Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, settembre 20, 2014

Dialoghi con Wilhelm Furtwängler

Wilhelm Furtwängler (1886-1954
Walter Abendroth. Maestro, ieri sera la notai al concerto del suo collega X. tra gli ascoltatori nella sala dei Concerti Filarmonici. Un caso eccezionale!
Wilhelm Furtwängler. E' vero, da un certo tempo mi trovo in una situazione che mi porta a riflettere su cose alle quali da parecchio non avevo avuto modo di pensare. Godo di seguire i concerti e lasciare che la musica agisca su di me. Ne risento un vantaggio anche come artista: posso così considerare la mia attività di interprete in modo oggettivo e, in un certo senso, rendermi conto dei vari aspctti che non scorgo quando vi partecipo attivamente. Talvolta traggo da questa esperienza solo il vantaggio negativo di riconoscere ciò che va evitato.
Immagino che ieri sera sia stato appunto così. Le è parso giustificato l’entusiasmo del pubblico?
Per niente. Tuttavia lo comprendo, perché indubbiamente é stato raggiunto un certo effetto, sebbene non precisamente quello chc avrebbe dovuto suscitare il carattere dell'opera eseguita. Nel concerto di ieri sera si trattava in un certo senso di effetti "illeciti", che suscitati esteriormente, rimanevano pur sempre "effetti". Ma il pubblico non è in grado di giudicarc se certi effetti siano leciti o illeciti, ovverosia se siano giusti o meno. Ogni pubblico - e particolarmentc il nostro pubb
lico berlinese che ha le caratteristiche tipiche del pubblico di una grande metropoli - va considerato dapprima come una massa amorfa, che reagisce inconsideratamente e quasi automaticamente a qualsiasi suggestione. Le sue prime reazioni possono essere giuste, ma spesso anche fondamentalmente errate. Inoltre, la prima reazione è talmente legata a particolari contingenze, che sovente la suggestione che ne deriva, poco dopo non viene più compresa dal pubblico stesso che l’ha subita.
Come si spiega, ad esempio, il fatto che non solo la musica pura, ma anche quelle opere che si sono affermate più tardi con successo incondizionato e durevole - come la Carmen, l’Aida, la Bohème - siano state un insuccesso alla prima rappresentazione?
Che io sappia, a questa domanda non è mai stato risposto esaurientemente.
E' vero. E questo si spiega col fatto, che quanto accade nella vita musicale ha un carattere essenzialmente istintivo, imprevedibile e privo di vera coscienza. In altri termini, quello che si definisce per pubblico musicale non ha coscienza di se stesso. Condizione preliminare, perché l`ascoltatore - sia esso individuo o pubblico - possa giungere ad un giudizio concreto, e che abbia una certa disponibilità di tempo. Infatti occorre tempo per conoscere veramente un’opera, specie se di musica pura. E' difficile stabilire quanto tempo richieda un tale processo di comprensione e di chiarificazione, sia per un'opera musicale, che per un artista. Esso può svolgersi per decenni ed anche per un’in
tera vita. Basti citare un Bach, le ultime opere di Beethoven, artisti come un Bruckner.
Tuttavia va pure considerato che in molti casi l'origine dell’incomprensione va ricondotta alle manchevolezze dell’esecuzione: questo è il terzo fattore imprevedibile del quale va tenuto conto nelle realizzazioni musicali. La musica è legata a chi l'interpreta; essa non può - come le arti figurative - testimoniare per se stessa; è ovvio quindi che il destino di un’opera musicale ancora sconosciuta, dipenda in gran parte dall'interprete, sia esso cantante o direttore d’orchestra. Avviene raramente che un interprete possa migliorare un’opera mediocre, mentre è di ogni giorno che un’opera di valore venga resa male. Chi ascolta e non conosce affatto, o insufficientemente, un’opera non è assolutamente in grado di discernere se il mancato effetto possa essere attribuito all’opera stessa o al suo interprete.
La direzione dell'Orchestra Filarmonica ha pubblicato recentemente un elenco delle opere preferite dal pubblico berlinese e che riportano maggior successo di "cassetta". Se ne possono fare deduzioni interessanti per la psicologia del pubblico.
So a che cosa lei accenna: da un canto a quelle opere "popolari" che il pubblico - generalmente indolente - non si sazia di ascoltare e d’altro canto a coloro che si lagnano della svogliatezza di quel pubblico stesso che non ha la capacità di prendere posizione di fronte ad opere nuove.
Tuttavia mi chiedo da che cosa derivi il fatto, che
in definitiva ciò che ha valore si afferma con una misteriosa e infallibile logica interna? Donde nasce quel giudizio dei "posteri" che siamo consueti a considerare come ultima istanza?
Del resto, per quanto riguarda le opere "beniamine" del pubblico - secondo le statistiche dell`Orchestra Filarmonica di Berlino - pare, fra l’altro, che queste predilezioni vadano alle sinfonie dispari di Beethoven, all'incompiuta di Schubert e ad alcune sinfonie di Ciaicovski; predilezioni che derivano in parte da fattori pratici. Queste composizioni si distinguono per la loro grande chiarezza e la loro felice disposizione complessiva e per l’evidenza dell’invenzione che permane anche se l`esecuzione è manchevole o confusa. Tali opere né dipendono prevalentemente dalla qualità dell’esecuzione, né risentono profondamente di un’interpretazione inadeguata, come altre opere di grandi maestri, che pur non essendo di minor valore sono meno popolari. Più che la domanda, perché alcune opere siano predilette dal pubblico, mi parrebbe interessante sapere, perché alcune opere abbiano assunto e mantenuto ininterrottamente una posizione di favore, e perché i loro palesi successi non vengano meno col tempo. Vi sono molte composizioni di "effetto" vivissimo, maggiore di quello delle opere nominate, che dopo un certo tempo impallidiscono e finiscono con lo scomparire completamente. Si tratta per lo più di opere che mirano appunto più spregiudicatamente all'"effetto". Tra queste si annoverano composizioni del virtuoso Liszt, alcune di Berlioz, di Wagner, di
Strauss, di Ciaicovski, ecc.. Successo immediato e successo di lunga durata non sono per lo Più la stessa cosa. Anzi si direbbe quasi che un eccessivo e troppo consapevole effetto immediato, sia un certo ostacolo al successo più profondo e durevole.
Del resto avrà notato come anche nella vita si possa soggiacere ad una suggestione, pur rendendosi conto all’istante quanto poco essa valga. La reazione di un pubblico, appunto in quanto incosciente, sarà sempre commisurata al fattore che la provoca. Vi sono opere che scatenano un successo clamoroso, ma privo di contenuto; esso corrisponde alla loro stessa vacuità. Ad altre opere il pubblico reagisce in modo meno appariscente, sebbene il loro valore sia incomparabilmente superiore ed il loro effetto assai Più profondo. E' certamente errato dedurre la qualità dell’impressione e tanto meno il valore di un’opera d’arte dal consenso esteriore del pubblico. Il pubblico stesso - questo essere indefinibile - non si rende conto del come, né perché reagisca; ma esso reagisce necessariamente, inconsciamente, come un barometro. Si tratta in fondo di saperlo leggere, questo barometro, di saperlo decifrare.
Il pubblico stesso non è in grado di farlo, tanto che il singolo, anche se è un esperto (come ho avuto modo di constatare mille volte), non si rende minimamente conto della ragione del suo giudizio. Se lo si interroga, la sua risposta - ovverossia il suo giudizio cosciente - rispecchierà qualsivoglia pregiudizio, una quantità di associazioni che stanno
in primo piano nella sua coscienza, anziché l’effettiva impressione riportata. Ma di fatto, proprio mediante questa impressione effettiva, il singolo
partecipa spontaneamente ed inevitabilmente all’intimo formarsi dell’opinione del pubblico e non con
concetti e pregiudizi che sono l’aspetto limitato della sua individualità. Dingelstedt, vecchio esperto, così si espresse una volta: "Il giudizio del singolo può essere errato di sana pianta, ma il pubblico come un tutto è maledettamente accorto."
Non sarebbe effettivamente un compito per la critica il chiarire l’opinione che il pubblico ha di se stesso e dei suoi giudizi?
La critica non se ne può occupare - pure ammesso che lo voglia, o creda di poterlo fare - poiché essa stessa fa parte del pubblico. La contraddizione sta nel fatto che l'immediata reazione del pubblico pur essendo sovente errata, coglie il vero nel suo giudizio ultimo. Come già accennavo, questa contraddizione nasce dal fatto che al pubblico è indispensabile un certo tempo per prendere posizione di fronte ad un artista o ad un'opera d’arte e ciò tanto più quanto maggiore ne è l’importanza e l'incommensurabilità. Non è per niente strano che dapprima il pubblico opponga una certa resistenza a quanto gli è ignoto. Tuttavia è assolutamente inevitabile che esso infine soggiaccia al "nuovo", se questo possiede un vero valore intrinseco.
Bisogna anche rendersi conto dell’influenza reciproca tra artista e pubblico: entrambi si realizzano vicendevolmente solo in questo rapporto reciproco.
Se l’artista non cogliesse le possibilità latenti nel pubblico e non le dominasse, dando loro forma nell’opera d’arte, a sua volta il pubblico - che qui possiamo chiamare anche "massa" - non giungerebbe alla coscienza di sé. Inizialmente il pubblico non è che una qualsiasi massa amorfa di individui.
Per paradosso: che ne sarebbe della vita musicale, dei nostri concerti, se Beethoven non avesse scritto le sue sinfonie? Tanto i predecessori, quanto i successori di Beethoven, ma anzitutto egli stesso, hanno veramente creato quello che si può chiamare il pubblico dei concerti. Questo particolare pubblico si differenzia nettamente dalla massa amorfa e inerte, poiché - grazie alla creatività dell'artista - esso dispone di particolari criteri ed ha esigenze che l'artista a sua volta deve soddisfare, D’altra parte però anche l’artista ha delle esigenze di fronte a quelle che gli pone il pubblico. Il pubblico sa che l’artista gli chiede una presa di posizione: questo mandato gli conferisce una dignità sua propria. E' naturalmente tutt’altra cosa, se una massa amorfa si eleva ad una forma d’unità partecipando ad una corsa di cavalli, a un incontro pugilistico oppure ascoltando una sinfonia di Beethoven. Si tratta essenzialmente dello spirito che dà origine a questa unificazione.
Anche nel Campo artistico si manifestano queste diversità. Wagner chiama “effetti" quelle emozioni che colpiscono il pubblico dal di fuori, che per un attimo lo fanno essere una massa inebriata, senza tuttavia portarlo ad una vera unità spirituale:
egli li definisce laconicamente “effetti senza causa". Appunto al tempo di Wagner, al sorgere dei grandi virtuosi, i musicisti cominciarono a seguire e a sfruttare questi “effetti senza causa”. Da allora il rapporto fra pubblico e artista cominciò a essere un problema e lo è rimasto tuttora. Sorse allora il crescente straniarsi tra pubblico e artista, che oggigiorno è uno dei maggiori pericoli che minacciano la nostra vita musicale. L’affannosa ricerca dell’effetto, principiata al tempo di Wagner-Liszt, è un segno palese dell’inizio di questo reciproco straniarsi. L’esaltazione dell’effetto era di fatto il tentativo di superare questo allontanamento, come oggi, in altra forma, le società corali, le organizzazioni giovanili, ecc. tentano di creare un'opera, partendo dalla comunità, proprio contrariamente a quanto si era fatto finora: cioè creare una comunità in base ad un’opera. La meta: la formazione di una vera “comunità”, non cambia.
Sta di fatto che il potere di trasformare - sia pure per brevi istanti - un pubblico in reale comunità, lo hanno solo quelle opere che sanno cogliere l’individuo non come un individuo singolo, ma come elemento del popolo, dell’umanità e della natura divina che in lui si irradia. Solo mediante simili opere un pubblico può giungere alla piena coscienza delle facoltà che in lui sono latenti. Queste sono le opere: che il singolo cerca e richiede nel suo intimo, anche se le sue reazioni possono sembrare casuali c indiscriminate. Ciò non toglie che in realtà - come ci dimostra l'esperienza - il p
ubblico si opponga a tali opere e si arrenda loro con una certa ostilità. Il pubblico è donna: vuol esser costretto alla propria felicità.
Vuol forse dire che il successo del pubblico sia piuttosto un argomento negativo per un’opera d’arte?
No certo; sarebbe una conclusione troppo semplice ed affrettata. Negare il valore delle opere di Beethoven, perché hanno successo di pubblico, sarebbe davvero eccessivo. Ma proprio l’esempio di Beethoven dimostra con evidenza l’autenticità e la validità di questi successi. Le sue opere agiscono appunto esclusivamente per quello che sono e non per quello che rappresentano; esse agiscono per la loro natura ed essenza e non per il loro aspetto esteriore. Che Beethoven agisca in modo così particolare deriva dalla chiarezza con la quale egli esprime ciò che ha da dire. La massima chiarezza dell’espressione è appunto il modo - anzi l'unico modo - dato all’artista per dominare il fattore “pubblico". Goethe disse: "Se qualcuno ha da dirmi qualcosa, bisogna che lo dica in modo chiaro e semplice. Di problemi me ne pongo a sufficienza da me". Evidentemente la premessa indispensabile è che si abbia qualcosa da dire, ovverossia che ci si possa, per così dire, mettere a nudo, senza veli, come si è. Ma questo non è di tutti. Anche gli artisti - e questi anzi in modo particolare - si esprimono sovente in modo complicato ed hanno per lo più buone ragioni per farlo.
Vi sono opere d'arte che mirano di proposito all'effetto; ma ve ne sono pure di quelle che agiscono per la loro stessa natura. Questa è la ragione perché alcune di esse col tempo perdono d'intensità d'effetto ed altre no.

da "Dialoghi sulla musica" di Wilhelm Furtwängler (Edizioni Curci, traduzione Elena Grassi)