Di quello che per giudizio comune e con frase un po' scontata viene definito il "testamento spirituale" di Gustav Mahler, della Nona sinfonia, cioè, son già reperibili sulla piazza discografica almeno due registrazioni che, in quanto a livello esecutivo, non temono confronto alcuno: ci riferiamo ai dischi di Bruno Walter e di Jascha Horenstein, da anni in commercio. Se vogliano, per onestà, escludere da ogni giudizio preventivo la recente incisione di Kubelik (che non conosciamo), poco ci resta che possa essere contrapposto a quelle due fondamentali letture. Poco, ma in questo "poco" occorre far rientrare la performance di George Solti, di cui qui ci occupiamo e che va giudicata, nonostante i suoi limiti, come uno dei più interessanti fatti dell'interpretazione discografica mahleriana di questi ultimi anni.
Segnalatosi frequentemente tra i più autorevoli direttori wagneriani e straussiani del nostro tempo, Solti non aveva, fin qui, dimostrato particolare propensione alla poetica mahleriana, che, del resto, nelle sue mani doveva per forza di cose stravolgersi in un ambito troppo personale per apparire veritiero. Per un concertatore avvezzo alla definizione di tematiche come quelle sopracitate, il passaggio a Mahler può rappresentare un vero e proprio salto nel buio; s'intende che non si vuol parlare di fenomeni qualitativi, potendo il direttore intelligente superare tale scoglio con facilità; quanto di possibilità di adesione concettuale a un etos, ad una cultura. In tal senso, le esecuzioni discografiche che Solti aveva fornito sinora di musiche mahleriane peccavano di un limite ben preciso: quello di considerare l'esperienza del musicista come strettamente aggregata proprio a quel mondo wagneriano che le è invece estraneo per disposizione naturale; e di fornirci, pertanto, splendide riproduzioni di un fenomeno non riproducibile e del tutto irrelato alla poetica originaria dell'interprete.
Particolarmente esemplificativa di questo stato d'animo e di questa sorta di tensione adialogica ci era parsa, a suo tempo, la realizzazione della Seconda sinfonia: esteriormente perfetta, lucidissima, prepotente, ma assolutamente estranea alle ragioni dell'Autore; quasi una propaggine di quella tematica wagneriana tanto cara a Solti, che fa pagare a caro prezzo a Mahler il dono di quella splendida magniloquenza, condannandolo al triste destino dell'epigonismo (è ovvio che, in tale prospettiva, fosse proprio il famoso Finale della sinfonia ad ergersi potente come un baluardo sonoro, come capacità-limite di un dato mondo poetico, fino a cadere nell'inutile).
Nella prospettiva di una tale resa sonora, l'unico ancoraggio certo era, dunque, l'epigonismo, sia pure ad uno smagliante livello. Merito di Solti appare, quindi, l'aver inteso, in questa Nona, i pericoli di una visione del genere e di aver, conseguentemente, dimostrato la capacità di afferrare il prosieguo logico di quell'esperienza nel totale superamento del Wagnerismo antecedente. «Totale» è forse un termine azzardato, d'accordo; e vedremo anche perché. Ma l'importanza di questa incisione mi pare nella capacità dimostrata dal concertatore di mutare l'angolazione prospettica nei riguardi del proprio oggetto di discorso: di rendersi conto, cioè, della necessità di rinnegare il criterio del livellamento dell'autore alla propria personalità. Operazione sempre deleteria e particolarmente indicativa di quel modus operativo che sembra oggi tipico degli interpreti espressi dall'attuale indirizzo tecnologico.
In tal senso, mi pare che questa concertazione della Nona, comunque la si voglia giudicare sul piano della complessiva riuscita artistica, è ancora un fatto di cultura e non di consumo; un'operazione, dunque, da accogliere con la massima soddisfazione e con la speranza che la dialettica, in quanto entità di ricerca, non sia ancora da ammassare nel solaio delle esperienze dimenticate.
La definizione del cosmo sonoro tentata da Solti nel I Movimento, Andante commodo, sembrerebbe invero convalidare l'ipotesi di una concertazione "epigonica", tanto arduo riesce al direttore strapparsi di dosso le voluttuose spirali di uno straussismo gonfio, abnorme, sincreticamente fossilizzato nell'acquisizione di una Veltannschauung proliferatrice di cellule malate. E sì che poche pagine come questo Andante commodo denunciano lo stato di malattia cerebrale dell'Europa pre-bellica, di cui Mahler doveva fornire forse il ritratto più sconvolgente. Ma il punto è che in ogni momento di tale denuncia clinica, la morbosità del punto di partenza viene contestata e messa in discussione dal punto d'arrivo d'un razionalismo linguistico di allucinante esattezza. Lontano le mille miglia così dalla necrosi adialettica dello straussismo come dalle appendici tumorali dell'esperienza stilistica di Tristano.
Esperienza quasi irripetibile, questa; tale da farci guardare con una sorta di sospetto persino alle insospettate e indiscusse capacità «anticipatrici» della tematica mahleriana (quelle, è chiaro, che guardano direttamente all'Espressionismo e che Solti, in questo primo Movimento, sembrerebbe non aver afferrato nella sua interezza). Ciò ci porta, forse, a ridimensionare, per amor d'esattezza, l'ambito della nostra accettazione, come si diceva; e, tuttavia, per fortuna, i residui (patetici e pericolosi) dello straussismo soltiano si fermano qui. Quasi a suggerire un'ipotesi che, per quanto azzardata sia, contiene in sé qualcosa di affascinante: che, nel lungo e doloroso commiato mahleriano dall'epopea tardo-romantica, il direttore ungherese abbia voluto insinuare il suo personale commiato da un modus di interpretazione,
Si diceva dell'elevatissima razionalità del procedimento linguistico di Mahler: essa trova, credo, proprio nell'Andante commodo della Nona la sua specificazione più netta; tanto più netta quanto più profetica, in maniera allarmante, di una liquidazione che coinvolge sia l'etos espressivo che la struttura stessa di tale formidabile pagina. È straordinario, infatti, come la saturazione dell'esperienza pre-espressionistica, che Mahler aveva già affermato dalla Quinta sinfonia e che aveva trovato la più perfetta emancipazione nella Settima e ne Il canto della terra, si stravolga qui nella fissità di prassi armoniche e ritmiche chiaramente anticipatrici, più che dell'atonalismo di Berg, addirittura dei nodi strutturali weberniani. E tutto ciò senza perdere la sua sconvolgente ambiguità; anzi, facendola, per ricchissimo contrasto dialogico, riemergere al livello di una prospettiva contestatoria e poliforme.
E' ovvio che tutto questo non ci riguardi per affermare le qualità profetiche del linguaggio mahleriano: lasciamo che vi si sbizzarriscano tutti coloro per i quali l'importanza di un compositore è determinabile in base alle influenze esercitate su altri. Qui è invece da stabilire proprio quel contrasto dialettico tra contenuti in liquidazione e strutture al cui livello essi vengono espressi, che mi pare il segno più profondo della grande inventiva dell'ultimo Mahler.
Di questo, che Luigi Rognoni ha chiamato un «arsenale di esperienze sonore» (tutto vi si mescola: politonalismo, scala pentatonica, ritmica frammentata, opposizione tra suoni gravi e acuti), Solti, si è detto, esplicita, in un certo senso le potenze ambigue. Ciò facendo garantisce alla pagina musicale un senso che ci pare estraneo alle più lineari e ortodossamente mahleriane concertazioni di un Walter e di un Horenstein: quello della compenetrazione degli opposti; una sorta di equivocità malsana, in cui, però, è possibile intravvedere la potenziale e, man mano, sempre più definita capacità di abbandonare l'enfatico straussiano iniziale in favore di una lettura più responsabile e svincolata dalla personalità.
Dalle battute iniziali cariche di turgore e scaturenti nel lancinante attacco I a piena orchestra al Finale del movimento, quella stupefacente «coda», in cui sembrano cadere ad uno ad uno tutti i puntelli del pericolante edificio armonico innalzato da Mahler, con estremo sacrificio, alla Secessione austriaca, per lasciare il posto a un filiforme ed irreale gioco contrappuntistico tra i legni, il corno e i contrabassi (batt. 376-390, «plötzlich bedeuten langsamer und leise»), Solti trova una misura conturbante di quello che sarà il suo futuro Mahler e lascia, dunque, un documento impreciso per equivocità ed eterodossia concettuale, ma, tuttavia, attraente nella sua discontinuità.
Questi i limiti più notevoli dell'esecuzione (limiti, come si è visto, riscattabili in virtù del potenziale istinto di rinnovamento, ma sempre limiti); poiché dal II Movimento in poi, reso con eccellente evidenza ritmica e giusta adesione intellettuale, il direttore mi pare imbrocchi la strada giusta, quella preparata attraverso i conati dell'Andante commodo; sino alla splendida conclusione dell'Adagio, che viene presentato in prospettiva fonica attanagliante: di una cupezza quasi livida, macerante, più drammatica che patetica, forse, in una visuale lontana dalle letture storiche mahleriane, ma non per questo meno indicativa del suo travaglio psichico ed intellettuale.
In conclusione, un Mahler di tutto rilievo, anche se discutibile; ma forse proprio per questo. Attendiamo ora da Solti quella lettura della Settima che ancora manca al nostro bagaglio di esperienze mahleriane (la vecchia incisione di Rosbaud è troppo difettosa tecnicamente per poter servire da pietra di paragone con l'ideale interpretazione che ci siamo formati nella mente). Ci sembra che il suo nuovo modus mahleriano possa autorizzare l'attesa.
La Decca ha servito il suo direttore con una registrazione impeccabile, al più alto livello di resa sonora, tale da inserirla tra le sue più riuscite produzioni commerciali. Un plauso anche per l'elegante presentazione dell'astuccio e per le note alla Sinfonia, una volta tanto realizzate con serietà d'intenti e non nella consueta maniera approssimativa e pasticciona cara ai collezionisti di dischi (del resto, la firma è di Deryck Cooke e ciò mi pare basti).
Aldo Nicastro
("Disclub" 26, anno VII, marzo-aprile 1968)
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