Ferruccio Busoni (1866-1924) |
Quando nel 1905 Busoni scelse come argomento per la sua prima opera teatrale un racconto di Hoffmann, intuì per il primo quanto vi fosse in comune tra lui e lo scrittore-musicista tedesco. Questo comune denominatore può essere chiaramente indicato con un'espressione che la critica letteraria ha adottato per designare la singolare problematica di uno scrittore italiano del nostro secolo: si tratta precisamente dell'espressione «realismo magico», e cioè di una definizione che, come tutti sanno, è stata, a suo tempo coniata a beneficio di Massimo Bontempelli. Ora se ci sono una produzione letteraria e una produzione musicale alle quali si addice tale definizione, queste sono appunto la produzione letteraria e musicale riferibili ai nomi di Hoffmann e di Busoni; l'uno e l'altro impegnati, e come si sa non soltanto nel caso della «Sposa sorteggiata», a cogliere nella realtà della vita quei caratteri che sono tanto più realistici quanto meno sembrano esserlo. Da qui il grottesco, il sovrannaturale, la caricaturale deformazione della realtà comune che consentono di assumere il vero e l'autentico al di fuori della banalità del documento veristico o delle mistificazioni di un irrazionalismo programmaticamente sprovvisto di qualsivoglia rapporto con la realtà.
Questo ricorso al grottesco risultò essere, e per Hoffmann e per Busoni, un'operazione non soltanto artisticamente valida, ma anche storicamente tempestiva: essendosi trovati, tanto il letterato quanto il musicista, a vivere in epoche nelle quali il ricorso all'epica era addirittura impensabile (se non nei termini della più superficiale retorica); quando invece l'ironia e il grottesco potevano agevolmente esercitarsi sopra una realtà tutt'altro che eroica e dinamica. Se questa affinità tra Hoffmann e Busoni è certificata anche dallo specifico incontro che si realizzò fra i due a livello della «Sposa sorteggiata», va subito rilevato che tale maniera di concepire il rapporto dell'arte con la vita giocò a sfavore dello scrittore e musicista quasi in eguale misura: e anche questa incomprensione presso i contemporanei - la pedina che apparentemente non partecipa al gioco come diceva Kafka! - è rimasto un dato comune ai due creatori d'arte. Per Hoffmann si arrivò, nel secolo scorso, alle più contrastanti valutazioni (valutazioni dei professionisti dell'arte, ben inteso, perché dal punto di vista del successo popolare Hoffmann poteva sempre contare sul pubblico delle bettole berlinesi a beneficio del quale improvvisò buona parte dei suoi racconti). Goethe, tanto per incominciare, riteneva che la produzione hoffmanniana fosse del tutto al di fuori della realtà: fosse cioè un campionario di «superlunarische Sprünge» di «salti superlunari», di fantasiose fughe dalla concretezza. Al contrario: per i letterati del secondo Ottocento (specie per quelli della Germania che dopo gli ardori rivoluzionari del 1848 puntava verso gli approdi del più marcato disimpegno ideologico), per questi letterati, dunque, Hoffmann era sterilmente improduttivo perché troppo legato ad una realtà non sufficientemente trasfigurata; opinione, codesta, del tutto condivisa, ma in senso positivo, da Carlo Marx, prima, da Gyorgij Lukàcs più recentemente (il che è ovvio, se si pensa che il satirico mordente delle narrazioni hoffmanniane, per nulla mistificato od oscurato da fantasiosi «salti superlunari», era fatto per dare soddisfazione a Marx quanto per dare fastidio ai protagonisti dell'irrazionalismo tardoromantico).
Il caso di Busoni è analogo, per quanto a distanza di un secolo circa dal caso Hoffmann e sul piano di un linguaggio avente caratteristiche ben differenziate da quelle del linguaggio letterario. Per quello che riguarda il giudizio dei contemporanei la situazione del compositore Busoni si presenta anche peggiore di quella toccata in sorte ad Hoffmann. È noto che, da vivo, Busoni ebbe molti riconoscimenti come pianista ma fu quasi del tutto ignorato come compositore, specialmente in Italia. Per cui su Busoni compositore si possono raccogliere a centinaia non tanto i giudizi sulla sua arte, quanto le testimonianze sulla scarsa circolazione della sua musica. A parte il caso di Arrigo Boito e di Anton Rubinstein che furono tra i primi a riconoscere il non dubbio talento del nostro, la «Busoni Renaissance», se così vogliamo chiamarla, seguì un processo lento e ancor oggi tutt'altro che definitivo. In Italia, in particolare, la musica di Busoni ebbe vita stentata; e altrettanto stentato fu il processo di rivalutazione critica: del quale va in grandissima parte riconosciuto il merito a Guido M. Gatti e alla «Rassegna Musicale» da lui diretta (e infatti tra le pagine della citata rivista troviamo, oltre a singoli articoli dedicati a Busoni un numero speciale a lui dedicato). L'attività pioneristica di Guido M. Gatti risulta anche, sul piano della diffusione della musica busoniana, in un articolo di Gui che figura, per l'appunto, nel numero speciale della «Rassegna Musicale» datato al 1940. «Che Ferruccio Busoni fosse anche un compositore di musica» scriveva Gui in quell'articolo «fino a qualche tempo fa la più gran parte degli italiani ignorava perfettamente, e parecchi ancora oggi purtroppo lo ignorano; che egli occupi poi un posto altamente importante nella storia della composizione italiana, credo che sia ancora da rivelare; questo io sto tentando di fare da parecchi anni, insieme con un esiguo ma energico gruppo di musicisti e musicologi nostri, primo fra tutti Guido M. Gatti, col quale fin dal 1926, quando insieme dirigevamo quel Teatro di Torino che in breve spazio di vita richiamo tanta attenzione da parte di tutti gli ambienti musicali europei e americani, dedicammo a Busoni compositore parte di programmi sinfonici, con la collaborazione del più grande discepolo e amico del Busoni stesso, il pianista Egon Petri...».
Ma quali furono le ragioni che, due anni dopo la morte del musicista, fecero sì che l'opera di rivalutazione iniziata da Gatti e da Gui dovesse avere, soprattutto in Italia, il carattere dell'assoluta novità? Alcune di queste ragioni erano di ordine casuale; la fama di grande interprete nuoceva al Busoni compositore, così come a Mahler compositore ebbe a nuocere la fama di grande direttore d'orchestra. Ma le ragioni prime dell'insuccesso «mondano» - se così si può chiamarlo - di Busoni, furono, a mio parere, d'ordine stilistico: condizionate, cioè dalla provocatoria novità di linguaggio e d'espressione della musica busoniana. Già nel periodo 1905-1912, e cioè nel periodo in cui fu composta l'opera Die Braatwahl, Busoni batteva una strada solitaria e in gran parte contrastante con le tendenze dominanti nella produzione musicale di quegli anni: le quali, tanto per dare qualche esempio, avevano, come capisaldi ufficialmente riconosciuti, lavori come L'uccello di fuoco di Strawinski (anno 1910); Petruska, ancora di Strawinski (anno 1911); Elektra di Richard Strauss (anno 1909); i Cinque Orchesterstücke op. 16 di Schönberg (anno 1908); La fanciulla del West di Puccini (anno1910). A parte il caso Schönberg, rispetto a cui il busoniano principio della mobilità polifonica si sintonizza con una prospettiva musicale allora peraltro assai meno diffusa di quelle riferibili ai nomi di Strawinski, Strauss e Puccini; a parte questa singolare convergenza, bisogna riconoscere che la problematica compositiva di Busoni era del tutto estranea all'evoluzione musicale allora ufficialmente in corso: estranea, in particolare, sia al prezioso decadentismo dei tardoromantici francesi, sia all'estroversa turbolenza gestuale dell'opera straussiana, sia alla passionale pianificazione stilistica del teatro musicale verista, sia a quel nuovo classicismo che di lì a pochi anni avrebbe dominato le vicende internazionali della musica (nuovo classicismo, giova subito sottolinearlo, che avrebbe assunto caratteristiche in gran parte nettamente differenziate da quelle proposte da Busoni: il quale per «nuovo classicismo» intendeva - come si legge in una nota lettera a Paul Bekker sull'argomento - «il dominio e lo sfruttamento di tutte le conquiste di esperienze precedenti: il racchiuderle in forme solide e belle»; senza pretendere, quindi, utopistici ritorni allo stile della musica preromantica e senza rifiutare il patrimonio dell'esperienza musicale immediatamente precedente).
Già dall'epoca della Sposa sorteggiata, Busoni è quindi praticamente contro tutti e tutto. Contro «la musica a programma» tipica dei poemi sinfonici alla Strauss. Contro la Wagneriana melodia infinita, alla quale Busoni preferisce, come si legge nel Saggio su di una nuova estetica della musica del 1905, «la formula dell'opera antica, che abbracciava in un pezzo chiuso lo stato d'animo ottenuto con una scena drammaticamente movimentata e poi lo lasciava esaurirsi nell'aria». Contro l'opera verista: perché, affermava Busoni, «la parola cantata sul palcoscenico rimarrà sempre una convenzione e un ostacolo per ogni veridico effetto»; ritenendo quindi «che il cosiddetto verismo italiano» (sono ancora parole di Busoni) «sia insostenibile sulla scena». Contro l'armonia verticale-parallela e a favore, nei fatti oltre che nella teoria, di strutture musicali «polifoniche e multi-versali». Contro l'usuale contrapposizione dissonanza-consonanza, e a favore di quella emancipazione della dissonanza che la mobile impalcatura della busoniana «polifonia multi-versale» riesce effettivamente a produrre in non pochi episodi della Sposa sorteggiata e del Doktor Faust (episodi nei quali l'ambiguità tonale è favorita dalla non percettibilità dei singoli rapporti d'intervallo, assorbiti dall'irrequieta proliferazione polimelodica del discorso musicale).
Questa polemica ricerca della propria individualità, il compositore Busoni la ha perseguita, come i testi delle sue musiche documentano, con la perseveranza dell'instancabile esploratore di nuove frontiere linguistiche ed espressive. Ma, nel passaggio dalla teoria alla pratica, può essere riconosciuta a Busoni la piena attuazione del suo programma estetico? Non del tutto: perché l'intera produzione musicale, e in particolare quella operistica, di Busoni, rimane quasi costantemente divisa tra l'aspirazione ad una mozartiana chiarezza delle strutture e la messa in opera di quella «musica assoluta», di quel polifonico sfaccettarsi del materiale sonoro che condurranno la fantasia musicale del nostro compositore sul terreno di un'esperienza assolutamente inedita. Sotto questo aspetto Die Brautwahal e il Doktor Faust, contrariamente a quanto avviene nella assai meno problematica prospettiva di Arlecchino e di Turandot, portano il segno di numerose contraddizioni: e anche questo squilibrio riesce in definitiva a rendere produttivo il significato artistico dei citati lavori. I modelli dei quali - taciuti o dichiarati che siano - sono contemporaneamente Falstaff e i Meistersingers, l'Otello e il Parsifal. Le costruzioni omofone-parallele vi coesistono con la polifonia «multi-versale»; i tormenti decadentistici vi si alternano alla «neutralità» quasi astratta dell'espressione (nelle pagine d'argomento amoroso, in particolare, dove Busoni, evidentemente, teneva d'occhio i pericoli delle cadute sentimentalistiche quando addirittura non le metteva, come fece nel Doktor Faust, fuori causa); le più scoperte contrapposizioni fra apertura della dissonanza e chiusura della consonanza vi si mescolano con episodi dove la concitazione del discorso musicale e la multi-linearità polifonica toccano il vertice dell'ambiguità tonale.
Questa tormentata - e tutt'altro che futile od occasionale - prospettiva di Busoni riesce, come ho già detto, a fare della Sposa sorteggiata e del Doktor Faust due prodotti artistici tra i più notevoli del secolo in corso; tra i più dinamicamente aperti ad una trasformazione criticamente e storicamente consapevole del linguaggio musicale. Per cui, per concludere, non si può fare a meno di affermare, con Luigi Dallapiccola, che «nessun motto si addice di più a Ferruccio Busoni uomo e artista che la frase di Hölderlin: «Wir sind nichts; Was Wir suchen ist alles» ovvero «Noi siamo nulla; ciò che cerchiamo è tutto».
Proprio sul significato della «ricerca» busoniana si sono avute, in un recente dibattito tenutosi ad Empoli (8 settembre 1966), discordi valutazioni. Si è cominciato con il discutere se la «ricerca» musicale di Busoni avesse un carattere «italiano» o «tedesco»: italiano, secondo Rattalino, tedesco secondo Duse e Rognoni. In effetti, il problema è abbastanza intricato: non tanto, a mio parere, per il fatto che Busoni abbia formato la propria cultura in quel di Trieste o in paesi di lingua tedesca, quanto per il fatto che la sua stessa produzione musicale partecipa alternativamente a due ben differenziate e non sempre conciliabili prospettive. Per cui da una parte abbiamo il Busoni della Sposa sorteggiata e del Doktor Faust,opere per le quali Duse ha avuto effettivamente buon gioco ad affermare che chi scrive musica per un libretto tedesco appartiene di diritto alla cultura tedesca; dall'altra parte abbiamo il compositore di Turandot e di Arlecchino, e qui la struttura operistica e il linguaggio musicale dei testi appartengono di diritto all'area culturale dell'opera italiana, e questo indipendentemente dalla lingua adottata per il libretto originale e dai dati biografici che ci può offrire il cosmopolitico itinerario dell'uomo e del musicista Busoni. Ma il problema è poi tanto importante? Se lo è, non bisogna dimenticare a questo proposito tre speciali fattori: il primo riguarda la difficoltà di mettere in chiaro la più che intricata biografia del musicista provvedendo a porla in relazione - là dove è possibile - con l'evoluzione stilistica del medesimo; il secondo si riferisce al valore tutt'altro che definitivo di prove come quelle addotte da Duse a sostegno della qualificazione «tedesca» della musica di Busoni (ad esempio: l'uso di una determinata lingua per un libretto ha certamente la sua importanza; ma è una prova indiziaria che, se non è sostenuta dalle debite corrispondenze di natura propriamente musicale, non basta a chiudere l'argomento: le Nozze di Figaro e le Vepres Siciliennes - per non parlare delle molte partiture contemporanee che usano testi in lingue diverse da quella nativa del compositore - sono lì a dirci quanto la base linguistica non sia sempre confermata dai fatti musicali, spesso tutt'altro che condizionati dallo stile che quella lingua sembrerebbe dover suggerire); il terzo fattore, infine, è quello - da Guido M. Gatti sostenuto ad Empoli con calorosa animazione - che la nazionalità musicale di Busoni, ammesso che ne sia possibile la netta identificazione, è un problema di gran lunga meno importante di quello che si riferisce alla qualità dell'opera busoniana e al suo significato nell'ambito della storia musicale otto-novecentesca.
Il problema, si sa, è stato finora tutt'altro che esaurito (e forse non lo sarà mai, data l'estrema complessità e multi-linearità - tanto per rimanere ad una espressione cara al Busoni teorico - dell'evoluzione stilistica busoniana). Certo è che, per interessarsi fattivamente all'opera del nostro compositore, bisogna sgombrare il campo da pericolose pregiudiziali. Quando Duse per esempio afferma - come ad Empoli ha affermato - che Busoni oggi ci può anche interessare come teorico, ma non più come produttore di musica, la «Busoni Renaissance» ha tutta l'aria di sembrare un'operazione accademica, un'orazione funebre pronunciata distrattamente sulla tomba di una salma che si ha fretta di vedere sepolta. Se Busoni è un'appendice assai poco fruttifera del tardo romanticismo, che senso avrebbe cercarne i collegamenti con l'esperienza musicale del Novecento, sia pure attraverso i suggerimenti che le pagine teoriche del compositore propongono? Senza contare, poi, che anche nelle proposizioni teorico-estetiche di Busoni si possono leggere cose che non depongono certo a favore delle presunte propensioni rivoluzionarie del Nostro: per cui Duse, preoccupato forse di non abbandonarsi alle solite apologetiche esaltazioni del musicista, ha creduto bene di mettere sotto processo anche il Busoni foggiatore di teorie estetiche. In definitiva: ad un certo punto è sembrato che a Busoni non ne dovesse andar bene una: aveva sbagliato come compositore e aveva sbagliato come teorico. Il che è anche possibile, o perla prima, o per la seconda, o per tutte e due insieme le attività da Busoni praticate. L'indagine critica è fatta anche di stroncature feroci e di appassionate apologie e mai come oggi questo metodo è stato in voga. Ma nelle une e nelle altre c'è sempre un tocco di compiacimento all'assolutismo argomentativo che serve a ben poco, se non è aperto a successive aperture al confronto con le idee altrui (e perciò mi auguro che la passione polemica di Duse sia passibile di più pacati ripensamenti). Altrimenti il discorso è chiuso - e non soltanto per Busoni - e si continua a far la critica sulla scorta dei proclami e dell'affermazione categorica e non discutibile delle proprie opinioni: dopo di che può anche succedere che Tutti la vogliono di Paccagnini sia delegata a diventare il manifesto di una travolgente rivoluzione musicale e il Doktor Faust di Busoni a raffigurare il malinconico ripiegamento di un reazionario dell'esperienza musicale tardoromantica. Così come è potuto accadere per la produzione di Verdi, personaggio estraneo alle scottanti questioni degli anni correnti: quasi metà delle sue opere hanno potuto essere da una parte condannate con ferrea determinazione e dall'altra trasferite, con entusiastica passione. nell'Olimpo dei capolavori che non si discutono. E poi ci lamentiamo della mistica perentorietà della «rivoluzione culturale» nella Cina anno 1966!
Giovanni Ugolini
("Disclub" 22/23, anno IV, settembre-dicembre 1966)
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