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lunedì, agosto 26, 2019

Anton Bruckner: Vitalità della forma sonata

Eugenio Trias (1942-2013)
La maestria di Bruckner si mostra nella sua dote di gran drammaturgo: nel suo essere sensibile ai contrasti, nell’incredibile agilità, con la quale passa dal fortissirno al pianissimo e viceversa, o con cui combina l’unisono (con vocazione corale) con un’orchestra che si assottiglia e si dilata in modo estremamente flessibile, un’orchestra che offre continui scambi dialogici fra i legni e gli archi e nella quale la linea del canto viene spesso accompagnata da trombe e corni (ai quali si aggiunge, nelle ultime sinfonie, il rinforzo dei bassotuba wagneriani).
L'equilibrio delle armonie, o il gioco di tonalità, conferiscono alla composizione, grazie al celebrato "ritmo bruckneriano", una consistenza formale saldissima, che la sua epoca non seppe nemmeno comprendere. Critici musicali come Eduard Hanslick, o come l’influente teorico della musica Heinrich Schenker, rimproveravano a Bruckner ciò di cui poteva andare più fiero: i dispositivi formali e strutturali. Non si accorsero che in queste composizioni traspariva un’ineccepihile coerenza, fondata sulla percezione telescopica della forma, una forma che controlla l’opera dall’inizio alla fine. Affetti da una grave miopia, di tutte le sue imponenti costruzioni questi fiscalisti della musica di Bruckner salvavano solo alcuni isolati passaggi, giudicati eccellenti.
Non intuirono minimamente dove stava arrivando il compositore: dimostrare la straordinaria vitalità di una forma musicale, la sonata, che in seguito alla rivoluzione wagneriana, o alla musica a programma dei poemi sinfonici di Liszt (con la consacrazione della metamorfosi tematica e della forma ciclica come modello principale), correva il rischio di diventare sterile, o di aver raggiunto nella "musica assoluta" di Brahms - e della sua saggia combinazione di variazione e sviluppo - la sua forma ultima, definitiva.
Un po’ come se questa forma, che aveva dominato incontrastata durante tutta l’età dell’oro della musica, il Classicismo e il Romanticismo, si fosse alla fine arenata e rattrappita, o fosse diventata nient’altro che un guscio vuoto, o fosse passata da una forma viva a mera formula, così da rivolgersi preferibilmente al passato, o a una tradizione degna di essere conservata, anziché preannunciare l’imprevedibile futuro della musica, o l’"aria di altri pianeti" della musica dell’avvenire (per dirlo con un’espressione di Stefan George e Schönberg).
La grande innovazione di Bruckner consistette, soprattutto, in questa autentica prodezza: nella sua musica, infatti, la forma sonata resuscita quale Araba Fenice, aprendo un nuovo capitolo fertile e glorioso che forse arriverà a toccare la sua perfetta teleologia in quell’opera di tragica classicità che sarà la Sesta sinfonia di Gustav Mahler, la "Tragica" (specialmente nel mastodontico "Finale").
Bruckner fu in grado di infondere nella forma sonata un’ampiezza inusitata, allargandola a uno spazio nuovo (uno dei pochi aspetti nei quali si intravede l’ombra del suo "amato maestro", l’idolatrato Richard Wagner). E ci riuscì optando per una temporalità iperdilatata capace di portare alle estreme conseguenze i semi sparsi dall’ultimo Schubert (quello della Sinfonia in do maggiore, "La grande" e del Quintetto in do maggiore).
A questo va aggiunta la questione seminale della Nona sinfonia di Beethoven, e non solo per i celebri attacchi bruckneriani con l’ostinato o il tremolo, con il "ritmo bruckner" (due semiminime e una terzina, oppure una terzina e due semiminime) in piena attività. La Nona di Beethoven influenza Bruckner in tutte le sue sinfonie, ma soprattutto nei primi tre movimenti.
Il compositore austriaco adotta il modello del più geniale fra tutti gli scherzi mai scritti, il secondo movimento della Nona, nel quale viene raggiunta la più alta verità musicale e bellezza espressiva grazie a un meccanismo a orologeria in perpetuum mobile, in un autentico trionfo glorioso dello staccato e nel moto ondoso di un crescendo impetuoso costituente la risposta più corposa a tutti i magnifici espedienti operistici dell’allora celebratissimo Gioacchino Rossini.
Bruckner utilizza questo movimento come un vero e proprio angelo custode, il daimon della sua ispirazione. Lo stesso va detto dell’incredibile prolificità del grande adagio della Nona, con l’incomparabile nobiltà del primo tema, con il sancta sanctorum mistico e cantabile del secondo. In questo brano sembra già delinearsi l’"O sink hernieder, Nacht der Liebe" (Scendi sopra di noi, o notte d’amore) della "consacrazione della notte" nel secondo atto del Tristano e Isotta di Wagner.
Il movimento beethoveniano, con doppia variazione intrecciata (basato sui due temi suddetti), viene preso a modello da Bruckner, specialmente negli adagi delle ultime due sinfonie, con cui si apre la strada al fronte che rinnoverà il genere, fino ad arrivare agli imponenti adagi conclusivi della Terza, Nona e Decima sinfonia di Gustav Mahler.
Si tratta di una riproposizione lenta, lentissima, del modello beethoveniano, fecondato dall’espressività wagneriana e dalla "notte d’amore" del Tristano; proprio come avviene in alcuni passaggi importanti del secondo tema dell’Ottava sinfonia, terzo movimento.
Infine, va detto che sempre da quest’ultima Sinfonia di Beethoven, e in generale dall’intera produzione sinfonica del compositore, eredita anche un problema mai del tutto risolto né da lui né dal sinfonismo successivo, e che forse solo Mozart era riuscito ad arginare, soprattutto nella Sinfonia "Jupiter", attraverso una grandiosa fuga combinata con sprazzi di forma sonata e di rondò: il problema del finale Sinfonico. Schubert si imbatté in una magnifica soluzione nella sua Sinfonia in do maggiore, "La grande"; Brahms riuscì in un’autentica prodezza con la ciaccona della sua Quarta sinfonia. In generale, però, non possiamo affermare che il quarto movimento di qualsiasi sinfonia fosse esente da difficoltà, incertezze e possibili obiezioni.
Bruckner riesce a risolvere in maniera geniale (e impeccabile) l’arduo problema (il nodo gordiano, a quanto pare insolubile, di un movimento che deve essere autonomo e al contempo fungere da occhio del ciclone in cui far confluire le tensioni accumulate nei movimenti precedenti) solo in due occasioni.
Ci riesce, senza ombra di dubbio, in quel brano sorprendente, memorabile, che è il quarto movimento della Quinta sinfonia in si bemolle maggiore, dove mescola il suo modo caratteristico di trattare l’esposizione, almeno per quanto riguarda le prime due parti, con l’elemento aggiunto "beethoveniano" di un’evocazione degli attacchi già conclusi. A tutto questo segue un’importante fuga che si conclude in un solenne enunciato corale, che conferisce all’opera un’autentica inflessione verso la più ambiziosa delle forme. Poi, con nostra grande sorpresa, il materiale esposto si intreccia in una doppia fuga, fondata sul tema del corale e su quello dell’introduzione, che porta questo movimento, e la sinfonia intesa come corpo unico, verso la coda, apice perfetto.
Lo stesso problema lo risolve anche nel finale dell’Ottava sinfonia, che si apre con alcune semiminime, ripetute all’unisono in staccato dagli archi, separate le une dalle altre da ottavi di pausa, che nel loro cupo e ossessivo ostinato rappresentano l’espressione stessa, alla fine palese e concreta, di una morte annunciata in precedenza, o intuita già dal primo movimento di questa magnifica sinfonia. Alla prima parte segue il corrispondente Gesangsperiode e infine un terzo momento, caratterizzato da un unisono degli archi che serpeggia fra le semiminime sfociando poi nel crescendo attraverso cui culmina la riesposizione di tutto questo movimento, prima che sopraggiunga, a guisa di deux ex-machina, la coda (derivante dal cerchio ermetico). Quest’ultima si avvicina piano piano, fino a invadere per l’ultima volta lo spazio sonoro, bagnandolo di grazia sovrannaturale e di incandescenza "surreale".
Le code bruckneriane sembrano essere la perfetta versione speculate dei tremoli e degli ostinati tipici delle sue introduzioni. La fine è il principio; il principio è la fine. Ciò che di innocente si è perso, attraverso l’esposizione e lo sviluppo, è stato riguadagnato nella complessità. Il frutto finale, con l’"addio alla vita", è rappresentato della redenzione spirituale (proveniente dall’altra scena). La prova musicale deriva dal riuscire a far si che la fine sia in rima con il principio (e viceversa).
Eugenio Trias
("Il canto delle sirene", Tropea, 2009)

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