La nuova opera di Fabio Vacchi, Teneke, su libretto di Franco Marcoaldi, scene di Arnaldo Pomodoro, regia di Ermanno Olmi, sul podio Roberto Abbado, vedrà la luce il 22 settembre alla Scala (la prima è dedicata all'associazione di volontariato Vidas). La vicenda è tratta dall'omonimo racconto di Yashar Kemal; il termine del titolo è intraducibile, indica un rudimentale strumento di percussione, un tamburo di latta, in italiano gode dell'assonanza con "tanica" ma con poco senso. Forte socialmente ed eticamente è invece il nocciolo della storia, il tormentato percorso di un "prefetto" alle prese con proprietari terrieri senza scrupoli, coltivatori di riso, che lo ammansiscono con doni quasi al punto di corromperlo per i loro tornaconti. Quando, in uno scatto di dignità, il protagonista decide di far applicare la legge, viene immediatamente cacciato.
Per presentare Teneke abbiamo seguito idealmente il passaggio dalla prosa originaria al palcoscenico.
«Definirei la mia un'operazione di doppio servizio - spiega Marcoaldi -. Il primo è stato quello di trasformare un racconto, che si affida a un tono epico, poco censorio alla nostra narrativa, in una scrittura drammaturgica. Bisognava trovare un taglio teatrale, adatto a un libretto d'opera, che però conservasse i modi originali. A questi ho voluto dare un andamento poetico, ne è uscito un italiano che ha la cantabilità propria della poesia. Il secondo servizio riguardava il rapporto con la composizione. Ho piena consapevolezza di quanto diceva Auden, cioè che i versi del librettista non si rivolgono al pubblico, sono una lettera privata diretta al compositore. Naturalmente ho portato a termine questa doppia mediazione tenendo presente che avevo a che fare con Fabio Vacchi, col quale sono legato da un'estetica, da un'etica comune e da una lunga collaborazione».
Ha dovuto fare ritocchi al Suo testo durante la lavorazione?
«Più che ritocchi, taglie aggiunte. Rispetto al racconto di Kemal, nel libretto per esempio viene data molta importanza alla fidanzata lontana del protagonista, una figura che consente di tenere un ponte sospeso fra Occidente e Oriente. Inoltre la fidanzata insieme alla madre contadina, donna di grande coraggio che sbeffeggia gli uomini che non riescono a sostenere la durezza della situazione, in qualche modo rafforza l'elemento femminile come uno degli elementi portanti della storia».
E il protagonista? Sconfitto eppure vincitore?
«Incarna l'idea stoica della morale, virtus ipsa praemium est. Il dramma scoppia quando si rende conto di non essere stato sufficientemente fermo nell'imporre la legalità. Viene cacciato, ma torna nel giusto, tranquillo con la propria coscienza. L'opera si chiude con la speranza dovuta a questa riappacificazione con se stesso, l'uomo se ne va, ma potrebbe anche tornare».
Nel racconto di Kemal si dice che il protagonista canterella il tema dell'Inno alla Gioia della Nona di Beethoven. Un segno musicale importante, che Vacchi ha però volutamente lasciato sullo sfondo.
«Non l'ho voluto inserire in partitura, l'ho fatto semplicemente fischiettare a un certo punto della vicenda - spiega il compositore -. Significa voglia di pace, di libertà, una voglia di Europa per i valori etici che teoricamente rappresenta. Nel senso della gioia come uno degli aspetti fondamentali del mondo illuminista. Quel piccolo fischiettare insomma rappresenta un anelito all'Illuminismo».
L'altra protagonista assente è Nermin, la fidanzata. I due hanno connotazioni musicali diverse?
«In Teneke è un continuo passaggio fra vari registri, etnico e colto, alto e basso. Generalmente nella mia musica questo procedimento è spesso rintracciabile in filigrana, qui invece risulta più marcato. Non si tratta di citazioni vere e proprie, è un materiale riconoscibile pur nella elaborazione che ne ho fatto. In Nermin invece non è nulla di tutto questo. Musicalmente la fidanzata è una specie di distillato della tradizione europea colta, dove è riconoscibile la mia matrice culturale. In altri momenti invece, come per esempio nella festa, saltano fuori spiccatamente dei dati etnici che vanno poi a fondersi col discorso prettamente compositivo. A parte Nermin, le connotazioni di tutti gli altri personaggi risultano sempre amalgamate, anche perché il più delle volte partecipano a scene d'insieme; le caratteristiche dell'uno e dell'altro sono abbastanza generiche, comunque si fondono continuamente a seconda del contesto in cui si trovano. Diciamo che non c'è un Leitmotiv, né uno strumento caratteristico che indica un volto particolare. E' la situazione scenica che determina il risultato musicale".
Quanto alle voci, ci sono combinazioni particolari?
«C'è il più grande assortimento possibile di atteggiamenti vocali, manca solo l'uso del recitato, ma il resto c'è. Le modalità di canto abbracciano tutto lo scibile vocale, sempre alla luce del mio concetto di grande forma che si basa, si puntella, sul gioco dei contrasti, sulle attese che vengono smentite dalle sorprese, ecc. Quindi grande varietà, però tutto molto unitario, compatto, mentre all'interno è la massima articolazione. Questo vale in generale per tutto il mio lavoro oltre che per Teneke».
Il coro come viene trattato?
«Per la prima volta nella mia produzione il coro ha una funzione da protagonista a pieno titolo. Il coro è spessissimo presente, Teneke è piena di scene concertate dove si fronteggiano due cori, in pratica dialogano: il coro dei proprietari e quello dei contadini che possono essere rappresentati da uomini e da donne o da soli uomini e da sole donne».
A ospitare tutto questo sarà una drammatica scenografia ideata da Arnaldo Pomodoro, giovane ottantenne, residente a Milano da 54 anni e che ora debutta alla Scala. Lui ci ride sopra, come a dire che era ora!
«Ad apertura di sipario si vede solo una montagna con terrazzamenti, sono le risaie della storia di Kernal - spiega Pomodoro. - Le risaie che ho visto in Kurdistan, Turchia, Madagascar, a Bali non sono sullo stesso piano come le nostre della Lomellina o del Pavese, ma a diversi livelli. In teatro non viene mai mostrato il cielo, quando i terrazzamenti vengono invasi dall'acqua, ne riflettono delle parti. Il cielo è proiettato su un grande telone in alto, non visibile in sala. Per far apparire via via le zone d'acqua ci sono dei mimi, visibili solo di schiena e camuffati da zolle di terra, che tolgono piano piano una specie di tappeto sotto il quale si vede un materiale acrilico color argento».
Ci sono elementi che richiamano le Sue sculture?
«La montagna ha un campo arato dall'aspetto molto inquietante, lascia supporre una tragedia; come i miei lavori, il campo è pieno di appigli, di intrighi... C'è un tessuto di tagli, di elementi cuneiformi. Dal basso sale poi una specie di medusa che lascia intravvedere degli artigli. Naturalmente è una forma astratta, ma mostra la forte aggressività della terra coltivata».
Non a caso agricoltura e mondo contadino sono temi cari a Ermanno Olmi, che proprio in questi giorni sta girando un documentario nell'ambito di Terra Madre, movimento promosso da Slow Food. La regia di Teneke rientra quindi a pieno diritto nei suoi attuali interessi.
«A dir la verità la mia partecipazione a questa avventura lirica è nata nel segno dell'amicizia. Tutto ha avuto origine da un incontro che ho avuto con Vacchi, dove invece di parlare di musica abbiamo parlato di letteratura. Gli ho segnalato i libri di Kernal che a mio avviso è una delle più belle penne del secolo, tanto che considero davvero un privilegio averlo incontrato e esserci reciprocamente capiti. Vacchi così si è innamorato di Teneke, al punto di confessarmi di volerne fare un'opera. Di qui è sorta una specie di gemellaggio ideale, che ha seguito il suo corso».
Rispetto a un titolo di repertorio che problemi ha posto l'opera di Vacchi?
«In Teneke non si ha a che fare col tipo di drammaturgia che ha caratterizzato la storia del melodramma, quando gli uomini parlavano con gli dei o si struggevano d'amore, tipicamente segnati dal loro tempo. Teneke, per dirla con un termine alla mano, è un'opera di stampo sociale, che racconta come il primo responsabile del conflitto fra uomini sia il denaro, il potere. In questo senso è un'opera che marchia il nostro tempo, suggerisce una musica aspra, tanto che il tamburo di latta è lo strumento sul quale si battono i colpi della festa o della protesta, non è, certo strumento classico. Dal punto di vista registico quindi non si è trattato di essere innovativi con qualcosa di preesistente e di tradizionale, ma di collocare nel filone del melodramma elementi che normalmente non gli appartengono. E' dalla stessa naturalità delle cose, dalla materia stessa della vicenda che abbiamo fatto affiorare questi elementi estranei alla tradizione operistica».
«Tra i momenti più lontani dalla consuetudine è senz'altro il finale aggiunge il direttore d'orchestra Roberto Abbado -. Un lungo brano puramente orchestrale, in cui il coro comincia a battere sui teneke, è un saluto al protagonista in partenza ma è anche una protesta. L'orchestra nel frattempo cresce d'intensità e quando cessano i teneke prorompe dall'orchestra un canto straziante. Ma non è ancora la chiusa, perchè ha l'ultima parola il ritmo. Un sovrapporsi di ritmi, direi africani».
Si tratta di una partitura generalmente molto complessa?
«Senz'altro. Le scene si differenziano una dall'altra, anche nello stile. I due cori per esempio danno vita a grandi affreschi, secondo la tradizione italiana, penso alle scene corali verdiane. Mentre la prima scena, dopo la brevissima introduzione orchestrale esplosiva, è un concertato rossiniano, una rivisitazione del sestetto della Cenerentola. Ci sono poi temi popolari, alcuni di questi anche se non esattamente turchi banno una matrice mediorientale; e c'è pure un canto friulano, ma la conformazione melodica e gli intervalli che lo compongono lo trasformano in qualcosa di mediorientale. Compare anche una situazione ricorrente, caratteristica dell'opera, quando una parte dell'orchestra, rappresentata anche da un solo strumento o una coppia, agisce indipendentemente dal tempo principale dell'orchestra, improvvisando su note e ritmi dati. Nella scena dello smarrimento totale del protagonista corrisponde addirittura a un'orchestra impazzita, dove non esiste più un tempo metronomico e dove il procedimento di accavallamento arriva al massimo grado, l'orchestra suona sulla base di un cronometro e non di un tempo scandito. Si passa da scene musicalmente violente ad altre poeticissime, come quelle di Nermin, l'amore assente».
Per presentare Teneke abbiamo seguito idealmente il passaggio dalla prosa originaria al palcoscenico.
«Definirei la mia un'operazione di doppio servizio - spiega Marcoaldi -. Il primo è stato quello di trasformare un racconto, che si affida a un tono epico, poco censorio alla nostra narrativa, in una scrittura drammaturgica. Bisognava trovare un taglio teatrale, adatto a un libretto d'opera, che però conservasse i modi originali. A questi ho voluto dare un andamento poetico, ne è uscito un italiano che ha la cantabilità propria della poesia. Il secondo servizio riguardava il rapporto con la composizione. Ho piena consapevolezza di quanto diceva Auden, cioè che i versi del librettista non si rivolgono al pubblico, sono una lettera privata diretta al compositore. Naturalmente ho portato a termine questa doppia mediazione tenendo presente che avevo a che fare con Fabio Vacchi, col quale sono legato da un'estetica, da un'etica comune e da una lunga collaborazione».
Ha dovuto fare ritocchi al Suo testo durante la lavorazione?
«Più che ritocchi, taglie aggiunte. Rispetto al racconto di Kemal, nel libretto per esempio viene data molta importanza alla fidanzata lontana del protagonista, una figura che consente di tenere un ponte sospeso fra Occidente e Oriente. Inoltre la fidanzata insieme alla madre contadina, donna di grande coraggio che sbeffeggia gli uomini che non riescono a sostenere la durezza della situazione, in qualche modo rafforza l'elemento femminile come uno degli elementi portanti della storia».
E il protagonista? Sconfitto eppure vincitore?
«Incarna l'idea stoica della morale, virtus ipsa praemium est. Il dramma scoppia quando si rende conto di non essere stato sufficientemente fermo nell'imporre la legalità. Viene cacciato, ma torna nel giusto, tranquillo con la propria coscienza. L'opera si chiude con la speranza dovuta a questa riappacificazione con se stesso, l'uomo se ne va, ma potrebbe anche tornare».
Nel racconto di Kemal si dice che il protagonista canterella il tema dell'Inno alla Gioia della Nona di Beethoven. Un segno musicale importante, che Vacchi ha però volutamente lasciato sullo sfondo.
«Non l'ho voluto inserire in partitura, l'ho fatto semplicemente fischiettare a un certo punto della vicenda - spiega il compositore -. Significa voglia di pace, di libertà, una voglia di Europa per i valori etici che teoricamente rappresenta. Nel senso della gioia come uno degli aspetti fondamentali del mondo illuminista. Quel piccolo fischiettare insomma rappresenta un anelito all'Illuminismo».
L'altra protagonista assente è Nermin, la fidanzata. I due hanno connotazioni musicali diverse?
«In Teneke è un continuo passaggio fra vari registri, etnico e colto, alto e basso. Generalmente nella mia musica questo procedimento è spesso rintracciabile in filigrana, qui invece risulta più marcato. Non si tratta di citazioni vere e proprie, è un materiale riconoscibile pur nella elaborazione che ne ho fatto. In Nermin invece non è nulla di tutto questo. Musicalmente la fidanzata è una specie di distillato della tradizione europea colta, dove è riconoscibile la mia matrice culturale. In altri momenti invece, come per esempio nella festa, saltano fuori spiccatamente dei dati etnici che vanno poi a fondersi col discorso prettamente compositivo. A parte Nermin, le connotazioni di tutti gli altri personaggi risultano sempre amalgamate, anche perché il più delle volte partecipano a scene d'insieme; le caratteristiche dell'uno e dell'altro sono abbastanza generiche, comunque si fondono continuamente a seconda del contesto in cui si trovano. Diciamo che non c'è un Leitmotiv, né uno strumento caratteristico che indica un volto particolare. E' la situazione scenica che determina il risultato musicale".
Quanto alle voci, ci sono combinazioni particolari?
«C'è il più grande assortimento possibile di atteggiamenti vocali, manca solo l'uso del recitato, ma il resto c'è. Le modalità di canto abbracciano tutto lo scibile vocale, sempre alla luce del mio concetto di grande forma che si basa, si puntella, sul gioco dei contrasti, sulle attese che vengono smentite dalle sorprese, ecc. Quindi grande varietà, però tutto molto unitario, compatto, mentre all'interno è la massima articolazione. Questo vale in generale per tutto il mio lavoro oltre che per Teneke».
Il coro come viene trattato?
«Per la prima volta nella mia produzione il coro ha una funzione da protagonista a pieno titolo. Il coro è spessissimo presente, Teneke è piena di scene concertate dove si fronteggiano due cori, in pratica dialogano: il coro dei proprietari e quello dei contadini che possono essere rappresentati da uomini e da donne o da soli uomini e da sole donne».
A ospitare tutto questo sarà una drammatica scenografia ideata da Arnaldo Pomodoro, giovane ottantenne, residente a Milano da 54 anni e che ora debutta alla Scala. Lui ci ride sopra, come a dire che era ora!
«Ad apertura di sipario si vede solo una montagna con terrazzamenti, sono le risaie della storia di Kernal - spiega Pomodoro. - Le risaie che ho visto in Kurdistan, Turchia, Madagascar, a Bali non sono sullo stesso piano come le nostre della Lomellina o del Pavese, ma a diversi livelli. In teatro non viene mai mostrato il cielo, quando i terrazzamenti vengono invasi dall'acqua, ne riflettono delle parti. Il cielo è proiettato su un grande telone in alto, non visibile in sala. Per far apparire via via le zone d'acqua ci sono dei mimi, visibili solo di schiena e camuffati da zolle di terra, che tolgono piano piano una specie di tappeto sotto il quale si vede un materiale acrilico color argento».
Ci sono elementi che richiamano le Sue sculture?
«La montagna ha un campo arato dall'aspetto molto inquietante, lascia supporre una tragedia; come i miei lavori, il campo è pieno di appigli, di intrighi... C'è un tessuto di tagli, di elementi cuneiformi. Dal basso sale poi una specie di medusa che lascia intravvedere degli artigli. Naturalmente è una forma astratta, ma mostra la forte aggressività della terra coltivata».
Non a caso agricoltura e mondo contadino sono temi cari a Ermanno Olmi, che proprio in questi giorni sta girando un documentario nell'ambito di Terra Madre, movimento promosso da Slow Food. La regia di Teneke rientra quindi a pieno diritto nei suoi attuali interessi.
«A dir la verità la mia partecipazione a questa avventura lirica è nata nel segno dell'amicizia. Tutto ha avuto origine da un incontro che ho avuto con Vacchi, dove invece di parlare di musica abbiamo parlato di letteratura. Gli ho segnalato i libri di Kernal che a mio avviso è una delle più belle penne del secolo, tanto che considero davvero un privilegio averlo incontrato e esserci reciprocamente capiti. Vacchi così si è innamorato di Teneke, al punto di confessarmi di volerne fare un'opera. Di qui è sorta una specie di gemellaggio ideale, che ha seguito il suo corso».
Rispetto a un titolo di repertorio che problemi ha posto l'opera di Vacchi?
«In Teneke non si ha a che fare col tipo di drammaturgia che ha caratterizzato la storia del melodramma, quando gli uomini parlavano con gli dei o si struggevano d'amore, tipicamente segnati dal loro tempo. Teneke, per dirla con un termine alla mano, è un'opera di stampo sociale, che racconta come il primo responsabile del conflitto fra uomini sia il denaro, il potere. In questo senso è un'opera che marchia il nostro tempo, suggerisce una musica aspra, tanto che il tamburo di latta è lo strumento sul quale si battono i colpi della festa o della protesta, non è, certo strumento classico. Dal punto di vista registico quindi non si è trattato di essere innovativi con qualcosa di preesistente e di tradizionale, ma di collocare nel filone del melodramma elementi che normalmente non gli appartengono. E' dalla stessa naturalità delle cose, dalla materia stessa della vicenda che abbiamo fatto affiorare questi elementi estranei alla tradizione operistica».
«Tra i momenti più lontani dalla consuetudine è senz'altro il finale aggiunge il direttore d'orchestra Roberto Abbado -. Un lungo brano puramente orchestrale, in cui il coro comincia a battere sui teneke, è un saluto al protagonista in partenza ma è anche una protesta. L'orchestra nel frattempo cresce d'intensità e quando cessano i teneke prorompe dall'orchestra un canto straziante. Ma non è ancora la chiusa, perchè ha l'ultima parola il ritmo. Un sovrapporsi di ritmi, direi africani».
Si tratta di una partitura generalmente molto complessa?
«Senz'altro. Le scene si differenziano una dall'altra, anche nello stile. I due cori per esempio danno vita a grandi affreschi, secondo la tradizione italiana, penso alle scene corali verdiane. Mentre la prima scena, dopo la brevissima introduzione orchestrale esplosiva, è un concertato rossiniano, una rivisitazione del sestetto della Cenerentola. Ci sono poi temi popolari, alcuni di questi anche se non esattamente turchi banno una matrice mediorientale; e c'è pure un canto friulano, ma la conformazione melodica e gli intervalli che lo compongono lo trasformano in qualcosa di mediorientale. Compare anche una situazione ricorrente, caratteristica dell'opera, quando una parte dell'orchestra, rappresentata anche da un solo strumento o una coppia, agisce indipendentemente dal tempo principale dell'orchestra, improvvisando su note e ritmi dati. Nella scena dello smarrimento totale del protagonista corrisponde addirittura a un'orchestra impazzita, dove non esiste più un tempo metronomico e dove il procedimento di accavallamento arriva al massimo grado, l'orchestra suona sulla base di un cronometro e non di un tempo scandito. Si passa da scene musicalmente violente ad altre poeticissime, come quelle di Nermin, l'amore assente».
Stefano Jacini
("il giornale della musica", 09/07)
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