Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, agosto 26, 2011

Richard Wagner a Venezia

Bettina Brentano s'inventò un carteggio con Goethe che rappresenta, come sforzo di fantasia inventiva, un caso estremo. All'estremo opposto, Alma Mahler diede un resoconto fedele e (quasi sempre) inconfutabile della propria vita coniugale con l'illustre compositore, ma se il disegno è veritiero i colori sono tendenziosi. Forse nessuna delle due fu una mentitrice, se rifiutiamo l'equazione verum ipsum factum: la verità non coincide in assoluto con le certezze acquisite e veríficabili. Chi potrebbe definire veritieri, nel senso che tale aggettivo ha nella storiografia e nella letteratura biografica, i testi «storici» di una tradizione religiosa fondata sulla «rivelazione»? Chi darebbe per certa l'affidabilità storiografica del Pentateuco o dei Vangeli sinottici? In realtà, non è questo che conta perché una fede viva, perché viva un mito, e d'altra parte anche una tendenziosa falsificazione è un factum, e come tale è un dato storico. A questo proposito, come possiamo giudicare le memorie wagneriane di Henriette Perl? Il libro che qui presentiamo non è citato - se non una o due volte, e di sfuggita - nelle biografie e nelle bibliografie. Si trova nella Biblioteca del Richard Wagner Museum di Bayreuth (segnatura: A 613), dove non gode di particolare attenzione da parte dei lettori e degli studiosi. A Venezia, seconda città wagneriana dopo Bayreuth ma tale da vantare il primato come centro spazio-temporale di funeraria sacralità per i wagneriani dell'intero universo, di questo libro della Perl fu rintracciata alcuni anni fa una copia nella Biblioteca Querini Stampalia, dopo un'avventurosa ricerca, da Alessandra e Giuseppe Pugliese. Un colore alquanto posticcio e artificioso già ci colpisce nel frontespizio dell'edizione in caratteri gotici, vecchia di centodiciassette anni: «la» Perl si firma con il prenome adattato al maschile, «Henry», e per giunta in forma non tedesca ma britannica. Indizio di una tendenza congenita a truccare le carte, a mascherare? Se così fosse, dovremmo sospettare di Novalis, di Georges Sand e di George Eliot (si licet parvis componere magna).
Come dobbiamo accogliere la Perl nella nostra biblioteca wagneriana? Certo, con un fremito di piacere, da collezionisti finalmente appagati. Quest'autrice è stata, per più d'un secolo, un flatus vocis bibliografico, un fuggevole brandello di fantasma. Ora la possiamo leggere senza forzare le celle segrete delle biblioteche, senza chiedere l'intercessione di qualche archivista che si dia da fare per noi. Ecco qui il libro, a portata di mano, edito con cura, tradotto e con il testo originale in anastatica. Che cosa si vorrebbe chiedere di più? Ma possiamo coltivare qualche dubbio sull'utilízzabilità del documento a fini storiografici e biografici. E' vero: lo stesso mito di Wagner (connesso, d'altra parte, con la precisa conoscenza che dobbiamo avere di Wagner: c'è complementarità, non opposizione) arricchisce la nostra vita e allarga smisuratamente il nostro respiro e il nostro orgoglio di uomini d'Occidente, poiché ci fa sentire più europei e più forti nel riaffermare i nostri connotati nettamente distinti dal meticciato cosiddetto multiculturale che tanto sta a cuore al pupulismo Lumpen-cattolico. Quel mito è un bene culturale. La nostra felicità lo esige. Spostiamo allora la domanda dalla legittimità alla natura di ciò che è a priori legittimo, dalla possibilità (scontata) alla specificità di una funzione. Se il libro della Perl, scritto a tamburo battente dopo la morte di Wagner (chissà, forse premeditato a mo' di coccodrillo, tanto tempestiva fu la sua realizzazione) e pubblicato «a caldo», è un bene culturale e un monile per quanto piccolo del nostro tesoro wagneriano, di quale tipo di bene possiamo disporre? Ha, esso, un valore storiografico? Storico-estetico? E' un documento non tanto di biografia wagneriana quanto di vita veneziana? E', in realtà, l'autobiografia immaginaria di un'attempata bas-bleu tedesca?

A dire il vero, le credenziali di accompagnamento, mentre si attua il kairós dell'edizione italiana (che è anche la prima reviviscenza del libro, in assoluto, dal fatale 1883), potrebbero suscitare qualche preoccupazione. Sven Friedrich, direttore del Richard Wagner Museum e dell'Archivio Nazionale e Centro di Ricerca della Fondazione Richard Wagner di Bayreuth (Villa Wahnfried), ci offre notizie preziose, non immuni da riserve. Henry Perl è lo pseudonimo di Henriette Perl, nata a Leopoli (in tedesco Lemberg, in polacco Lwow, in russo Lvov, oggi città dell'Ukraina) il 24 dicembre 1845, morta a Fürstenfeldbruck presso Monaco di Baviera il 10 maggio 1915. Henriette trascorse l'infanzia presso parenti del ramo materno trapiantati in Italia, e acquisì una piena padronanza della nostra lingua. In quel periodo, soggiornò a Napoli, a Palermo, a Firenze, a Venezia. In un primo tempo fu destinata a una carriera teatrale come cantante d'opera, ma nel 1861 sposò un ricco industríale edile di nazionalità austriaca, e venne a far parte di un milieu agiato e mondano. Dal 1861 al 1876 visse alternando soggiorni a Vienna e a Praga. Un disastro finanziario, conseguente al crollo della Borsa di Vienna nel 1873, coinvolse la famiglia di suo marito; da allora, Henriette si guadagnò da vivere come traduttrice e autrice di romanzi popolari e di libri di viaggi. Questa attività la costrinse a una vita girovaga che la condusse anche in terre lontane. Nel 1878, dopo un soggiorno itinerante in Ameríca, Henriette ritornò in Europa, e di lì a poco andò ad abitare a Venezia esercitando la professione di scrittrice. La ricchezza di un tempo era sfumata, ma il mestiere letterario consenii alla Perl una sicura indipendenza economica e la frequentazione di ambienti «altolocati»: l'aggettivo suona un po' comico, ma si adatta alle ambizioni di questa donna, che non si rassegnava all'emarginazíone né al declassamento sociale.
Secondo l'opinione di Sven Friedrich, si può dubitare a buon diritto dell'autentícità di ciò che Henriette narra e descrive in questo libro: un misto di finzione e realtà, di rappresentazione poetica e di notizie udite e apprese da altri. In ogni caso (tale è sempre l'opinione di Sven Friedrich) Henriette Perl non appartenne alla più ristretta cerchia wagneriana, bene rappresentata in questo libro (appartenervi sarebbe stato per lei toccare il cielo con un dito), e forse più d'una volta il portone di Palazzo Vendramin le fu chiuso in faccia. Per noi, afferma il direttore del Richard Wagner Museum, ella è soltanto una cosiddetta testimone dell'ultimo periodo di vita di Richard Wagner. Inoltre, alcuni fatti da lei narrati sono, a giudizio di Sven Friedrich, palesemente falsi, o quanto meno tali da suscitare dubbi. L'orientamento giudicante adottato da Friedrich è del tutto ragionevole, e si colloca al centro, equidistante dallo scetticismo radicale e da un'illimitata apertura di credito. E' un atteggiamento di esemplare equilibrio critico. Tuttavia, rispetto a Friedrich noi saremmo da un lato più restrittivi, dall'altro donatori di maggiore fiducia. Non alcuni ma molti dettagli suscitano dubbi: non tanto per la veridicità delle notizie in sé (tra poco diremo perché dubitiamo meno dei «fatti») quanto per il tono e per l'intenzionalità del referto. All'inverso, crediamo che mai o quasi mai la Perl inventi di sana pianta: la narratrice è, piuttosto, condannata ad essere una fonte secondaria, mentre coltiva l'ambizione di essere una fonte primaria, ed è un'ambizione personale e sociale piuttosto che storiografica.
Esaminiamo bene la questione. Un nucleo di verità, che non appartiene alla cronaca ma alla realtà del mito wagneríano, c'è, e riguarda da vicino l'autrice. Questa verità, abbagliante e assoluta, è la sua fede nella grandezza di Wagner: alla volontà di affermare tale grandezza, la Perl è pronta a sacrificare tutto. E' uno stato d'animo diffuso in Europa, nel 1883, e l'autrice, dalla distanza ravvicinata del suo osservatorio veneziano, ne è partecipe. A chi avanzi il ragionevole sospetto che ciò potrebbe essere un'ostentata e snobística scelta di campo, sospinta dalla volontà di far parte comunque, anche post mortem, della cerchia di eletti, obiettiamo che certe temerarie difese del personaggio nel momento stesso in cui ne sono esposti crudamente certi connotati gretti e insopportabili, sono, sì, altrettanto insopportabilmente enfatiche, annegate nel cattivo gusto e trasudanti uno stile che più kitsch non potrebbe essere, ma sono proprio la loro temerità e il loro voler difendere una causa persa i caratteri che ci convincono. Esporsi alle confutazioni e persino alla derisione implica coraggio, e il coraggio implica la fede incrollabile. Se Richard Wagner è il Gesù Cristo della musica, colui che chiude l'Antico Testamento dell'arte e inaugura il Nuovo, Henriette Perl vuol essere il suo Evangelista. Credo quia absurdum.
Un esempio eminente: la descrizione (si suppone, appresa da altri) dello studio di Wagner a Palazzo Vendramin, del suo arredamento floreale e decadente e della sua luccicante tappezzeria. Si noti un aspetto che dovrebbe apparire come una prova a favore dell'onestà di un'autrice, associata paradossalmente all'appassionata tendenziosità: la Perl introduce nell'ammírazione estatica considerazioni di realistico buon senso. «Ma quei fiori artificiali emanavano il più prezioso e raro profumo d'essenza di rose (vien da pensare a Hofmannsthal e al secondo atto del Rosenkavalier, con il raffinato aroma nascosto nella rosa d'argento annusata da Sophie), che diffondeva nella stanza un'atmosfera tale da sovreccitare i nervi. Quell'atmosfera e quell'eccitazione non mancarono certo di produrre dannose conseguenze sulla salute di chi tanto a lungo soggiornava nella camera da noi descritta». Eppure, la bandiera di Henriette Perl è l'assenso entusiastico. Richard Wagner non poteva fare a meno di quel lusso ridondante, poiché ciò era per lui una necessità creativa. Sembra quasi che ai nemici di Wagner, coloro che di quell'arredamento facevano oggetto di beffarda irrisione da lei ben conosciuta, la Perl dica animosamente: «Certo, voi siete persone equilibrate, amate la sobrietà, non vi occorre il lusso! non avete nulla da creare!».
Ebbene, questa fede irremovibile avrebbe potuto generare un panegirico tutto d'un fiato, un affresco agiografico, un monumento pompier celebrativo e compatto che darebbe di Wagner un'immagine inevitabilmente deformata. Nulla di tutto questo. Il libro è interessante proprio perché è costruito con materia eterogenea, sgangherato e sproporzionato. La stessa autrice, nella prefazione datata «Venezia, di mezzo aprile 1883» («Mitte April 1883», a due mesi dalla morte di Wagner!), definisce il proprio libro come una raccolta di «tessere di mosaico»: una silloge di notizie messe insieme grazie alle fonti più disparate, più o meno accreditate, più o meno significative, secondo il criterio dell'accumulo, in cui alcuni dettagli, sia pure ricchi d'interesse (la descrizione di Palazzo Vendramin), sono smisuratamente gonfiati rispetto a considerazioni di maggior peso, assai più pertinenti, che invece sono date di scorcio. Ciò significa, quanto meno, un'autentica volontà (sia pure, in certi casi, velleità) di documentazione.
Uno sguardo alla struttura del libro ce ne dà conferma. Gli eventi racchiusi tra il 16 settembre 1882 (quando i Wagner giunsero a Venezia prendendo alloggio all'Hotel Europa; il trasloco a Palazzo Vendramin ebbe luogo il 24 settembre) e il 16 febbraio 1883, giorno in cui la salma di Wagner partì per Bayreuth, sono narrati in 14 capitoli, secondo la seguente articolazione:
  1. Preludio sinfonico in stile tragico: grandezza di Venezia, grandezza di Wagner.
  2. Venezia di notte al chiaro di luna: itinerario ideale sino a Palazzo Vendramin.
  3. Descrizione dettagliata di Palazzo Vendramin.
  4. Arrivo e insediamento della famiglia Wagner nella dimora patrizia.
  5. Vita quotidiana dei Wagner.
  6. Affetti familiari. Arrivo di Franz Liszt.
  7. Un dipinto di Joukowsky: i Wagner rappresentati come Sacra Famiglia.
  8. Il Natale 1882, Wagner dirige per l'ultima volta. La Sinfonia in Do maggiore.
  9. Il Capodanno 1883. Ríchard Wagner, Cosima Líszt e l'eros coniugale.
  10. Il Carnevale 1883 a Venezia. Come Wagner vi partecipa.
  11. Partenza di Liszt. Preoccupanti malesseri di Wagner. Il suo stato di salute.
  12. Morte di Wagner.
  13. Preparativi per le esequie.
  14. Partenza della salma e dei familiari per la Germania.
Le sproporzioni sono vistose, ed è evidente il procedimento per accumulo, non pianificato. Le notizie sono raccolte senza una chiara gerarchia d'importanza, e l'autrice si sofferma su ciò che sa meglio e che con maggiore facilità ha acquisito. Proprio da questo nasce il lieve e insidioso fascino del libro.
Esclusa, come sembra, dalla cerchia degli intimi di casa Wagner, la Perl attinge a fonti vicine al personaggio venerato, e particolarmente loquaci. Importante fra tutti è il dottor Friedrich Keppler, medico curante di Wagner. A lui si devono i ragguagli sulla malattia e sugli ultimi giorni del Maestro, posti dalla Perl in apertura del libro. E' problematico tradurre l'apostrofe iniziale, «Ew. Hochwohlgeboren!», che lascia nell'ambíguità se il destinatario sia maschile o femminile. Abbiamo scelto la forma «Illustre signore» anziché «Gentilissima signora» per rispettare la finzione voluta dalla Perl nell'adottare lo pseudonimo. Altre fonti sono Pietro Falcieri, portiere di Palazzo Vendramin, detto «Garibaldi» da Wagner a causa dell'imponente barba bianca; Luigi, l'affezionato gondoliere di cui il compositore si serviva per le sue escursioni acquatiche; forse anche la governante Betty Bürckel, e Achille Colonnello, cameriere di fiducia di Franz Liszt. Ma certo la Perl intrattenne conversazioni con le persone che Wagner frequentò a Venezia in quei mesi; in particolare, il titolare della pasticceria Lavena, e alcuni musicisti veneziani.
Certo, manca un piano organico di documentazione, e la sola strenua volontà non soccorre l'autrice. Proprio i temi di maggiore importanza sono inquinati da invenzioni fantasiose. Le scene di disperazione che in casa Wagner seguirono la morte del Maestro, e soprattutto il comportamento di Cosima, ispirato a cattivi modelli melodrammatici, sono pure orationes fictae, parti d'immaginazione. La cronaca di ciò che seguì alla morte di Wagner è contestabilissima nei dettagli, poiché esistono ben altre fonti che danno versioni dissimili e assai più sicure. Ma d'altre notizie siamo davvero debitori alla nostra autrice: la descrizione del dipinto di Joukowsky, la cui fonte è enigmatica; la terrificante barzelletta narrata dal dottor Keppler all'autrice (così ella asserisce, e, pare, con veridicità) il 12 febbraio 1883, vigilia della morte di Wagner, e intrisa di freddure a proposito degli ebrei; il puerile hobby del giovane conte Bardi, proprietario di Palazzo Vendramin e giocherellante con la modellistica navale.
Questa materia, eterogenea e frammentaria nelle fonti, nella qualità, nel suo valore significativo e nell'autenticítà, corrisponde all'eterogeneità dello stile, che sovente è chiacchiera e aneddoto, ma talora assume un tono lirico e iper-retorico, come nel secondo capitolo dedicato a Venezia notturna («La luna, alleata del Vero ... »). Per giunta, l'autrice è incline al voyeurismo: si pensi al pruriginoso desiderio di «entrare» con lo sguardo nell'inaccessibile studio di Wagner, e all'inverosimile e tristaniana scena d'amore tra Wagner e Cosima (già, nello studio!) la notte di Capodanno: un altro delirio dellìimmaginazione. Un taglio voyeuristico è dato alla stessa figura di Wagner, che da una finestra spia di nascosto i giochetti del conte Bardi alle prese con i modellini nautici. Non basta: l'autrice è attratta, come ogni vero voyeur, dal macabro: nelle scene luttuose e funerarie ella dà (si fa per dire) «il meglio di sé». Una personalità, la Perl, da prendersi con le molle; un libro, il suo, di modesta qualità letteraria, nel quale abbondano l'enfasi, l'iperbole e le maldestre pose teatrali. Ma molte di queste tessere di mosaico non sono falsificate, brillano di luce propria. La narrazione è íncalzante, cattura il lettore, lo guida velocemente alla conclusione lungo un percorso segnato da tracce che non sono ingannevoli, e che in maniera tortuosa e spesso irritante ci conducono a conoscenze insolite, a nuove, esili verità.
 
prefazione di Quirino Principe al libro "Richard Wagner a Venezia" di Henry Perl, Marsilio, 2000

sabato, agosto 06, 2011

Chiara Massini: Ostinati, Toccate e Fughe

Il genere "toccata" compare per la prima volta intorno alla metà del XIV secolo ed indica una composizione per complesso di strumenti a fiato, proposta in occasioni festive. Il termine deriva dal verbo "toccare" ovvero suonare strumenti (a fiato). Nel primo '500 l'Intabulatura de lauto: Libro quarto (Venezia, 1508) di J.A. Dalza ci fornisce testimonianza di toccate dette Tastar de corde destinate al liuto, che fungono da preludio: accordi e passaggi veloci hanno un carattere improvvisativo e permettono di ultimare l'accordatura dello strumento prima dell'esecuzione del ricercare.
Nel secondo '500 la toccata si trasferisce alla tastiera, primariamente all'organo, mantenendo l'originaria funzione introduttiva e la struttura accordale con rapide figurazioni: l'intonazione di Andrea Gabrieli, che accompagna i fedeli ante e post missam, permette all'organista di sfoggiare la propria abilità virtuosistica e di prendere confidenza con lo strumento per sfruttarne le potenzialità e nel contempo agevola il coro alla corretta intonazione. La toccata di Giovanni Gabrieli si arricchisce di un episodio centrale in stile contrappuntistico-imitativo.
La forma si rinnova ancora una volta in area veneta, a fine secolo, con Claudio Merulo. Magister elegantiarum nell'arte della diminuzione, Merulo compone toccate nel modo "moderno", "non soggetto à battuta" espressione dei cosiddetti "affetti", per mezzo di un utilizzo espressivo dei modi; ormai completamente autonoma rispetto alla musica vocale, la toccata si presenta senza soluzione di continuità come alternanza di episodi imitativi e "stilemi affettuosi" che l'allievo e suo devoto estimatore Diruta, nel Transilvano, chiama groppi, tremoli, accenti, passaggi, cascate, clamationi, tremoletti.
Nella prima metà del XVII secolo le "deboli fatiche" del ferrarese Girolamo Frescobaldi rappresentano una mirabile e rielaborata sintesi della tradizione nord-italiana e napoletana. Si tratta della musica più libera mai scritta fino ad allora: composizioni fantasiose ed improvvisative, melodicamente prive di schemi fissi ma soggette ad un'armonia raffinata ed evoluta rispetto al sistema modale di riferimento. L'rtificiosità delle toccate nasce dalla concertazione tra attività speculativa (contrappuntistica) e concezione pratica (tastieristica). La varietas che le contraddistingue è evidenziata da Frescobaldi stesso negli Avvertimenti: la "maniera di sonare con affetti cantabili e con diversità di passi" altro non è che la traduzione strumentale degli affetti propri del madrigale moderno; il binomio affetto-effetto scaturisce dall'esposizione di motivi sempre nuovi e contrastanti (toccate... copiose di passi diversi et affetti) e dal variare sia dell'armonia sia del tactus che "non dee star soggetto à battuta" ma adeguarsi all'affetto (... per mezzo della battuta portandola hor languida, hor veloce, e sostenendola etiandio in aria secondo i loro affetti, o senso delle parole).
Luigi Ferdinando Tagliavini attribuisce alla toccata una scrittura volutamente "approssimativa" su cui l'esecutore interviene per reinterpretare i moti dell'animo offerti dalla "traccia", dandone una forma definitiva secondo il proprio estro e virtuosismo; questa forma "aperta" è affine al francese prélude non mesuré.
Se la toccata frescobaldiana si struttura per passi (brevi sezioni senza cadenze sulla finalis del modo d'impianto) che si sviluppano senza intaccare la compiutezza dell'intera architettura, diversa è la struttura nel suo allievo Johann Jakob Froberger: esempio di toccata italiana rivista da un tedesco, essa è più chiara, suddivisa in sezioni ben distinte e contrastanti, meno sorprendente dal punto di vista armonico e melodico, in sostanza meno libera.
L'impianto a più sezioni sarà determinante per lo sviluppo del genere nel secondo '600 e a seguire: la toccata o si inserisce tra i movimenti della suite o della sonata oppure si accosta alla fuga.
In Bach la toccata diviene summa delle svariate tecniche compositive ed esecutive della tradizione: l'ampia struttura si articola e si impreziosisce di molteplici possibilità stilistiche e formali. Le sette toccate per clavicembalo (BWV 910-916), risalenti all'epoca di Weimar, comprendono sezioni con passaggi in stile passeggiato-improvvisato, secondo il principio dominante del concerto (dialogo solo-tutti), alternati a uno o due movimenti fugati (a 3 o 4 voci) di impianto rigorosamente contrappuntistico che rappresentano il climax della composizione. La ripartizione prevede dalle tre alle cinque sezioni, delle quali la prima è un breve episodio preludiante con figurazioni virtuosistiche, elaborazioni motiviche e ritmiche cangianti; ne seguono una seconda o in forma di fuga o di adagio in stile arcaico ed una conclusiva fuga. Tuttavia è bene sottolineare che questo genere musicale non si rinchiude in una formula univoca, anzi la variabilità dell'articolazione interna convalida l'origine della toccata come forma libera sulle orme dello Stylus Fantasticus.

CIACCONA E PASSACAGLIA
Generi strumentali in forma di variazione, ciaccona e passacaglia derivano dall'evoluzione, avvenuta in epoca barocca, di danze popolari spagnole. Sono forme che si sviluppano su un tema o su uno schema armonico fisso oppure su un basso ostinato. Entrambe di andamento moderato, nel repertorio tastieristico italiano, esse si differenziano sostanzialmente nel ritmo: la ciaccona presenta un metro ternario in ritmo binario (tactus inaequalis), la passacaglia un metro binario in ritmo ternario (tactus aequalis) che la rende più lenta e solenne; quest'ultima, costituita da una misura composta, si configura secondo due livelli metrici (due misure di 6/4 o quattro di 3/4), dunque offre più possibilità compositive.
In Italia e Spagna la passacaglia non impiega il basso ostinato, mentre la ciaccona si caratterizza per la forma ostinata secondo un basso formato da tetracordo discendente. In Francia è la passacaglia ad assumere il basso ostinato ed in area tedesca la tendenza è quella di seguire la tradizione francese.
Sebbene i due generi a volte si confondano e le discrepanze non sembrino sottostare a canoni predeterminati, qualche teorico ha tentato una classificazione: per Johann Mattheson se la passacaglia privilegia la tonalità minore, la ciaccona impiega quella maggiore; altri studiosi evidenziano che nella prima il tema ostinato può essere trasposto, quindi fungere da "elemento motore" per l'elaborazione delle successive variazioni, contrariamente a quello della ciaccona che permane al basso e costituisce la semplice base armonica dell'intera composizione.

note di Valentina Morgagni al CD "Ostinati, Toccate e Fughe", Chiara Massini clavicembalo (Goldberg Records, 2010)