Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, maggio 30, 2009

Webern: "Il cammino verso la nuova musica"

Lectio III

Oggi ho la mente piuttosto confusa per una indisposizione.
Non ci occuperemo di punti di vista, ma di fatti. Parleremo dello sviluppo della nuova musica. Che cosa è stato decisivo per essa? L'ultima volta abbiamo trattato uno dei punti di tale problema: la progressiva conquista del materiale fornitoci dalla natura. Ho analizzato le cose fondamentali: come si è prodotta la scala diatonica, come un accordo, semplice o complesso che sia, derivi sempre dalla natura, come lo sviluppo abbia proceduto dall'iniziale conquista delle cose più prossime; a riprova di questo vi ho portato l'esempio della triade, che è il derivato degli armonici più vicini. Da un tale punto seguì il progressivo sfruttamento di questo materiale dato dalla natura.
Il secondo punto è: qualcosa doveva esser detto. Che cosa? Pensieri. Come sono stati formulati i pensieri secondo leggi musicali? Ora seguiremo, a grandi linee, questo sviluppo, perché riteniamo che fra tutte le tendenze date, ce ne sia una che deve apparirci come la realizzazíone di quella che è stata l'aspirazione dei grandi compositori, fin da quando si è cominciato a pensare in termini musicali.
Esposizione di un pensiero musicale: come si può configurarla? Come esposizione di un pensiero in suoni! Volendo esprimere un pensiero sotto un tale aspetto, si devono presupporre delle leggi valide. Tutto ciò che accade, tutto ciò a cui si tende, sarà per soddisfare queste leggi. Qualcosa viene espresso in suoni, quindi c'è analogia con il linguaggio. Se devo esprimere qualcosa, subito si presenta la necessità di farmi capire. E questo posso farlo se mi esprimo il più chiaramente possibile. Ciò che io dico deve essere chiaro. Non devo perdermi in particolari, qualunque sia l'argomento trattato. Esiste una parola precisa per questo: comprensibilità. Il principio primo dell'esposizione di un pensiero è la legge della comprensibilità. E questa, è chiaro, deve essere la legge suprema. Che cosa deve accadere perché un pensiero musicale divenga comprensibile? Riflettete: tutto quello che è accaduto nelle varie epoche ha teso unicamente a questo scopo.
Avanziamo di un passo: cosa significa la stessa parola «comprensibilità»? Prendete la parola in senso strettamente letterale; cioè nel senso di «comprendere», «prendere» qualcosa: se raccogliete un oggetto nella mano lo avete «preso». Ma non possiamo, ad esempio, raccogliere in una mano un edificio, «prenderlo». Quindi, in senso più lato: comprensibile è qualcosa che si può abbracciare con lo sguardo, di cui si possono distinguere i contorni. Davanti a una superficie liscia viene a mancare la possibilità stessa di «comprenderla». Sarebbe diverso se fosse dato almeno un inizio. Avere questo inizio significherebbe poter giungere all'articolazione.
Ampliamo ora il quadro! Abbiamo parlato di una parete liscia, e qui vediamo, ad esempio, una parete liscia articolata da colonne. Questo naturalmente è uno schema del tutto primitivo, ma c'è pur sempre un indizio di articolazione. La cosa sarebbe del tutto diversa se ci fossero altri punti di appoggio. Che cosa significa dunque articolazione? In senso generale: poter procedere a un sezionamento allo scopo di analizzare una cosa, di distinguere gli aspetti principali da quelli secondari. Questo è importante per farsi capire, e questo deve esistere anche nella musica. Se volete rendere chiaro qualcosa a qualcuno, non dovete perdere di vista la cosa principale, l'essenziale, e se volete spiegare qualcosa, non dovete mettervi a saltare di palo in frasca. Si deve dunque mantenere la coerenza, altrimenti si diventa incomprensibili. Ecco un elemento che gioca un ruolo particolare: la coerenza è importante per rendere comprensibile un pensiero. Schönberg aveva persino in progetto di scrivere un libro «Sulla coerenza nella musica». Riassumiamo, in sintesi, tutto quello di cui abbiamo parlato: articolazione, cioè distinzione fra parti principali e parti secondarie, e coerenza.
Si potrebbe dire che da quando si scrive musica, lo sforzo della maggior parte dei grandi artisti è consistito nel rendere sempre più chiara questa coerenza. Tutto ciò che è stato fatto deriva da un tale sforzo, e io, ritengo che ai nostri giorni si sia conquistato un grado più alto di coerenza, e precisamente con il tanto osteggiato metodo di composizione che Schönberg ha definito «composizione con dodici suoni in rapporto fra loro». Analizzeremo questo metodo alla fine delle conferenze. L'aspetto che più mi preme è mostrare come si è snodato il cammino che ha portato a questo metodo, e come esso sia stato la nostra aspirazione.
La composizione dodecafonica ha raggiunto un grado di perfezionamento della coerenza, che prima non esisteva neppur lontanamente... E' chiaro che dove esistono soprattutto rapporto e coerenza, anche la comprensibilità è garantita. Tutto il resto è dilettantismo, nient'altro, e così è stato in ogni epoca! E questo non soltanto in musica, ma in ogni altro campo artistico. Per quanto riguarda l'arte figurativa, la pittura, per esempio, posso supporre, se non provare, che esistono anche in essa rapporti tali che garantiscano la coerenza; so per certo che per la parola è così!
La coerenza al servizio della comprensibilità del pensiero! Nelle varie epoche dell'arte musicale si è tenuto conto di questo principio in diversi modi. Oggi però desidero dedicarmi a una sola cosa, basilare per le nostre considerazioni.
Dobbiamo parlare dello spazio che un pensiero musicale può occupare.
In ogni caso è possibile e immaginabile, per esempio fra i popoli primitivi, che un pensiero musicale sia reso da una sola voce. E la melodia del pastore nel Tristano, dunque in un'epoca in cui già esisteva il colossale in musica, è un esempio che anche in quel tempo era possibile raggiungere un alto grado di espressività con una sola voce. E sarebbe assolutamente incomprensibile se qualcuno volesse comporre una musica diversa su questa melodia per «renderla più chiara»! Ciò che nella musica più recente è un caso unico, era usuale agli inizi. Il canto a una voce nella musica occidentale è stato dato come regola nel canto gregoriano. Da questo punto della storia cominceranno le nostre considerazioni, il nostro cammino.
Ma desideriamo subito dire che ben presto parve importante non limitarsi a una sola voce nell'esposizione di un pensiero musicale; si cerca di conquistare un maggiore spazio. Risuonando più voci contemporaneamente, si crea una dimensione di profondità; l'idea musicale non viene espressa da una sola voce, e questa è la forma di esposizione polifonica di un'idea musicale. Come si deve intendere l'insufficienza di una sola voce, la necessità di usare più voci per esporre un'idea musicale?
Cerchiamo di chiarire questo punto. Ben presto si avvertì il bisogno di inserire un'altra dimensione. Se all'inizio le idee erano esprimibili da una sola voce, più tardi, divenute esse più vive, questo mezzo espressivo si è rivelato insufficiente; si è così resa necessaria la conquista di un nuovo spazio e l'inserimento di altre voci. Questo non è stato un caso. Non può essere stato un caso! Non si è aggiunta arbitrariamente un'altra voce. Colui che ebbe per primo una tale idea (forse dopo notti insonni), sapeva perfettamente che doveva essere così. Perché? Non è nata come un giocattolo infantile: la necessità assoluta ha spinto alla creazione; non poteva essere altrimenti. L'idea è distribuita nello spazio, non è soltanto in una voce - da sola non può esprimere l'idea -; soltanto l'unione di più voci riesce ad esprimere compiutamente l'idea. Era necessario per l'idea che essa venisse esposta in più voci. La polifonia è fiorita allora rapidamente. Vorrei portarvene delle prove. Ci occuperemo dei principi secondo i quali si è gradatamente utilizzato il materiale sonoro datoci dalla natura.

Anton Webern, 7 marzo 1933 (da "Il cammino verso la Nuova Musica", SE, 1989)

sabato, maggio 23, 2009

Quartetto Italiano alla Società del Quartetto di Vicenza

Il Quartetto Italiano a Vicenza

Per nove volte nell'arco di ventun'anni il nome del Quartetto Italiano - una formazione che fa parte della leggenda interpretativa del nostro secolo - è comparso nelle locandine della Società del Quartetto di Vicenza, con una frequenza che testimonia anche di un felice periodo nella programmazione del sodalizio vicentino. L'esordio risale al 17 febbraio 1956 nella sala del palazzo delle Opere sociali: l'occasione era quella del bicentenario della nascita di Mozart, e infatti tutto mozartiano fu il programma, con l'Adagio e Fuga K. 564, e due dei Quartettí dedicati ad Haydn, il primo (K. 387) e l'ultimo, quello "delle dissonanze" K. 465. Due anni più tardi, la suprema trimurti - se così si può dire - dell'arte quartettistica segnalò la grandezza dell'Italiano in termini inequivocabili. All'Olimpico, con l'"introduzione" singolare di una Sonata a quattro di Scarlatti e di una di Vivaldi furono eseguiti l'11 aprile 1958 il Quartetto K. 156 di Mozart, il Quartetto op. 74 di Beethoven, e il Quartetto op. 3 n. 5 di Haydn. Il terzo concerto vicentino del quartetto Italiano, il 7 novembre 1959, è quello che oggi può sembrare più anomalo, sul piano della scelta musicale: addirittura due Canzoni di Gabrieli in apertura, e poi pagine di Galuppi e di Donizetti, affiancate peraltro a due capolavori come il Quartetto K. 428 di Mozart e quello di Maurice Ravel. Questo non dissimulato gusto per l'antico aveva evidentemente ragioni musicali precise, e in ogni caso risultò superato due anni e mezzo più tardi, il 10 marzo 1962 al Canneti, quando i quattro dell'Italiano impaginarono uno dei capolavori haydniani, l'op. 76 n. 4, con il Quartetto op. 51 n. 1 di Brahms, per poi concludere ancora nel nome di Ravel. Il giorno seguente la formaziome cameristica offrì un concerto «alla cittadinanza» come si legge nel programma di sala, variando il programma solo quel tanto che bastava per sostituire Verdi e il suo Quartetto in mi minore a Brahms. Quattro anni dopo, il 24 novembre 1966 nel programma dell'Italiano comparvero i nomi di Schubert (op. 125) e Schumann (Op. 41 n. 3), ma al centro della serata c'era ancora Beethoven, nell'occasione quello del terzo Quartetto Razumovsky. Beethoven è stato autore indagato con suprema acutezza dal Quartetto Italiano, forse quello di fronte al quale la formazione si è espressa al meglio; per questo, memorabile più di ogni altra dev'essere considerata la serata dell'11 dicembre 1969, quando il pubblico che gremiva il Canneti poté ascoltare il tardo stile del musicista tedesco, sublimato in capolavori come l'op. 95, la Grande Fuga, l'op. 132, in una versione di assoluta lucidità e stupenda musicalità. I due successivi "incontri" vicentini dell'Italiano non hanno probabilmente raggiunto la stessa magnetica intensità di quella serata magica (chi scrive vi partecipò ragazzino quattordicenne, riportandone un'impressione indimenticabíle), rimanendo però naturalmente ad un livello di eccellenza. Programma tradizionale è stato quello del 10 febbraio 1971, diviso fra Mozart, Brahms e Dvorak, mentre l'ultima apparizione della formazione a Vicenza - il 2 dicembre 1977 - è legata a Stravinskíj (sono stati eseguiti il doppio Canone, i tre Pezzi e il Concertino) e ancora, significativamente, a Mozart e all'ultimo Beethoven.

di Cesare Galla (tratto da "La Società del Quartetto a Vicenza", Neri Pozza Editore, 1990)

sabato, maggio 16, 2009

Mahler sinfonia paradiso

Nell'estate del 1906, in villeggiatura a Maiernigg sul Wörthersee, Gustav Mahler fu colto da una ispirazione violentemente subitanea. Sarebbe stata l'Ottava Sinfonia, di cui parlò subito a un amico in termini di entusiasmo ma più consonante sarebbe la parola di Hölderlin: Begeisterung. «E' la più grande di tutte quelle che ho composto finora. E' così originale per contenuto e forma che non posso descriverla per iscritto. Immaginate che l'universo si metta a cantare e risonare. Non sono più voci umane ma pianeti e soli che ruotano». E più tardi: «Questa sinfonia è un dono alla nazione. Tutte le precedenti erano solo un preludio ad essa. Le altre mie opere sono tragiche e soggettive. Questa è una immensa "dispensatrice di gioia"». L'immediato futuro non avrebbe misurato i mezzi per oscurar tanto giubilo: la diagnosi della malattia che sarebbe riuscita fatale, la morte della figlia primogenita per un'angina maligna, forse il croup; il distacco della moglie, esasperata dalla solitudine (era sopraggiunta una invincibile impotenza sessuale); le infinite beghe di Vienna, con allontanamento dalla direzione della Staatsoper e il soggiorno americano, anch'esso amareggiato dalla cabala montata da Toscanini. E tuttavia, parlando di oggettività, Mahler dimostrava assoluta chiaroveggenza: quello era l'inno allo Spirito creatore, la Caritas cristiana, accostata sincreticamente alla nascita di eros quale si celebra nel secondo Faust. Il piano compositivo, di quattro movimenti, s'era poi ristretto: due soli, di assai diversa durata, ancora desunti da culture distanti se non aliene affatto, in un disperante sforzo di affermazione unitaria: per il primo l'inno Veni creator, opera del benedettino Hrabanus Maurus, rettore dell'abbazia di Fulda; poi, appunto, la scena finale del Faust, il dono postumo di Goethe alla letteratura. Entrambi sottoposti a leggere potature, peraltro di rara accortezza: del resto non incompatibili nel pensiero stesso del poeta, che dell'inno dette una versione in versi. Come è stato accolto nella liturgia, esso differisce in taluni passi dall'originale, pochi risultandone espunti: quando il compositore ebbe il testo integrale, notò ci rivela Henry Louis de la Grange nella definitiva monografia come essi si adattassero senza sforzo ad una sezione già composta per soli strumenti, e ne ebbe la conferma di un dettato superno. La partitura immane (grande orchestra, organo, due doppi cori, coro di fanciulli, otto voci soliste di massimo impegno) dovette attendere quattro anni: in cui videro la luce il nuovo lavoro per voci e orchestra, Das Lied von der Erde, poi la Nona Sinfonia e quanto fu possibile fissare su carta di una Decima. Mahler non poté ascoltare quei supremi congedi: essi erano destinati a Willem Mengelberg, Bruno Walter e Franz Schalk. Diretta dall'autore a Monaco il 12 settembre 1910 davanti a un parterre de rois (erano accorsi Richard Strauss, Gerhart Hauptmann, Thomas Mann, Guido Adler, Max Reinhardt, Clemenceau, Alfredo Casella, Max Reger, Siegfried Wagner, Arthur Schnitzler, Hugo von Hofmannsthal, Stefan Zweig, Camille SaintSaëns, Leopold Stokowski e, anche per informarne Schoenberg forzatamente assente, Anton Webern) fu l'unico successo trionfale d'una sua prima. Non mancarono naturalmente le facezie e le caricature: il malizioso nomignolo di Tausend Symphonie fu, per una volta, addirittura inferiore all'organico ottenuto, che oltrepassava il migliaio. L'assenza di Schoenberg era dovuta davvero agli impegni pedagogici e alle difficoltà economiche che vessavano il musicista, come ci viene anodinamente suggerito? Webern era accorso per ascoltare le prove: ne aveva già potuto riferire al maestro? Si sa che in Schoenberg l'onestà profonda non riuscì mai a sopraffare rancori e gelosie, che si leggono, poi, persino nelle lodi. Eccone un campione: «Come mai quel primo tempo ritorna costantemente in mi bemolle, ad esempio su un accordo di quarta e sesta! In un qualsiasi studente, io correggerei il passo, consigliandolo di cercare un'altra tonalità. Ma, incredibilmente, tutto ciò qui è necessario, giusto, e non può essere diverso. Che dicono al riguardo le regole? Allora, sono proprio le regole che si devono modificare!». Se ne deduce: una felice, un po' casuale incongruenza. Ma è poi lo stesso a scrivere l'affermazione capitale: «Quando ci si sforza di comprendere che i due movimenti dell'Ottava non sono altro che una sola medesima idea, di estensione e soffio inauditi, una sola idea contemplata e dominata nello steso istante, allora si è colti dall'ammirazione davanti alla potenza di quel cervello che, in gioventù, già possedeva materia sufficiente per compiere prodigi incredibili, ma che qui ha ottenuto il più inverosimile degli esiti». Osservazione, questa, che rivela una comprensione totale dell'opera, ne svela il centro vitale: ma si tratta di quelle osservazioni che si dedicano, più volentieri ai classici, vale a dire ai trapassati. Senza arrivare ai nidi viperei, anche entro la scuola di Vienna ribollivano le pentole delle streghe. Quando Schoenberg poté prendere visione diretta della sinfonia, tutte le sue facoltà orecchio, gusto, sentimento della forma erano radicalmente lontane dall'armonia marcatamente tonale riaffermata in questo anche più che in precedenti lavori: basti la densità cromatica, il pullulare delle «durezze» nel primo movimento della Settima. Ma ora Mahler aveva voluto, per accogliere il Paraclito, un linguaggio evidente, immediato nei limiti del possibile. Osserviamo i due tempi più dappresso. Il primo si ancora, seppure con grande agio, nella forma-sonata tradizionale. Se ne notano subito le deliberate disuguaglianze: un'esposizione di 168 battute, contro le 82 della ripresa: il che ne muta radicalmente il carattere, ne sposta l'acme, anzitutto, emozionale. Anche più prevaricante la funzione dello sviluppo, che è di 184 battute, più le 54 destinate alla doppia fuga; infine, una coda di ben 92 battute, tale da cangiarne ancora il peso: non un epodo, ma una proclamazione allelujatica. Si assommano così, in questo primo tempo di sonata di apparenza ortodossa, seduzioni dell'antica polifonia, della fuga come archetipo o ideale eterno, ma ancora, secondo quanto osserva il citato biografo, del ricercare rinascimentale da un lato; dall'altro la decisa preminenza data, a tratti almeno, al timbro: come una risposta ai modelli offerti, in quegli anni, dalla civiltà dell'Impressionismo. Si nota inoltre, nella totalità dell'opera, una palmare derivazione genetica dei temi: essi sono catalogabili secondo filiazioni, tutte a loro volta riconducibili in qualche modo a una datità primitiva. Con giusto orgoglio, Mahler affermava, in una lettera alla moglie, l'essenzialità di quelle Urzellen (cellule primigenie) «che esistevano già da miliardi di anni, organizzate perché comparisse qualcosa di tal genere, già pronto, nel repertorio del futuro». Il legame fra i singoli temi è qui attuato dalla presenza di minimi nuclei intervallari, perfettamente riconoscibili, travalicanti dall'uno all'altro tema. La necessaria antitesi, ad esempio, fra primo e secondo, è mantenuta, giusta le famose regole, ma attraverso una copresenza di dati elementari identici. Incredibilmente la sgomenta ammirazione di Schoenberg è legittima affatto tutti questi dati melodici, espansi come tali nelle incontenibili frasi melodiche, ovvero sovrapposti in polifonie estremamente complesse, fino al magistrale fugato, riescono a reggere l'attenzione da cima a fondo. Se volessimo una definizione alla Berg (il quale, ben s'intende, si inginocchiava davanti ad imprese siffatte), potremmo definire la sinfonia come un ciclo di variazioni (o meglio Veränderungen) sopra una serie di intervalli, resi anche più pregnanti dall'evidenza timbrica, dalla fisionomicità tagliente del rilievo sonoro: l'arte dell'orchestrazione, su cui Mahler aveva ancora dubbi, che risolveva con continue correzioni a prove inoltrate, o a esecuzione avvenuta, tocca probabilmente in questa Ottava un insorpassabile vertice. Eredità beethoveniana, la mira, l'ansimo verso quanto oltrepassa il limite, lo Streben infine, faustiano affatto, ricerca il conflitto del materiale: e lo trova, secondo una tipica vocazione romantica, nella fuga: che essa fosse già stata invocata come esercizio ascetico compositivo prima dell'opzione di Beethoven (il Capriccio fugato, in la bemolle minore!, che chiude la Sonata op. 7 di Carl Czerny, risale al 1810) nulla toglie all'intransigenza della soluzione beethoveniana: illumina invece radici sotterranee della Romantik. Vi è ancora da sottolineare, accolta la suddetta familiarità tematica, la facilità realmente sbalorditiva con cui essa può generare linee canore talmente appagate di sé, da risolversi integralmente entro la propria compiaciuta eufonia. Va molto oltre l'aneddotica la testimonianza di chi ascolta il maestro disperarsi durante una lettura, e rivolgendosi ai presenti chiedere che, dopo la sua morte, qualcuno che giudicasse la sonorità imperfetta correggesse senza rimorsi. Come in innumerevoli luoghi di sinfonie precedenti, Mahler opta per una tematica aggressiva, giocando il tutto per il tutto: la perfezione della scrittura valendo a riscattare la banalità dell' invenzione, derivazione o ricordo o citazione diretta di testi qualunque, suscettibili tutti peraltro di riscattare l'origine nella esattezza del rimando, e nella fonicità riscattata del virtuosismo sinfonico. Avvezzi come siamo a sentir ripetere la vecchia solfa d'una essenziale antitesi con Strauss, gioverà rileggere una generosa ammissione dell' «uomo che... incarna la volontà artistica più seria e più sacra del nostro tempo» così Mann dopo l'audizione dell'Ottava sul Don Quixote del collega: «E' un capolavoro! Naturalmente (sottolineatura nostra), il disegno resta sempre in secondo piano. Ciò che predomina è senza posa l'immaginazione sonora, ma in maniera sempre artistica. Tutto si risolve in suoni, non vi è quasi più materia». Non era quello certo il primo caso: al contrario, Mahler proseguiva in una intrepida, quasi eroica sublimazione del quotidiano, persino del volgare: linea che, fra l'altro, l'opera italiana conosceva e praticava da sempre, anche se non sempre certo con l'esito auspicabile. Non occorre attendere il secondo movimento (una libera cantata, su episodi indipendenti, pur se arpionati da una ferrea volontà di riscatto) per riconoscere il procedimento in questione. Basta considerare nel primo l'andamento cullante (n. 18) all'inizio dello sviluppo. Un ricorso al folklore era pratica corrente: ma il modo di Mahler è ben più corrivo che non l'avocazione di objets trouvés compiuta da Debussy in territorio spagnuolo, o cinese. Ascoltiamo quel luogo, ovvero altri consimili nella scena goethiana: se Oriente è, come sarà nel gran Lied successivo, è quello che imperversava nell'operetta, dal Mikado e la Geisha a Das Land des Lächelns: e si vorrebbe allora la voce di Fritz Wunderlich, «doppio» di Leháry, esattamente come Schoenberg, per l'opera «comica», avrebbe sognato Tauber: infine, le volute dello Jugendstil. Va da sé che tutto questo è inaccettabile da ogni poetica purista: ancora Hans Meier ha sollevato l'indice severo sulla «paratassi insolubile» dell'opera: una composizione che è un abuso totale, religioso quanto poetico». A noi sembra, per contro, altamente significante che uno stile tanto composito (ma, come si diceva, implacabilmente controllato) sia prescelto in ispecie per una innodia metafisica che celebra l'essenza profonda delle cose, l'innominabile Wesen: che poi, come Natura naturans, Terra mater, Vita venturi saeculi, Risurrezione o, romanticamente, Notte generatrice, è, di tutto Mahler, l'entelechia. Nell'Ottava l'affermazione diviene perentoria, sdegna le più provvide cautele: ciò spiega il furore di Adorno, che trovava qui un dato inassimilabile, non riportabile alle coordinate del suo discorso critico, ritratto pur così ammirevole, e più d'ogni altro correo: se «fra poco sarà notte», dove finirà questo glorificante Empireo, retto da una Göttin che è l'Ewig Weibliches, ma anche la Theotokos! E «dea» non l'aveva già celebrata la canzone petrarchesca? La diffidenza ci è chiara, anche se travolti dall'appassionata adesione alla musica. Ad onore di Adorno, tuttavia, gioverà aggiungere che l'Ottava viene da lui accolta in un altro empireo, quello della «falsa coscienza» che andrebbe (il testo dice va) «dai Meistersinger fino al Palestrina di Pfitzner, e a cui soggiacciono anche le concezioni ideali di Schoenberg, l'eroe della Glückliche Hand come l'Eletto della Jakobsleiter». Una idiosincrasia non meno fonda dell'altra espressa, allora, da Strawinskij: verso quel «benessere generale», tale «onesto agio». (Molti anni dopo avrebbe dato gli occhi per non averlo scritto). Noi non riusciamo a sognare un miglior paradiso.

Mario Bortolotto (Repubblica, 27 novembre 2001)

sabato, maggio 09, 2009

I temi di Fritz Kocher: La Musica

La musica è per me la cosa più dolce del mondo. L'amo in maniera indicibile. Per sentir suonare sono capace di fare dei chilometri. Spesso, quando d'estate cammino nelle strade infuocate, e da una casa sconosciuta viene il suono di un pianoforte, resto immobile e mi sembra di dover morire lì sul posto. Mi piacerebbe morire ascoltando un pezzo di musica. Me l'immagino così facile, così naturale, e invece naturalmente è impossibile. Le note sono pugnalate troppo tenere. Le ferite di questi pugnali bruciano, ma dentro non c'è del marcio. Malinconia e dolore, invece del sangue, ne gocciolano fuori. Quando la musica cessa, tutto in me torna tranquillo. Poi vado a fare i compiti, a mangiare, a giocare, e mi dimentico. Il pianoforte, per me, ha il suono più magico, anche se a suonare è la mano di uno strimpellatore. Io non sento il modo di suonare, ma soltanto il suono. Non potrei mai diventare un musicista. Perché non mi riterrei mai ebbro e dolce a sufficienza. Ascoltare musica è cosa ben più sacra. La musica mi rende sempre triste, ma così come lo è un sorriso triste. Direi quasi: di una tristezza amica. La più allegra delle musiche io non riesco a trovarla allegra, e la più accorata delle musiche per me non è affatto particolarmente accorata e sconsolante. Davanti alla musica ho sempre un'unica sensazione: mi manca qualcosa. Non saprò mai la ragione di questa dolce tristezza, mai vorrò cercare di scoprirla. Desidero non conoscerla. Non desidero sapere tutto. In genere, per quanto mi sembri di essere intelligente, possiedo una scarsa sete di sapere. Credo che ciò avvenga perché sono per natura il contrario del curioso. Lascio volentieri che tante cose avvengano intorno a me senza preoccuparmi di come avvengono. Questo è certamente riprovevole e non mi darà alcun aiuto in una carriera nella vita . E sia. Non ho paura della morte, e quindi nemmeno della vita. Mi accorgo che sto cominciando a filosofeggiare. La musica è l'arte più scevra di pensieri, e perciò la più dolce. Le persone puramente razionali non la apprezzeranno mai, ma proprio a loro, nei momenti in cui la ascoltano, essa farà bene nel più profondo del cuore. Si può non comprendere un'arte e non volerla apprezzare. L'arte vuole stringersi a noi. E' talmente pura e contenta di se stessa che quando ci si preoccupa di lei ne è offesa. Essa punisce colui che, volendola afferrare, le viene incontro. Gli artisti lo sanno. Sono essi che pensano che la loro professione consista nell'occuparsi di lei, mentre lei rifiuta assolutamente d'essere toccata. Perciò non vorrei mai fare il musicista. Ho paura della punizione da parte di una creatura così soave. Si può amare un'arte, ma bisogna guardarsi dall'ammetterlo. Si ama nel modo più profondo quando non si sa che si ama. - A me la niusica addolora. Non so se la amo veramente. Mi colpisce non appena mi incontra. Io non la cerco. Mi lascio accarezzare da lei. Ma questo accarezzare ferisce. Come posso dirlo? La musica è un piangere in melodie, un ricordare con le note, una pittura in suoni. Non riesco a dirlo bene. Le parole sull'arte che ho scritto qui sopra non bisogna certo prenderle sul serio. E' sicuro che non colgono nel segno, così come oggi nessuna musica mi ha ancora colpito. Mi manca qualcosa quando non sento musica, e quando la sento, allora sì che mi manca veramente qualcosa. Questo è quanto di meglio so dire a proposito della musica.

di Robert Walser (da "I temi di Fritz Kocher", Adelphi, 1978)

venerdì, maggio 01, 2009

Bartók: il III e IV Quartetto secondo Mila

L'anno 1926, con la sua ricca produzione pianistica ad uso personale, per i propri concerti, segna l'inizio d'un impetuoso allargamento d'orizzonti nella carriera di Bartók e nella sua notorietà mondiale. Esecuzioni della Sonata e del Concerto lo portano in tournée in vari luoghi: tra l'altro nel luglio 1927 suona il Concerto per pianoforte e orchestra a Francoforte sotto la direzione di Furtwängler, di solito poco tenero verso le composizioni contemporanee. L'11 dicembre si imbarca a Cherbourg per la sua prima tournée negli Stati Uniti, dove darà concerti a New York (con quella Orchestra Filarmonica, diretta da Mengelberg), a Filadelfia e altrove. Questa prima presa di contatto con gli ambienti americani rivestirà un giorno particolare importanza, quando le circostanze politiche europee costringeranno Bartók a cercare asilo negli Stati Uniti. Nel 1928 l'assegnazione del premio Coolidge al Terzo Quartetto di Bartók, a pari merito con la Serenata per cinque strumenti di Alfredo Casella, viene a sancire l'inserzione di Bartók tra i protagonisti del movimento musicale contemporaneo. (Il premio veniva assegnato ogni anno dalla fondazione americana della signora Elizabeth Sprague-Coolidge alla composizione giudicata piú importante e significativa da una giuria estremamente qualificata).
Scritto nel 1927, il Terzo Quartetto pone la curiosità di vedere se Bartók avrebbe portato, in questa forma consacrata alle manifestazioni piú intime e piú sincere della sua sensibilità, la recente esperienza neoclassica consumata nella Sonata e nel Concerto per pianoforte e orchestra, o se sarebbe rimasto fedele a quelle accensioni di tendenza, grosso modo, espressionistica, che abbiamo visto affermarsi, lo stesso anno, nella Suite All'aria aperta. Sebbene dell'esperienza neoclassica vi rimanga acquisito il gusto del contrappunto, e della ostinata scrittura a canone, il Terzo Quartetto appartiene alla tendenza soggettiva, romantica e visionaria dell'arte di Bartók. La scrittura quartettistica resta sempre per lui un invito alla confessione, all'approfondimento dell'impegno espressivo.
Anche qui egli è assillato dal problema della forma totale della composizione: come coordinare le singole parti, escludendo il vecchio impianto sonatistico in quattro movimenti, in modo da ottenere la massima omogeneità e organicítà della composizione. Il Terzo Quartetto ricorre alla drastica soluzione che Bartók aveva già adottato una volta, nella Seconda Sonata per violino e pianoforte (1922): due soli movimenti, di cui il primo è un'introspettiva meditazione, con carattere tormentoso, di angoscia interiore, il secondo quasi un Allegro di Sonata, con due temi, sviluppo e ripresa. I due movimenti trapassano senza interruzione l'uno nell'altro, ma per meglio chiudere, per sanzionare l'unità di queste due parti contrastanti, il compositore le riproduce poi ancora, sempre senza interruzione, in estensione ridotta, con una «ricapitolazione della prima parte» e una «coda». Abbiamo cosí, in sostanza, quattro episodi che si succedono senza interruzione: il primo è un movimento Moderato, sopra una cellula tematica per cosí dire astratta, fondata su due intervalli, uno di quarta ascendente, l'altro di terza discendente, con spunti di lento contrappunto germinale e con invenzioni timbriche straordinarie, che suggeriscono effetti di Musica della notte; il secondo episodio è un Allegro di chiara ispirazione popolare, dal ritmo ben scandito, benché irregolare e mobilissimo, con pittoreschi effetti di sonorità dovuti a glissando, pizzicati, suoni armonici, ampi accordi di violoncello simili a suono di chitarra. Poi la «ricapitolazione della prima parte» reca una pausa di raccoglimento interiore, in cui ogni senso di costruzione formale pare disgregarsi nella intensità di rotti accenti espressivi, di interiezioni isolate; infine la breve coda trascina il pezzo alla conclusione in una ronda rapidissima di suoni fantomatici e irreali.
Il primo tempo è una delle concezioni piú dense e difficili di Bartók, specie di sviluppo continuo fondato sulla costante rigenerazione del discorso da un'unica cellula, attraverso l'impegno del contrappunto.
L'estate del 1928 vede Bartók impiegato nella composizione d'una delle opere destinate ad essere indicate come uno dei suoi capolavori, e cioè il Quarto Quartetto, dove gli esperimenti, i tentativi e le ricerche eff ettuati nei Quartetti precedenti intorno alla sistemazione della forma totale giungono a soluzione soddisfacente con l'attuazione completa di ciò che viene chiamata la «forma a ponte».
Esso si svolge nei tempi: Allegro, Prestissimo con sordino, Non troppo lento, Allegretto pizzicato, Allegro molto.
Giunge qui a un punto estremo un carattere che si era manifestato progressivamente nei Quartetti precedenti, e cioè l'originalità, non solo delle idee musicali, ma piuttosto della qualità stessa del suono: diciamo pure, la stranezza del suono. Un ascoltatore non avvertito, che avesse ad ascoltare il Terzo o il Quarto Quartetto senza vederne l'esecuzione, probabilmente avrebbe difficoltà a capire che si tratta, appunto, di un quartetto: forse non sospetterebbe che i decorosi strumenti ad arco cui Haydn aveva insegnato ad avviare la loro ordinata conversazione a quattro, siano, i produttori di cosí brutali scoppi di suono, sbuffi, sibili, miagolii.
La necessità della «invenzione del suono» sta diventando in questo periodo una delle convinzioni piú ferme e ossessionanti di Bartók. Ogni musicista s'industria, quando compone, a trovare nuove combinazioni di note, complessi inediti di melodia, armonia e ritmo. Perché, invece, l'elemento suono dovrebbe accettarlo supinamente dalla tradizione e dalle consuete possibilità fisiche degli strumenti, senza tentare anche qui di approfondire, di scavare, in una parola, di «creare» per ogni composizione i suoni che ad essa si addicono? Faceva parte dell'amore profondo di Bartók per la Natura - amore ch'era bisogno imperioso di conoscenza - la sua curiosità irresistibile pel mondo del rumore: la soglia che separa il suono musicalmente organizzato dalla realtà incondita dei rumori naturali, egli tentò continuamente di varcarla, e meglio ancora di abbatterla.
Certamente Bartók rappresenta il punto piú avanzato nella esplorazione del mondo fisico del suono, prima che la musica moderna faccia ricorso alla produzione elettronica del suono stesso. Ma appunto dal costante impiego dei mezzi fonici tradizionali, e magari i piú severi ed apparentemente inadatti alla produzione del rumore, come il pianoforte o il quartetto ad arco, i risultati timbrici di Bartòk conseguono una validità superiore a quella degli effetti ottenuti con l'illimitata ampiezza delle possibilità elettroniche.
Tale era già, nei suoi primi lavori pianistici, il significato dell'abbondanza sorprendente di abbellimenti: acciaccature, mordenti, notine ornamentali appiccicate a quelle principali. Tutto ciò non era dettato da uno scopo esornativo, com'era il caso degli abbellimenti settecenteschi, ma dallo sforzo esasperato di trasformare la natura della nota musicale, per darle la ricchezza piena e confusa del rumore, appiccicandole attorno suoni secondari. Gli abbellimenti mirano a intorbidare l'artificiale purezza della «nota» musicale, fino ad ottenere un aggregato sonoro che presenti la naturalità grezza del rumore.
Quanto piú il mezzo dì produzione è paradossalmente classico e tradizionale, tanto piú convince il risultato, proprio per effetto delle limitazioni affrontate dal compositore, che invece di ricorrere a strumenti già per loro natura pittoreschi, come arpe, celesta, campanelli, gong, xilofoni e via dicendo, si serve specialmente del pianoforte o del Quartetto d'archi. Gli effetti d'esecuzione in quest'ultimo caso potranno essere di volta in volta l'alternanza del pizzicato, dello staccato, e del legato, il rimbombo sonoro di larghi accordi pizzicati del violoncello, il fantomatico tremolio di suoni sul ponticello, la brutale violenza di accordi ottenuti col legno, l'uso alterno del vibrato e del non vibrato su una stessa nota lungamente tenuta, e infine - piú vistoso fra tutti questi artifici timbrici - il glissando degli archi, talvolta isolati, talvolta alterni, talvolta contemporanei, che produce un effetto di vero e proprio miagolio, o di lamentoso sospiro. Il giovanile interesse di Bartók per il virtuosismo strumentale trova ora la propria giustificazione in questo impiego creativo del virtuosismo esecutivo a scopo di «inventare il suono».
In quel magazzino di rumori che viene ospitato nei Quartetti di Bartók e nelle altre composizioni della sua fase matura, si manifesta in forma estrema uno degli aspetti piú profondi e interessanti della sua arte: il lato visionario della sua psicologia, quella sua certezza istintiva che, al di là delle apparenze sensibili, la realtà nasconda un nucleo essenziale piú riposto e genuino. Di qui l'ansia di penetrare al di là di questa soglia, il continuo batterla, tempestarla di pugni perché s'apra. E la volontà di aprire tutte le porte chiuse che, nell'unica opera teatrale di Bartók, conduce la protagonista alla sua rovina. Qui, nei Quartetti, la soglia che Bartók si sforza accanitamente di varcare è appunto quella fra suono musicale e rumore. Il rumore come presenza acustica della Natura, il rumore sentito come una chiave, un filo d'Arianna per penetrare nel cuore della Natura.
A questa ricca originalità della materia sonora corrisponde nel Quarto Quartetto, come s'è detto, una compiuta codificazione della forma, per ottenere quell'unità complessiva della composizione che a Bartók stava tanto a cuore. E' quella sua soluzione caratteristica che viene descritta come «forma a ponte», e che si potrebbe forse meglio definire come «forma concentrica». Il numero dei tempi che compongono il Quartetto diventa dispari, come già nel Primo e nel Secondo Quartetto, ma sale a cinque (e cosí sarà pure nel Quinto Quartetto e nel Concerto per orchestra). Avviene cosí che il terzo tempo si trovi sepolto nel piú intimo centro della composizione, come un seme nel frutto, e avvolto da due strati simmetrici di diversa espressione: secondo e quarto tempo rapidi e leggeri, in stile di Scherzo, se il terzo tempo era lento, com'è il caso nel Quarto Quartetto; primo e quinto tempo piú estesi, sonatistici. Tale è appunto l'architettura generale del Quarto Quartetto, che si costruisce tutto, o sarebbe meglio dire, cresce tutto attorno al seme riposto del terzo tempo, il Non troppo lento, in cui a un largo canto del violoncello, quasi improvvisatorio, declamante, in un clima di malinconia pastorale, segue un episodio di misteriosi rumori naturali, di fosforescenze sonore, la cui ispirazione è paragonabile a quella della Musica della notte nei pezzi pianistici di All'aria aperta.
Quindi ripresa del canto di violoncello, secondo uno schema di forma ternaria. Attorno a questo nucleo riposto il secondo e quarto tempo con carattere di Scherzo, entrambi contraddistinti da un particolare esecutivo: l'uno, Prestissimo, è tutto da eseguire con sordino; l'altro, Allegretto, è tutto pizzicato. Entrambi affermano ostinati schemi di forma ternaria. Infine l'Allegro e l'Allegro molto stanno alla superficie della composizione, come due strati sonatistici esterni.
E' ovvio che, a seconda che il tempo centrale sia un tempo lento, oppure uno scherzo rapidissimo, come sarà nel Quinto Quartetto, l'intera portata espressiva e stilistica della composizione resta rivoluzionata. Sono le due facce dell'io di Bartók che prevalgono di volta in volta: quella introspettiva ed espressionistica portata alla ricerca visionaria della realtà segreta delle cose e all'auscultazione interiore dei tumulti che avvengono nelle cellule della materia; e l'altra, la serena faccia realistica, alimentata dall'ispirazione popolare e dal contatto attivo con la collettività, tanto concreta quanto l'altra è impalpabile e penetrante.

di Massimo Mila ("L'arte di Béla Bartók", Einaudi, 1996)