Alberto Savinio (1891-1952) |
"Se la musica non fosse quel nulla che è...", se non fosse "una pazza", una cosa "inconoscibile", una "malattia", un "peccato", forse si potrebbe scrivere, a proposito della musica, un libro ragionato, argomentato, pieno di misurazioni, equivalenze, "spirito del Tempo" e "direzione della Storia". Ma con la musica è da temerari: ci si può provare, nella misura in cui si rinuncia a considerarla quell'animale composito e mitico che nessun proietto attraversa.
Alberto Savinio si è "allontanato" dalla musica nel 1915, per "paura". Strano gioco verbale: Savinio abbandona la musica, che resta con lui. Per tutta la sua cita "senza noia", confortata dalle gioie, dalle allegrie di molte tecniche - musica, letteratura, pittura, teatro - i suoni continuarono ad inseguirlo. Non ho detto la musica, ma appunto i suoni: certo, suoni di pianoforti, di detestabili organi, anche plateali suoni di ruscelli e volatili policromi; ma ancor più suoni informi, purissimi, scoccanti. Egli viaggia attraverso la sua polimaterica esistenza ragionando a voce alta, e discorrendo di quel che gli accadeva di vedere, di sentire, di sapere e dimenticare. Per chi viaggia molto e dappertutto, dimenticare è importante. Savinio non era coerente. Che significa la coerenza di un viaggiatore? Può essere, forse, uno specialista in tramonti, in locande di campagna, in Famosi Campi di Battaglia? Gli articoli che Savinio scrisse e che vennero poi raccolti in questa Scatola sonora sono appunti di viaggio tra i suoni: hanno dell'autobiografico - un’autobiografia senza “io” -; suppongo che dovrebbero appartenere alla storia della critica musicale, ma con tutto il cuore mi auguro che non sia vero, che questo libro falotico, fantastico, raccontato, svagato, sia un esempio di genere letterario di cui non conosciamo il nome. Gli inglesi da music fiction potrebbero formare musiction, che potremmo tradurre musigrafia.
Perché Savinio ama, a mio avviso in modo primario, i suoni, meglio ancora che la musica? Perché un suono, come un colore, non ha spessore; non lo si può scavare per trovare sotto la pelle lucida e irresponsabile dell’esatto rintocco un brandello di “idee”. Sotto un la si trova lo stesso la all’infinito, che ripete se stesso, senza dare spiegazioni. Vi sono musicisti che Savinio detesta: Savinio sembra parente di tutti i musicanti e avere quindi un certo diritto di insolentirli. Savinio è specialmente insolente con Wagner e Debussy.
Wagner era convinto che sotto le note non ci fossero note, ma grandi simboli, grandi passioni, grandi idee. Era profondo: e Savinio detesta la profondità, incompatibile con l’arte. Vuole leggerezza, la letizia della superficie, vagheggia un mondo pensato come infinite sfere concentriche, tutte fatte di sole superfici, una pellicola minima come il suono e il colore. La profondità, nota Savinio, con la sua selvatica, solitaria lucidità, è rassicurante. Inquietante è il gioco, e la pura superficie, è il "non dire niente". La superficie di Savinio è lo spazio dell’enigma. L'indovinello è un gioco: ma la Sfinge ne morì, e nacque la psicanalisi. Savinio detesta Debussy, il Magister Umidus, perché costui è convinto
che i suoni siano poetici. L'oleografia di un salice piangente, con arpe cromatiche, a pedale, eolie e birmane. Tutt'e due sono "mistici" che, in musica, è pura "profondità". Verdi lo imbarazza: ma quando incontra, a Milano, in piazza Carlo Erba, un organetto che suona La traviata, ne prova una struggente rivelazione: "La Traviata mi rivelò il suo carattere periferico e stradale". "Borghese è il Tristano" ma non la "magra e plebea Traviata, destinata ad echeggiare nelle periferie delle grandi città industriali...". Ma per il Falstaff, il gioco estremo di Verdi convocato alla morte, Savinio ha una
casta e furente devozione.
che i suoni siano poetici. L'oleografia di un salice piangente, con arpe cromatiche, a pedale, eolie e birmane. Tutt'e due sono "mistici" che, in musica, è pura "profondità". Verdi lo imbarazza: ma quando incontra, a Milano, in piazza Carlo Erba, un organetto che suona La traviata, ne prova una struggente rivelazione: "La Traviata mi rivelò il suo carattere periferico e stradale". "Borghese è il Tristano" ma non la "magra e plebea Traviata, destinata ad echeggiare nelle periferie delle grandi città industriali...". Ma per il Falstaff, il gioco estremo di Verdi convocato alla morte, Savinio ha una
casta e furente devozione.
"Sul tavolino da letto di Mascagni due libri posavano: uno di Guido Milanesi, l’altro di Sabatino Lopez": Savinio non dimentica di essere uomo di lettere e che sa che due titoli, due libri possono dire tutto in proposito di un musicista. "Mascagni è forse il punto infimo della musica, un punto che sembrava riservato alla letteratura."
La pervasività dei suoni, la loro bidimensionale fatuità fa sì che essi siano presenti, distratti testimoni,
a tutta la vita. E Savinio parla della maestà notturna del matrimonio (Pizzetti), del Dio barbuto enorme e carnoso (Musorgskij), delle astuzie per simularsi adulto (Mozart). Parla dell’infanzia: opera d’arte, tragedia da cui fuggire, età sperduta in una città ignota. Parla anche della Morte: ma poco, credo che la tenga in sospetto di profondità.
a tutta la vita. E Savinio parla della maestà notturna del matrimonio (Pizzetti), del Dio barbuto enorme e carnoso (Musorgskij), delle astuzie per simularsi adulto (Mozart). Parla dell’infanzia: opera d’arte, tragedia da cui fuggire, età sperduta in una città ignota. Parla anche della Morte: ma poco, credo che la tenga in sospetto di profondità.
Giorgio Manganelli (1977)
(dai "Cinque pezzi facili", L'Orma, 2014)
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