Israele sperarono, le parole che Leonard Bernstein scrisse nel 1967 eseguendo con la Filarmonica di Israele, Jennie Tourel e Netanya Davrath, la Seconda sinfonia di Mahler sul monte Scopus (nella parte nord orientale di Gerusalemme, dove si trovava il Monte degli ulivi): «Il concetto di Resurrezione era importantissimo; dopo tutto questa terra era letteralmente rinata. L'antico ciclo di paura, distruzione e rinascita continua e si riflette nella musica di Mahler [...]. Sono particolarmente commosso che questa riaffermazione della fede abbia luogo su questa montagna di Gerusalemme, una città che oggi è unita e in pace - una città di nuove iniziative, ospitale e affascinante e dalle infinite possibilità. Questa città d'oro, Gerusalemme, può diventare un modello per il mondo - un microcosmo di coesistenza interetnica. È troppo sperare che questa crescita si possa diffondere a tutta la regione e oltre, anche al mondo? Perché no?».
Giovanni Gavazzeni
(Programma di sala: Bologna, 4 febbraio 2024)

lunedì, marzo 11, 2024

Bruno Walter & Anton Bruckner

Bruno Walter (1876-1962)
Riflessioni intorno a un disco di Bruno Walter.

Su Bruno Walter si sono dette e scritte tante cose, sicché i fatti inediti sono ormai retaggio di private memorie, di ricordi personali. Quando egli venne informato della esistenza in Italia di una iniziativa a favore di Bruckner, non esitò a rallegrarsene e a incoraggiarci con equilibrate parole, non dettate dalla circostanza, bensì da un'affettuosa partecipazione che non si fermò nell'ambito di una singola lettera, ma si diffuse con tono sempre cordiale in un epistolario che tengo molto caro, segnato alla fine di ogni anno dal puntuale scambio degli auguri rituali. Egli aveva già fatto molto per Bruckner, noi eravamo agli inizi. Nell'opera comune di diffusione della musica del maestro austriaco, egli s'imponeva con la pacata autorità della sua arte e del suo umanesimo, noi con le armi affilate della persuasione e dell'insistenza. Era sufficiente che uscisse un disco da lui inciso per imporre l'attenzione e proporre conversioni. Si sentiva dire anche dai più retrivi che se Walter dirige Bruckner quest'ultimo è degno di essere ascoltato.
Bruno Walter come del resto Furtwaengler e Hindemith suoi conterranei, arrivò tardi a Bruckner, come egli stesso confessò. Fu in seguito ad una malattia. La forzata immobilità, il raccoglimento indisturbato in se stesso lo ricondussero a quel musicista che, sì, conosceva, ma che gli era stato quasi sempre estraneo. E fu allora che "il velo si apri davanti ai suoi occhi" per usare le sue stesse parole. Da allora Walter non perse mai occasione per farlo conoscere e lo dichiarò anche pubblicamente, confermando nei suoi scritti la sua totale adesione al messaggio spirituale del maestro austriaco. Si può dire che negli Stati Uniti, Walter fu il primo ad eseguire Bruckner in modo sistematico. Forse il suo amore per questo musicista non fu soltanto la risultante di un ripensamento o di una revisione delle proprie idee proposta da una maturità raggiunta e superata. Le radici dovevano essere ben più profonde. Egli era stato discepolo e amico di Gustav Mahler e da questi assorbì quella sensibilità e quel gusto che dominavano il mondo musicale viennese nel quale Bruckner rappresentava l'anello di congiunzione tra tardo Ottocento e Mahler, che dello stesso Bruckner fu allievo, amico ed interprete. Per questo il messaggio bruckneriano filtrò in Bruno Walter mediato da Mahler, manifestandosi come illuminazione improvvisa, ma a distanza di tempo poiché inconsciamente germinava in lui. Tuttavia Bruno Walter seppe scindere esattamente i valori dei due musicisti a lui cari, i quali, per certi aspetti, erano radicalmente dissimili, per non dire addirittura opposti, sebbene gl'influssi che Bruckner esercitò sul boemo siano chiaramente palesi e possano ricondursi ad una visione mistica del mondo comune ad entrambi, ma risolta in modi differenti se prescindiamo per un attimo dalla mancanza di una cultura specifica in Bruckner e dall'eccesso di essa in Mahler.
Bruno Walter seppe fare di Bruckner e di Mahler due creazioni distinte, due mondi differenti, proiettando in ciascuno di essi una luce unica e di eguale intensità, guidato in ciò dalla sua straordinaria saggezza umanistica. Nelle sue mani Bruckner diventava più vero senza modificarsi. Egli nulla aggiungeva o toglieva. Egli lo restituiva sempre nuovo, ma intatto. E per questo le sue interpretazioni facevano testo. Egli si poneva di fronte alla musica con tutta umiltà, come un sacerdote che officia un rito, conscio e quasi sopraffatto dalla importanza della mediazione che egli rappresentava tra il testo scritto e la sua realizzazione sonora. La cura che egli poneva nei dettagli non gli faceva perdere di vista la concezione unitaria di tutta l'opera. i dettagli non erano frammenti, ma luce che vivificava l'opera, l'alone complessivo. E nelle sue mani le sinfonie di Bruckner diventano quelle che in realtà erano: grandi templi lirici, poemi epici. Ove gli altri incespicavano, egli camminava sicuro, con passo leggero, cantando. Tutto diventava naturale sotto la sua bacchetta, anche i passaggi più difficili.
Le sue interpretazioni del Te Deum e della Quarta Sinfonia, mi avevano spronato a richiedergli una esecuzione definitiva della Settima che, allora, consideravamo un po' come il nostro pane quotidiano, la sinfonia che i critici concordemente giudicavano più equilibrata. Non che le altre non lo fossero, ma nella Settima tale equilibrio risultava più evidente e faceva presa sul pubblico più impreparato senza richiedergli sforzi soverchi. Questa sinfonia fu anche oggetto di un nostro studio (1) che fu ampiamente diffuso in virtù della popolarità che quest'opera si era guadagnata in Italia grazie ad un film per il  quale era stata scelta a commento sonoro dietro suggerimento di Suso Cecchi d'Amico (2). Verso la fine del 1960, nell'inviare a Bruno Walter copia del nostro volumetto, scrissi chiedendo la sua autorizzazione a tradurre un suo libro su Mahler, nonché una prefazione per una nostra pubblicazione, prefazione che egli stese nell'estate successiva e di cui lesse la traduzione, approvandola. in calce alla mia lettera aggiunsi un audace post-scriptum con cui esortavo il maestro a curare la registrazione della Settima Sinfonia di Bruckner. Pur sapendo che Bruno Walter aveva la più ampia facoltà di scelta del repertorio da incidere per la Columbia, non è che mi facessi soverchie illusioni nel proporgli la registrazione della Settima. Non ignoravo che Walter si era da tempo ritirato dal podio per ordine del medico e si dedicava alle registrazioni con una certa cautela per non affaticarsi, data l'età e i disturbi che lo affliggevano. Nonostante questo, la risposta non si fece attendere: essa è datata 23 Dicembre 1960 e conclude con queste precise parole: "Sto leggendo con interesse la vostra guida alla Settima Sinfonia di Bruckner. Registrerò questo lavoro nei prossimi mesi. Cordiali saluti a lei e a tutti gli amici dell'associazione e Buon Anno a tutti. Sinceramente suo, Bruno Walter".
Il mio primo impulso sarebbe stato di scrivergli subito non solo per ringraziarlo, ma anche per segnalargli talune incongruenze alle quali gl'interpreti di questa Sinfonia si lasciavano andare soprattutto nel Trio dello Scherzo, privandolo, con l'adozione di tempi affrettati, della sua cantabilità e dello straordinario giuoco di luci ed ombre, di aperture e chiusure. Avrei voluto scrivergli: "Per favore, Dr. Walter," "lo faccia lento quel Trio!". Ma come si fa ad insegnare il mestiere a chi lo conosce fin troppo bene? La mia era la stessa presunzione coraggiosa del pulcino che passeggia sul dorso del leone.
Ora Walter non c'è più, ma ci ha lasciati con una promessa mantenuta: i dischi della Settima Sinfonia che ancora una volta perpetuano la sua memoria e i suoi insegnamenti. A questo punto nessuno si sorprenderà se io, succube della mia curiosità generata da premesse non realizzate, ha iniziato l'ascolto di questa registrazione dal Trio e non dal primo movimento. Ed eccolo uscir fuori lento, anzi, lentissimo! Ecco le cinque battute introduttive del timpano che scandisce un ritmo tutto beethoveniano (semiminima - semicroma - semiminima) derivato dal tema dello Scherzo enunciato dalla tromba. Infatti quel ritmo altro non è che la terza battuta di quel tema. Poi la melodia in 10 battute esposta dagli archi in un lirico cantabile (Bruckner ha segnato «gesangvoll»). Non è senza commozione che ho potuto constatare ancora una volta la grande intuizione interpretativa di Bruno Walter che ha fatto di questa sinfonia un grande tempio lirico di cui si diceva poc'anzi. E che dire del resto? Basta ascoltare le prime battute del primo tempo (allegro moderato) e il tema ascendente esposto dal corno e dai violoncelli all'unisono col sottofondo discreto del tremolo degli archi, per avere già un'idea chiarissima di ciò che dovrà venire dopo, di ciò che Bruckner e Bruno Walter ci riservano. Anche l'Adagio (molto solenne e molto lento) scritto nella previsione della morte di Wagner si colloca su uno stesso livello dinamico. Walter ha voluto collegare i due movimenti in una sola proiezione unitaria, giacché il primo reca già un'anticipazione del clima introverso e contemplativo del secondo (lettera I a lettera L). ln quest'ultimo affiorano gemme nascoste, come se la  bacchetta di Walter fosse quella di un prestigiatore. Chi ha mai avvertito lo sfregamento di un «si» un po' assassino enunciato solo dai violini primi alla ripresa del primo tema (lettera G)? Produce un effetto dissonante che gli altri probabilmente hanno cercato di nascondere, eppure Walter lo tira fuori e lo valorizza. E il giuoco secondario dei violoncelli e delle viole, riempimenti quasi impercettibili del canto che riposa su una nota un po' più lunga? Tutto è chiaro, solare.
Lo Scherzo e il Finale inaugurano la seconda parte della Sinfonia, visto che i primi due movimenti sono trattati da Bruno Walter come una sola entità. Il ritmo incalzante dello Scherzo punteggiato dal famoso tema della tromba da taluni autori paragonato al canto del gallo, sembra scacciare definitivamente le malinconie della Trauermusik del precedente Adagio, mentre il Finale (Mosso, ma non presto) è una proposta di semplicità. Strano a dirsi, in questo movimento Bruckner abbandona la forma tritematica a lui cara, puntando sul tema principale che, come nel primo tempo, viene introdotto e sostenuto da un lungo pedale in tremolo. La notevole concentrazione del contenuto musicale trova solo momenti di stasi nelle proposizioni corali realizzate perloppiù dagli ottoni. Anche qui Bruno Walter ha saputo equilibrare magnificamente le varie compagini strumentali, ottenendo un suono rotondo e corposo, oltre ad essere perfettamente intonato.
Non si è detto nulla della storia di questa sinfonia, storia lunga e penosa. Anche qui si potrebbero richiamare gli intrallazzí di Brahms e di Hanslick i quali giunsero persino ad ideare una pubblica protesta allo scopo d'impedire che la sinfonia venisse eseguita in Vienna. Sì, perché il grande successo di questo lavoro arrise a Bruckner in terra straniera ad opera di Arthur Nikisch (che era stato suo allievo a Vienna) che la eseguì per la prima volta a Lipsia nel Dicembre del 1884 ad un anno di distanza dal suo definitivo completamento. Alla storia e al destino di questa opera abbiamo già dedicato uno studio specifico al quale, forse un po' immodestamente, vorrei rinviare il lettore che desideri approfondire l'argomento. In questa sede ho preferito trattare soprattutto il lato interpretativo e la grandezza dell'interprete. Vorrei aggiungere che questi due dischi tecnicamente non sono da meno. Giusto equilibrio dinamico, giusta riverberazione dell'ambiente. Nella versione stereofonica, la sinfonia guadagna ancora di più, grazie all'allargamento del fronte sonoro che conferisce al lavoro un maggior senso di spazialità. Si tratta di una esecuzione difficilmente superabile. Grazie, Bruno Walter.
Edward D. R. Neill
("Disclub" 9, anno II, luglio 1964)
(1) «Guida alla Settima Sinfonia» Genova, 1960.
(2) «Senso» di Luchino Visconti.

venerdì, marzo 01, 2024

Adrian Leverkühn e Arnold Schönberg

Arnold Schönberg (1874-1951)
Tutti sono d'accordo nel ritenere irreperi
bile (anzi, inesistente) la vera identità di Adrian Leverkühn, protagonista del Doctor Faustus di Thomas Mann: cercare, tuttavia, di affiancarlo idealmente al musicista cui, per varii motivi, la stesura «musicale» del romanzo dovette di più [Arnold Schönberg), potrà servire egregiamente da stimolo: a) per cercare di chiarificare alcuni aspetti culturali del medesimo Schönberg; b) per individuare la possibilità di sopravvivenza di quella parte della cultura tedesca che cercò di continuare a esistere al di qua del gesto di definitiva rottura operato dagli espressionisti; che cercò di sviluppare, rendendolo «mondiale», il filo del germanesimo bruciatosi nell'orgia infernale di cui il nazismo rappresentò la «logica» fase finale: parte della cultura tedesca personificata, va da sé, da Thomas Mann.
Schönberg proviene dalla linea Wagner-Strauss, che ha vissuto intensamente, che ha accolto come sostrato, nella quale si è gettato aggiungendo, con le sue opere giovanili - Notte trasfigurata, Gurrelieder, Pélleas, ecc. -, ancora un mattone al tremendo edificio costruito dalla precedente cultura musicale: Tamino, Max, Florestano, Sigfrido, Parsifal: «eroi ascendenti» e formanti, attraverso un'aspra dialettica, un edificio armonico che, benevolmente ed esemplarmente autonomo in Bruckner, avrebbe generato, successivamente, una terribile e autosufficiente consapevolezza del tutto priva di quella forza auto-negatoria che, unica, le avrebbe impedito di cadere nel superomismo elevato a regola di vita, nel nazismo. Schönberg visse tutto questo. Anche lui, arrampicato sulla maculata piattaforma di un'armonia che si fa già risolta visione del mondo, aveva iniziato a costruire il suo edificio pangermanico, anche lui era un orgoglioso figlio del suo secolo, della sua cultura.
Adrian studia teologia. Il suo avvicinamento a una disciplina così - thomasmannianamente, diciamo - ambigua, è il primo atto dello sfacelo finale, è lo scorgere, chiarissimi, i limiti del tutto; è uno sfidare i potenziali residui di una visione trascendente minata; è il dimostrare, attraverso la distruggente ironia, che l'uomo cosciente venuto dopo il romanticismo, sa tutto, vede tutto, non può mettersi in marcia perché, affrontare un iter dialettico avendo già chiare le successive fasi, significa fare opera inutile. Adrian, attraverso l'op. 111 di Beethoven, ha toccato col dito il fondo delle cose della cultura, ha scorto, nella sublime disgregazione sonatistica del grande musicista, un atto di resa di un mondo che, ormai discoperto, avrebbe potuto dare, in seguito, solo soddisfazioni parziali, solo palliativi «estetici»: belli, stupendi, ma, a confronto dell'immane problematica uomo-universo, glissanti, mistificatorii.
Il contatto, mediato dalla fondamentale figura di Mahler, fra Schönberg e l'espressionismo, rappresenta il tragico punto di rottura del superomismo ascendente del musicista. Coartato in una stretta dialettica che spostava la visione di quel mondo all'esterno, che aboliva, cioè, le leggi univoche dell'eroe post-Wagneriano, la poetica del primo Schönberg si affloscia come un pallone. È sufficiente considerare realisticamente la rappresentatività sociale di quella musica, e la sua statica essenza al di qua di ogni divenire dialettico, per generare, nel musicista, un secco rifiuto. Non è argomento di questo scritto il vagliare analiticamente tutte le componenti dell'espressionismo schönberghiano: preme soltanto mettere l'accento sull'ipersaturazione culturale del musicista, maturata a contatto con determinate esperienze, sofferta e non sviluppata come retaggio di un'educazione precocemente consumata sull'arco di una visione la cui totalità è potenzialmente antica, potenzialmente consumabile sulla cresta del risultato di qualsiasi grande impennata di un singolo nella storia dell'umanità [si pensi solo a un problema simile - simile a quello di Thomas Mann - impostato, da Hermann Broch, sulla figura del poeta romano Virgilio Marone: La morte di Virgilio). Cosa questa che s'è visto, toccò ad Adrian con Beethoven.
L'iter umanistico di Thomas Mann non passò mai - è noto - attraverso l'espressionismo. Giunse, però, a una fase cruciale in cui il recupero dell'«uomo», attraverso la vigile e rinnovata presenza di se stesso e in se stesso, si presentava non già impossibile, ma pericolosa e proclive a precipitare nello aberrante monolita nazista. Leverkühn è lontano da questi estremi non già perché li riconosce come sintomo di una cultura fattasi pericoloso e ambiguo patrimonio comune, ma per innato distacco dal popolare. Se la musica successiva all'op. 111 di Beethoven altro non era stato che un riempimento di piccoli e inessenziali vuoti lasciati scoperti dall'autore del Fidelio, un riempimento che aveva generato e confermato la cultura di una nazione, come avrebbe potuto interessare la posizione di chi si opponeva al facile e previsto decorso di tale andamento produttivo, di chi individuava, in una cultura estesa a tutti, la piattaforma dalla quale si sarebbe levato il bestiale atto di padronanza del mondo, e che, intanto, confermava l'avvilimento del progresso del singolo: la posizione, insomma, dell'espressionista?
Sapere dell'essenziale vacuità di tutti i prodotti successivi all'op.111, ma, al tempo stesso, studiarli, far convivere la forza naturale per l'indagine e per l'assimilazione, col perenne e diabolico sorriso dell'ironia superatrice  Leverkühn, al momento del suo esordio produttivo, è già estenuato: i suoi lavori, sia pur «belli», sono, come vedremo, un atto di sfiducia nella società: non già per protesta, ma per costituzionale incapacità di credere.
È ipotesi coraggiosa, ma affatto accettabile, quella che considera la fase espressionistica schönberghiana (e anche berghiana e weberniana) un momento di rottura e di incandescente presenza immediata nel mondo, determinato dal desiderio di reincanalarsi nel filone più profondo della cultura idealistico-borghese, di quella cultura di cui, una volta soddisfatte tutte le impellenze etiche circa la conquista di una posizione nell'universo, il momento più vero era quello del cantare, del costruire, del rivendicare, con un fare eroicamente dialettico, l'umanità del soggetto, la sua positiva dignità, la sua posizione centrale nel cosmo. E Schönberg negando, nel suo momento espressionistico, la visione del mondo di quella borghesia, della borghesia del suo tempo, si era reincanalato in un'astrazione di essa, in una sua promanazione che, aboliti i vincoli spazio-temporali (il linguaggio come discendenza fruibile da parte di quel pubblico; il suo trasferimento in America], ricostruiva i proprii presupposti di umana dignità con dei metri nuovi non solo per la loro essenza grammaticale (dodecafonia), ma per la diversa - e nettamente, necessariamente ed eroicamente nuova - posizione di consumo che implicavano. Sempre, ripetiamo, al fine di recuperare l'attenzione, la facoltà intellettuale, creativa e ricettiva, dell'uomo.
Adrian, partendo dal medesimo presupposto di consumo, dalla medesima difficile (e contro natura, data l'essenza, di allora, della «natura») fruibilità dei metri dodecafonici, a essi si ancora. Pare appassionarsi alla cosa, pare perdere la sua eterna ironia, pare avere superato costruttivamente il momento negativo in cui la musica si era ridotta a mero «calore vaccino». Ma ecco il demonismo creatore arrestarsi al momento negatorio, ecco il suo sforzo creativo assumere, sempre più nettamente, sotto gli occhi atterriti dell'amico Zeitblom, le caratteristiche della negazione cosmica, ecco, di nuovo, la tremenda ironia emergere: e, stavolta, definitivamente acquietata. Il suo prodotto nega i vincoli semantici con la società: è un atto di «demonismo negatore» che procede, in un terreno reso scivoloso dal decadere dello «spirito» hegeliano al rango di materia «dolciastra» e capace solo di generare tronfi atti superomistici, con le stesse armi dell'irrazionalismo romantico: reso, un tempo, possibile dalla disponibilità del pubblico, dalla sua verginità. Un irrazionalismo che scansa, per innata boria, l'unica possibile strada, e cioè quella della pacata ponderatezza thomasmanniana. quella dell'amore, quella del silenzioso recupero del materiale umano salvabile, potenzialmente, dal decadere dell'hegelismo al rango di superpotenza d'origine nietzscheana. Un irrazionalismo, invece, che procede nella sua strada fondamentale serbando mostruosamente chiari i suoi presupposti d'azione e riservando la forza del demonio per l'imposizione della sua posizione, dei suoi contenuti, dei suoi insanabili contrasti con la mentailtà del momento.
Mentre Schönberg enuncia una nuova fase limpidamente creativa, si resta inorriditi dinanzi a ciò che ha compiuto Adrian: dinanzi a questa sua negazione dei vincoli che uniscono l'uomo all'altro uomo, dinanzi alla sua visione retroattiva della fine della società, dinanzi alla sua demitizzazione dell'umanità.
Se si pensa alle componenti schopenhaueriane (il mondo può giustificarsi esteticamente) e a quelle kantiano-hegeliane (posta la razionalità del cosmo, l'uomo la deve cantare: quindi, attraverso la sua opera, ricostruire eticamente) interagenti nella formazione di Thomas Mann, si comprenderà bene l'immensa portata mostruosamente negativa del «suo» Adrian: demistificatore dell'«incanto» estetico e, quindi, vanificatore del necessario iter etico che, agli inizi del '900, abbiamo visto necessariamente caratterizzato da una sorta di silenzioso e faticoso «contegno» umanistico.
E proprio là dove - come ci siamo sforzati di dimostrare, sia pure a grandi linee - la figura di Schönberg si differenzia nettamente da quella dell'infelice Leverkühn, possono generarsi dei contatti di grande momento. Va da se che il discorso non isola le figure del musicista vero e del musicista immaginario nella loro realtà totale, ma tende ad allacciarle al loro ambiente, a confonderle, persino, con delle loro negatività più o meno potenziali. Così Leverkühn è anche Zeitblom, anzi, addirittura, ora, Thomas Mann: in base a quel rapporto creatore-creatura che rende questa - al pari della figura d'artista «sano» vagheggiata da Nietzsche: e ben lungi dall'esaurirsi nel buon Bizet! - un prodotto tutt'altro che vivente e agente di per sé; così Schönberg, sia pure in base a ben altre considerazioni più o meno alla sua portata, è il futuro, un futuro che Thomas Mann vide e che noi, oggi, conosciamo ancor meglio.
Punti di contatto, a dispetto dell'azione meravigliosamente umanistica di Schönberg, e di quella diabolicamente disgregatrice di Leverkühn; punti di contatto che, proseguendo idealmente la «storia» del Doctor Faustus, evidenziano Serenus Zeitblom dinanzi al suo Adrian e ai successori di Schönberg: dinanzi alla consapevole e ormai statica negazione di quello e alla dialettica di questi: a una dialettica che, smarriti i presupposti di comunitarietà tipici della civiltà europea e di quella tedesca in particolare, prendono, da Schönberg e da Adrian (ora uniti), i moduli di una vivisezione linguistica, li sviluppano senza il conforto della comunicazione, e proseguono sentendo sempre più debolmente l'impellenza del costruire, e subendo sempre più fortemente l'ansia dello scavalcare. E, tutti, partendo dal rifiuto del «calore vaccino» della musica. Non solo, ma ormai privi della coscienza umanistica di Zeitblom; rimasto, al di qua dell'agone arte-vita, a far da spettatore, a versare inutili e forse malintese lacrime, ad approfondire il baratro esistente fra quelli che capiscono piangendo, quelli che non capiscono, e quelli che hanno ormai  secchi gli occhi.
Thoman Mann, grande umanista, negò - s'è detto - L'espressionismo nel senso che non diede seguito personale all'azione di protesta deformatrice del linguaggio tipica non solo degli espressionisti storici, ma anche, se intesa come processo di reazione all'alienazione borghese del linguaggio, di tutta l'avanguardia successiva. Trovo in sé, Thomas Mann, le forze adatte a reagire al mondo, facendo appello a un determinato patrimonio. E non sono assenti le conseguenze creative di tale sua mancanza di contatti con l'espressionismo. L'ultimo suo lavoro - il Felix Krull - «risponde», in un certo qual modo, ai problemi del Doctor Faustus additando una possibile nuova civiltà: non da crearsi, ma da cogliersi disponendo se stessi nella condizione più adatta a rigenerare il «racconto», l'«idillio», la «commedia». America e Unione Sovietica: una polivocità sostenuta da un grande e prontissimo entusiasmo sul punto di affrancarsi definitivamente dalla tabe europea: oppure Zdanov, vagheggiato (ma non so fino a che punto) in quell'enorme «centro-sinistra» mondiale che lo stesso scrittore accennò in altra sede.
È questo, forse, il motivo per cui Thomas Mann consumata, potenzialmente, in Leverkühn, tutta la tragedia dell'arte moderna, anche la figura - singolarmente ottimistica - di Schönberg viene ad assumere un rilievo parimenti negativo. La «scuola», anche intesa come scambio di direttive etiche, la sua scuola avrebbe portato all'avanguardia di oggi, cioè alla messa in discussione della totalità europea.
È questo, forse, il motivo per cui Thomas Mann non riconobbe in Schönberg quel "salvatore" che - ripeto: singolarmente - era; questo il motivo per cui la sua figura, costituzionalmente tanto lontana da quella di Adrian, le si appaia nelle logiche continuazioni che ogni individuo responsabile è obbligato a fare.
Gianfranco Zàccaro
("Disclub 11, anno II, ottobre-novembre 1964)

martedì, febbraio 20, 2024

La IX di Mahler diretta da Solti

Di quello che per giudizio comune e con frase un po' scontata viene definito il "testamento spirituale" di Gustav Mahler, della
Nona sinfonia, cioè, son già reperibili sulla piazza discografica almeno due registrazioni che, in quanto a livello esecutivo, non temono confronto alcuno: ci riferiamo ai dischi di Bruno Walter e di Jascha Horenstein, da anni in commercio. Se vogliano, per onestà, escludere da ogni giudizio preventivo la recente incisione di Kubelik (che non conosciamo), poco ci resta che possa essere contrapposto a quelle due fondamentali letture. Poco, ma in questo "poco" occorre far rientrare la performance di George Solti, di cui qui ci occupiamo e che va giudicata, nonostante i suoi limiti, come uno dei più interessanti fatti dell'interpretazione discografica mahleriana di questi ultimi anni.
Segnalatosi frequentemente tra i più autorevoli direttori wagneriani e straussiani del nostro tempo, Solti non aveva, fin qui, dimostrato particolare propensione alla poetica mahleriana, che, del resto, nelle sue mani doveva per forza di cose stravolgersi in un ambito troppo personale per apparire veritiero. Per un concertatore avvezzo alla definizione di tematiche come quelle sopracitate, il passaggio a Mahler può rappresentare un vero e proprio salto nel buio; s'intende che non si vuol parlare di fenomeni qualitativi, potendo il direttore intelligente superare tale scoglio con facilità; quanto di possibilità di adesione concettuale a un etos, ad una cultura. In tal senso, le esecuzioni discografiche che Solti aveva fornito sinora di musiche mahleriane peccavano di un limite ben preciso: quello di considerare l'esperienza del musicista come strettamente aggregata proprio a quel mondo wagneriano che le è invece estraneo per disposizione naturale; e di fornirci, pertanto, splendide riproduzioni di un fenomeno non riproducibile e del tutto irrelato alla poetica originaria dell'interprete.
Particolarmente esemplificativa di questo stato d'animo e di questa sorta di tensione adialogica ci era parsa, a suo tempo, la realizzazione della Seconda sinfonia: esteriormente perfetta, lucidissima, prepotente, ma assolutamente estranea alle ragioni dell'Autore; quasi una propaggine di quella tematica wagneriana tanto cara a Solti, che fa pagare a caro prezzo a Mahler il dono di quella splendida magniloquenza, condannandolo al triste destino dell'epigonismo (è ovvio che, in tale prospettiva, fosse proprio il famoso Finale della sinfonia ad ergersi potente come un baluardo sonoro,  come capacità-limite di un dato mondo poetico, fino a cadere nell'inutile).
Nella prospettiva di una tale resa sonora, l'unico ancoraggio certo era, dunque, l'epigonismo, sia pure  ad uno smagliante livello. Merito di Solti appare, quindi, l'aver inteso, in questa Nona, i pericoli di  una visione del genere e di aver, conseguentemente,  dimostrato la capacità di afferrare il prosieguo logico di quell'esperienza nel totale superamento del Wagnerismo antecedente. «Totale» è forse un termine azzardato, d'accordo; e vedremo anche perché. Ma l'importanza di questa incisione mi pare nella capacità dimostrata dal concertatore di mutare l'angolazione prospettica nei riguardi del proprio oggetto di discorso: di rendersi conto, cioè, della necessità di rinnegare il criterio del livellamento dell'autore alla propria personalità. Operazione sempre deleteria e particolarmente indicativa di quel modus operativo che sembra oggi tipico degli interpreti espressi dall'attuale indirizzo tecnologico.
In tal senso, mi pare che questa concertazione  della Nona, comunque la si voglia giudicare sul piano della complessiva riuscita artistica, è ancora un fatto di cultura e non di consumo; un'operazione, dunque, da accogliere con la massima soddisfazione e con la speranza che la dialettica, in quanto entità di ricerca, non sia ancora da ammassare nel solaio delle esperienze dimenticate.
La definizione del cosmo sonoro tentata da Solti  nel I Movimento, Andante commodo, sembrerebbe invero convalidare l'ipotesi di una concertazione "epigonica", tanto arduo riesce al direttore strapparsi di dosso le voluttuose spirali di uno straussismo gonfio, abnorme, sincreticamente fossilizzato nell'acquisizione di una Veltannschauung proliferatrice di cellule malate. E sì che poche pagine come questo Andante commodo denunciano lo stato di  malattia cerebrale dell'Europa pre-bellica, di cui Mahler doveva fornire forse il ritratto più sconvolgente. Ma il punto è che in ogni momento di tale denuncia clinica, la morbosità del punto di partenza viene contestata e messa in discussione dal punto d'arrivo d'un razionalismo linguistico di allucinante esattezza. Lontano le mille miglia così dalla necrosi adialettica dello straussismo come dalle appendici tumorali dell'esperienza stilistica di Tristano.
Esperienza quasi irripetibile, questa; tale da farci guardare con una sorta di sospetto persino alle insospettate e indiscusse capacità «anticipatrici» della tematica mahleriana (quelle, è chiaro, che guardano direttamente all'Espressionismo e che Solti, in questo primo Movimento, sembrerebbe non aver afferrato nella sua interezza). Ciò ci porta, forse, a ridimensionare, per amor d'esattezza, l'ambito della nostra accettazione, come si diceva; e, tuttavia, per fortuna, i residui (patetici e pericolosi) dello straussismo soltiano si fermano qui. Quasi a suggerire  un'ipotesi che, per quanto azzardata sia, contiene in sé qualcosa di affascinante: che, nel lungo e doloroso commiato mahleriano dall'epopea tardo-romantica, il direttore ungherese abbia voluto insinuare il suo personale commiato da un modus di interpretazione,
Si diceva dell'elevatissima razionalità del procedimento linguistico di Mahler: essa trova, credo, proprio nell'Andante commodo della Nona la sua specificazione più netta; tanto più netta quanto più profetica, in maniera allarmante, di una liquidazione che coinvolge sia l'etos espressivo che la struttura stessa di tale formidabile pagina. È straordinario, infatti, come la saturazione dell'esperienza pre-espressionistica, che Mahler aveva già affermato dalla Quinta sinfonia e che aveva trovato la più perfetta emancipazione nella Settima e ne Il canto della terra, si stravolga qui nella fissità di prassi armoniche e ritmiche chiaramente anticipatrici, più che dell'atonalismo di Berg, addirittura dei nodi strutturali weberniani. E tutto ciò senza perdere la sua sconvolgente ambiguità; anzi, facendola, per ricchissimo contrasto dialogico, riemergere al livello di una prospettiva contestatoria e poliforme.
E' ovvio che tutto questo non ci riguardi per affermare le qualità profetiche del linguaggio mahleriano: lasciamo che vi si sbizzarriscano tutti coloro per i quali l'importanza di un compositore è determinabile in base alle influenze esercitate su altri. Qui è invece da stabilire proprio quel contrasto dialettico tra contenuti in liquidazione e strutture al cui livello essi vengono espressi, che mi pare il segno più profondo della grande inventiva dell'ultimo Mahler.
Di questo, che Luigi Rognoni ha chiamato un «arsenale di esperienze sonore» (tutto vi si mescola: politonalismo, scala pentatonica, ritmica frammentata, opposizione tra suoni gravi e acuti), Solti, si è detto, esplicita, in un certo senso le potenze ambigue. Ciò facendo garantisce alla pagina musicale un senso che ci pare estraneo alle più lineari e ortodossamente mahleriane concertazioni di un Walter e di un Horenstein: quello della compenetrazione degli opposti; una sorta di equivocità malsana, in cui, però, è possibile intravvedere la potenziale e, man mano, sempre più definita capacità di abbandonare l'enfatico straussiano iniziale in favore di una lettura più responsabile e svincolata dalla personalità.
Dalle battute iniziali cariche di turgore e scaturenti nel lancinante attacco I a piena orchestra al Finale del movimento, quella stupefacente «coda», in cui sembrano cadere ad uno ad uno tutti i puntelli del pericolante edificio armonico innalzato da Mahler, con estremo sacrificio, alla Secessione austriaca, per lasciare il posto a un filiforme ed irreale gioco contrappuntistico tra i legni, il corno e i contrabassi (batt. 376-390, «plötzlich bedeuten langsamer und leise»), Solti trova una misura conturbante di quello che sarà il suo futuro Mahler e lascia, dunque, un documento impreciso per equivocità ed eterodossia concettuale, ma, tuttavia, attraente nella sua discontinuità.
Questi i limiti più notevoli dell'esecuzione (limiti, come si è visto, riscattabili in virtù del potenziale istinto di rinnovamento, ma sempre limiti); poiché dal II Movimento in poi, reso con eccellente evidenza ritmica e giusta adesione intellettuale, il direttore mi pare imbrocchi la strada giusta, quella preparata attraverso i conati dell'Andante commodo; sino alla splendida conclusione dell'Adagio, che viene presentato in prospettiva fonica attanagliante: di una cupezza quasi livida, macerante, più drammatica che patetica, forse, in una visuale lontana dalle letture storiche mahleriane, ma non per questo meno indicativa del suo travaglio psichico ed intellettuale.
In conclusione, un Mahler di tutto rilievo, anche se discutibile; ma forse proprio per questo. Attendiamo ora da Solti quella lettura della Settima che ancora manca al nostro bagaglio di esperienze mahleriane (la vecchia incisione di Rosbaud è troppo difettosa tecnicamente per poter servire da pietra di paragone con l'ideale interpretazione che ci siamo formati nella mente). Ci sembra che il suo nuovo modus mahleriano  possa autorizzare l'attesa.
La Decca ha servito il suo direttore con una registrazione impeccabile, al più alto livello di resa sonora, tale da inserirla tra le sue più riuscite produzioni commerciali. Un plauso anche per l'elegante presentazione dell'astuccio e per le note alla Sinfonia, una volta tanto realizzate con serietà d'intenti e non nella consueta maniera approssimativa e pasticciona cara ai collezionisti di dischi (del resto, la firma è di Deryck Cooke e ciò mi pare basti).
Aldo Nicastro
("Disclub" 26, anno VII, marzo-aprile 1968)