Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, dicembre 29, 2006

Claudio Monteverdi e l'Accademia Bizantina: un trionfo all'italiana

Il direttore dell'Accademia Bizantina, Ottavio Dantone, spiega la rilettura dell'«Orfeo», «Il ritorno di Ulisse in patria» e «L'incoronazione di Poppea» per i teatri del circuito lombardo.

Sembrava un fatto ineluttabile. Nonostante il crescente successo riportato soprattutto all'estero, i complessi barocchi italiani solo di rado riuscivano a realizzare produzioni di ampio respiro, capaci di coinvolgere attivamente le maggiori istituzioni italiane, compresi i teatri lirici. Succedeva così che produzioni anche di grandissimo rilievo ‑ e in questo senso gli esempi si sprecherebbero ‑ non riuscissero ad avere la meritata diffusione, mortificando il lavoro di musicologi, interpreti e registi a una manciata di repliche, spesso limitate a un ambito geografico molto ndotto. Una situazione poco incoraggiante, soprattutto se paragonata alle ambiziose produzioni dei maggiori complessi
francesi e inglesi spesso protagonisti sui palcoscenici più prestigiosi del mondo. L'inversione di tendenza è avvenuta lo scorso anno,quando il Teatro Ponchielli di Cremona ha varato una coraggiosa integrale delle opere di Monteverdi, affidando
all'Accadernia Bizantina diretta da Ottavio Dantone, il compito di "rileggere" in sequenza l'Orfeo, Il ritorno di Ulisse in patria e L'incoronazione di Poppea per i teatri del circuito lombardo, Cremona, Como, Brescia e Pavia. Il grande successo di pubblico e l'unanime plauso della critica ha convinto quest'anno altri quattro teatri a inserire nella loro programmazione Il ritorno di Ulisse in patria, Reggio Emilia, Bari, Ravenna e Ferrara, creando un vero e proprio fenomeno, che trova ben pochi riscontri anche nel ben più gettonato ambito melodrammatico. Di questo straordinario successo ho avuto modo di parlare con Ottavio Dantone, pochi minuti prima dell'inizio della première cremonese.
Maestro Dantone, oltre a essere l'opera meno nota di Claudio Monteverdi, "Il ritorno di Ulisse in patria" è forse anche l'opera più rischiosa e difficile, perché presenta passioni molto più delicate e sottili rispetto a quelle che caratterizzano l'"Orfeo" e l'"Incoronazione di Poppea". Data questa premessa, come sì è accostato alla partitura monteverdiana dal punto di vista generale?
Con il rispetto di sempre. Devo confessare che, prima di studiarne la partitura per questo progetto, non la conoscevo quasi per nulla. Tuttavia. questo non si è rivelato un problema. Anzi, quando è possibile, preferisco sempre partire da zero. Intendiamoci bene: non conoscere quella che va considerata tra i maggiori capolavori del teatro musicale del primo Seicento non è certamente un vanto, anzi, tuttavia questo mi consente di cogliere ogni minimo dettaglio della partitura.
Un aspetto di grande importanza per un approccio storicamente informato...
Sì. Si tratta di un lavoro immane, che richiede un'enorme costanza ma che, contrariamente a quanto ritengono molti, non lascia spazio a particolari voli pindarici. Nella musica barocca la fantasia è una dote che serve moltissimo soprattutto in seguito, quando si passa alla fase esecutiva. Al contrario, di fronte alla partitura, l'aspetto più importante consiste nel riuscire a interpretare correttamente tutti i segni apposti dal compositore. E' vero, quest'opera è molto difficile perché, rispetto all'Orfeo, dove il recitar cantando era uno status abbastanza generalizzato ‑ fatta eccezione per qualche breve sinfonia nel Ritorno di Ulisse in patria c'è un continuo passaggio stilistico e una grande varietà tra recitar cantando, ariosi e lamenti.
Uno dei tratti distintivi della retorica barocca...
Sì, in un certo senso il lamento può essere definito come una sorta di via di mezzo tra il recitar cantando e l'arioso, denotando una struttura ritmica chiara ma molto libera, spesso interpuntata da brevi pezzi strumentali. Inoltre nel Ritorno di Ulisse in patria c'è una parte buffa che, per quanto ne sappiamo oggi, è la prima della storia della musica. Per tutti questi motivi, quando ci si trova di fronte a un'opera come questa, scritta praticamente su due soli righi, è fondamentale capire quale è il significato retorico e drammaturgico che il compositore vuole comunicarci. Questa fase preparatoria è resa possibile dalla conoscenza dei trattati e delle testimonianze dell'epoca, che ci permettono di capire esattamente quello che il compositore intendeva sia dal punto di vista ritmico, sia da quello prosodico ‑ quello più legato alla «parola» ‑ sia da quello retorico quello relativo in particolare agli affetti ‑ sia da quello della struttura.
A quali risultati conduce un approccio di questo genere?
A una ricostruzione credibile e realistica dell'opera sia sotto il profilo musicale sia sotto l'aspetto più prettamente teatrale. Consideri per esempio i lamenti come quello ‑ bellissimo ‑ di Penelope all'inizio dell'opera. Visto nella sua integrità, ha una struttura retorica classica, con un'introduzione, la narratio e la peroratio, tutte strutture tipiche dell'oratorio barocco, e tutte le figure più usuali, il cromatismo, i salti, vari momenti di tensione, la concitazione, la reiterazione e così via. Si tratta di dettagli tutti scritti in partitura. Sotto questo punto di vista è molto facile riportare in scena un'opera come Il ritorno di Ulisse in patria. Molto difficile è invece renderla comprensibile ancora oggi. Infatti, se i segni vergati in partitura quasi quattro secoli fa da Monteverdi non sono mai andati perduti, rimanendo a disposizione degli interpreti, il rischio maggiore è quello di non afferrarne la portata, un fatto che impedirebbe al pubblico di capire che lingua stiamo parlando.
Da quanto m ha detto, mi pare di capire che ci troviamo di fronte a un'opera molto umana, anche rispetto alla rigidità e artificiosità che spesso il pubblico imputa all'opera barocca in generale.
Su questo aspetto ci tengo a fare una precisazione. Se si parla di opera barocca del Seicento ‑ perché per 'barocco' io intendo quello, essendo il repertorio lirico del XVIII secolo un ambito profondamente diverso tutto quello che accade, sia di ritmico sia di non ritmico, era concepito in modo tale che apparisse naturale. In altre parole mirava a essere la parvenza o l'imitazione di quello che la parola poteva esprimere. Non dimentichiamo che nel caso del Ritorno di Ulisse in patria si parla di recitar cantando e non di solo recitare o di solo cantare. Se si parla di recitar cantando ‑ magari invertendo i termini come facevano spesso in quell'epoca, cantar recitando ‑ si capisce immediatamente che le due cose erano strettamente connesse. Cioè recitar cantando era il modo di cantare più naturale, più simile alla parola. Bisogna guardare la frase, provare a esprimerla in parole, vedere i valori che il compositore e il librettista hanno tentato di trasmetterci e cercare di trasmetterli con la massima libertà possibile. In questo senso sono d'accordo con il suo giudizio, la musica del XVII secolo e la ricerca dell'epoca sulla musica vocale erano riuscite a esprimere nella maniera più realistica e sincera le passioni umane.
Su circa tre ore di musica, quali sono le principali chiavi di volta sulle quali lei costruisce drammaturgicamente «Il ritorno di Ulisse in patria»?
Beh, sotto il profilo drammaturgico la regia svolge un ruolo di importanza fondamentale. Infatti si deve riconoscere che quest'opera si regge con questo tipo di regia grazie alla musica e la musica resta in piedi grazie a una buona struttura drammaturgica, che trova perfetta espressione nella recitazione. I momenti musicali chiave per me sono il lamento di Penelope che apre l'opera, il lamento di Ulisse, quando viene abbandonato sulla riva di Itaca dai Feaci, e il lamento di Iro, dopo la morte dei Proci. Questo perché brani come lo sbarco dei Feaci sono sicuramente molto spettacolari, ma non sfuggono a una certa esteriorità. In quest'ottica lo sbarco dei Feaci è spettacolare, la gara degli archi con la conseguente uccisione dei Proci è spettacolare, ma i momenti più intensi coincidono con il lamento, che è il simbolo per eccellenza dell'espressione degli affetti.
Quindi possiamo parlare di una letturai, intimistica, che va a scavare all'interno degli affetti umani...
In questo senso certamente sì. Ma gli aspetti più significativi del Ritorno di Ulisse in patria trovano piena espressione soprattutto nei suoi contrasti. Come in quasi tutte le opere barocche del XVII secolo, gli elementi principali del Ritorno sono il contrasto, la sorpresa, la meraviglia, lo stupore, il dolore, il momento struggente, il momento , intimo e infine la scena finale, che a me piace moltissimo, perché finisce con il bacio tra Penelope e Ulisse, senza inutili spettacolarizzazioni. In un primo tempo avevo preso in considerazione l'idea di terminare con una sinfonia di chiusura, ma alla fine ho deciso di adottare una chiusura più dolce e intima. Vista in quest'ottica, la fine dell'opera dà anche la chiave di tutta la lettura.
Venendo nel dettaglio dell'esecuzione musicale, quali sono le scelte principali che ha compiuto, per esempio sul basso continuo, un elemento di fondamentale importanza in un'opera di questo tipo?
Il basso continuo è ovviamente molto ricco, una scelta che consente di ottenere la massima gamma di colori. Come vedrà, si tratta di una sezione preponderante rispetto a tutte le altre contando ben dieci strumenti anzi undici, visto che uno strumentista suona sia la viola da gamba sia il lirone.
Quale funzione svolge il basso continuo in un'opera come questa?
In primo luogo, i variegati colori del basso continuo garantiscono una estrema caratterizzazione dei personaggi. Dal punto di vista dell'integrazione strumentale, in un'opera come questa che per l'ottanta per cento è scritta solo per voce basso continuo ‑ fatta eccezione per alcuni rari interventi di Monteverdi ‑ mi sono permesso di aggiungere colori anche utilizzando strumenti che non fanno parte del basso continuo, come i violini, le viole, i cornetti e a volte anche i tromboni. Tenga però presente che i tromboni vengono sempre utilizzati con una concezione molto vicina a quella del basso continuo, cioè con una funzione di integrazione dell'armonia e in linea con la voce, mai con intenti virtuosistici; in altre parole, il violino non suona mai per fare sentire la sua voce ma per accompagnare i cantanti che ‑ lo ribadisco ‑ sono i protagonisti dell'azione. Agli strumentisti ho ricordato in continuazione che tutti noi siamo al servizio della parola e delle voci, perché questa è la realtà che emerge dalla partitura di Monteverdi.
Parlando di cantanti, non posso non notare la grande preponderan!za di voci italiane, contando tra di esse anche quella di Makoto Sakurada, un tenore giapponese che parla un bolognese perfetto...
Già proprio perfettol Vede, quando io parlo di voci italiane, non mi riferisco necessariamente a un cantante italiano di nascita, ma italiano di concezione e di pronuncia. Makoto vive in Italia da tanto tempo e canta perfettamente nella nostra lingua, per cui per me vale a tutti gli effetti un cantante nato in Italia. A mio parere, eseguendo un'opera come questa ‑e, del resto, anche una qualsiasi opera di Händel non è assolutamente concepibile una pronuncia incerta o imperfetta, qui in Italia non sarebbe assolutamente tollerabile. Negli ultimi tempi anche all'estero si è cominciato a tenere conto di questa variabile, al punto che oggi in Germania, in Francia e in Inghilterra per questo genere di repertorio si tende a chiamare sempre più spesso cantanti italiani. In Italia, e soprattutto a Cremona, patria di Monteverdi e città di straordinarie tradizioni musicali non sarebbe nemmeno concepibile utilizzare cantanti incapaci di valorizzare il testo in ogni più piccola sfumatura.
Parlando di cantanti, basta scorrere il programma per rendersi conto che stiamo parlando di un cast composto di sole stelle, dal momento che in questa produzione si esibiscono alcune delle voci più belle del panorama barocco internazionale. Cosa mi può dire dei ruoli principali? Come sono stati scelti?
Beh, ovviamente ciascun cantante è stato scelto in base alle sue caratteristiche vocali. Come può immaginare, non è stato facile stilare il cast definitivo, perché negli ultimi anni in Italia si sono messi in luce moltissimi interpreti di primissinio piano. In un certo senso possiamo dire che la nostra scelta ha dovuto tenere conto di almeno due variabili, in quanto da un lato si doveva cercare di individuare il migliore cantante possibile per ognuno dei ruoli principali e dall'altro abbiamo cercato di mantenere una certa continuità nelle voci nell'arco della trilogia monteverdiana, in quanto il mio intento era quello di creare un gruppo il più possibile affiatato, perché quello che ho chiesto di fare nella prima opera ‑ l'Orfeo ‑ l'ho chiesto in questo allestimento del Ritorno di Ulisse in patria e lo vorrò anche il prossimo anno nell'Incoronazione di Poppea. Per ora l'obiettivo è stato raggiunto, in quanto molti cantanti presenti nel Ritorno di Ulisse in patria sono gli stessi che si erano esibiti un anno fa nell'Orfeo. Ovviamente, nel caso di questa produzione, sono stati apportati alcuni cambiamenti nei ruoli peculiari. Per esempio, nei casi di Penelope e di Ulisse, rispettivamente ricoperti da Sonia Prina e da Furio Zanasi, non abbiamo avuto alcun dubbio, tuttavia abbiamo dovuto operare alcune aggiunte, come nel caso di Minerva, dove serviva una voce estremamente agile e virtuosistica come quella di Roberta Invernizzi, una cantante che in Italia ha ben poche rivali.
Questo allestimento del «Ritorno di Ulisse in patria» si colloca nel bel mezzo di un progetto triennale, un progetto ambizioso e forte, che tocca tanti centri italiani come Cremona, che vanta già una tradizione barocca consolidata, e altri, che invece con questo progetto stanno dando un segno importante, dimostrando l'ottima salute e la crescente vitalità del repertorio barocco in Italia. Mi può dire qualcosa su questo grande progetto?
Il nostro progetto è nato in maniera molto semplice, partendo dall'idea che il Teatro Ponchielli di Cremona ospitasse l'Orfeo, una produzione che all'inizio non implicava necessariamente l'intero ciclo operistico monteverdiano. L'ipotesi di varare questo progetto triennale ha cominciato a farsi strada sulla base della constatazione che un'opera come l'Orfeo non veniva rappresentata da molto tempo; tuttavia eravamo ben coscienti che un'iniziativa che prevedeva un cast di questo tipo, un ensemble di strumenti originali e soprattutto ‑ un circuito che comprendesse diversi teatri costituiva chiaramente una scommessa da non sottovalutare. Giunti a metà del percorso, possiamo ora affermare che questa scommessa è stata vinta: per convincersene basta osservare l'entusiasmo del pubblico a ogni replica. In ogni caso la scommessa che mi è piaciuto di più vincere è stata quella di riproporre questa musica al pubblico del XXI secolo. Certo, in passato si sono sentite anche altre esecuzioni, encomiabili sotto l'aspetto delle intenzioni ma non sempre del tutto azzeccate sotto il profilo della comunicazione tra interpreti e ascoltatori. Per quanto mi è parso di percepire, il pubblico che ha sempre affollato i teatri in occasione delle nostre esibizioni ha recepito perfettamente il nostro modo di concepire Monteverdi. Non è certo un caso se il primo anno il nostro progetto ha visto interessati quattro teatri per un totale di otto recite e quest'anno i teatri coinvolti sono diventati otto e le recite sedici. Di fronte a questi dati, il progetto ha preso automaticamente la strada della trilogia con la stessa orchestra. Sì, perché all'inizio non era previsto che il progetto venisse portato avanti dalla stessa orchestra.
Ritengo che questo sia un segno importante, in grado di dare forza e di accreditare il movimento filologico italiano a livello mondiale. Per quanto mi risulta, le opere di Monteverdi sono state finora affrontate soprattutto da orchestre e solisti stranieri - penso per esempio a John Eliot Gardiner, che le ha incise per Archiv - e che può indicare una maggiore affermazione dell'opera barocca in una nazione che, per quanto riguarda l'opera, è sempre stata legata soprattutto al melodramma ottocentesco.
Sicuramente sì. I segnali che stiamo ricevendo sono nettamente positivi. Soprattutto per quanto riguarda i teatri di tradizione, perché ho avuto il piacere di vedere che sempre più opere barocche o del Settecento vengono programmate in teatri come l'Opera di Roma e nei maggiori enti lirici. Proprio per il loro nome, «di tradizione», questi teatri tendono a rifarsi soprattutto al melodramma ottocentesco. In realtà la nostra «tradizione» più vera è molto più antica. I segnali che riceviamo ci dicono che sia nel presente sia ‑ soprattutto ‑ nel prossimo futuro in Italia ci sarà uno spazio sempre maggiore per quella che non è tanto una riscoperta ma un vero e proprio ritorno alle origini linguistiche dell'opera. E' sicuramente giusto ascoltare l'opera dell'Ottocento ‑per capirci, quella di Verdi e di Puccini ‑ ma è anche importante rendersi conto di come si è arrivati a questo concetto di opera e capire che non è proponibile fare paragoni, ma che si tratta di un vero e proprio viaggio, un percorso nel corso dei secoli che ha modificato un linguaggio, seguendo i gusti del pubblico e cambiando anche le concezioni filosofiche proprie della musica. E' proprio questa la scoperta più affascinante: se si dà l'opera dell'Ottocento senza conoscere quella del Seicento manca chiaramente una base indispensabile.
Dall'incontro con la soprintendente Angela Cauzzi è emersa una grande simpatia nei vostri confronti e uno smisurato entusiasmo per questo progetto. L'Accademia Bizantina come si trova a fare Monteverdi qui a Cremona?
Beh, penso che sia il massimo, perché siamo nella città che ha visto nascere Monteverdi. Inoltre ci esibiamo in un teatro dove abbiamo trovato una collaborazione, una disponibilità, un entusiasmo e una tranquillità che difficilmente si trovano nei teatri d'opera. Ho già diretto parecchie opere, ma l'atmosfera che si respira al Teatro Ponchielli è veramente quanto di meglio si possa avere per lavorare con calma. Con la soprintendente Angela Cauzzi abbiamo stretto un'amicizia che va molto al di là della semplice collaborazione professionale, c'è affinità di intenti, una comunione totale e una sconfinata fiducia reciproca, quindi meglio di così...
Oltre a questo progetto, che tra il 2004 e il 2005 vi terrà impegnati con undici repliche fino a febbraio, cui farà seguito l'allestimento dell'"Incoronazione di Poppea", cosa vi riserva il futuro?
Il futuro ‑ che sotto molti punti di vista è anche il presente ‑ ci riserva grandi cose. Per l'Accadernia Bizantina questo momento riveste un'importanza fondamentale, stiamo cavalcando un'onda felice, stiamo lavorando molto, abbiamo stretto una prestigiosa collaborazione discografica con la Decca con solisti importanti con Andreas Scholl e anche con la Naive, per l'incisione di un'altra opera....
Che si può dire?
Sì, è il Tito Manlio di Antonio Vivaldi, la eseguiamo e la incidiamo in luglio....

Si tratta del progetto integrale?
Sì, è quello che fa capo al Fondo Foà‑Giordano conservato presso la Biblioteca Universitaria Nazionale di Torino. Inoltre il prossimo anno portiamo in tournée il programma del secondo disco che abbiamo fatto per la Decca.
Le cantate dArcadia?
No, quella è stata la prima registrazione che abbiamo realizzato per la Decca; il secondo disco si basa su un programma comprendente alcune delle arie più rappresentative del castrato Senesino sempre con Andreas Scholl. Per questa tournée sono già previste moltissime piazze, tra cui alcuni dei teatri più prestigiosi d'Europa; parallelamente abbiamo in programma tanti concerti strumentali e altri progetti discografici. Al numero di novembre di Amadeus è stato allegato un CD con lo Stabat Mater di Giovanni Battista Pergolesi e il Salve Regina di Nicola Porpora. E poi... tanti progetti e lavoro, anche lavori operistici ancora in fase di definizione. Bello, è davvero molto stimolante avere tante cose da fare!
intervista di Giovanni Tasso ("Orfeo", numero 88, febbraio 2005)

domenica, ottobre 01, 2006

Leon Fleisher: il leone indomito

"Quando gli Dei vogliono colpire, sanno dove colpire", disse una volta Leon Fleisher a un intervistatore. Nel 1965, ad appena trentasette anni di età e all'apice delle sua fortuna, il grande pianista americano - che già godeva di fama universale grazie alle leggendarie incisioni discografiche effettuate a Cleveland con Georg Szell - fu colpito da una patologia neurologica chiamata "distonia focale»" che immobilizzò completamente due dita della sua mano destra. Seppur ferito, il leone affrontò la situazione con estremo coraggio. Dopo un periodo di riflessione, infatti, Fleisher decise di tornare sulle scene concertistiche eseguendo il repertorio per la sola mano sinistra: parallelamente, si dedicò all'attività didattica e alla direzione d'orchestra. Nel 1995, grazie alle cure di un'equipe di medici statunitensi, Fleisher ha riacquistato l'uso dell'arto malato, festeggiando l'evento con la registrazione di un disco dal titolo liberatorio "Two hands" (Vanguard ATM CD 1551).
Di recente Fleisher è stato protagonista di un concerto alla Società del Quartetto di Milano che lo ha visto cimentarsi in un programma assai impegnativo, comprendente due trascrizioni bachiane ("Schafe können sicher weiden" dalla Cantata BWV 208 e la Ciaccona dalla Partita n. 2 nelle versioni di Egon Petri e Johannes Brahms), tre brani a lui dedicati da altrettanti compositori statunitensi (Dina Koston, George Perle e Roger Sessions) e l'amatissima Sonata D 960 di Schubert. In tale occasione l'abbiamo incontrato rivolgendogli alcune domande.

Maestro, Lei ha studiato con una leggenda del pianoforte come Artur Schnabel. Quando e come lo conobbe?
L'incontro con Schnabel rappresentò per me un vero imprinting: per quanto concerne la musica lo considero a tutti gli effetti il mio padre spirituale. Lo conobbi nel 1938 a Tremezzo, sul lago di Como, dove teneva dei corsi estivi, io avevo dieci anni: trascorsi alcuni mesi con lui e da quel momento cominciai ad aprire veramente gli occhi sulla musica. Poi, nel 1939, lo ritrovai a New York e divenni suo allievo a tutti gli effetti: studiai con Schnabel per dieci anni.
Cosa Le è rimasto impresso dell'insegnamento e della personalità di Schnabel?
Naturalmente capirà che è molto difficile tentare di descrivere una cosa tanto importante in poche parole. Posso dire che studiare con Schnabel è stata l'esperienza determinante della mia vita: era una persona di cultura profondissima e di un'umanità unica, e tutto quello che faceva era ispirato. Attraverso Schnabel ho capito che cosa vuol dire essere musicisti e ho respirato a pieni polmoni la storia del pianoforte: non bisogna dimenticare che lui aveva studiato con un grande pianista come Theodor Leschetizky, a sua volta allievo di Carl Czerny. Un albero genealogico che porta direttamente a Beethoven. Pochi ricordano poi che Schnabel fu un compositore dotato e profondo: i suoi quartetti e le sue sinfonie sono lavori molto interessanti e complessi, sarebbe giusto e doveroso recuperarli al repertorio.
Curiosamente alcune fonti riferiscono che Lei debuttò in un concerto con orchestra sotto la direzione di Pierre Monteux, altre parlano di Bruno Walter. Vuole sciogliere questo dubbio?
Ah, davvero? Sono contento che ci siano tante persone a parlare di me [ride]. Il mio primo concerto con orchestra, a sedici anni, fu sotto la direzione di Pierre Monteux, gran signore e musicista raffinatissimo: era francese, ma conosceva il repertorio austrogermanico meglio di molti direttori tedeschi. L'equivoco, forse, nasce dal fatto che con Bruno Walter poco tempo dopo ho debuttato nel Concerto in La maggiore K 488 di Mozart. Esiste una registrazione pirata, di quell'esecuzione. Rammento che quella volta scrissero male il mio nome sul programma, e devo dire che ne fui parecchio dispiaciuto.
Un altro evento determinante della Sua vita artistica è stato l'incontro con Georg Szell: insieme a lui e alla Cleveland Orchestra ha realizzato dei veri classici della discografia.
Sì, ricordo come fosse oggi il momento in cui Szell mi chiese: "vorresti incidere con me a Cleveland tutti i grandi Concerti del tuo repertorio?". Rammento che tentennai un pochino, perché tra me e me pensavo: "è fantastico, però così non potrò registrare dischi con Bruno Walter, con Bernstein e la Filarmonica di New York, con Ormandy e l'Orchestra di Philadelphia". Quando vide che non rispondevo subito, Szell aggrottò la fronte e sbottò: "Perché stai esitando, non vuoi fare dischi con me?". A quel punto tornai in me e mi affrettai a rispondere: "No, no, ci mancherebbe altro, e grazie infinite per avermi scelto". Non ebbi certo a pentirmene: è stata sicuramente la partnership artistica più importante della mia vita.
In che modo iniziò la Sua collaborazione con Szell?
Fu proprio per merito di Schnabel. Szell ammirava enormemente Schabel, loro due erano grandi amici. Ricordo che al principio degli anni'40 Szell venne a New York per dirigere alcuni concerti, se non vado errato con un'orchestra scozzese. Io avevo dodici o tredici anni: con Schnabel andammo a sentire uno di questi concerti e nell'occasione fui presentato a Szell. Mi trovai di fronte un uomo altissimo, che allora mi apparve addirittura imponente, con degli occhi di un blu estremamente intenso nascosti da lenti molto spesse. In America, per descriverle, diciamo "glasses like coke bottles". Come bottiglie di Coca-Cola. Così i suoi occhi sembravano ancora più grandi, enormi. Oltre che un musicista eccezionale, era un uomo immensamente carismatico: infatti durante quel primo incontro ero un po' in soggezione, davanti a lui. Schnabel però gli parlò molto bene di me, e e Szell apparve colpito e incuriosito. In breve, quando Szell nel 1946 venne a Cleveland per il suo primo concerto come direttore stabile, io fui il solista: un grande onore, per un ragazzo di neanche vent'anni. Ricordo che in quell'occasione suonai il Concerto in La minore di Schumann. Szell fu molto soddisfatto della no-stra collaborazione, così quando rimpatriai dopo il mio soggiorno in Europa e la vittoria al Concorso Regina Elisabetta del Belgio, iniziammo a lavorare regolarmente insieme. Poi cominciarono le incisioni. La Columbia Records registrava già con la New York Philharmonic e la Philadelphia Orchestra, ma era interessata a realizzare dischi anche con la Cleveland Orchestra. Così crearono una nuova etichetta sotto l'ombrello della Columbia. Questa etichetta era la Epic, per la quale feci diversi dischi anche come solista. La Sonata di Liszt e la Quarta Sonata di Weber, per esempio, credo siano riuscite piuttosto bene. La Epic deteneva anche la distribuzione americana della Philips. Il primo disco della mia vita, infatti, lo incisi per la Philips: I quattro temperamenti di Hindemith, con Simon Goldberg e l'Orchestra da Camera Olandese.
Un fatto curioso, visto che Lei è stato recentemente protagonista di un'importante riscoperta hindemithiana: è stato infatti il primo esecutore della Klaviermusik mit Orchester, da poco ritrovata fra le carte di Paul Witigenstein.
Si, è buffo. Ho cominciato con Hindemith e ora, verso la fine della mia vita, torno circolarmente a Hindemith. Beh, spero di andare avanti ancora qualche anno, a dire la verità (ride). La storia di questo rinvenimento è singolare. La vedova di Wittgenstein è mancata tre anni fa: viveva in una fattoria in Pennsylvania, e dopo la sua scomparsa i figli hanno cominciato ad aprire armadi, bauli e cassetti. In uno di questi cassetti c'era la partitura di Hindemith. Si era parlato di questo lavoro per lungo tempo, ma ormai tutti ritenevano che fosse andato distrutto. Fu scritto nel 1923, un periodo meraviglioso per Hindemith: stranamente però a Wittgenstein il pezzo non piacque, e così non lo eseguì mai. Poco dopo il ritrovamento, fui contattato dall'editore Schott, che mi chiese "sarebbe interessato a suonarlo in prima mondiale?". Non ci ho pensato sopra neanche un secondo: "Certo che sì!".
Ho avuto modo di ascoltare la Sua interpretazione della Klaviermusik, e davvero non si può dire che si tratti di un'opera "minore".
Davvero l'ha ascoltata? Quale?
Quella del 9 dicembre 2004, con Simon Rattle e i Berliner Philharmoniker.
Ah, proprio la prima mondiale. In quei giorni ero molto contento ed eccitato, ma anche particolarmente teso: non ho suonato al meglio delle mie possibilità. Le esecuzioni successive sono senz'altro più riuscite. Vengo proprio da Praga, dove ho eseguito questo brano con la Filarmonica Ceca e un ottimo giovane direttore statunitense, Robert Spano. In precedenza l'ho suonato anche con Blomstedt a San Francisco. Ora credo di averne preso veramente possesso.
L'ha già registrato per il disco?
Non ancora, ma ho in programma di farlo prestissimo.
Durante il lungo periodo della Sua infermità, ha sviluppato una grande conoscenza del repertorio per la sola mano sinistra. Cosa può dire in proposito?
Dico anzitutto che il repertorio per la mano sinistra non è affatto un ripiego, include alcuni capolavori assoluti. Il Concerto di Ravel è una vera magnificenza e occupa un posto di grande rilievo nella letteratura per pianoforte e orchestra tout court. Il discorso vale anche per il Quarto Concerto di Prokofiev: questi sono dei capolavori, ma anche Diversions di Britten è un pezzo molto bello e soprattutto splendidamente scritto. Parergon zur Sinfonia Domestica e Panathendenzug non credo siano invece da annoverare tra le cose migliori di Richard Strauss.
Quante volte ha eseguito il Concerto per la mano sinistra di Ravel?
Sa, a occhio e croce credo di averlo suonato almeno mille volte. La cifra le potrà sembrare abnorme, ma deve tenere conto del fatto che generalmente, negli Stati Uniti, i programmi concertistici vengono ripetuti tre o anche quattro volte.
Finora ha citato lavori piuttosto noti: la Sua esplorazione l'ha portata a individuare delle pagine importanti ma ancora sconosciute al grande pubblico?
Come no. Ancora tutti da scoprire, per esempio, sono i bellissimi lavori che il compositore austriaco Franz Schmidt compose per Wittgenstein: due Concerti, tre quintetti e una Toccata. In particolare il Concerto n. 1, costruito come una serie di variazioni su temi della Sonata "Primavera" di Beethoven, è decisamente curioso. Un gran bel pezzo è poi lo Studio in La bemolle maggiore di Felix Blumenfeld, che era un cavallo di battaglia di Simon Barere. Anche i Sei Studi per la mano sinistra op. 135 di Saint-Saens, che ho inciso per la Sony, sono squisiti e raffinatissimi.
Dopo Paul Wittgenstein, peraltro, Lei è stato probabilmente il pianista che ha dato maggior impulso alla nascita di nuovi brani per la sola mano sinistra.
Per ovvi motivi mi sono interessato molto alla figura di Wittgenstein: se nei trent'anni della mia malattia ho potuto continuare a suonare, devo dire grazie a lui. Era un uomo difficile, tormentato e complesso. Come saprà era fratello del filosofo Ludwig, ma aveva altri cinque o sei tra fratelli e sorelle: due di questi si suicidarono. La sua era dunque una famiglia infelice ma molto ricca, grazie a Dio. Quando suo padre Karl morì, nel 1913, lasciò una vera e propria fortuna in eredità ai figli: questo consentì a Paul di commissionare nuovi pezzi a molti grandi autori della sua epoca. Grazie a lui esiste anche dell'ottima musica da camera. Korngold, ad esempio, scrisse per Wittgenstein una meravigliosa suite in cinque movimenti per pianoforte, due violini e violoncello, che ho eseguito giusto pochi mesi fa a Philadelphia. In precedenza l'ho anche incisa per la Sony, con Joseph Silverstein, Jaime Laredo e Yo-Yo Ma. Purtroppo Wittgenstein e io non siamo stati i soli a soffrire di questa infermità: penso soprattutto al mio amico Cary Graffman. Anche lui ha avuto un ruolo importante nell'ampliamento della letteratura pianistica per la mano sinistra. Ad esempio Ned Rorem ha scritto per Gary un Concerto per pianoforte e orchestra davvero molto interessante. Per tornare alla sua domanda, sono contento e onorato di aver dato un contributo alla letteratura per la mano sinistra attraverso le mie commissioni. Tra i compositori che hanno scritto per me ci sono nomi importanti come Henze, George Perle o Roger Sessions, ma anche giovani autori molto bravi come William Dopmann, che ha composto per me Distances from a Remembered Ground, una serie di variazioni sull'ultima Mazurka di Chopin; oppure Jean Hasse, che mi ha dedicato un brano incantevole, Silk Water. Tutte queste musiche continuo ad eseguirle anche se fortunatamente mi sono lasciato questo problema dietro le spalle: ho recuperato l'uso della mano destra da ormai dieci anni ma non mi sembra ancora vero, e sono talmente felice che mi sembra di camminare a un metro da terra.
A partire dagli anni '70 Lei si è anche dedicato intensamente alla direzione d'orchestra. Quali sono le Sue predilezioni, in questo campo?
Come direttore non ho sviluppato predilezioni particolari, ho spaziato in un repertorio alquanto vasto: a dirla tutta ho diretto anche parecchia musica che non mi piaceva, lo considero un buon esercizio di disciplina. Se proprio vogliamo individuare un settore privilegiato, avendo avuto occasione di lavorare con quasi tutte le maggiori orchestre del mio paese, mi sono occupato parecchio della musica americana: questo fra l'altro mi dato l'opportunità di conoscere diversi compositori che poi hanno scritto per me come pianista. La mia passione per la direzione d'orchestra, del resto, nasce da lontano: infatti la prima influenza della mia vita, ancora prima di Schnabel, è venuta da Monteux. Suonai per lui quando avevo otto anni, e fu appunto per suo suggerimento che andai a studiare con Schnabel. Inoltre, quasi tutti i Concerti del mio repertorio li ho eseguiti per la prima volta con Monteux. Lui teneva dei corsi di perfezionamento nello stato del Maine, e mi è capitato spesso di suonare delle sinfonie a quattro mani con i suoi allievi di direzione d'orchestra: Monteux ascoltava, correggeva e dava dei suggerimenti. In quelle occasioni tenevo sempre le orecchie ben tese, e ho imparato un'infinità di cose. Quando la scuola si ingrandì, chiesi a Monteux di lasciarmi provare a dirigere. Lui però mi disse: "No, perché una volta che avrai tenuto una bacchetta in mano, non vorrai più lasciarla. E tu devi assolutamente fare il pianista".
Nel campo del pianoforte Lei è giustamente considerato uno fra i maggiori didatti del nostro tempo. Cosa cerca di trasmettere, soprattutto, ai Suoi allievi?
Tutto deve cominciare dal testo: bisogna compiere ogni sforzo per cercare di comprenderlo a fondo, assimilarlo e rispettarlo. E' anche fondamentale stimolare la curiosità e l'apertura ad ogni novità. Non compio il terribile sbaglio di indirizzare i miei allievi verso la musica che preferisco, cerco invece di incoraggiarli a sviluppare una loro personalità e un loro gusto.
Lei è un osservatore privilegiato della vita musicale da ben settant'anni. Come giudica la nostra epoca rispetto a quella che vide i Suoi esordi?
Per capire quello che è successo nel Ventesimo Secolo bisogna partire da più lontano. Nell'epoca barocca e in quella classica il compositore e l'esecutore erano la medesima persona. Così i grandi strumentisti avevano gusto, inventiva, conoscenza, perfetta comprensione di come la musica deve svilupparsi e camminare. Poi, a partire dai tempi di Schumann e in seguito sempre più, cominciò a emergere la figura dell'esecutore che non era anche un compositore. Molte volte costui non era dotato del necessario bagaglio di conoscenze sul funzionamento della musica, e soprattutto di gusto: il problema principale era diventato quello di vendere biglietti e riempire le sale. Così la temperatura del gusto cominciò a scendere: magari il compositore scriveva "piano" sullo spartito, ma l'esecutore riteneva di ottenere maggior successo suonando "forte", e si concedeva libertà di ogni tipo. Tutto, insomma, cominciò a deteriorarsi quando l'esecutore iniziò a diventare più importante della musica. Secondo me sono state due persone, all'inizio del Ventesimo Secolo, a riportare al centro dell'attenzione l'integrità della musica e il rispetto del testo: Schnabel e Toscanini. In modi molto diversi, ovvio, perché erano persone totalmente differenti. Il loro pensiero, perfezionato e arricchito dai successori, ha rappresentato una svolta fondamentale. Non riesco davvero a pensare a nessun grande pianista di oggi che in un grado o maggiore o minore non sia stato influenzato da Schnabel. Negli ultimi vent'anni le cose però sono nuovamente cambiate, viviamo in una situazione assai difficile: attualmente sembra contare soprattutto il divismo, l'immagine. Oggi chi organizza i concerti o pianifica le uscite discografiche vuole delle stars: i musicisti devono essere bellissimi, attraenti, seduttivi: le copertine di molti CD ormai sembrano copertine di riviste di moda. Ma noi non siamo stars, la vera star è la musica.

intervista di Paolo Bertoli ("Musica", nr.175, aprile 2006)

venerdì, settembre 29, 2006

Intervista a Igor Kipnis

Un grande clavicembalista di fama internazionale, un eccezionale interprete del clavicordo e del fortepiano, un virtuoso del pianoforte sia in duo che come interprete solista. L'ultima importante intervista prima della scomparsa di Igor Kipnis, avvenuta nel gennaio del 2002, all'età di settantuni anni.

Circa trent'anni fa, quando ancora giovane iniziavo già ad appassionarmi alla musica antica, negli Stati Uniti il nome di Igor Kipnis era il sinonimo di clavicembalo. Da allora Kipnis ha continuato la sua attività in un campo che si è espanso enormemente. La lista delle stelle della musica con cui Kipnis ha collaborato è chilometrica, e allo stesso modo la sua discografia. La Angel sta ripubblicando le sue registrazioni effettuate negli anni '70 su etichetta Seraphim Classics. Recenti registrazioni di Kipnis includono una varietà di dischi di musica da camera, con speciale preferenza verso il repertorio a quattro mani che egli ha esplorato con il Duo Kipnis-Kushner ‑ Dvorák, Brahms e Grieg per la Palatine Recordings; Brahms, Schubert, Ravel, Fauré ed il brasiliano Calimerio Soares per la Parnassus Records; una collaborazione con David Shostac nella registrazione delle sonate per flauto di Bach per la Resort Classic. Ho intervistato Kipnis a casa sua immersa nel meraviglioso bosco collinare di Redding, nel Connecticut, non molto lontano da New York City.

Poco tempo fa ho letto che il suo primo approccio con il clavicembalo è stato con un Dolmetsch che apparteneva al dipartimento di musica ad Harvard.
Era un Dolmetsch Chickering del 1907, che fu anche lo strumento che Ralph Kirkpatrick fu il primo a provare. Alla fine questa esperienza lo portò ad appassionarsi in questo campo, così come successe per me, benché sicuramente io allora non lo sapessi ancora. Stavo seguendo un corso ad Harvad con Randall Thompson, dal titolo «The Age of Handel». Dovevamo scrivere pagine di termini che riguardavano i vari aspetti della vita di Handel, qualcosa che avesse a che fare con la città di Londra in quel periodo. Frequentavo una ragazza di Radcliffe, che suonava il flauto. Insieme ottenemmo l'autorizzazione ad eseguire alcune sonate per flauto di Handel, revisionate da Thurston Dart, e quella fu la prima volta che posai le mie mani su un'ottimo strumento, anche se era in pessime condizioni. Recentemente ho avuto modo di suonarlo nuovamente, ma credo che sia tuttora in condizioni pietose. Non ho idea di cosa ne pensasse lo stesso Kirkpatrick. Nei miei ricordi c'è sempre stata la passione per il clavicembalo, dapprima ascoltando delle registrazioni, mi riferisco ovviamente a Landowska. Adoravo il suo modo di suonare e collezionai un bel po' dei suoi dischi. L'ammiro ancora molto, ma gli stili sono cambiati così drasticamente e lo strumento non viene più considerato un vero clavicembalo. Un'artista di incredibile bravura, ma a questo punto l'unica dote che apprezzo in lei è solo l'abilità artistica. Può sembrare un giudizio molto duro, e non mi piace dirlo dato che si parla di una grande interprete. Ho avuto la fortuna di ascoltarla una volta. E' così che ho cominciato ‑ a parte i suoi dischi, non esistevano molte registrazioni di musica per clavicembalo. Ve ne erano alcune di altri, ma era più difficile entrarne in possesso. Dopo aver finito il servizio militare, e mentre svolgevo i lavori più disparati, mio padre, che mi aveva già regalato un televisore, mi regalò un pianoforte, ma io non lo volevo. Io credo che egli fosse preoccupato del fatto che quando tornavo a casa dal lavoro ‑ in quel periodo lavoravo da circa quattro anni e mezzo come direttore artistico ed editoriale alla Westminster Records, era un lavoro molto faticoso e stressante ‑ trascorressi l'intera serata davanti alla tv come un vegetale. Mia moglie (la stessa persona che suonava il flauto ‑ Judy) deve avergli parlato, e così i miei genitori partirono per l'Europa per la prima volta dopo la Seconda Guerra Mondiale, e mi chiesero se c'era qualcosa che potessero portarmi da laggiù. Io risposi, «sì, un clavicembalo». Essi si fecero una grande risata. Mio padre collegava l'uso del clavicembalo ad opere quali Le Nozze di Figaro oppure Il Barbiere di Siviglia.
In che anno avvenne questo?
Era il 1956.
Fece il servizio militare dopo il diploma?
Me ne sono liberato. Non ci sono molte cose positive da dire sul servizio militare ‑ ci sono rimasto solo per due miserabili anni. Per tutto il tempo, a parte il periodo di indottrinamento, stavo in Camp Chaffée, Arkansas. L'unica cosa positiva che mi ricordo è che quando andavo alle scuole superiori ero sempre timido e avevo difetti di pronuncia. Quando dovevo raccontare qualcosa dicevo «vi parlerò... di... Shakespeare... e di Romeo e ...Giu... lietta». Nell'Esercito dovevo insegnare i basilari segnali di comunicazione alle reclute, e questo consisteva nel dover parlare a circa ottocento soldati, annoiati a morte, e dire «bene, signori, adesso guardate il filmato». E' stato questo che mi ha fatto capire che avrei potuto parlare ad un gran numero di persone. La cosa mi ha fatto sentire molto utile per parecchi anni. I miei genitori tornando dalla loro vacanza non portarono nessun clavicembalo, bensì alcuni cataloghi. Dovetti convincere mio padre a comprarmi il più piccolo strumento a due manuali. Era uno Sperrhake. Egli non sapeva nulla sui clavicembali, in realtà nemmeno io. Ma cinque anni dopo, l'influenza delle copie di strumenti storici ‑ la maggior parte senza pedali ‑ stava a significare che stavamo diventando sempre più puristi; questa era l'idea generale. Lo Sperrhake rifletteva questa immagine in quanto era esattamente come un Neuperts di quell'epoca. Erano prevalentemente dei clavicembali rimodernati. Ma bisognava pur iniziare da qualcosa. Così, invece di guardare la tv dopo il lavoro, mi sedevo e mi esercitavo. In modo strano ma divertente. Suonavo i vecchi pezzi che avevo imparato studiando il pianoforte ‑ lo avevo studiato sin da quando avevo sei anni ‑ e piano piano imparai un po' della tecnica per clavicembalo, principalmente come autodidatta. Presi alcune lezioni da Fernando Valenti. Coloro che lo conoscevano sapevano che era capace di farsi fuori una discreta quantità di alcool. Egli veniva per una lezione, mia moglie preparava la cena, come ricompensa, capisce, ed io ricevevo la mia lezione. Un giorno egli arrivò ed io stavo preparando dei vodka‑martini, prima della lezione, e disse: «Fra quanto si mangia?». Mia moglie rispose, «Siamo leggermente in ritardo ‑ ci vorrà forse un'altra mezzora». Così Fernando disse, «Perché non mi suoni le cose che stai studiando?» A quel punto lui si era già fatto fuori quattro martini ‑ lisci, non con ghiaccio ‑ ed io soltanto tre. Avevo difficoltà a trovare il clavicembalo, poi la sedia, e le mie dita sembravano maccheroni. La cosa irritante fu che Fernando si mise a sedere a cominciò a suonare i miei pezzi al posto mio senza sbagliare una nota. Così mi insegnò la lezione ‑ che bere è giusto, ma non bere e suonare insieme. Ebbi un altro incarico alla Westminster, a fianco a quello editoriale ed artistico. Mi presi la briga di portare fuori a pranzo gente che lavorava nelle varie emittenti radiofoniche di New York. La CBS trasmetteva un programma notturno di grande interesse, la NYC una trasmissione notturna, anche la NBC ne aveva una, ed ovviamente la WQXR. Si trattava delle principali emittenti che trasmettevano molta musica classica a quel tempo ‑ come sono cambiati i tempi, vero? Un giorno andai nell'edificio municipale dove si trovava la WNYC, e pranzai con Alexander Richardson. Egli era un organista, nonché la persona addetta al reparto dischi della WNYC. Egli sapeva che possedevo un clavicembalo e che lo suonavo. Facevo delle jam session e suonavo insieme ad un sacco di persone. Il nome di Zuckerman è piuttosto familiare. Wally Zuckerman aveva un negozio nel village ed era anche una violoncellista. Mettemo insieme un gruppo di persone, tra cui Wally. Seymour Solomon, a parte il suo legame con la Vanguard Records ‑ era uno dei due capi ‑ era un violinista. Anch'egli si unì a noi. E avevo anche un amico flautista. Eseguivamo un concerto brandeburghese oppure un concerto grosso di Handel. In ogni caso, stavo pranzando, ed Alex Richardson disse, «Perché non trasmettete un programma su WNYC?». Dovetti pensarci su circa venti secondi e poi accettare. Ma c'era un problema di base, la WNYC, allora come oggi, non aveva soldi. Io certamente non potevo permettermi di pagare per trasportare il mio strumento alla WNYC. Convinsi un ingegnere della Westminster, che voleva vivere l'esperienza di una registrazione, a venire nel nostro appartamento, sulla tredicesima della Seventh Avenue, in un weekend di novembre. Spegnemmo i radiatori e arrotolammo il tappeto per migliorare l'ambiente, sperando che non ci sarebbe stato troppo traffico in strada, e feci, in un certo senso, la mia prima registrazione. Essa venne trasmessa, e non molto tempo dopo ‑ proprio nell'arco di una settimana ‑ un giovane direttore chiamò e disse, «Salve, mi chiamo Norman Masonson. Ho ascoltato la trasmissione. lo dirigo la Greenwich Village Civic Symphony, e il nostro prossimo programma prevede una esecuzione a Greenwich Village alla Memorial Chapel. Eseguiremo il Quinto Concerto Branáeburghese. Le piacerebbe interpretare la parte del solista?» Io, nella mia totale ingenuità, risposi «Perché no?»
L'aveva mai suonato prima?
L'avevo suonato; in realtà l'avevo fatto in casa mia, impiegando solo una persona per sezione. Sì, lo conoscevo. Ma non lo avevo mai suonato prima dal vivo, e non sapevo quanto timore avrei avuto fino al momento di eseguirlo. Mi ricordo ancora di come non sei in grado di camminare per muoverti da dietro le quinte fino alla tua posizione sul palcoscenico. Non vi erano delle quinte bisognava camminare giù lungo un corridoio, come succede nei matrimoni, e ciò è abbastanza spaventoso, per dover suonare il Quinto Concerto Brandeburghese, il che era chiedere troppo. Avevo spedito gli inviti ad un sacco di gente. Tra le persone invitate vi era una delle figlie di Leopold Godowsky, il famoso pianista. Era un'attrice del cinema; spesso infatti interpretava ruoli da vamp. Esistono ancora dei film muti interpretati da lei. Lei conosceva tutti. Ha avuto a che fare con tante, tante persone diverse. Con Arthur Rubinstein ‑ egli ne parla nei suoi libri. Con Charlie Chaplin. Con Igor Stravinsky e con molte altre persone. Lei scrisse un libro dal titolo Prima Persona Plurale ‑ lungo, fuori catalogo, divertente, e racconta la storia di una festa in cui qualcuno si avvicina a lei e le chiede «Dagmar, quanti mariti ha avuto?» e lei risponde «Due miei, e un bel po' delle mie amiche». Era una persona davvero spiritosa, e la conosco praticamente dalla mia nascita. Credo infatti che lei mi conoscesse da prima che io nascessi ‑ era una cara amica di mia madre. Ed eccola lì ‑ era venuta per questo concerto di debutto, e non appena iniziai a camminare lungo il corridoio ‑ la mia faccia deve aver assunto all'improvviso il colore di un avocado ‑ fece per alzarsi dal suo posto e mi urlò «Yoo‑hoo, Igor!». Morì pochi anni dopo, ma non per colpa mia, infatti se fosse stato per me l'avrei uccisa in quell'occasione. Vi ho nominato dei mentori. Il più importante tra questi era Thurston Dart. Stava dando delle letture alla New York Public Library. Lo facevo spesso di andare alla biblioteca, per salutarlo e per dirgli quanto trovassi meravigliose le sue registrazioni, specialmente le esecuzioni con il continuo, che erano così fantasiose e che sicuramente mi hanno influenzato. Lo invitai a cena. Egli venne e mi senti suonare, e non mi allontanò da sè, cosa per cui gli sono profondamente riconoscente.
Quando accadde?
Dovrebbe essere accaduto circa nel 1960. Il mio debutto, a proposito, avvenne un anno e mezzo dopo aver avuto il clavicembalo. Guardando indietro nel tempo trovo questa cosa un po' ridicola ‑ come ho potuto avere l'audacia di fare una cosa del genere? Ero un autodidatta ‑ Dart mi suggerì cosa guardare, cosa leggere, e prestai molta attenzione a tutto ciò. Quando iniziai a effettuare registrazioni come solista, gliele mandavo, e quasi in tutte le sue risposte vi era una critica. Egli esercitava un'incredibile influenza su di me. Venne al mio debutto a Londra nel 1967, e si mise a sedere in sesta fila, braccia conserte davanti a sé, facendomi delle smorfie, cosa piuttosto allarmante, e quando feci ritorno in albergo trovai un messaggio lasciatomi da lui in cui c'era scritto: «Bene, Igor, un bel concerto davvero. Non ti aspettare granché dal mio appartamento (sarei andato a trovarlo in quel weekend) ‑ non è troppo grande, e a proposito, se ti fa piacere, porta con te Byrd e Pachelbel,» il che stava a significare che avrebbe voluto apportare delle correzioni.
Se qualcuno le avesse chiesto nel 1950 ad Harvard se prevedeva che avrebbe debuttato come clavicembalista non molti anni dopo, lei avrebbe risposto di sì? Cosa pensava dei suo futuro quando era studente?
La musica non era la mia materia di specializzazione ‑ seguivo i corsi di musica, ma trovavo il dipartimento arido, almeno a quel tempo. Mi specializzai in relazioni sociali, che mi aiutarono in un modo piuttosto insolito. C'erano un paio di aree di specializzazione in quello che allora era il sistema delle quattro discipline, che comprendeva l'antropologia sociale e la sociologia ‑ queste veramente noiose ‑ ma anche psicologia clinica che mi piaceva molto, e psicologia sociale. Quest'ultima mi aiutò non appena mi trovai a pensare ad un metodo per attirare l'attenzione del pubblico, per promuovere un concerto. Certamente potrei fare una battuta dicendo che la psicologia clinica mi aiutò a capire il motivo per cui avrei dovuto fare una cosa così folle come quella di interessarmi al clavicembalo.
Com'era l'ambiente ad Harvard? Più tardi ci furono molte performance formali e semi-formali all'interno della struttura stessa.
Veramente anche allora ce ne erano molte. Adesso ci sono dei clavicembali nella biblioteca di Dunster House, ad esempio, e alcuni studenti hanno effettivamente il clavicembalo a disposizione. A quel tempo non vi erano molte risorse da quel punto di vista ‑ Danny Pinkham ne aveva uno, ma si era già diplomato. Era una rarità. C'era una serie di appuntamenti musicali, e venivano portate avanti alcune incredibili iniziative ‑ il Juilliard Quartet nella sua prima stagione concertistica che eseguiva i quartetti di Bartók. Ricordo di aver ascoltato delle letture di Arthur Schnabel. Lavoravo per la stazione radio di Harvard (ho fatto molto con WHRB) e morivo dalla voglia di intervistarlo. Egli disse, «Io non rilascio interviste radiofoniche». Ma io gli strinsi la mano, e tutto ciò che riuscii a pensare fu, «Ho stretto la mano che ha suonato l'"Hammerklavier". Mi fece una tremenda impressione ‑ pensavo che fosse il non plus ultra, la cosa più difficile da suonare al pianoforte. C'erano molti avvenimenti ed alcuni di essi li trasmettemmo alla radio di Harvard. Era un gran divertimento; lì si faceva tantissima musica. July in realtà cantava nel coro di Harvard‑Radcliffe. Ho sentito quella che sarebbe stata probabilmente l'ultima esecuzione della Nona Sinfonia di Beethoven diretta da Koussevitzky ‑ non ad Harvard ma proprio a Boston ‑ e lei faceva parte del coro. Disse che ad un certo punto Koussevitzky sbagliò l'attacco di una battuta, e i contralti sbagliarono, e lui divenne completamente rosso in faccia mostrando una vena che pulsava in modo evidente.
Io mi interesso anche di storia che riguarda la musica antica a Boston. Erwin Bodky si trovava già nella zona di Boston alla fine degli anni '40, ed ero affascinato dal fatto che esistesse una registrazione realizzata in quel periodo da Arthur Fielder sulla musica tedesca del XVII secolo.
Bodky suonava a volte quel repertorio. Sicuramente era una persona importante, nonché il direttore della Longy School. Tra i mentori che ho avuto più avanti nella vita c'è stato anche il direttore della Longy School, Melville Smith. Egli mi ha insegnato molto, grazie ad un paio di conversazioni avute con lui, sull'esecuzione di musica francese. In generale, il pubblico è meno sensibile persino ai compositori francesi più familiari Couperin, Rameau. M ricordo che nel 1977 stavo registrando da capo i concerti di Bach con alcuni miei pupilli con cui ho fatto parecchi concerti, e tra queste sessioni mi venne chiesto di partecipare come giudice nella competizione parigina intitolata «Festival estival». Mi esibii in un recital che comprendeva una suite di Marchand. Avevo suonato Marchand per gran parte della stagione, ed era la prima volta che mi esibivo a Parigi. Io sono in genere molto critico con me stesso, ma quella volta suonai davvero bene ‑ non ero scontento di ciò, piuttosto del fatto di aver trovato il pubblico non troppo caloroso. Pensavo tra me e me, «Ragazzi, cosa c'è che non và?» A Boston non c'era molto fermento riguardo alla musica antica. La gente suonava il flauto, le Messe di Palestrina venivano cantate con una incerta intepretazione romantica ‑ non c'era affatto un gran coinvolgimento, cosa che arrivò molto, molto tempo dopo. Guarda adesso cosa è diventata Boston, è molto più attiva di New York!
Da piccolo lei ha studiato il pianoforte, senza pensare che sarebbe diventato un concertista.
Si era capito ‑ mai dichiarato apertamente, ma si era capito ‑ che non sarei diventato un concertista. Mio padre voleva che ricevessi una paga tutti i venerdì. Pensavo che mi sarebbe piaciuto lavorare alla radio ‑ mi piaceva il tipo di lavoro e mi piacevano i dischi. Volevo diventare un produttore, colui che avrebbe detto «Mr. Heifetz, per il suo prossimo disco, come vorrebbe interpretare la Rapsodia in Blu nella versione per violino?» io credo che sia ancora una grande idea... Quando mio padre mi regalò il clavicembalo non sapeva ancora cosa sarebbe successo, e nemmeno io lo sapevo. Era solo un gioco e un divertimento. Quando feci il debutto i miei genitori erano scioccati, e non fecero niente per incoraggiarmi. Mio padre pensava che era la cosa più stupida che potessi fare, scegliere uno strumento che non dava nessuna possibilità di successo trattandosi di uno strumento per solista. Sì, egli conosceva Landowska, ma la considerava una cosa unica. Passò molto tempo prima che i miei genitori si rendessero conto che non avevo fatto la cosa più stupida che si potesse fare sulla terra. Andavo in tournée, guidavo il mio furgone e mi portavo dietro il mio clavicembalo. Avevo un clavicembalo Rutkowski & Robinette, perché avevo bisogno di qualcosa di affidabile, non solo che reggesse l'intonazione in maniera stabile, ma anche che non avesse bisogno di una continua regolazione per ottenere un bel suono. Viaggiavo per tutto il paese, e molto spesso, alla fine di un concerto, qualcuno mi chiedeva «Lei è parente del cantante Alexander Kipnis?» Certamente ti fa piacere, ma non quando la cosa accade una volta di troppo! Mentre suonavo a Praga, nella residenza dell'ambasciatore, eseguii un recital per clavicembalo, un normale concerto della durata di due ore, e un vecchio signore avvizzito venne a dirmi, con voce tremolante, «Ricordo che una volta suo padre venne a cantare a Praga, nella parte di Sarastro de Il Flauto Magico, una cosa indimenticabile.» E se ne andò. Io pensai, «ma non conto proprio nulla io?» Dopo un po' di tempo, a mio padre cominciarono a chiedere: «Lei è parente del clavicembalista?» A quel punto sembrava che la situazione stesse cambiando. Egli capì che non stavo facendo qualcosa di troppo sbagliato. Ho avuto fortuna, ho inciso parecchi dischi ‑ adesso sono più o meno ottantasei; mi sono fatto un sacco di esperienza sulle registrazioni da studio. Nel 1963 sono entrato in possesso di un clavicordo, e nel 1980 ho comprato un fortepiano antico.
Si è mai esibito in concerto con il clavicordo?
La prima volta che ho suonato un clavicordo in concerto fu a Rutgers, eseguendo un programma di musica di Bach. Ho eseguito la prima metà del concerto al clavicordo, la seconda al clavicembalo. Che ci crediate o no, la sala venne chiamata Kirkpatrick Chapel. Non accade spesso che ti chiedano queste cose.
Ci racconti qualcosa dei suo duo pianistico.
Avevo ricevuto in regalo tutte le Mazurke di Chopin da Alan Silber alla Connoisseur Society, mentre mi trovavo in tournée, e un CD player era nella stanza. Io adoravo le Mazurke di Chopin, e non sapevo chi ne fosse l'esecutore. Il nome era Karen Kushner. Dopo aver messo il disco nel lettore, ne rimasi folgorato. Avevo avuto l'opportunità di scriverne una recensione su Stereophile, e la Kushner mi rispose con una bella lettera di ringraziamento. In seguito Karen venne in un incontro con il pubblico e ci conoscemmo personalmente. Diventammo amici e scoprimmo di avere gli stessi interessi musicali: ad entrambi piacevano Brahms, Chopin e Ravel. Avevo comprato le musiche per Mother Goose Suite di Ravel. Toccavo il pianoforte ogni morte di papa. La mia allora non era assolutamente una tecnica pianistica. Ad ogni modo, ci sedemmo e provammo insieme Mother Goose Suite. Iniziammo insieme, e la cosa strabiliante che avvenne è che finimmo anche insieme. Avevamo un feeling musicale fenomenale. Debuttammo al Bohemian Club di New York, ed il pianoforte divenne per me sempre più familiare. In questi ultimi anni ho suonato quattro strumenti ‑ il clavicembalo, il clavicordo, il fortepiano e il pianoforte moderno. Devo sottolineare «moderno» dal momento che il mio pubblico non pensa che io possa avere a che fare con il moderno pianoforte. Mo nonno era un pianista; e così anche mio zio. Adoro la musica per pianoforte, e ho iniziato a collezionare dischi di pianoforte all'età di quattordici anni, e delle mie ultime recensioni discografiche, molte sono di pianoforte.
Tom Moore
("Orfeo", numero 89, marzo 2005)

mercoledì, settembre 27, 2006

Concertgebouw di Amsterdam: una gran voglia di crescere

Tastiamo il polso ad un grande complesso orchestrale europeo: il Concertgebouw di Amsterdam tra tradizione e disponibilità a nuove esperienze

Il 4 novembre 1988 l'Orchestra del Concertgebouw di Amsterdam ha compiuto cent'anni. E allo scoccare del suo primo secolo di vita, sul podio del concerto ricorrenza c'era Riccardo Chailly, nuovo direttore musicale, quinto nella storia del complesso e primo straniero. Nel piccolo mazzo delle grandi orchestre europee, quella del Concertgebouw ha una storia fitta di bei nomi da raccontare e una disponibilità ai repertori moderni, alle esperienze nuove, che non è in contraddizione coi suo forte legame alla tradizione.
Da un colloquio col suo direttore artistico, Hein van Royen, esce il ritratto di un'orchestra che, nata guardando al modello di Vienna, dal rapporto ora sotterraneo ora affiorante con diverse realtà musicali di Amsterdam ha sviluppato caratteristiche strumentali e aperture insolite. Un'orchestra che, nel trovarsi decentrata rispetto ai grandi giri commerciali, s'è riservata uno spazio autonomo nel gestire i delicati "affari discografici".

Signor van Royen, circolano versioni diverse sulla nomina di Riccardo Chailly a direttore musicale dell'Orchestra del Concertgebouw. Come sono andate realmente le cose?
So che i più sorpresi e dubbiosi per questa scelta sono proprio in Italia. E noi ci sorprendiamo di questo. Invece d'essere soddisfatti per la congiuntura favorevole alle vostre migliori bacchette... Claudio Abbado organizza la vita musicale di Vienna, Riccardo Muti ha in mano, oltre alla Scala, che è un'istituzione internazionale, una delle più grandi orchestre del mondo, Chailly comincia con noi un lavoro importante e a lungo respiro ...
E Sinopoli? Oltre alla Philharmonia dirigerà dal '90 l'Opera di Berlino.
Sì, è un direttore in ascesa, anche se personalmente trovo che sia un musicista che pensa troppo. Comunque seguiamo Chailly da dieci anni, dalle sue prime uscite importanti. Ci era stato segnalato dall'Italia. Lo ascoltai per la prima volta nel Rakes Progress al teatro Lirico di Milano, nell'allestimento di Hockney e Cox acquistato dalla Scala. Poi nel lavoro con la London Sinfonietta su Stravinsky. Da allora non l'abbiamo mai perso d'occhio.
E' vero che nella scelta di un direttore giovane e "latino" ha pesato anche qualche dissapore con Haitink?
Sì. Diciamo che l'orchestra cominciava ad essere sempre meno interessata ai programmi che Haitink stava sviluppando. In generale abbiamo sentito la necessità, in questo momento, di un'iniezione di entusiasmo. Tutta la cultura nordica ha sempre avvertito la necessità di collegarsi allo spirito di Dioniso. Riccardo è, per talento naturale, portatore di quel seme mediterraneo di cui Nietzsche e la grande tradizione archeologica, ad esempio, hanno sempre dichiarato di aver bisogno. E vorrei che anche voi italiani dubbiosi ammetteste che Chailly, da quando lavora stabilmente con noi, è molto migliorato sul piano tecnico. Perché lo scambio non è mai a senso unico. L'orchestra spesso dà al direttore più di quanto non riceva. Perché è un organismo molto più complesso e difficile da costruire. Chailly dà a noi un certo spirito vitale. L'orchestra gli dà i suoi cent'anni di storia, la sua tradizione. E se uno spirito assimila, com'è il suo caso...
Chailly ha il consueto contratto quinquennale?
Sì, ma noi speriamo che stia con noi molto di più: almeno i quindici che furono di vari Beinum o i venticinque di Haitink. Lei sa che nei cent'anni della sua storia l'Orchestra del Concertgebouw ha avuto solo quattro direttori e, a parte Willem Kes, che lasciò l'incarico dopo sette anni per andare a dirigere in Scozia, Willem Mengelberg rimase al suo posto per circa quaranta.
E furono motivi politici, di "simpatia" per i tedeschi, a troncare quel rapporto.
Sì, e fu un trauma nazionale. Perché Mengelberg aveva fatto la grandezza dell'orchestra.
Fra i primi aveva creduto in Mahler.
Ed era amico di Strauss, e per lui, per i suoi rapporti con i musicisti erano venuti a dirigere tanti compositori: Stravinsky, Debussy, Ravel, Casella, Milhaud, Hindemith.
Con i direttori stabili abbiamo l'usanza di stabilire un rapporto molto più duraturo del consueto. E' il nostro stile.
Ma c'è anche voglia di novità. L'esperienza con Harnoucourt com'è nata, per quali esigenze?
Noi abbiamo una tradizione: una Passione di Bach al tempo di Pasqua. L'eseguiamo ogni anno, più o meno da quando esiste l'orchestra. Un giorno sentimmo che quella tradizione andava rinnovata. All'orchestra non interessava più il Bach massiccio e troppo sinfonico di certi direttori. Chiedemmo ad Harnoncourt di venire a dirigere la Passione secondo Matteo. Il suo lavoro piacque all'orchestra, che si accorse come altri autori, specie nel repertorio classico, avessero bisogno d'essere affrontati in un'ottica diversa. Di lì è nato il ciclo Mozart per la Teldec. Non tutte le orchestre sono disposte a lavorare a organici ridotti e revisionando il proprio stile. Qui è un'esigenza che era sentita.
In che rapporti sta l'orchestra del Concertgebouw con l'ambienteffiologico di Amsterdam? Vi conoscete? Tenete conto delle loro ricerche?
Il rapporto con Harnoncourt non è nato per caso. Sappiamo che cosa sta avvenendo nella musica del Settecento.
Ma anche oltre. Hogwood è già arrivato alla Nona di Beethoven.
Sì, ho ascoltato il suo Mozart e il suo Beethoven, che mi ha molto indisposto: trovo che sia una strada molto "cheap", molto a buon mercato. Si mette in testa una parrucca, si veste con abiti d'epoca... Trovo che Harnoncourt abbia fatto con noi un lavoro più interessante su Mozart. E intendiamo proseguire con lui anche oltre. Harnoncourt eseguirà per la prima volta con noi un pezzo di musica contemporanea.
Di?
Berio. Gli abbiamo commissionato un pezzo da inserire in un ciclo dedicato a Schubert. E lui ha avuto un'idea meravigliosa: legare i frammenti della Sinfonia in re maggiore rimasta incompiuta con materiale composto anche di temi contenuti nella musica che Schubert scriveva in quel periodo, il 1818. Sarà come la materia grezza che serve a tenere insieme e a colmare i vuoti dei frammenti di un mosaico o di un dipinto murale. I frammenti di Schubert ignoto "galleggeranno" in quel tessuto connettivo fatto anche di Schubert noto. Trovo che sia un'idea splendida, che ha anche relazioni con la ricerca musicologica ed entra da un lato diverso nel terreno in cui lavora la filologia. E sarà Harnoncourt, che ormai si sta dedicando a Schubert, a dirigerlo. Tornando comunque al discorso delle esecuzioni cosiddette "originali", trovo che Norrington o la stessa Orchestra del Settecento abbiano raggiunto un equilibrio più stabile fra strumentazione e tecnica antiche, e tradizione.
Non avete mai pensato di avere rapporti con Brüggen?
Ci abbiamo tanto pensato che cominceremo presto a lavorare insieme. Harnoncourt ci ha annunciato che dirigerà ancora il rito della Passione di Bach nel 1989, e poi più. Dal 1990 ci sarà Frans Brüggen.
Sottoponendosi a questo nuovo lavaggio del cervello l'orchestra non teme di perdere certi connotati, certa competitività che l'ha portata così vicino ai Berliner?
La ringrazio per questa stima del Concertgebouw. Io ho un'opinione un po' diversa sui valori delle orchestre europee.
Ad Amsterdam abbiamo sempre avuto come modello Vienna: lo può vedere chiunque anche nella architettura pubblica di fine secolo e primo 900, Concergebouw compreso.
Forse anche per questo io sento che i Wiener Philharmoniker sono l'unica orchestra di grande tradizione che non abbia perso la gioia di suonare. I Berliner, anche per la dominante presenza di una personalità, sono diventati negli ultimi tempi una macchina senz'anima.
Ma al Concertgebouw, come ai Berliner, sono possibili certi affondi nel Novecento che i Wiener, per maniacale ossequio alla tradizione, nemmeno concepiscono. A Vienna, sullo stampo della Sinfonia classica, i fiati sono trattati con una tecnica "di ripieno" che non è vostra.
Questo è vero. Da noi esiste una tradizione "di bottega" nella tecnica dei legni e degli ottoni. Non dico che si tramandi di padre in figlio, ma quasi. E' un patrimonio decisamente nostro.
Esistono gruppi strumentali di fiati dai quali l'orchestra attinge veri virtuosi. E questo non permetteremo mai che venga sacrificato in repertori incapaci di valorizzarlo. Nonostante ciò provo sempre al Musikverein un piacere del far musica che da anni non trovo alla Philharmonie. Anche se credo, come per noi del resto, che i Wiener diano senz'altro il meglio di se stessi con un direttore dionisiaco come Bernstein.
I Berliner sono un'orchestra eccellente, pulita, ma senza spirito, sacrificata al dio dell'efficienza.
A causa di Karajan?
Direi proprio di sì.
E anche il festival di Salisburgo versa in condizioni di sclerosi per la stessa causa?
Senz'altro. L'anno scorso ero a colazione con il presidente della Polygram e gli ho detto chiaramente che aspetto solo il giorno in cui poter andare a un festival di Salisburgo senza dischi e ritratti in vetrina. Sono dovute a quella dittatura molte, troppe esclusioni. Non è possibile che un festival nato e vissuto nel segno di Mozart non abbia mai fatto dirigere Harnoncourt. Ma l'elenco dei veti è molto lungo.
E quale uomo vede adatto alla svolta?
Abbado. L'unico che abbia autorità, cultura e aperture per avviare il festival su nuove strade, senza provincialismi.
Ma gli consentiranno, in Austria, di prendere così tanto potere? Possono coesistere i due impegni, a Vienna e a Salisburgo?
Non vedo conflitti. Per quanto ne so, credo proprio che sarà lui il prossimo direttore del festival.

intervista di Carlo Maria Cella (Musica Viva, Anno XIII n.5, maggio 1989)

lunedì, settembre 25, 2006

René Jacobs, tra Classico e Barocco

A quasi sessant'anni René Jacobs appare oggi come uno dei musicisti più completi e maturi della sua generazione; un direttore le cui esperienze come cantante, filologo e docente permettono di affrontare i problemi esecutivi con consapevolezza rara; un interprete che soprattutto in questi ultimi anni ha saputo realizzare tutte le sue potenzialità, collezionando nel frattempo ina serie invidiabile di premi e riconoscimenti. Fedele all'atteggiamento artigianale che distingue la scuola fiamminga (nato a Gand nel 1946, Jacobs ebbe presto incontri con i fratelli Kuijken e con Philippe Herreweghe), la prima metà della sua carriera appare oggi come un lungo apprendistato che prepara gli esiti raggiunti nella piena maturità. Già negli anni settanta, comunque, quando cominciò ad affermarsi seriamente come controtenore e quando iniziò una collaborazione trentennale con la sua casa discografica Harmonia Mundi, Jacobs mostrava non solo doti vocali e interpretativi di assoluto rilievo, ma anche un'intelligenza culturale fuori del comune, paragonabile a quella evidenziata dal suo idolo Dietrich Fischer-Dieskau negli anni cinquanta. Al 1977 risale la fondazione del suo Concerto Vocale, nel quale suonavano strimentisti come il gambista Wieland Kuijken, il liutista Konrad Junghänel e il clavicembalista William Christie, e memorabili in quegli anni furono i programmi dedicati a Cesti, Charpentier, Marenzio e Monteverdi. Nel 1978 Jacobs divenne docente alla Schola Cantorum di Basilea (dov'era stato allievo di August Wenzinger) e già nel 1983 salì sul podio per dirigere un'opera, quell'Orontea di Cesti che ebbe un grande successo ad Innsbruck: una città con cui mantiene tuttora uno stretto legame, essendo diventato nel 1991 direttore artistico delle Festwochen der Alter Musik. Negli anni ottanta si divise poi sempre di più tra il ruolo di cantante (nel 1985 pubblicò con Actes Sud il saggio «La Controverse su le timbre de contre‑ténor») e quello di direttore, che divenne invece dominante negli anni novanta.
Il René Jacobs di oggi, che ci accoglie con calore nel suo luminoso appartamento nel Marais, a Parigi, il giorno dopo una splendida esecuzione di Solomon di Händel al Théátre des Champs Elysées, non è conosciuto quanto meriterebbe dal pubblico italiano (anche se il suo Messiah di Händel ‑ che prossimamente uscirà anche in disco ‑ ha avuto un'ottima accoglienza sia a Milano che a Roma lo scorso inverno). Ma per fortuna ha inciso buona parte del suo repertorio ‑ ci sono ventisette titoli attualmente nel catalogo ‑ con l'Harmonia Mundi (il prossimo progetto è Don Giovanni, da realizzare in autunno dopo recite a Innsbruck e a Baden Baden), firmando negli ultimi tre lustri una serie sorprendente di edizioni di riferimento. Tra quelle monteverdiane spiccano Il ritorno di Ulisse in patria, il Vespro della beata Vergine e i Madrigali guerrieri ed amorosi. E tra quelle händeliane emerge soprattutto il Saul, premiato quest'anno con un Midem Classical Award. Non meno emozionanti sono Il primo omicidio di Alessandro Scarlatti, le Stagioni di Haydn, Le nozze di Figaro (anch'esse premiatissime) e La clemenza di Tito di Mozart. In tutte queste registrazioni emerge non solo la particolare sensibilità dell'ex‑cantante per l'articolazione della linea vocale, ma anche la capacità di affrontare le più ambiziose strutture architettoniche con un fraseggio dal respiro fisiologico, di trovare un ideale equilibrio tra suono e parola, tra propulsione drammatica e abbandono lirico. E se come controtenore Jacobs ebbe un numero limitato di occasioni per affrontare delle opere liriche in forma scenica (c'era ancora parecchia diffidenza nei confronti di questa categoria trent'anni fa), oggi è diventato uno dei più autentici uomini di teatro dei nostri tempi.

Com'è stata preparata la nuova incisione della Clemenza di Tito?
Abbiamo fatto delle esecuzioni in forma di concerto prima di realizzarla e nei primi tre giorni di prove ci siamo concentrati interamente sui recitativi. E' lì infatti che si concentra il dramma di Metastasio e Mazzolà, e per fortuna disponevamo di un gruppo di cantanti intelligenti che avevano voglia di approfondirli. Non avevano bisogno di un regista per spiegare loro i personaggi: bastava leggere con attenzione il libretto. La qualità poetica dei testi è molto elevata: a volte gli interpreti non si rendono conto del fatto che anche i recitativi secchi sono modellati su versi poetici regolari ‑ settenari o endecasillabi ‑ e che le pause tra un verso e l'altro in partitura vanno assolutamente rispettate. E' vero che i recitativi non furono musicati da Mozart. Il tempo a disposizione era poco, e probabilmente fu Süssmayer a realizzarli: si capisce infatti che furono messi in musica da un compositore che non conosceva bene l'italiano (hanno difetti simili a quelli mostrati da Haydn nelle sue opere italiane). Proprio per questo motivo mi sono permesso di correggere qualche errore palese e di modificare alcuni passi in cui serviva una maggiore varietà melodica e armonica. Ho anche arricchito in qualche caso l'accompagnamento del recitativo secco, e devo dire che gli strumentisti della Freiburger Barockorchester che hanno realizzato il basso continuo hanno mostrato molta fantasia e una perfetta comprensione del contesto drammatico.
Sono ricche di varianti anche le parti vocali.
Ho dato diverse indicazioni ai cantanti sui luoghi in cui variare o introdurre cadenze. Ai tempi di Mozart le corone per esempio indicavano chiaramente un'occasione per improvvisare. Si abbelliva molto nel tardo Settecento, ed è giusto eseguire la musica di Mozart con la stessa libertà con cui si eseguono Cimarosa e Paisiello. C'è persino una lettera del compositore al padre in cui si lamenta di dover lavorare con un tenore poco intelligente, incapace di improvvisare delle semplici transizioni da un episodio musicale all'altro.
Queste cose si sanno da decenni, eppure capita ancora oggi di sentire esecuzioni mozartiane senza neppure le necessarie appoggiature.
La colpa è innanzi tutto dei direttori. Anche quelli più celebri sono spesso del tutto indifferenti a questioni del genere. Mi ricordo di aver detto una volta a un cantante italiano di inserire le appoggiature, e lui mi rispose che gli era stato detto che si trattasse di una scelta puramente facoltativa... Nel Settecento in realtà le appoggiature venivano inserite sempre nei recitativi, e l'edizione critica delle opere pubblicata da Bärenreiter le indica chiarissimamente. Le introduzioni alle singole partiture contengono dei suggerimenti stilistici molto intelligenti: nell'edizione di Mitridate troviamo la migliore introduzione al recitativo che io conosca, firmata dal grande studioso e organista italiano Ferdinando Tagliavini. Purtroppo la maggior parte dei direttori non legge neppure questi testi! Ci sono naturalmente delle eccezioni ‑ Charles Mackerras è stato un pioniere da questo punto di vista ‑ ma altri come Harnoncourt, che in teoria sarebbe un campione della prassi autentica, trascurano questi dettagli. E francamente non li capisco.
Secondo Lei i soprani che interpretano ruoli come Vitellia devono avere perforza un registro di petto ben sviluppato?
Assolutamente sì. Non si può immaginare una Vitellia senza quel registro, e lo stesso vale per Fiordiligi in Così fan tutte. E' evidente che Mozart amasse questo tipo di voce. Del resto l'ideale di una voce ‑ o di uno strumento ‑ che abbia lo stesso colore in tutta l'estensione è un retaggio dell'Ottocento. Pensiamo per esempio al flauto traverso: prima che venisse costruito in metallo, aveva sempre delle note deboli, una specie di passaggio di registro.
La clemenza di Tito è la prima opera seria di Mozart che ha diretto?
Sì, ma mi piacerebbe molto fare anche Lucio Silla e Idomeneo, e non credo mancheranno delle occasioni per farle: c'è già un progetto infatti per Idomeneo.
Ritiene che ci sia qualche legame filosofico tra Le nozze di Figaro, l'ultima opera mozartiana che ha inciso, e La clemenza di Tito?
I libretti sono molto diversi, ma la filosofia dell'Illuminismo è evidente in entrambi. In Figaro, le idee pre‑rivoluzionarie sono palesi, e va ricordato che La clemenza fu concepita come Fürsten-spiegel: letteralmente uno «specchio» per l'Imperatore. L'opera finge di rendere omaggio a Leopoldo II paragonandolo a Tito, ma in realtà il paragone non fa altro che palesare l'inferiorità di Leopoldo a Tito sul piano dell'idealismo. L'opera contiene an­che diversi elementi massonici: gli studi più recenti hanno evi­denziato le somiglianze con Die Zauberflöte, composta nello stes­so periodo. Secondo me poi i tumulti del finale primo ‑ con i suoni del coro fuori scena ‑ echeggiano chiaramente le atmosfe­re delle rivoluzione francese: e ricordiamoci che la sorella di Leopoldo si trovava già nel carcere della Bastille ai tempi della prima rappresentazione.
La prossima opera mozartiana che dirigerà, a Innsbruck nel mese di agosto, è Don Giovanni.
Don Giovanni ha invece radici antiche: per capirlo bisogna conoscere l'opera veneziana del Seicento, con la sua mescolanza ambigua tra comico e tragico. Come nelle opere di Cavalli, che conosco bene, non si sa mai se un personaggio dice il vero o il falso. Incideremo l'opera in autunno, con Simon Keenlyside, Lorenzo Ragazzo e Alexandrina Pendatchanska nel cast.
Come affronta la questione dei tempi in Mozart?
I tempi naturalmente sono dettati soprattutto da quanto è scritto sullo spartito. Quando per esempio Mozart indica «alla breve», lo interpreto letteralmente. Un Adagio alla breve è chiaramente più mosso di un Adagio in quattro. Nei pezzi concertati i tempi sono dettati anche dalla necessità di articolare chiaramente le parole. Ci sono del resto due tipi di concertato: quello dove l'azione progredisce, in cui le parole devono essere dette con un ritmo simile a quello dei recitativi, e quello in cui l'azione si ferma, dove occorrono naturalmente tempi più lenti. Per stabilire i tempi giusti possono essere utili anche le testimonianze d'epoca: quelle del primo Ottocento, per esempio, che parlano già di un forte rallentamento dei tempi mozartiani. Per Don Giovanni e Die Zauberflöte abbiamo i ricordi di strumentisti che eseguirono queste opere sotto la direzione di Mozart: sembra per esempio che negli anni 1820 la durata media dell'esecuzione di «Ach, ich fühls» era raddoppiata rispetto al tempo imposto da Mozart. E quello del compositore era un tempo così veloce che nessuno oggi oserebbe proporlo. Ma ha una sua logica: comunica infatti il rapido battere del cuore di una donna che si sente tradita e pronta a morire. C'è anche il commento di Dionys Weber, citato da Wagner, che ricordava come Mozart desiderava tempi sempre più spediti per l'ouverture delle Nozze di Figaro.
Accetterebbe oggi di dirigere Mozart con un'orchestra di strumenti moderni, o si sentirebbe ormai a disagio con una soluzione del genere?
Ho avuto un'esperienza positiva dirigendo Die Zauberflöte al Théátre de la Monnaie di Bruxelles con l'orchestra del teatro, ma sono venuti incontro ad alcune mie richieste. Volevo che fossero gli stessi strumentisti a suonare ogni sera (capita spesso che ci siano delle rotazioni nei teatri) e che ci fosse un Konzertmeister proveniente da un'orchestra che utilizza strumenti antichi. In quest'occasione ha usato uno strumento moderno, ma ha insegnato agli archi come fraseggiare secondo la prassi d'epoca. Ho voluto poi strumenti antichi per la sezione degli ottoni, e per fortuna c'erano diversi professori del teatro capaci di suonarli. Con queste modifiche il suono si è già trasformato, anche se un'orchestra moderna non può mai raggiungere in questo repertorio gli esiti stupefacenti della Freiburger Barockorchester.
Le Sue interpretazioni cambiano a seconda dell'acustica delle sale?
Si dovrebbe cambiarle sempre, anche se in tournée è difficile trovare il tempo per individuare le sonorità ideali per ogni edificio. Non proporrei mai L'incoronazione di Poppea in un grande teatro d'opera con quello che forse era l'organico originale di Monteverdi: due violini e un basso continuo di quattro strumenti. Il compositore infatti scriveva per un teatro di duecentocinquanta posti; per i teatri più grandi bisogna aggiungere altri archi e dei fiati - tromboni e cornetti - che si sentono bene anche in una sala ampia. Recentemente abbiamo proposto il Messiah di Händel nella sala più grande del Parco della Musica a Roma: l'organico era relativamente piccolo, ma l'acustica della sala è eccellente e gli strumentisti della Freiburger Barockorchester hanno suonato come se la loro vita vi dipendesse.
Lei è stato molto attivo come didatta. Insegna ancora?
Non più. Non trovo più il tempo. Insegnavo la prassi esecutiva barocca a cantanti e continuisti alla Schola Cantorum Basiliensis. Ed è soprattutto quella scuola a incoraggiare le forme più elaborate di basso continuo. In altri paesi questa materia non viene insegnata così approfonditamente. Lavorando per esempio sul Solomon di Händel con l'Orchestra of the Age of Enlightenment, che pure è bravissima, non ho potuto realizzare neppure la metà degli effetti che riesco a trarre dai recitativi con la Freiburger Barockorchester. Purtroppo le orchestre britanniche hanno sempre fretta e va a finire che i recitativi vengono realizzati in maniera meccanica.
In che modo la Sua esperienza di cantante influisce sul Suo modo di dirigere?
Saper respirare è fondamentale per un direttore non meno che per un cantante. Il modo migliore di indicare all'orchestra un attacco in levare e respirare come se stessi per cantare una frase: il gesto che deriva da quel respiro sarà quello giusto. Chiaramente il mio repertorio, incentrato sulla musica vocale, rispecchia il mio passato come cantante, ma in futuro mi dedicherò sempre di più alle composizioni puramente orchestrali. Dopo il buon esito dell'incisione delle sinfonie di Haydn, la Harmonia Mundi mi ha chiesto di incidere le ultime quattro sinfonie di Mozart, due delle quali saranno incise già quest'anno. E mentre dirigo la sola orchestra, mi rendo conto di essere non meno «cantante» di quando dirigo una composizione vocale, perché l'orchestra canta di continuo, e nella musica sinfonica si svolge sempre una specie di dramma, anche se mancano le parole.
Dove ebbe luogo la Sua prima formazione musicale?
Nel coro della cattedrale di Gand, nel Belgio. Era un coro per ragazzi e uomini, ma i ragazzi avevano poi un altro coro più piccolo con una propria attività concertistica. Avevo una voce mezzosopranile, abbastanza buona per poter fare degli assoli. Era il periodo prima del Concilio Vaticano II in cui si eseguiva il canto gregoriano in chiesa ogni giorno. Si tratta del migliore esercizio vocale che si possa immaginare: pagine ricche di melismi, ma con un'estensione limitata. Il nostro maestro, che si chiamava Noel Van Wambeke, mi incoraggiava comunque ad affrontare un vasto repertorio, tra cui i Lieder di Mozart e Schubert e persino La camera dei bambini di Mussorgski, che cantavo in traduzione tedesca. Senza Van Wambeke, che era un prete e che purtroppo morì presto in un incidente d'auto, non sarei mai diventato un musicista professionista. Mi portava volumi di Lieder e mi accompagnava al pianoforte. Mi fece ascoltare le incisioni di Dietrich Fischer-Dieskau della Winterreise e della Schöne Müllerin. E da quelle incisioni nacque il mio amore per la lingua tedesca. La mia lingua madre è il fiammingo, e a scuola studiai il francese e l'inglese, ma il tedesco è la mia lingua preferita. Esiste persino qualche registrazione privata delle mie esecuzioni liederistiche di allora. Van Wambeke veniva a casa poi con delle musiche pianistiche a quattro mani e mi fece suonare con lui tutte le nove sinfonie di Beethoven. Ricordo che era difficilissimo e che facevo moltissimi errori, ma lui mi diceva sempre: «Vai avanti, non smettere di suonare» e così acquisii una grande facilità nel suonare a prima vista.
In quell'epoca assisteva pure ad esecuzioni altrui?
Andavo spesso a concerti di musica da camera a Gand, e talvolta anche all'opera. La prima opera che vidi fu Cavalleria rusticana. Avevo dieci anni, ma ricordo ancora alcune soluzioni registiche che mi fecero sorridere. La seconda fu il Don Carlos, con Boris Christoff nel ruolo di Filippo II. Lui mi fece una forte impressione, ma la compagnia intorno a lui era pessima, ed era difficile restarne coinvolti. Dopo quell'esperienza infatti non volli più andare all'opera. Soltanto molti anni dopo cominciai a scoprire il teatro di Mozart attraverso le incisioni di Karajan e di Böhm, che mi piacquero moltissimo. Così mi avvicinai gradualmente anche all'opera barocca, che mi permise di capire il genere anche dal punto di vista filosofico. Il dramma per musica dopotutto è un'invenzione barocca, e tutte le sue potenzialità sono già riassunte in Monteverdi.
Dovette smettere di cantare durante l'adolescenza a causa della muta della voce?
Quando una voce sopranile si trasforma in un basso, il cambio può essere brusco e traumatico. Più graduale è la trasformazione di un alto in un tenore. Io cantai con la mia voce mezzosopranile fino all'eta di sedici anni, poi - dopo una pausa di circa un anno - incominciai a cantare da tenore. E a diciotto anni io pensavo di essere un tenore. Presi lezioni di canto da Louis Devos, un tenore e direttore d'orchestra, e feci dei concerti come tenore solista in esecuzioni delle Cantate di Bach dirette da Philippe Herreweghe, che veniva dalla stessa mia città ed era all'inizio della carriera pure lui. Poi ebbi il primo contatto con Alfred Deller: venne a Gand per un'esecuzione in forma di concerto della Faery Queen di Purcell. Io cantavo nel coro, mentre le parti solistiche erano affidate al Deller Consort. E quando Deller incominciò a cantare un nuovo mondo si aprì davanti a me. Allora non sapevo bene cosa fosse un controtenore, ma riconobbi subito quel registro di falsetto che già impiegavo come tenore nel registro acuto, anche se il mio maestro mi diceva che non avrei dovuto usarlo.
Che tipo di uomo era Deller?
Aveva quella flemma tipicamente britannica. Una volta, quando gli chiesero come reagiva alle recensioni negative, rispose: «Possono impedire il pieno godimento della prima colazione, mai del pranzo». Deller non insegnava in modo regolare, ma ogni estate, a Senanque nel sud della Francia, faceva dei corsi estivi, gestiti da quella che si chiamava scherzosamente la «Deller mafia». Fu lì che ebbi le mie prime e uniche lezioni con un controtenore. L'insegnamento più importante che mi trasmise riguardava non tanto la tecnica quanto la proiezione delle parole, che devono essere sempre comprensibili ed eloquenti. Quando studiai con lui l'Ode to St. Cecilia di Purcell, si cominciò con una lettura ad alta voce delle parole. Devo dire che nessun controtenore dopo Deller è riuscito a far vivere il testo come lui, a dargli una colorazione così espressiva.
Era tentato di imitare il suono di Deller?
Lui era l'unico mio modello, perché non c'erano altri controteneri di primo piano allora, se si eccettua l'americano Russell Oberlin. Tuttavia, a differenza di Deller, che era un falsettista puro, io ho sempre usato il mio registro di petto tenorile per l'estensione grave. Più tardi subii l'influenza di un altro controtenore, Paul Esswood, sentendolo cantare la parte per alto in una registrazione della Passione secondo Matteo diretta da Harnoncourt. Fino a quel momento avevo sostenuto le parti tenorili nella Passione, tra cui l'Evangelista, e all'inizio non avevo l'estensione acuta per affrontare da controtenore una pagina come «Erbarme dich ». Ma lavorai molto sodo per conquistare le note alte e alla fine ci riuscii. Per farlo bisogna impostare bene il passaggio di registro superiore. Ho lavorato tecnicamente anche con un soprano olandese: ho scoperto che il meccanismo vocale di un controtenore è più vicino a quello di una voce femminile che a quello di un tenore. Quando sfruttavo però l'estensione acuta, era più faticoso usare poi l'emissione di petto per l'estensione grave. L'Orfeo di Gluck era particolarmente difficile da questo punto di vista: nei recitativi, dove c'è un accompagnamento orchestrale con un forte tremolo negli archi, c'era sempre il rischio di portare il registro di petto troppo in alto.
Quando cantava, c'era qualche ruolo che sembrava scritto proprio per la Sua voce?
C'è un ruolo che in realtà non ho mai cantato ma che sarebbe stato ideale per la mia voce com'era all'inizio della carriera. Si tratta di Ottone nell'Incoronazione di Poppea. Fra l'altro è difficile trovare controtenori adatti a questa parte oggi. Quando la mia voce divenne più acuta, la maggiore parte dei ruoli scritti da Händel per Senesino andavano piuttosto bene per la mia voce.
L'influenza di Deller si è sentita nelle scelte del repertorio?
Non ho fatto in realtà molto repertorio inglese. Ho inciso alcune musiche di Purcell per la Harmonia Mundi, ma non essendo di madre lingua mi sembrava difficile uguagliare la dizione di Deller. E secondo me neppure altri controtenori inglesi e americani riescono ad avvicinarlo. Come controtenore mi sono concentrato sempre di più sul repertorio italiano, tedesco e francese. Ho inciso persino un disco di ariette di Bellini e Donizetti: un disco che va considerato però come un péché de jeunesse. Anche la pronuncia italiana non è facile, e sono sicuro che se dovessi riascoltare oggi le prime incisioni che feci in italiano troverei errori ricorrenti: doppie consonanti trascurate, vocali impure ecc.. Il mio amore per la dizione italiana perfetta deriva dalla collaborazione con cantanti e maestri sostituti italiani nella preparazione di spettacoli teatrali. E ogni volta che ho diretto un lavoro italiano in disco, ho sempre voluto con me un preparatore esperto della lingua. L'abbiamo avuto anche per la Clemenza di Tito.
Come trova le giovani voci italiane di oggi?
L'Italia continua a essere un paese di ottime voci, ma la qualità dell'insegnamento è generalmente scarsa. Lavoro spesso con cantanti italiani, ma sento che i soprani in particolare vanno incontro a problemi tecnici molto presto. Mi capita sovente di scoprire un giovane soprano con delle qualità fantastiche, ma quando torno a lavorare con lei dopo un paio d'anni sento qualcosa che non va nella voce. Spesso le cantanti italiane affrontano ruoli drammatici troppo presto, sviluppando magari un registro acuto molto voluminoso ma perdendo di qualità nei centri. E non vengono seguite sempre da un maestro di canto, mentre un soprano tedesco come Dorothea Röschmann è capace di volare a Londra tra una prova e l'altra per farsi controllare dalla sua maestra Vera Rosza.
Quando sente che un cantante ha dei problemi tecnici, cerca di parlarne insieme?
E' molto difficile dire la verità a certi cantanti. Alcuni mostrano risentimento anche se dici che sono calanti o crescenti d'intonazione. Mi piace infatti lavorare molto con i giovani perché posso dire tutto quello che penso!
Com'è stato il Suo rapporto con registi d'avanguardia, come David McVicar?
Con McVicar abbiamo allestito l'Agrippina di Händel a Bruxelles, e poi a Parigi. Una regia attualizzante in maniera intelligente. Curiosamente però, quando lo stesso regista tentò un approccio simile con L'incoronazione di Poppea due anni dopo, non funzionò altrettanto bene. In linea teorica fu una scelta logica, perché le due opere hanno diversi personaggi ‑ Nerone, Poppea, Ottone ‑ in comune, ma in teatro vennero a galla le forti differenze tra Händel e Monteverdi. In entrambe le opere ci sono scene comiche, ma nell'Incoronazione c'è pure la morte di Seneca, che rappresenta il cuore dell'opera: un momento di notevole gravità. E secondo me l'approccio del regista qui era troppo leggero, troppo vicino al musical. Curiosamente la Poppea di McVicar fu realizzata prima al Théátre des Champs Elysées, e i francesi l'odiavano. Poi l'abbiamo fatto a Berlino, e i tedeschi l'adoravano ‑ forse perché sono più abituati agli allestimenti in abiti moderni.
Quanta influenza ha il direttore sulle messe in scena delle opere che concerta?
Cerco sempre di incontrare il regista con grande anticipo, in modo che possa capire le sue idee e soprattutto capire se ama veramente l'opera che deve mettere in scena e se ha fiducia nella drammaturgia. Si tratta di una questione fondamentale, perché se quella fiducia non c'è, è probabile che il regista tenterà di cambiare la drammaturgia. Personalmente ho avuto delle esperienze molto positive con alcuni dei registi più giovani, come Vincent Boussard ‑ con cui farò Don Giovanni a Innsbruck e a Baden Baden quest'anno ‑ e Stephen Lawless, il regista con il quale l'anno scorso abbiamo messo in scena Don Chisciotte in Sierra Morena di Francesco Conti, sempre a Innsbruck. Una messa in scena eccezionale per un'opera straordinaria che sarà ripresa al Théátre de la Monnaie nel 2010.
Don Chisciotte non è certo l'unica opera dimenticata che ha riproposto in questi anni...
In effetti mi piace molto riscoprire opere ingiustamente trascurate. Con Lawless ho fatto pure La Griselda di Alessandro Scalatti, un'opera fantastica. E' un vero peccato che non si facciano più spesso le opere di Scarlatti: secondo me sono molto più interessanti di quelle di Vivaldi, che era più grande come compositore di musica strumentale che come operista, anche perché aveva un atteggiamento decisamente mercenario, riciclando di continuo gli stessi pezzi. Scarlatti era molto più serio: non riclicava mai; ogni aria era una nuova invenzione, e di conseguenza la sua musica è piena di sorprese. In Händel, quando si sentono le prime quattro misure di un'aria, qualche volta si riesce a indovinare la quinta misura. Con Scarlatti è ben più difficile. Vorrei dirigere Il Tigrane, una delle sue ultime opere, ma non ci sono per ora progetti precisi. Un altro compositore che vorrei dirigere è Agostino Steffani: un vero genio, che lavorò soprattutto in Germania. E' un peccato che non ci sia maggiore interesse per lui in Italia, dove viene ancora troppo trascurata l'opera barocca. Non a caso conosco diversi bravissimi strumentisti italiani che hanno studiato alla Schola Cantorum Basiliensis e poi sono rimasti all'estero, costretti all'esilio. Anche Cavalli risulta piuttosto trascurato nel suo paese d'origine. Lo ho diretto recentemente a Bruxelles e a Innsbruck la sua ultima opera: L'Eliogabalo, composta nel 1668. Abbiamo dovuto lavorare esclusivamente sul manoscritto della partitura, perché non esiste nessun libretto stampato: il Senato si rifiutò di autorizzare la sua pubblicazione perché era ritenuto politicamente scorretto. In partitura la musica è scritta molto chiaramente, ma è più arduo decifrare il testo perché manca la punteggiatura. Abbiamo lavorato per diversi giorni per stabilire una versione plausibile. L'opera si è rivelata veramente notevole: un po' somigliante all'Incoronazione di Poppea con la differenza che Eliogabalo è ancora peggiore di Nerone. La conclusione però è moraleggiante, perché nel frattempo Venezia era diventata una città meno libertina.
Lei ha dedicato molte energie in questi anni a Monteverdi. Delle tre opere trova che Il ritorno di Ulisse in patria sia la più difficile da interpretare?
Io adoro Il ritorno di Ulisse. In Poppea c'è il problema che non tutta la musica è di Monteverdi. Era vecchio e ammalato e si avvalse dell'aiuto dei suoi collaboratori, tra cui Francesco Sacrati e Benedetto Ferrari. Il ritorno di Ulisse in patria invece è tutto Monteverdi grand cru. Il ruolo di Penelope rappresenta un problema perché è lunghissimo e ci vuole un mezzosoprano grave oppure un vero contralto. A Berlino ho avuto un'interprete eccellente in Patricia Bardon, mentre nell'incisione dell'Harmonia Mundi c'era Bernarda Fink: una cantante che riesce a commuovere sempre, ma che probabilmente non canterebbe più questo ruolo oggi perché la voce si è spostata in alto. Penelope è un'altra parte per la quale il registro di petto è indispensabile, e ci vuole una cantante che sappia recitare con la voce. Solo alla fine dell'opera, quando Penelope è nuovamente felice dopo aver ritrovato Ulisse, sentiamo un canto puro e melismatico.
In Italia dirige relativamente poco...
C'è il progetto di fare un Tancredi in forma di concerto, magari con entrambi i finali, nell'ambito della stagione di Santa Cecilia a Roma. Alcuni anni fa diressi l'Orfeo di Monteverdi al Teatro Goldoni di Firenze. Un allestimento di Luca Ronconi, che ebbe l'idea di riempire d'acqua la platea. Una scelta molto stravagante che lasciava a disposizione del pubblico soltanto centosessanta posti a sedere. La regia poi non andò oltre quella trovata. Sono rimasto molto deluso, perché non c'era nessun dialogo tra di noi, e il regista non parlava neppure con i cantanti: mandava semplicemente i suoi assistenti per comunicare ciò che voleva. Avevo una buona compagnia e mi sono trovato bene con i cantanti, ma il coro aveva dei problemi di intonazione, l'acqua divenne sempre più maleodorante con il passare dei giorni (abbiamo fatto dieci recite in venti giorni) e i tecnici di scena facevano molto rumore. La Rai infatti ha girato un film sulla realizzazione di questo Orfeo: un film che comincia con qualcuno che grida «Silenzio!». Ero io.
L'anno scorso invece ha portato in tournée il Messiah, che poi è stato inciso per l'Harmonia Mundi.
Ho un legame emotivo molto forte con quest'oratorio, avendolo cantato molte volte. E mi colpisce sempre la raffinatezza con cui il librettista Charles Jennings adattò i testi biblici. In quest'incisione ho scelto di adoperare un'edizione dell'oratorio usata spesso da Händel al Teatro Reale di Covent Garden negli anni 1750: una versione riscritta per creare un ruolo in cui potesse emergere il talento del castrato Gaetano Guadagni (il creatore dell'Orfeo di Gluck). Guadagni fu un personaggio molto interessante che parlava perfettamente l'inglese: trascorse infatti molto tempo a Londra e prese lezioni di recitazione dal grande attore David Garrick. Fu probabilmente il primo castrato ad essere seriamente interessato alla recitazione. Secondo me Messiah racconta una storia veramente drammatica, quella della redenzione, e nell'incisione disponiamo di ottimi solisti come Patricia Bardon e Larry Zazzo, il controtenore americano, e anche della Freiburger Barockorchester, che come sempre si è impegnata in modo fantastico.
intervista di Stephen Hastings ("Musica", nr.177, giugno 2006)