Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, agosto 26, 2019

Anton Bruckner: Vitalità della forma sonata

Eugenio Trias (1942-2013)
La maestria di Bruckner si mostra nella sua dote di gran drammaturgo: nel suo essere sensibile ai contrasti, nell’incredibile agilità, con la quale passa dal fortissirno al pianissimo e viceversa, o con cui combina l’unisono (con vocazione corale) con un’orchestra che si assottiglia e si dilata in modo estremamente flessibile, un’orchestra che offre continui scambi dialogici fra i legni e gli archi e nella quale la linea del canto viene spesso accompagnata da trombe e corni (ai quali si aggiunge, nelle ultime sinfonie, il rinforzo dei bassotuba wagneriani).
L'equilibrio delle armonie, o il gioco di tonalità, conferiscono alla composizione, grazie al celebrato "ritmo bruckneriano", una consistenza formale saldissima, che la sua epoca non seppe nemmeno comprendere. Critici musicali come Eduard Hanslick, o come l’influente teorico della musica Heinrich Schenker, rimproveravano a Bruckner ciò di cui poteva andare più fiero: i dispositivi formali e strutturali. Non si accorsero che in queste composizioni traspariva un’ineccepihile coerenza, fondata sulla percezione telescopica della forma, una forma che controlla l’opera dall’inizio alla fine. Affetti da una grave miopia, di tutte le sue imponenti costruzioni questi fiscalisti della musica di Bruckner salvavano solo alcuni isolati passaggi, giudicati eccellenti.
Non intuirono minimamente dove stava arrivando il compositore: dimostrare la straordinaria vitalità di una forma musicale, la sonata, che in seguito alla rivoluzione wagneriana, o alla musica a programma dei poemi sinfonici di Liszt (con la consacrazione della metamorfosi tematica e della forma ciclica come modello principale), correva il rischio di diventare sterile, o di aver raggiunto nella "musica assoluta" di Brahms - e della sua saggia combinazione di variazione e sviluppo - la sua forma ultima, definitiva.
Un po’ come se questa forma, che aveva dominato incontrastata durante tutta l’età dell’oro della musica, il Classicismo e il Romanticismo, si fosse alla fine arenata e rattrappita, o fosse diventata nient’altro che un guscio vuoto, o fosse passata da una forma viva a mera formula, così da rivolgersi preferibilmente al passato, o a una tradizione degna di essere conservata, anziché preannunciare l’imprevedibile futuro della musica, o l’"aria di altri pianeti" della musica dell’avvenire (per dirlo con un’espressione di Stefan George e Schönberg).
La grande innovazione di Bruckner consistette, soprattutto, in questa autentica prodezza: nella sua musica, infatti, la forma sonata resuscita quale Araba Fenice, aprendo un nuovo capitolo fertile e glorioso che forse arriverà a toccare la sua perfetta teleologia in quell’opera di tragica classicità che sarà la Sesta sinfonia di Gustav Mahler, la "Tragica" (specialmente nel mastodontico "Finale").
Bruckner fu in grado di infondere nella forma sonata un’ampiezza inusitata, allargandola a uno spazio nuovo (uno dei pochi aspetti nei quali si intravede l’ombra del suo "amato maestro", l’idolatrato Richard Wagner). E ci riuscì optando per una temporalità iperdilatata capace di portare alle estreme conseguenze i semi sparsi dall’ultimo Schubert (quello della Sinfonia in do maggiore, "La grande" e del Quintetto in do maggiore).
A questo va aggiunta la questione seminale della Nona sinfonia di Beethoven, e non solo per i celebri attacchi bruckneriani con l’ostinato o il tremolo, con il "ritmo bruckner" (due semiminime e una terzina, oppure una terzina e due semiminime) in piena attività. La Nona di Beethoven influenza Bruckner in tutte le sue sinfonie, ma soprattutto nei primi tre movimenti.
Il compositore austriaco adotta il modello del più geniale fra tutti gli scherzi mai scritti, il secondo movimento della Nona, nel quale viene raggiunta la più alta verità musicale e bellezza espressiva grazie a un meccanismo a orologeria in perpetuum mobile, in un autentico trionfo glorioso dello staccato e nel moto ondoso di un crescendo impetuoso costituente la risposta più corposa a tutti i magnifici espedienti operistici dell’allora celebratissimo Gioacchino Rossini.
Bruckner utilizza questo movimento come un vero e proprio angelo custode, il daimon della sua ispirazione. Lo stesso va detto dell’incredibile prolificità del grande adagio della Nona, con l’incomparabile nobiltà del primo tema, con il sancta sanctorum mistico e cantabile del secondo. In questo brano sembra già delinearsi l’"O sink hernieder, Nacht der Liebe" (Scendi sopra di noi, o notte d’amore) della "consacrazione della notte" nel secondo atto del Tristano e Isotta di Wagner.
Il movimento beethoveniano, con doppia variazione intrecciata (basato sui due temi suddetti), viene preso a modello da Bruckner, specialmente negli adagi delle ultime due sinfonie, con cui si apre la strada al fronte che rinnoverà il genere, fino ad arrivare agli imponenti adagi conclusivi della Terza, Nona e Decima sinfonia di Gustav Mahler.
Si tratta di una riproposizione lenta, lentissima, del modello beethoveniano, fecondato dall’espressività wagneriana e dalla "notte d’amore" del Tristano; proprio come avviene in alcuni passaggi importanti del secondo tema dell’Ottava sinfonia, terzo movimento.
Infine, va detto che sempre da quest’ultima Sinfonia di Beethoven, e in generale dall’intera produzione sinfonica del compositore, eredita anche un problema mai del tutto risolto né da lui né dal sinfonismo successivo, e che forse solo Mozart era riuscito ad arginare, soprattutto nella Sinfonia "Jupiter", attraverso una grandiosa fuga combinata con sprazzi di forma sonata e di rondò: il problema del finale Sinfonico. Schubert si imbatté in una magnifica soluzione nella sua Sinfonia in do maggiore, "La grande"; Brahms riuscì in un’autentica prodezza con la ciaccona della sua Quarta sinfonia. In generale, però, non possiamo affermare che il quarto movimento di qualsiasi sinfonia fosse esente da difficoltà, incertezze e possibili obiezioni.
Bruckner riesce a risolvere in maniera geniale (e impeccabile) l’arduo problema (il nodo gordiano, a quanto pare insolubile, di un movimento che deve essere autonomo e al contempo fungere da occhio del ciclone in cui far confluire le tensioni accumulate nei movimenti precedenti) solo in due occasioni.
Ci riesce, senza ombra di dubbio, in quel brano sorprendente, memorabile, che è il quarto movimento della Quinta sinfonia in si bemolle maggiore, dove mescola il suo modo caratteristico di trattare l’esposizione, almeno per quanto riguarda le prime due parti, con l’elemento aggiunto "beethoveniano" di un’evocazione degli attacchi già conclusi. A tutto questo segue un’importante fuga che si conclude in un solenne enunciato corale, che conferisce all’opera un’autentica inflessione verso la più ambiziosa delle forme. Poi, con nostra grande sorpresa, il materiale esposto si intreccia in una doppia fuga, fondata sul tema del corale e su quello dell’introduzione, che porta questo movimento, e la sinfonia intesa come corpo unico, verso la coda, apice perfetto.
Lo stesso problema lo risolve anche nel finale dell’Ottava sinfonia, che si apre con alcune semiminime, ripetute all’unisono in staccato dagli archi, separate le une dalle altre da ottavi di pausa, che nel loro cupo e ossessivo ostinato rappresentano l’espressione stessa, alla fine palese e concreta, di una morte annunciata in precedenza, o intuita già dal primo movimento di questa magnifica sinfonia. Alla prima parte segue il corrispondente Gesangsperiode e infine un terzo momento, caratterizzato da un unisono degli archi che serpeggia fra le semiminime sfociando poi nel crescendo attraverso cui culmina la riesposizione di tutto questo movimento, prima che sopraggiunga, a guisa di deux ex-machina, la coda (derivante dal cerchio ermetico). Quest’ultima si avvicina piano piano, fino a invadere per l’ultima volta lo spazio sonoro, bagnandolo di grazia sovrannaturale e di incandescenza "surreale".
Le code bruckneriane sembrano essere la perfetta versione speculate dei tremoli e degli ostinati tipici delle sue introduzioni. La fine è il principio; il principio è la fine. Ciò che di innocente si è perso, attraverso l’esposizione e lo sviluppo, è stato riguadagnato nella complessità. Il frutto finale, con l’"addio alla vita", è rappresentato della redenzione spirituale (proveniente dall’altra scena). La prova musicale deriva dal riuscire a far si che la fine sia in rima con il principio (e viceversa).
Eugenio Trias
("Il canto delle sirene", Tropea, 2009)

martedì, agosto 13, 2019

Giorgio Manganelli: Enigma della superficie

Alberto Savinio (1891-1952)
"Se la musica non fosse quel nulla che è...", se non fosse "una pazza", una cosa "inconoscibile", una "malattia", un "peccato", forse si potrebbe scrivere, a proposito della musica, un libro ragionato, argomentato, pieno di misurazioni, equivalenze, "spirito del Tempo" e "direzione della Storia". Ma con la musica è da temerari: ci si può provare, nella misura in cui si rinuncia a considerarla quell'animale composito e mitico che nessun proietto attraversa.
Alberto Savinio si è "allontanato" dalla musica nel 1915, per "paura". Strano gioco verbale: Savinio abbandona la musica, che resta con lui. Per tutta la sua cita "senza noia", confortata dalle gioie, dalle allegrie di molte tecniche - musica, letteratura, pittura, teatro - i suoni continuarono ad inseguirlo. Non ho detto la musica, ma appunto i suoni: certo, suoni di pianoforti, di detestabili organi, anche plateali suoni di ruscelli e volatili policromi; ma ancor più suoni informi, purissimi, scoccanti. Egli viaggia attraverso la sua polimaterica esistenza ragionando a voce alta, e discorrendo di quel che gli accadeva di vedere, di sentire, di sapere e dimenticare. Per chi viaggia molto e dappertutto, dimenticare è importante. Savinio non era coerente. Che significa la coerenza di un viaggiatore? Può essere, forse, uno specialista in tramonti, in locande di campagna, in Famosi Campi di Battaglia? Gli articoli che Savinio scrisse e che vennero poi raccolti in questa Scatola sonora sono appunti di viaggio tra i suoni: hanno dell'autobiografico - un’autobiografia senza “io” -; suppongo che dovrebbero appartenere alla storia della critica musicale, ma con tutto il cuore mi auguro che non sia vero, che questo libro falotico, fantastico, raccontato, svagato, sia un esempio di genere letterario di cui non conosciamo il nome. Gli inglesi da music fiction potrebbero formare musiction, che potremmo tradurre musigrafia.
Perché Savinio ama, a mio avviso in modo primario, i suoni, meglio ancora che la musica? Perché un suono, come un colore, non ha spessore; non lo si può scavare per trovare sotto la pelle lucida e irresponsabile dell’esatto rintocco un brandello di “idee”. Sotto un la si trova lo stesso la all’infinito, che ripete se stesso, senza dare spiegazioni. Vi sono musicisti che Savinio detesta: Savinio sembra parente di tutti i musicanti e avere quindi un certo diritto di insolentirli. Savinio è specialmente insolente con Wagner e Debussy.
Wagner era convinto che sotto le note non ci fossero note, ma grandi simboli, grandi passioni, grandi idee. Era profondo: e Savinio detesta la profondità, incompatibile con l’arte. Vuole leggerezza, la letizia della superficie, vagheggia un mondo pensato come infinite sfere concentriche, tutte fatte di sole superfici, una pellicola minima come il suono e il colore. La profondità, nota Savinio, con la sua selvatica, solitaria lucidità, è rassicurante. Inquietante è il gioco, e la pura superficie, è il "non dire niente". La superficie di Savinio è lo spazio dell’enigma. L'indovinello è un gioco: ma la Sfinge ne morì, e nacque la psicanalisi. Savinio detesta Debussy, il Magister Umidus, perché costui è convinto
che i suoni siano poetici. L'oleografia di un salice piangente, con arpe cromatiche, a pedale, eolie e birmane. Tutt'e due sono "mistici" che, in musica, è pura "profondità". Verdi lo imbarazza: ma quando incontra, a Milano, in piazza Carlo Erba, un organetto che suona La traviata, ne prova una struggente rivelazione: "La Traviata mi rivelò il suo carattere periferico e stradale". "Borghese è il Tristano" ma non la "magra e plebea Traviata, destinata ad echeggiare nelle periferie delle grandi città industriali...". Ma per il Falstaff, il gioco estremo di Verdi convocato alla morte, Savinio ha una
casta e furente devozione.
"Sul tavolino da letto di Mascagni due libri posavano: uno di Guido Milanesi, l’altro di Sabatino Lopez": Savinio non dimentica di essere uomo di lettere e che sa che due titoli, due libri possono dire tutto in proposito di un musicista. "Mascagni è forse il punto infimo della musica, un punto che sembrava riservato alla letteratura."
La pervasività dei suoni, la loro bidimensionale fatuità fa sì che essi siano presenti, distratti testimoni,
a tutta la vita. E Savinio parla della maestà notturna del matrimonio (Pizzetti), del Dio barbuto enorme e carnoso (Musorgskij), delle astuzie per simularsi adulto (Mozart). Parla dell’infanzia: opera d’arte, tragedia da cui fuggire, età sperduta in una città ignota. Parla anche della Morte: ma poco, credo che la tenga in sospetto di profondità.
Giorgio Manganelli (1977)
(dai "Cinque pezzi facili", L'Orma, 2014)

giovedì, agosto 01, 2019

Igor Markevich: schizzi per un ritratto

Igor Markevitch (1912-1983)
Per poter offrire un ritratto esatto di Igor Markevitch bisognerebbe intanto mettere a punto, più accuratamente di quanto è possibile fare qui, alcuni schizzi, tali da mettere a fuoco i vari aspetti della sua statura artistica. Basta uno sguardo alla sua biografia per farsi un'idea di tre aspetti della sua personalità di compositore, direttore e insegnante.
Nato a Kiew nel 1912 da una famiglia di antica nobiltà russa, passò la sua infanzia in Svizzera. Fu allora che Alfred Cortot, constatando nel ragazzo tredicenne uno straordinario talento, lo chiamò nella sua classe di perfezionamento al Conservatorio di Parigi, dove in seguito frequentò anche il corso di composizione tenuto da Nadja Boulanger, conseguendo nel 1928 in ambedue le materie il diploma con lode.
Su invito di Diaghilew compose un Concerto per pianoforte, che fu eseguito, nel 1929, al Covent Garden di Londra nell'ultima stagione dei Balletti Russi. Seguirono fino al 1941 numerose composizioni nonché alcune revisioni.
Quale direttore debuttò nel 1930 al Concertgebouw di Amsterdam; fu allora ospite di Mengelberg e allievo di Scherchen, che s’accorse subito del suo straordinario talento e che lo convinse in seguito a dedicarsi completamente alla direzione.
Dopo essersi stabilito in Italia, nel dopoguerra (più tardi, nel 1948, divenne cittadino italiano), Costituì "ex novo" l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino. Cominciò così la sua carriera diventando dopo qualche anno direttore stabile a Stoccolma (1952-55), quiudi a Parigi (Orchestra Lamoureux, 1957-61), all’Avana (1957-58), a Montreal (1956-60), a Madrid (1965-69, dove fondò con musicisti in parte giovanissimi, l'Orchestra della Radio spagnola, che portò ben presto a un livello straordinario), a Montecarlo (1968-73) e a Roma (1973-75). Attese inoltre all'attività di direttore ospite dell’Opera di Londra e di Vienna e in più di 50 paesi per concerti con tutte le orchestre più importanti. Del suo vasto repertorio, che comprende sia la produzione polifonico-corale dal XVI secolo all’era contemporanea e tutti i generi della musica strumentale da Purcell a Wagner, dagli oratori di Haydn alle zarzuelas spagnole, rimane testimonianza nelle numerose incisioni discografiche, tra cui quelle ormai classiche come Le Sacre du PrintempsL'Histoire du Soldat, La dannazione di Faust, alcune Sinfonia di Mozart e Schubert con i Filarmonici di Berlino, tutte le Sinfonie di Cajkovskij, le famose incisioni dei Concerti per pianoforte di Mozart con la Haskil ecc. Capolavori da Beethoven fino a Berg e Dallapiccola, ma anche incisioni ineguagliabili di operette di Offenbach, Chabrier ed altri. (La discografia di Markevitch contiene, fino ad oggi, più di 260 titoli, con 19 Grand Prix).
Dal 1949, su invito di Furtwängler, tenne corsi annuali per giovani direttori al Mozarteum di Salisburgo (si annoverano tra i suoi allievi Sawallisch, Barenboim e molti altri) e seminari in tutto il mondo, tra cui al Conservatorio di Mosca, alla cattedra di direzione d'orchestra, appositamente creata per lui, al Messico, a Madrid, a Monte Carlo ecc. Nell’agosto del 1975 diresse, in occasione del millenario della città di Weimar, un corso al Conservatorio Franz Liszt al quale parteciparono più di 50 direttori provenienti da 18 paesi.
A tale triplice attività, della composizione, della direzione, dell'insegnamento, si affianca quella teorico-scientifica, intensificata negli ultimi tempi. Mi sembra che un'adeguata descrizione di questa poliedrica personalità debba scaturire dall'unità  delle attività accennate, nelle quali un aspetto scaturisce dall’altro in un essenziale e reciproco condizionamento.
Possiamo menzionare in questa sede l'pera compositiva di Markevitch soltanto superficialmente, elencandone in fondo i titoli principali. Sono però sicuro che un'attenta analisi a confronto con la produzione europea coeva, porrà in debito rilievo la sua personale originalità. Chi abbia mai ascoltato una sua composizione si può convincere che ci si trova di fronte a un linguaggio musicale ricco e brillante, di una rara finezza sonora e ritmica e di una freschezza e vitalità ancor viva e lontana da qualsivoglia accademismo o dal tipo della cosiddetta "Kapellmeistermusik". Non v'è dubbio che nelle
sue composizioni egli abbia utilizzato le sue esperienze direttoriali e lo studio degli strumenti d’orchestra, uno per uno; ma che non abbia scritto della "Kapellmeistermusik" risulta anche dal fatto che cominciò l'attività di compositore allorché dirigeva occasionalmente e che cessò di comporre quando intraprese la carriera di direttore.
La rinascita della sua musica, possiamo ritenere, avverrà certamente nel momento in cui si avrà a riconsiderare quella fertile epoca del nostro secolo, della quale il concetto "neoclassico" dice poco e che annovera maestri così eterogenei come Hindemith e Krenek, Malipiero e Petrassi, il "Groupe des Six" e de Falla, lo Stravinsky degli anni ’20 e ’30, nonché Roussel, Prokof’ev e molti altri, e tra i quali Markevitch è una personalità senz’altro originale.
Osserviamo almeno alcuni esempi di impulsi che Markevitch ha dato agli sviluppi della musica moderna. Un’opera fondamentale è la Suite da Balletto L’envol d'Icare, che il diciannovenne scrisse nel 1932 per Serge Lifar, composizione che però finora non è stata eseguita secondo la sua originaria destinazione in teatro: malgrado l'estrema difficoltà della partitura ne risulterebbe un autentico arricchimento del repertorio ballettistico! Il soggetto dell’azione descrive in sette quadri la figura mitologica di Icaro: "Preludio al segreto della scienza, Risveglio del sapere, Icaro e gli uccelli, Le ali di Icaro, Il volo, Dove si ritrovano le ali, La morte di Icaro". A questa disposizione della vicenda drammaturgica corrisponde un'altrettanta chiara articolazione musicale in 7 sezioni, nelle quali prevale alternativamente un’idea musicale caratterizzante. Così, per esempio, nel Volo si esplica uno schema ritmico che unisce a mosaico una serie di elaboratissimi elementi ritmici, tali da suggerire acusticamente l'effetto della macchina da volo di Icaro. Analogamente all’ascesa e alla incombente catastrofe tale movimento ritmico si sviluppa in crescendo fino al ff che investe tutti gli strumenti (particolare rilievo hanno gli effetti "di macchina" e la parte della percussione estremamente differenziata).
Nel momento della sua brusca caduta tutta la costruzione si disintegra anche musicalmente, ingenerando una vaga sensazione acustica di una superficie distesa, vuota ed esanime, sopra la quale sembra spirare il vento. Non si sente altro che l’aria e questa è rappresentata musicalmente nel modo più semplice e raffinato nella seguente indicazione per gli ottoni: "Mettre l’instrument en bouche et soufller (sans produire de note). La rumeur de vent ainsi produite doit etre trés sensible tout en restant proportionelle à la nuance générale".
In questo passaggio Markevitch volle esprimere "l'effetto reale dell’aria", innovazione questa, che nelle sale da concerto crea impressioni inedite.
Ancora un altro passaggio è degno di nota: nelle Variazioni su un tema di Händel per pianoforte (1941) Markevitch nella 13a Variazione chiede all’interprete un "effetto di chiaroscuro" e spiega: "gli accordi marcati rinf.: molto forti e strappati. Si ricade sull’accordo pp che viene colpito da vicino, affondando bene i tasti. L’esecuzione di questa variazione dipende essenzialmente dal gioco del pedale: si appoggia nell’attaccare l’accordo rinf.; si toglie simultaneamente all’attacco dell’accordo pp". Questo effetto di "chiaroscuro", a mio avviso inedito è simile al cosiddetto "Klavierflageolett", che Schoenberg aveva adottato per primo nel suo Lied Sulla spiaggia nonché nel primo dei Tre Pezzi per pianoforte Op. 11, dove troviamo la frase "Die Tasten tonlos niederdrücken", lo stesso effetto che in quest’opera alla misura 6 è indicato dalle parole "Suoni armonici: appoggiare sui tasti senza far risuonare le note".
Altrettanto significativo è il "Diminuendo strutturato" nelle battute 13/14, nelle quali le note dell’accordo dominante vengono proposte in successione riduttiva. Ma l’effetto sonoro di questa variazione supera di gran lunga il "flageolett pianistico" di Schoenberg, Berg (Op. 5), Bartok (Mikrokosmos IV nel brano "Armonici") o di altri lavori ancora, mentre Markevitch approfondisce ciascuno degli accordi di questa variazione tonale (in Mi) sfruttandone al massimo le rispettive sfumature armoniche, inaugurando così un nuovo modo di concepire il timbro sul pianoforte e aprendo la strada alle ricerche coloristiche degli anni ’50.
Si possono menzionare altri compositori ancora, sui quali Markevitch esercitava un influsso immediato, per esempio su Olivier Messiaen e su Béla Bartok, sia per quanto riguarda l’organizzazione del materiale musicale, come anche nella strumentazione. Un concetto centrale del suo pensiero compositivo è "la prospettiva acustica", nella quale cerca di mettere in rapporto dimensioni spaziali e scorci prospettici (quali si conoscono dalla storia della pittura classica) con la dinamica musicale. Markevitch spiega in proposito: "un Do grave si comporta diversamente dallo stesso suono posto in alto; bisogna calcolare la posizione d’ottava e, se necessario, correggere i rapporti armonici, indebolendo alcune strutture o rinforzandone altre".
Quest’osservazione non solo indica un aspetto saliente del suo modo di comporre, nel riferimento ad una sua coerente prassi direttoriale, ma rimanda altresì ad un importante criterio di analisi. Mi sembra che vi sia una certa parentela con il concetto dallapiccoliano della "polarità"; la musicologia farebbe bene ad approfondire gli aspetti e le implicazioni.
Come si è detto sopra, sarà compito di uno studio monografico, di valutare il ruolo e l'importanza dell’opera di Markevitch - noi qui non possiamo altro che indicarne le caratteristiche più appariscenti.
Ma torniamo alla Suite del balletto Icare: alla prima esecuzione (1933) il successo fu strepitoso. La voce più altisonante nel coro del pubblico entusiasmato fu quella di Bela Bartok, che scrisse al giovane compositore: "Permetta ad un suo collega, che non ha avuto l’onore di conoscerLa personalmente, di ringraziarLa per lo straordinario Icaro. Ho avuto bisogno di qualche tempo per studiare e capire a fondo la bellezza della Sua partitura e penso che passeranno molti anni prima che sarà compresa nella sua importanza. Ma lasci che io Le esprima la mia convinzione che cioè un giorno alle Sue opere sarà resa giustizia. Lei è una delle personalità più impressionanti della musica contemporanea e sono felice di ricevere profitto dall’influsso che Lei esercita".
Per sottolineare ulteriormente il ruolo di Markevitch quale direttore d’orchestra, ecco un giudizio di un altro grande maestro, Luigi Dallapiccola. Egli ebbe a rilevare in una recensione dell’Ottava Sinfonia di Beethoven (nel "Mondo", 21 aprile 1945) questo interessante aspetto:
Igor Markevitch trovò il giusto accento e interpretò la Sinfonia, di cui abbiamo voluto citare un solo passo, da direttore dell’epoca nostra, da critico sottile, colto, aggiornato; da musicista attento non soltanto al testo nelle sue linee generali, ma anche a quei particolari del testo che, come semi dopo vari decenni, hanno fruttificato. E, sempre in tema di particolari, diremo che l’attacco del secondo tempo, con l’insistere delle note ribattute, sia per la sua tonalità o per il suo ritmo, sia per l’accento che il direttore seppe conferirgli, evocò in noi il ricordo di un frammento di Jeux de cartes di Stravinsky (II quadro; Ia variazione), episodio che mai, davvero, si era pensato come di possibile, se pur lontanissima, derivazione beethoveniana.
Questo senso di critica, cosciente o subcosciente che sia, ci sembra uno dei lati più interessanti e più singolari della personalità di Igor Markevitch; non solo, ma uno dei più "attuali". Un lato che potrà avere in seguito sviluppi che forse oggi non sono ancora immaginabili. Che la sua personalità si basi in uguale misura sull’istinto, sull’intelligenza e sulla cultura è stato ampiamente riconosciuto da tutti. A sottigliezze critiche del tipo che abbiamo voluto citare i direttori dotati soltanto d’istinto e di braccio non sapranno mai arrivare.
Chi ha avuto modo (o meglio la fortuna) di seguire per un certo periodo il lavoro di Markevitch (come per esempio negli anni 1973-75 in cui fu direttore dell’Orchestra di Santa Cecilia), ha potuto constatare come non solo lo standard tecnico dell’orchestra migliorasse sensibilmente da un concerto all’altro, ma come d’altra parte si sviluppasse quello specifico sound alla Markevitch, che conferiva ai suoi concerti e alle sue esecuzioni discografiche una caratteristica inconfondibile. Non è possibile, ovviamente, descrivere senza esempi musicali questo sound - ma basti il riferimento in concetti tecnici all’equilibrio trasparente tra archi e legni, alla chiarezza asciutta dei bassi e dei timpani, all'articolazione estremamente elastica degli ottoni. Questo sound consiste - in termini di metafore corporee - di muscoli e ossa senza grasso. Diversamente dall’ideale contemporaneo estremamente discutibile, del sound ad alta qualità (HiFi), in cui i contorni architettonici vengono cancellati, con quella prassi che fa risaltare senza criterio linee melodiche mentre mescola tutto il resto in un diffuso fruscio a pedale, Markevitch non celebra mai le sonorità per se stesse, ma le interpreta sempre in funzione della struttura musicale; vige ovunque il lucido controllo e in ogni punto della partitura è possibile avere chiarimenti dal Maestro circa l'impostazione stilistica della interpretazione, giacché la sua è un'interpretazione analitica.
Questi concetti "critico" (Dallapiccola) e "analitico", sui quali, come abbiamo cercato di dimostrare, poggia la prassi direttoriale di Markevitch, costituiscono l’anello di congiunzione tra i diversi ambiti della sua attività musicale, che implicano, per altro, il desiderio di entrare in comunicazione con i giovani. Un vecchio pregiudizio, assai diffuso tra i musicisti, afferma che l’arte della direzione non può essere appresa, "o uno sa, o non sa", si dice, oppure: "dirigere implica più capacità intuitiva che tecnica, e soprattutto personalità - il carisma dunque dell'imponderabile, del non apprendibile". Allorché anche Furtwängler ebbe a pronunciarsi in questo senso, Markevitch lo interruppe dicendo: "Mi scusi ma questo non lo credo. Anche il direttore deve poter orientarsi secondo precisi moduli di comportamento come lo strumentista, deve poter apprendere un certo bagaglio tecnico che gli permette (non diversamente dal violinista che impara a condurre l’arco, o il pianista che studia i suoi esercizi virtuosistici) a dominare il repertorio sinfonico". Furtwängler in un primo momento non nascose il suo scetticismo, ma invitò Markevitch a verificare le sue tesi in un corso di perfezionamento per direttori d’orchestra e dovette poi ammettere che il suo collega più giovane aveva avuto ragione. Questa esperienza segnò l’inizio di quei corsi, oggi famosi, che Markevitch tenne dal 1949-56, a Salisburgo prima e poi in tutto il mondo, meritandosi la fama anche di didatta.
Nei colloqui sulla musica Markevitch torna ad insistere sempre su questa sua convinzione sull’arte direttoriale: "se si parla del dirigere", dice Markevitch, "la gente crede che si tratti di un problema mistico; ancor oggi si parla troppo di questioni che non si comprendono razionalmente". Alla direzione incontrollata e irreflessa egli contrappose il suo insegnamento direttoriale razionale e scientifico. La sua propedeutica comprende uno studio approfondito della storia della musica e una precisa conoscenza degli strumenti dell’orchestra, delle loro possibilità tecniche e dei problemi che implicano, nonché nozioni dettagliate sulla costituzione fisiologica e un allenamento continuo del corpo.
"Chi vuole dominate 100 musicisti", egli disse "deve avere il perfetto dominio di se stesso". Il direttore deve avere la superiorità, anche nell’aspetto: il corpo eretto e fermo, tutti i movimenti vengono indicati dalle braccia, e così nettamente da essere compresi anche dal contrabbassista all’ultimo leggio. Vi sono esercizi speciali che aiutano a non faticare troppo le spalle e i muscoli delle braccia, a respirare regolarmente ecc. L’indipendenza delle braccia, la capacità di battere il tempo a destra e a impartire cenni e accenti a sinistra, a suggerire una variazione dinamica o di plasmare una melodia importante, la si ottiene con un programma di allenamento a lungo termine. Alla domanda, se non sia opportuno differenziare la tecnica secondo i temperamenti e le personalità specifiche, egli risponde: "La tecnica non è d’impedimento alla personalità, anzi essa ne è necessariamente il presupposto! Vede, per certi Studi di Chopin esiste un unico modo di diteggiare; ma prenda ad esempio Rubinstein, Richter, Pollini e vedrà che tutti e tre suonano con la stessa diteggiatura, mentre il loro risultato personale è completamente differente". Ciò che Chopin e Liszt svilupparono per i pianisti, Paganini per i violinisti, cioè una tecnica fondamentale, che permette loro di suonare tutto, dovrebbe essere possibile anche per i direttori. "I grandi maestri da Wagner a Toscanini, a Furtwängler, a Walter hanno creato un arsenale di dettagli tecnici direttoriali, con i quali ogni partitura può essere eseguita senza difficoltà. Da quando l’evoluzione della tradizionale musica d’orchestra è compiuta e mentre noi abbiamo di fronte un gigantesco repertorio di tutti i tempi e stili, è ora di sistemare una volta per tutte questo materiale gestuale, per sfruttarne in pieno le possibilità". Il termine "gestuale" significa per Markevitch ridurre ogni movimento espressivo, che va oltre il puro battere del movimento, alla sua forma più pregnante e suggestiva. Razionalità e funzionalità sono le massime del suo dirigere e del suo insegnamento: "Un direttore non e un medium
soprannaturale, tantomeno dovrebbe essere un ballerino! Non dimentichiamo che egli agisce per l’orchestra, non per il pubblico! Egli deve rendersi indispensabile per l’orchestra - chi non lo sa essere, è superfluo. Lo standard di una buona orchestra è oggi altissimo, e ciò esige grandi sforzi del direttore. Egli deve avere una completa preparazione senza incertezze".
Gli chiedo come procedere dunque nello studio di una partitura sconosciuta. "Prima di tutto", risponde, "è necessario osservare con l’occhio i blocchi architettonici, per farsi un’idea della forma in
generale, giacché anche in seguito nelle prove si terrà conto della disposizione generale dei blocchi. Poi si analizzerà il materiale tematico dei motivi nel suo sviluppo formale. E' determinante per un giovane direttore che si renda conto che non si tratta mai di processi schematici, ma di eventi vitali! Quindi si esamineranno i rapporti armonici badando bene se collegano le modulazioni alla compagine architettonica. Lo stesso dicasi del cambiamento nella strumentazione e della dinamica. Quando poi ci si è resi conto della forma globale di un pezzo, si esamineranno gli strumenti uno per uno, per verificarne il ruolo specifico nel corso della composizione. Con queste premesse sarà facile comprendere l’articolazione del fraseggio, che dovrà essere studiato con la stessa accuratezza come la struttura armonica. Analizzata a fondo la partitura sarà agevole preparare il repertorio gestuale: attacchi, accenti, fraseggio, dinamica. Questo metodo permette inoltre di allenare la memoria; con una certa esperienza sarà possibile imparare una Sinfonia di Haydn in un pomeriggio, al massimo in un giorno". Markevitch fa notare che questi principi devono essere fuori discussione, e i problemi di dettaglio (bilanciamento del timbro, fraseggio) saranno meno difficili da risolvere, se sarà chiara questa impostazione tecnica di base. Un problema particolare è costituito dall’ottenimento di un buon legato. "La vita moderna distrae enormemente. Diventa sempre più difficile concentrarsi anche un solo minuto, il pensiero va frantumandosi sempre più. Il maestro ha quindi il compito di rivolgere la massima attenzione a questo aspetto della musica. Altrettanto essenziale è l’accurata osservanza di un crescendo a lunga distanza, il dosaggio adeguato di un forte in relazione ad un fortissimo successivo, ecc. Nei corsi di Weimar abbiamo provato il seguente esercizio: dopo una dettagliata messa a punto della parte gestuale ciascuno dei partecipanti, disposti in un cerchio, su mia indicazione doveva dirigere a memoria e senza orchestra, mentre gli altri del gruppo, seguendo autonomamente i rispettivi movimenti ne correggevano inconsciamente il tempo e la dinamica. Questi giochi sono estremamente utili".
Markevitch incarna il tipo del direttore che si trova agli antipodi del popolarissimo cosiddetto "mago della bacchetta" in quanto concepisce la direzione come attività analitico-razionale e gestualmente funzionale, - come qui s'è potuto solo indicare -: dirigere non per esibirsi come persona ma per interpretare nella dovuta maniera la partitura. Di questa impostazione ha tratto profitto oltre ai suoi allievi e agli orchestrali, che con lui si sentono sicuri, anche il pubblico che, non essendo distratto dalla realtà sonora da una ginnastica inutile, partecipa anche visivamente - grazie a una gestualità convincente - al decorso della musica.
Poiché dunque, come si è visto, l'approfondimento intellettuale della musica ne determina anche la prassi esecutiva, non ci si meraviglia che Markevitch se ne occupi anche dal punto di vista musicologico e storico. Da 5 anni egli sta lavorando intorno alle Sinfonie di Beethoven; tale studio conterrà, a scopi interpretativi, un’esegesi critico-pratica del testo musicale e, insieme, una sinopsi completa delle revisioni, che i maggiori interpreti hanno fornito in merito - un’opera attesa, non solo per la descrizione dei famosi (ma largamente ignorati), rifacimenti di Mahler, ma in generale per la storia della Rezeption beethoveniana in sé. Seguirà quindi un trattato sull’arte direttoriale, che sarà il riassunto delle sue esperienze pratiche e pedagogiche.
I quattro elementi della sua attività - composizione e lavori teorico-musicologici, direzione ed insegnamento - non sono dissociabili uno dall’altro, ma si armonizzano in un insieme unitario. L'abbozzo che abbiamo tratteggiato della personalità musicale di Igor Markevitch ha necessariamente trascurato molti, anzi troppi dettagli, ma ci auguriamo che serva almeno a ricavarne alcuni tratti essenziali. Il tessuto connettivo che tiene uniti i quattro momenti di questa personalità è costituito essenzialmente dal suo esemplare interesse per i capolavori di ogni epoca e dal suo grande amore per la musica, trascinando chiunque lo avvicini. Una cosa altrettanto esemplare ed estremamente rara se non addirittura singolare ci sembra un’altra caratteristica, che è espressa nella sua massima: "Un vero
artista non cerca d’esser ammirato, ma vuole esser convincente".
Volker Scherliess (Traduzione di Hubert Stuppner)
(Nuova Rivista Musicale Italiana, luglio/settembre 1977)