Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

martedì, aprile 21, 2020

Alberto Arbasino: è lui il rosenkavalier...

Alberto Arbasino (1930-2020)
Per capire il rapporto di Alberto Arbasino con la musica e “soprattutto con il teatro musicale – dice al Foglio il grande critico Mario Bortolotto – bisogna andare alle prime pagine dell’‘Anonimo lombardo’”. Sono quelle in cui il protagonista racconta all’amico Emilio il coup de foudre per “un Giovin di capelli nerissimi e largo di spalle”, intravisto alla Scala alla prima della “Medea” di Cherubini, con la Callas diretta da Bernstein (correva l’anno 1953). E’ già chiaro, dice Bortolotto, “che quel Giovin ci sta, e che sarebbe subito disposto a passare alle vie di fatto. Ma l’Anonimo, pur tentato, non può assolutamente perdersi la Callas, per niente e nessuno al mondo. Lui è lì soprattutto per lei, e non si muove dal teatro prima della fine”. Se non bastasse, ecco la nota 14 al testo del racconto: “E quel coro di Argonauti mi piaceva da matti, me lo sono subito imparato per inserirlo tra le melodrammatiche marce che mi fanno morire”.
Nell’“Anonimo”, insomma, c’è una dichiarazione di vero amore intellettual-carnale per il mondo dell’opera, che si esprime – come lo stesso Arbasino spiega nella Cronologia all’inizio del primo volume del Meridiano Mondadori che raccoglie i suoi romanzi e i suoi racconti – attraverso “il revival epocale del gusto per l’opera lirica, e dei suoi libretti allora disprezzatissimi, come se non avessero fornito un repertorio di citazioni appropriate in ogni situazione per la nostra cultura borghese ottocentesca: con la stessa funzione del Romanzo e della Poesia nelle altre società europee”.
Nessun dubbio, allora, sul fatto che “è il melodramma – dice Bortolotto – la grande passione estetica e caratteriologica di Arbasino. Per lui quella passione è anche un alibi, perché si applica alla cosa più lontana possibile dal mondo in cui viviamo. Il melodramma è ‘reazionario’ nel senso più totale. In un senso che vuole sfuggire a tutti i vincoli, i fastidi, le beghe che infestano il mondo contemporaneo, e ti consente di rifugiarti nel castello incantato nel quale sei anche il primo castellano. La lingua in cui sono scritti i libretti d’opera è sempre stata lontana dalla realtà. Nessuno ha mai parlato la lingua dell’‘Ernani’ o della ‘Norma’. Il Conte di Luna, nel ‘Trovatore’, a un certo punto dice: ‘Ah, l’amor l’amore ond’ardo’. Nessuno capiva, e così, nella traduzione popolare, è diventato l’‘amore è un dardo’. Si cantavano le arie così come si recitavano le giaculatorie in latino, con la stessa inconsapevolezza e la stessa partecipazione. Tutto questo piace infinitamente ad Arbasino. Gli piace il melodramma come forma di realismo magico: si narrano cose possibili e, a un certo punto, con una specie di giro di vite, si entra in una dimensione incantata”. Non a caso, tra tutte le affinità letterarie possibili che riguardano Arbasino, Bortolotto nota “quella con Ariosto, ‘le donne, i cavalier, l’armi e gli amori’: soprattutto cavalieri e amori, in Arbasino, se ne trovano fin che se ne vuole”.
Bortolotto si rammarica di non aver visto i due allestimenti di opere liriche messi in scena da Arbasino: la “Traviata”, nel marzo del 1966, al Cairo (“in piena età Nasser e in assoluta economia”, racconterà Arbasino) e la “Carmen” di Bizet al Comunale di Bologna, nel 1967. Si favoleggia ancora di quando Arbasino, “nella ‘Carmen’, fece indossare al torero Escamillo una maglietta con una E, come fosse stato uno sportivo di oggi. Doveva essere molto divertente”. E se Bortolotto dovesse rintracciare una parentela arbasiniana con un musicista in particolare? Se Arbasino fosse un compositore, insomma, che tipo di compositore sarebbe? Bortolotto risponde che “sarebbe la soluzione a molti problemi aperti che temo siano destinati a rimanere tali. Vale a dire che sarebbe il musicista rappresentativo di almeno una generazione. Nel tempo che va dalle ‘Piccole vacanze’ a oggi, non è emerso nelle lettere nessuno di lontanamente paragonabile a lui. Arbasino, che pure con tanta frequenza si occupa di teatro musicale, non potrebbe certo scrivere come Bellini, come Verdi o come Donizetti. In lui è fondamentale, secondo me, la presenza di Stravinskij. Vale a dire un compositore estremamente brillante e divertente, anche quando scrive composizioni sacre o di rimpianto per la vecchia Russia. Mancherebbe invece, in Arbasino, la parte elegiaca di Stravinskij, ogni tanto affiorante in questo esule che, dopo la rivoluzione, aveva capito che in Russia non sarebbe mai più tornato. Mentre ci sarebbe la capacità di inglobare qualsiasi dato la musica abbia offerto fino a oggi e di trasformarlo, riportandolo a una prospettiva completamente diversa”.
Un Arbasino compositore, prosegue, Bortolotto, “confermerebbe la totale mancanza di impegno, grazie al cielo. E, nonostante tanto melodramma e tanto Spoleto, in lui non ci sarebbe niente di particolarmente italiano. Penso a uno dei personaggi di ‘Fratelli d’Italia’, Klaus, un compositore. Il quale deve qualcosa al vero compositore Hans Werner Henze, che da sempre abita in Italia – ora ha più di ottant’anni – prima a Ischia e ora a Marino, e che ha scritto anche cinque lieder napoletani, ‘Fünf neapolitanische lieder’. Arbasino non scriverebbe certo cose popolari ma piuttosto maliziose e sfottenti. Sarebbe il compositore che vorremmo esistesse e che non c’è. Qualcuno che è passato vicino all’espressionismo tedesco, a Schönberg e ai suoi allievi, con rispetto ma stabilendo anche una distanza senza limiti. Se fosse un compositore, insomma, Arbasino sarebbe il primo vero compositore postmoderno, il primo per cui questo termine così abusato potrebbe avere un senso”. Per Bortolotto, infatti, “di postmoderni in giro non se ne vedono. C’è solo il più triste ‘modernoso’. Il vero postmoderno dovrebbe aver imparato, assimilato e inglobato tutto, per diventare altro rispetto al già noto”. Si capisce, allora, l’entusiasmo di Arbasino per “L’angelo di fuoco” di Prokoviev, alla cui prima mondiale (alla Fenice di Venezia, il 14 settembre del 1955) lo scrittore assistette, nelle sue “vacanze post-laurea”, come lui stesso rievoca nella Cronologia del Meridiano. Spiega Bortolotto che Prokoviev “prende per il bavero le figure magiche del racconto di fate russo e le trasforma in tutt’altra cosa: in suore prese da raptus erotico che ululano sul palcoscenico, per esempio. Arbasino si sarà divertito moltissimo, e magari le avrà paragonate a quelle monache che lui dice cattivissime, e che affollano la sua famiglia, sia nel ramo paterno sia in quello materno”. Un Arbasino compositore userebbe poi “tutti gli strumenti oggi a disposizione di un’orchestra, ne aggiungerebbe probabilmente altri e agirebbe in piena libertà. Come hanno tentato di fare, a volte meravigliosamente, musicisti come Richard Strauss, molto amato da Arbasino. Nel ‘Rosenkavalier’, per esempio, siamo in una Vienna settecentesca. Eppure Strauss immette nell’orchestra vampe di valzer, cioè un tempo musicale che nella realtà sarebbe arrivato un secolo dopo l’epoca del racconto. Arbasino potrebbe fare la stessa cosa, se fosse compositore. La fa, da scrittore, portandoci a spasso attraverso diversi tempi ed epoche nelle stesse pagine. Avrebbe continuamente riscritto e aggiunto, e non si sarebbe negato nessuno strumento esotico”.
Inaudita freschezza, tono generale rallegrante: “Chi si è mai avvilito al mondo leggendo Arbasino?”. Per questo, continua Bortolotto, “se dovessi dire qual è il tempo musicale prevalente in Arbasino, direi che bisogna contemplare tutte le danze possibili. Tempo di valzer, tempo di minuetto, rondò: ogni forma ciclica, che torna sempre sui suoi passi, è una forma arbasiniana. Come Ravel, Arbasino può parlare del Madagascar come della monarchia francese, come delle danze medioevali. Non si tratta di copiare ma di rivivere, e Arbasino è capace di farlo, di trasformare e trasfigurare”. Si capisce anche così la predilezione per Richard Strauss, “perché lì c’è il glorioso passato”. E si condivide la voluttà con cui Arbasino, in “Marescialle e libertini”, stronca gli stroncatori del ‘Rosenkavalier’. I quali, scrive, “si sputtanano con ‘pietas’ non disgiunta da ‘horror’, man mano che quelle stronzate storiche e ridicole si riesumano nelle imprudenti sillogi postume”.
Bortolotto dice che proprio il ‘Rosenkavalier’ è l’opera che più gli sarebbe piaciuto vedere e commentare con Arbasino in prima mondiale (avvenuta nel 1911, a Dresda, troppo presto per entrambi): “Quando entra in scena il protagonista, Octavian, una specie di arcangelo con la sua rosa d’argento in mano – il ruolo è interpretato sempre da una donna, un contralto – non si può fare a meno di pensare: ecco il giovane Arbasino”.
Nicoletta Tiliacos
("Il Foglio", 3 Novembre 2009)

domenica, aprile 12, 2020

Critici buoni, critici cattivi...

Si è parlato a lungo, sulle riviste specializzate di musicologia, di un personaggio amato, odiato, vezzeggiato, maltrattato: il critico. Egli è l'intermediario fra la musica e l’ascoltatore, colui che è chiamato a spiegare, a raccontare, a interpretare con parole il linguaggio delle note. Ci sono stati autorevoli interventi, ai quali vorremmo aggiungere un nostro modesto contributo.
Sgombriamo il terreno dalle battute facili. Che cos’è, in fondo, un critico musicale? Direi che in primo luogo è un uomo di cultura, cui è affidato il compito non facile di capire il presente, indicare il futuro e talvolta rivisitare con mezzi più moderni il passato. Aggiungerei che oggi la sua competenza non può essere esclusivamente musicale, ma che gli è necessaria una grandissima quantità di informazioni in ogni settore della vita pubblica e privata. Un’altra sua qualità deve essere l’intuizione, l’estrema capacità di sintesi, ciò che lo qualifica, in ultima analisi, come un ”artista”.
Quando si parla di critici, nella società di oggi, ci si riferisce in particolare ai giornali, ai quotidiani. Il dialogo che si apre su questi mezzi di comunicazione deve tener conto di un pubblico di lettori (molti o pochi, non importa) che è molto diverso dal passato. Coloro che fruiscono della musica non sono in generale degli specialisti, ma delle persone che desiderano sapere, che vogliono confrontare le loro reazioni con quelle di un esperto, che hanno bisogno di indicazioni chiare e motivate. Per la maggior parte di queste persone non c’è nulla di scontato, al di fuori di vecchie abitudini tradizionali. Esse hanno il piacere della musica, ma vogliono sapere i perché del loro piacere (e anche del loro non-piacere).
Per costoro il critico non è un oracolo, o un profeta che vive in una dimensione irreale, ma uno scrittore che svolge un servizio. Come in tutte le discipline artistiche, è necessario che tale seruizio sia generoso, e fondamentalmente non partigiano. La realtà è un dato di fatto che non può essere mai trascurato.
In tale dimensione il compito del critico risulterà forse meno glorioso, ma certo assai più utile. In fondo, che cosa si chiede al critico, al di là della normale routine? Proviamo a stendere una specie di dodecalogo;
1) sapere capire le novità, valutarne la durata nel futuro, motivarne i valori;
2) non essere schiavo del nuovo, allo stesso modo in cui è vietato amare soltanto il passato;
3) sapere rispondere a tutti i perché di una creazione, di una esecuzione, di una interpretazione, e quindi possedere il quadro culturale in cui situare il proprio giudizio;
4) avere il gusto della scoperta, per quanto riguarda le composizioni e gli interpreti; e quindi avere una buona carica profetica;
5) possedere sempre e comunque quella dote che si chiama curiosità, anche di fronte alla centesima visione dell’Aida o al millesimo ascolto della Nona Sinfonia;
6) avere anche la capacità di divertirsi, e di non considerare la musica soltanto come una benedizione dello Spirito Santo, ciò che implica una disponibilità anche ad ascoltare Il bel Danubio blu suhito dopo Mantra di Stochhausen;
7) saper evitare l’estasi inutile, e ricondursi sempre alla verità, poiché l’estasi è di pochi e la verità universale;
8) cercare sempre le radici culturali di un'opera o di un autore, né l'una né l'altro sono fuori dalla storia e dalla società;
9) cercare la chiarezza, pensando che il lettore non deve essere costretto a inventare quello che c'è dietro alla critica;
10) sapere vedere, oltre che sentire, la musica, e offrire punti di riferimento che possano essere senza troppa fatica ricevuti da chi legge;
11) visto che la musica è avanzata sul piano della modernità, usare un linguaggio contemporaneo anche nello scrivere.
Un dodicesimo punto è edonistico: riguarda la soddisfazione di avere capito, di avere previsto, di avere compreso, e di riceverne, da se stessi o dagli altri, completa gratificazione.
Un buon critico dovrebbe anche avere il coraggio, non solo di essere libero, ma anche di ammettere i propri sbagli e i propri errori. Un pessimo critico, invece, va a rimorchio dei potenti, e si appropria delle scoperte degli altri. E' certo più facile lodare i geni e non curarsi di quelli che potranno esserlo domani: è l'esatta riproduzione di quel modo commerciale di vivere e giudicare che non favorisce lo sviluppo dell'arte.
Un buon critico non deve essere soltanto un recensore, ma anche un divulgatore: è giusto quindi che faccia degli interventi prima dell'avvenimento, ma è sbagliato pensare che la recensione sia uno strumento superato e inutile. L'anticipazione è astratta, la recensione è "live". E poi, perché penalizzare gli interpreti non parlando di loro?
Non c'è bisogno di spiegare che cosa "non deve" fare il critico: ogni buon padre di famiglia, come dicono gli antichi, ha un suo codice di comportamento. Il peggiore elemento è il vile prezzolato, così come l'ignorante, l'accidioso, il frustrato. E' meglio, visto che le virtù civili non sono poi così diffuse, che il critico non faccia anche il compositore, o l'interprete. Sono molto rari i musicisti che sanno scrivere...
Ma ciò che mi sembra importante, è che il critico deve aiutare - è un obbligo sociale - il progresso della musica, in un periodo storico come il nostro in cui la musica conquista nuovi spazi e nuovi pubblici. Ma come? Privilegiando il buono e il bello, evitando fughe in avanti che si rivelano dannose a tempi brevi, usando severità e consensi nel modo più equilibrato e onesto, difendendo le proprie scelte oggettivamente, ovvero in quanto giuste.
Solo così avrà rispetto e ammirazione. Da un critico giusto se non sei d'accordo con lui, perché sai che li motiva, li giustifica, li sostiene, e che un elogio avrà lo stesso peso, la stessa validità. Non si pretende l'infallibilità, ma l'onore. Il resto non conta; sono parole vuote, e scritti che non lasciano traccia.
Mario Pasi
("Rassegna Musicale Curci", anno XXXIII n. 3 - dicembre1980)

sabato, aprile 04, 2020

Quirino Principe: Musica e filosofia (7/14)

Perché tutti godono del ritmo, del canto, e in generale della musica?
Non è forse perché noi godiamo per natura dei moti conformi a natura?
Lo dimostra il fatto che ne godono i bambini appena nati.
ARISTOTELE, Problemi di musica, 921 a.

MUSICA E SPAZIO
Settima parte.
 
Museo di Capidomonte
(Scalone Esagonale)
Ci siamo domandati, nella precedente puntata di queste indagine, dove sia la musica. Né puerilità né semplificazione: la domanda va presa alla lettera. Anche i filosofi più radicati in una visione metafisica del reale non possono evitare un dato immediato della coscienza: la musica avrà pure la sua fonte in un sopramondo o in un antimondo, o esisterà magari una musica-archetipo sulla quale la musica sensibile è modellata, ma la musica dell'uomo, fatta dall'uomo e per l'uomo, è hic et nunc, in questo mondo dell'esperienza materiale presente ai sensi che sembra proprio essere l'unico mondo assegnato al pensare e all'operare umano. Esiste uno spazio corporeo, e la musica è in questo spazio.
Ma che cos'è lo spazio? Si potrebbe scrivere una storia della filosofia indagando fra le risposte date a questa domanda. Il passo aristotelico in exergo è la visione di un filosofo "antico", ma formalmente è al centro della filosofia, è il punto d'arrivo di un percorso già lungo secondo le ragioni della logica, non secondo le ragioni del tempo storico e rettilineo, dal momento che due secoli - quanti ne corrono dalle formule orfiche al maggior discepolo di Platone - sono di fronte alla realtà cosmica assolutamente nulla quanto sarebbero nulla diecimila anni. La musica, sottintende Aristotele, è movimento la cui misura è il tempo, e il movimento "conforme a natura" non può attuarsi se non nello spazio fisico. Detto questo, quasi tutte le idee sono state pensate, quasi tutti i giochi sono fatti. Si è detto che gli autentici percorsi del pensiero, circolari e non rettilinei, male si adattano alla rappresentazione storicistica della filosofia secondo il prima e il poi, in cui il post hoc è per diseducativa abitudine scambiato per un propter hoc. La connessione logica tra diverse definizioni dello spazio segue spesso un itinerario rovesciato rispetto a quell'astrazione che è il tempo rettilineo e storico, ed è sorprendente ma indubbio che proprio l'Occidente, intriso di storicità, abbia sviluppato un pensiero in cui molte formule trovano compimento in enunciati più antichi. Fra le visioni che legano lo spazio alla natura della musica, la più complessa e onnicomprensiva è nella filosofia occidentale quella esposta da Platone nel finale della Politeia; le speculazioni medievali, soprattutto quelle di Tommaso d'Aquino o della scuola di Chartres, sono dell'enunciazione platonica più premesse che postille. A sua volta, per quanto sembri irriverente il dirlo, l'analisi critica di Kant sembra preparare il terreno all'estetica dell'aquinate o di Chartres, poiché, malgrado la drastica dissimiglianza di linguaggio e di forma mentis, sgombra il campo da problemi preliminari.
Una celebre antinomia kantiana coinvolge direttamente la concezione della musica. Se lo spazio, pure immenso, è finito, la musica è una realtà d'incalcolabile ampiezza e di inconcepibili possibilità, ma delimitata; una gigantesca architettura di suoni entro confini forse inavvicinabili ma certi. Se lo spazio è infinito, anche la musica è infinita. Com'è noto, gli oppositori di Kant hanno sempre addebitato un errore al filosofo del criticismo: lo spazio kantiano è forma a priori dell'intuizione sensibile, ed è teorizzato come un "prima" rispetto alle cose intuite dall'esperienza. Il razionalismo contemporaneo alla Kritik der reinen Vernunft, e più tardi, con particolare irritazione polemica, il neotomismo, hanno osservato ripetutamente che non esiste uno spazio vuoto di oggetti, poiché soltanto gli oggetti esistenti generano, con il loro esistere, i rapporti di distanza e di volume, e quindi lo spazio è un "poi", un'astrazione che compendia in un termine le relazioni tra le cose sensibili. Otto anni dopo la prima edizione del grande libro kantiano, Johann Schulz, predicatore alla Corte del re di Prussia e professore ordinario di matematica all'Università di Königsberg, pubblicò la sua Pröfung der kantischen Kritik der reinen Vernunft (Hartung, Königsberg 1789), in cui commentava la definizione di Kant: "Lo spazio è il sentimento esteriore (äußere Empfindung) dell'esser-fuori-l'una-dall'altra (Äußereinanderseyn) delle sostanze". Schulz osservò: "Sarebbe superfluo ricordare per l'ennesima volta che la rappresentazione dell'esser-fuori-l'una-dall'altra presuppone già la rappresentazione dello spazio. Eccoci dinanzi a un circolo vizioso. E aggiungo: quale senso esteriore ci fornisce questo 'sentimento', come lo chiama Kant? Per ogni tipo di sentimenti o sensazioni di ciò che è esterno a noi è chiamato in causa un particolare organo di senso. Ma lo spazio è completamente diverso da tutte le sensazioni che noi riceviamo mediante i nostri cinque sensi. Esso, in quanto puro spazio indipendente dagli oggetti che in esso si collocano, non si può vedere, né udire, né toccare, né assaporare, né odorare" (pp. 153-154).
Quindi, secondo gli orientamenti antikantiani, inclini a una concezione finita della realtà spaziale, lo spazio di per sé non genera suono, né rapporti misurabili tra i suoni. Sono le cose sensibili che, generando lo spazio con il loro proprio ed effettivo esistere, generano anche il suono, le distanze, i rapporti tra grandezze, le misure. Negli enunciati, in verità, Kant non risolve l'antinomia finito-infinito, e lascia problematica la decisione. Ma è indubbio che date le conseguenze culturali tutte indirizzate verso l'infinito, secondo il corso del pensiero romantico, malgrado l'apparente equilibrio antinomico mantenuto da Kant, la tesi di uno spazio infinito è la più destabilizzante e nuova, la più insidiosa per la concezione teologica tradizionale. La visione dell'infinito favorisce la centralità dell'Io-penso kantiano e della Ichheit fichtiana che in gran parte ne deriva; è la strada che conduce all'Idea autocreatrice di Hegel, e ne sono coinvolti il soggettivismo di Jean Paul, l'es muß sein beethoveniano e la coppia schumanniana Eusebius-Florestan.
Nello spazio finito, scelto come tesi di battaglia soprattutto dall'opposizione cattolica a Kant, la musica predilige i contorni formali, la fedeltà alla "forma" e al "genere", la struttura matematica, le leggi "razionali" dell'armonia. Supporre lo spazio infinito significa privilegiare inevitabilmente lo spazio interiore, non misurabile ed estensibile ad libitum, e la musica più espressiva che non formale, in cui ogni composizione tende a farsi forma e genere a sé. La grande controversia che nel secolo XIX anima il fiero dissenso di un Hanslick contro Berlioz, Liszt e Wagner ha le sue radici anche nel mondo con cui storicamente viene frantumata l'antinomia kantiana finito-infinito.
La vivacità della controversia nel campo dell'estetica musicale è parallela all'asprezza della polemica contro l'infinito kantiano, che dagli anni in cui la Kritik der reinen Vernunft sommuove il pensiero occidentale si protende fino al decennio in cui muore Schumann. La durezza degli attacchi è sospinta dalla coscienza, talora inconfessata, che Kant non teorizza ex nihilo, ma rappresenta il punto d'arrivo di una grandiosa offensiva, scandita da potenti scosse: Isaac Newton (1642-1724), Philosophiae naturalis principia mathematica (1687); Leonhard Euler (1707-1783), Mechanica (1736); Ruggero Giuseppe Boscovich (1711-1787), Theoria philosophiae naturalis, 1763. E' un'offensiva di radice laica che tende ad escludere il tema di una creazione divina del mondo dal novero dei problemi propriamente filosofici e scientifici (è giusto osservare, tuttavia, che il tema si riaffaccia oggi nei punti cruciali di molte laicissime tesi cosmologiche a proposito del big bang come "evento-singolarità" dell'universo), e di conseguenza mira a dare dello spazio un'interpretazione matematica, indipendente dall'esistenza di oggetti, siano essi creati o non creati. E' inevitabile che l'indole matematica di tale analisi, in Newton come in Euler, favorisca la tesi di uno spazio infinito.
L'atteggiamento filosofico di altri uomini di scienza, implicante una visione teologica e creazionistica, è tanto più intransigente quanto più agguerrita è l'offensiva laica, né si può negare il suo sottile rigore. Nel secolo XIX, il prete cattolico Bernhard Bolzano (Praga, 5 ottobre 1781 - ivi, 18 dicembre 1848), figura di straordinaria altezza intellettuale, sviluppa una critica all'idea kantiana d'infinito nella Wissenschaftslehre (1837) e nei postumi Paradoxen des Unendlichen (1851).
La matematica è per Kant il campo d'esemplificazione privilegiato, in cui si attua più che altrove il punto di forza che egli attribuisce alla ragione, la sintesi a priori, che garantisce, in quanto a priori, trascendentalità rispetto all'esperienza e quindi verità, e aggiunge, in quanto sintesi, nuove conoscenze. Kant definisce 5 + 7 = 12 un giudizio cui alla nozione del soggetto, 5 + 7, si aggiunge una nozione tutta nuova, 12, non pensata prima. Bolzano obietta che per ottenere dalla somma di due numeri un terzo numero è sufficiente un'aggiunzione progressiva del tipo 7 + 1, 8 + 1, 9 + 1, ecc.: un'operazione "pre-pensata", analitica, implicita come procedimento a priori nel formarsi della serie dei numeri naturali. Ma la critica di Bolzano è fondata su un fraintendimento: Kant vuole evidenziare non il rapporto interno tra gli elementi dell'operazione, bensì il processo mentale compiuto nell'operazione.
Così Kant compie un tormentoso sforzo di assegnare alla ragione, malgrado i suoi ferrei limiti di azione in un mondo fenomenico e non noumenico della percezione sensibile e la sua impossibilità di cogliere in quanto ragion pura la cosa in sé e di assumere come oggetto di scienza le idee della metafisica tradizionale, un ruolo che le consenta di creare nuove conoscenze e nuovi oggetti del pensiero; la "tragedia della ragione", ossia l'inattingibilità della cosa in sé o noumeno, non impedisce a questo strumento dell'Io penso di utilizzare le infinite possibilità presenti nello spazio infinito e nel tempo infinito. Bolzano, nella cui concezione cattolica spazio e tempo sono finiti (soltanto Dio è infinito, né gli oggetti creati possono avere i caratteri d'infinità e di eternità propri del creatore), esclude che la ragione possa creare: può trovare il già esistente, e illuminarlo soltanto rivelandone la forma.
La conseguente concezione della musica trova il suo alveo nella cornice culturale disegnata dalla forte opposizione tra le tesi di fondo. Kant, che non esita a darci un'interpretazione tutta interiorizzata della musica, insiste nel legare il gusto musicale all'Empfindung. La vita emotiva e sentimentale allarga nello spazio interiore inesauribili possibilità alla musica, ma sempre in quella dimensione. Questa collocazione della musica è riduttiva, eppure coltiva, rendendolo fertile, il terreno da cui nascono, tra l'altro, quegli esempi di musica mozartiana in cui la libertà formale fa leva sull'intensità dell'Empfindung: momenti supremi, le misure introduttive del Dissonanzenquartett in do maggiore KV 465 (1785), o il Rondò in la minore KV 511 (1787). A Kant, assai più che non a Hegel, fa riferimento il linguaggio musicale romantico, e alla concezione kantiana dello spazio interiore sono consanguinei gli indirizzi di ricerca verso zone "intermedie" dell'armonia: la scomposizione cromatica degli intervalli, l'evento repentino di accordi alterati, l'improvvisa espansione o contrazione del discorso musicale.
Paradossalmente, il filosofo moderno il cui pensiero ha avuto gli esiti più critici nei confronti della tradizione rende finalmente chiara l'estetica musicale prevalente nel medioevo cristiano. La rende chiara nelle sue motivazioni più profonde rivelando i suoi argumenta ex silentio. Il collocare la musica esclusivamente nell'interiorità dell'Empfindung, errore riduttivo, isola il problema che i maggiori filosofi della Scolastica non affrontano, o affrontano con reticenza, eppure presuppongono secondo le loro intuibili inclinazioni culturali: la necessità di negare l'interiorità della musica, assegnando al canto e al suono degli strumenti unicamente lo spazio esterno e nella compagine della natura mondana, entro la cui cornice essi devono essere giudicati. Ma poiché quello spazio, secondo gli Scolastici, è l'unico che possa controllare i pericolosi turbamenti prodotti nell'animo della musica, e poiché è un'allegoria del creatore in quanto sua creatura, è inevitabile, nel discorso degli Scolastici, un'intenzionalità metafisica. E' ciò che esamineremo nella prossima riflessione.
Quirino Principe
("Musica Viva", n. 7, Luglio 1990, Anno XIV)