Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, marzo 01, 2024

Adrian Leverkühn e Arnold Schönberg

Arnold Schönberg (1874-1951)
Tutti sono d'accordo nel ritenere irreperi
bile (anzi, inesistente) la vera identità di Adrian Leverkühn, protagonista del Doctor Faustus di Thomas Mann: cercare, tuttavia, di affiancarlo idealmente al musicista cui, per varii motivi, la stesura «musicale» del romanzo dovette di più [Arnold Schönberg), potrà servire egregiamente da stimolo: a) per cercare di chiarificare alcuni aspetti culturali del medesimo Schönberg; b) per individuare la possibilità di sopravvivenza di quella parte della cultura tedesca che cercò di continuare a esistere al di qua del gesto di definitiva rottura operato dagli espressionisti; che cercò di sviluppare, rendendolo «mondiale», il filo del germanesimo bruciatosi nell'orgia infernale di cui il nazismo rappresentò la «logica» fase finale: parte della cultura tedesca personificata, va da sé, da Thomas Mann.
Schönberg proviene dalla linea Wagner-Strauss, che ha vissuto intensamente, che ha accolto come sostrato, nella quale si è gettato aggiungendo, con le sue opere giovanili - Notte trasfigurata, Gurrelieder, Pélleas, ecc. -, ancora un mattone al tremendo edificio costruito dalla precedente cultura musicale: Tamino, Max, Florestano, Sigfrido, Parsifal: «eroi ascendenti» e formanti, attraverso un'aspra dialettica, un edificio armonico che, benevolmente ed esemplarmente autonomo in Bruckner, avrebbe generato, successivamente, una terribile e autosufficiente consapevolezza del tutto priva di quella forza auto-negatoria che, unica, le avrebbe impedito di cadere nel superomismo elevato a regola di vita, nel nazismo. Schönberg visse tutto questo. Anche lui, arrampicato sulla maculata piattaforma di un'armonia che si fa già risolta visione del mondo, aveva iniziato a costruire il suo edificio pangermanico, anche lui era un orgoglioso figlio del suo secolo, della sua cultura.
Adrian studia teologia. Il suo avvicinamento a una disciplina così - thomasmannianamente, diciamo - ambigua, è il primo atto dello sfacelo finale, è lo scorgere, chiarissimi, i limiti del tutto; è uno sfidare i potenziali residui di una visione trascendente minata; è il dimostrare, attraverso la distruggente ironia, che l'uomo cosciente venuto dopo il romanticismo, sa tutto, vede tutto, non può mettersi in marcia perché, affrontare un iter dialettico avendo già chiare le successive fasi, significa fare opera inutile. Adrian, attraverso l'op. 111 di Beethoven, ha toccato col dito il fondo delle cose della cultura, ha scorto, nella sublime disgregazione sonatistica del grande musicista, un atto di resa di un mondo che, ormai discoperto, avrebbe potuto dare, in seguito, solo soddisfazioni parziali, solo palliativi «estetici»: belli, stupendi, ma, a confronto dell'immane problematica uomo-universo, glissanti, mistificatorii.
Il contatto, mediato dalla fondamentale figura di Mahler, fra Schönberg e l'espressionismo, rappresenta il tragico punto di rottura del superomismo ascendente del musicista. Coartato in una stretta dialettica che spostava la visione di quel mondo all'esterno, che aboliva, cioè, le leggi univoche dell'eroe post-Wagneriano, la poetica del primo Schönberg si affloscia come un pallone. È sufficiente considerare realisticamente la rappresentatività sociale di quella musica, e la sua statica essenza al di qua di ogni divenire dialettico, per generare, nel musicista, un secco rifiuto. Non è argomento di questo scritto il vagliare analiticamente tutte le componenti dell'espressionismo schönberghiano: preme soltanto mettere l'accento sull'ipersaturazione culturale del musicista, maturata a contatto con determinate esperienze, sofferta e non sviluppata come retaggio di un'educazione precocemente consumata sull'arco di una visione la cui totalità è potenzialmente antica, potenzialmente consumabile sulla cresta del risultato di qualsiasi grande impennata di un singolo nella storia dell'umanità [si pensi solo a un problema simile - simile a quello di Thomas Mann - impostato, da Hermann Broch, sulla figura del poeta romano Virgilio Marone: La morte di Virgilio). Cosa questa che s'è visto, toccò ad Adrian con Beethoven.
L'iter umanistico di Thomas Mann non passò mai - è noto - attraverso l'espressionismo. Giunse, però, a una fase cruciale in cui il recupero dell'«uomo», attraverso la vigile e rinnovata presenza di se stesso e in se stesso, si presentava non già impossibile, ma pericolosa e proclive a precipitare nello aberrante monolita nazista. Leverkühn è lontano da questi estremi non già perché li riconosce come sintomo di una cultura fattasi pericoloso e ambiguo patrimonio comune, ma per innato distacco dal popolare. Se la musica successiva all'op. 111 di Beethoven altro non era stato che un riempimento di piccoli e inessenziali vuoti lasciati scoperti dall'autore del Fidelio, un riempimento che aveva generato e confermato la cultura di una nazione, come avrebbe potuto interessare la posizione di chi si opponeva al facile e previsto decorso di tale andamento produttivo, di chi individuava, in una cultura estesa a tutti, la piattaforma dalla quale si sarebbe levato il bestiale atto di padronanza del mondo, e che, intanto, confermava l'avvilimento del progresso del singolo: la posizione, insomma, dell'espressionista?
Sapere dell'essenziale vacuità di tutti i prodotti successivi all'op.111, ma, al tempo stesso, studiarli, far convivere la forza naturale per l'indagine e per l'assimilazione, col perenne e diabolico sorriso dell'ironia superatrice  Leverkühn, al momento del suo esordio produttivo, è già estenuato: i suoi lavori, sia pur «belli», sono, come vedremo, un atto di sfiducia nella società: non già per protesta, ma per costituzionale incapacità di credere.
È ipotesi coraggiosa, ma affatto accettabile, quella che considera la fase espressionistica schönberghiana (e anche berghiana e weberniana) un momento di rottura e di incandescente presenza immediata nel mondo, determinato dal desiderio di reincanalarsi nel filone più profondo della cultura idealistico-borghese, di quella cultura di cui, una volta soddisfatte tutte le impellenze etiche circa la conquista di una posizione nell'universo, il momento più vero era quello del cantare, del costruire, del rivendicare, con un fare eroicamente dialettico, l'umanità del soggetto, la sua positiva dignità, la sua posizione centrale nel cosmo. E Schönberg negando, nel suo momento espressionistico, la visione del mondo di quella borghesia, della borghesia del suo tempo, si era reincanalato in un'astrazione di essa, in una sua promanazione che, aboliti i vincoli spazio-temporali (il linguaggio come discendenza fruibile da parte di quel pubblico; il suo trasferimento in America], ricostruiva i proprii presupposti di umana dignità con dei metri nuovi non solo per la loro essenza grammaticale (dodecafonia), ma per la diversa - e nettamente, necessariamente ed eroicamente nuova - posizione di consumo che implicavano. Sempre, ripetiamo, al fine di recuperare l'attenzione, la facoltà intellettuale, creativa e ricettiva, dell'uomo.
Adrian, partendo dal medesimo presupposto di consumo, dalla medesima difficile (e contro natura, data l'essenza, di allora, della «natura») fruibilità dei metri dodecafonici, a essi si ancora. Pare appassionarsi alla cosa, pare perdere la sua eterna ironia, pare avere superato costruttivamente il momento negativo in cui la musica si era ridotta a mero «calore vaccino». Ma ecco il demonismo creatore arrestarsi al momento negatorio, ecco il suo sforzo creativo assumere, sempre più nettamente, sotto gli occhi atterriti dell'amico Zeitblom, le caratteristiche della negazione cosmica, ecco, di nuovo, la tremenda ironia emergere: e, stavolta, definitivamente acquietata. Il suo prodotto nega i vincoli semantici con la società: è un atto di «demonismo negatore» che procede, in un terreno reso scivoloso dal decadere dello «spirito» hegeliano al rango di materia «dolciastra» e capace solo di generare tronfi atti superomistici, con le stesse armi dell'irrazionalismo romantico: reso, un tempo, possibile dalla disponibilità del pubblico, dalla sua verginità. Un irrazionalismo che scansa, per innata boria, l'unica possibile strada, e cioè quella della pacata ponderatezza thomasmanniana. quella dell'amore, quella del silenzioso recupero del materiale umano salvabile, potenzialmente, dal decadere dell'hegelismo al rango di superpotenza d'origine nietzscheana. Un irrazionalismo, invece, che procede nella sua strada fondamentale serbando mostruosamente chiari i suoi presupposti d'azione e riservando la forza del demonio per l'imposizione della sua posizione, dei suoi contenuti, dei suoi insanabili contrasti con la mentailtà del momento.
Mentre Schönberg enuncia una nuova fase limpidamente creativa, si resta inorriditi dinanzi a ciò che ha compiuto Adrian: dinanzi a questa sua negazione dei vincoli che uniscono l'uomo all'altro uomo, dinanzi alla sua visione retroattiva della fine della società, dinanzi alla sua demitizzazione dell'umanità.
Se si pensa alle componenti schopenhaueriane (il mondo può giustificarsi esteticamente) e a quelle kantiano-hegeliane (posta la razionalità del cosmo, l'uomo la deve cantare: quindi, attraverso la sua opera, ricostruire eticamente) interagenti nella formazione di Thomas Mann, si comprenderà bene l'immensa portata mostruosamente negativa del «suo» Adrian: demistificatore dell'«incanto» estetico e, quindi, vanificatore del necessario iter etico che, agli inizi del '900, abbiamo visto necessariamente caratterizzato da una sorta di silenzioso e faticoso «contegno» umanistico.
E proprio là dove - come ci siamo sforzati di dimostrare, sia pure a grandi linee - la figura di Schönberg si differenzia nettamente da quella dell'infelice Leverkühn, possono generarsi dei contatti di grande momento. Va da se che il discorso non isola le figure del musicista vero e del musicista immaginario nella loro realtà totale, ma tende ad allacciarle al loro ambiente, a confonderle, persino, con delle loro negatività più o meno potenziali. Così Leverkühn è anche Zeitblom, anzi, addirittura, ora, Thomas Mann: in base a quel rapporto creatore-creatura che rende questa - al pari della figura d'artista «sano» vagheggiata da Nietzsche: e ben lungi dall'esaurirsi nel buon Bizet! - un prodotto tutt'altro che vivente e agente di per sé; così Schönberg, sia pure in base a ben altre considerazioni più o meno alla sua portata, è il futuro, un futuro che Thomas Mann vide e che noi, oggi, conosciamo ancor meglio.
Punti di contatto, a dispetto dell'azione meravigliosamente umanistica di Schönberg, e di quella diabolicamente disgregatrice di Leverkühn; punti di contatto che, proseguendo idealmente la «storia» del Doctor Faustus, evidenziano Serenus Zeitblom dinanzi al suo Adrian e ai successori di Schönberg: dinanzi alla consapevole e ormai statica negazione di quello e alla dialettica di questi: a una dialettica che, smarriti i presupposti di comunitarietà tipici della civiltà europea e di quella tedesca in particolare, prendono, da Schönberg e da Adrian (ora uniti), i moduli di una vivisezione linguistica, li sviluppano senza il conforto della comunicazione, e proseguono sentendo sempre più debolmente l'impellenza del costruire, e subendo sempre più fortemente l'ansia dello scavalcare. E, tutti, partendo dal rifiuto del «calore vaccino» della musica. Non solo, ma ormai privi della coscienza umanistica di Zeitblom; rimasto, al di qua dell'agone arte-vita, a far da spettatore, a versare inutili e forse malintese lacrime, ad approfondire il baratro esistente fra quelli che capiscono piangendo, quelli che non capiscono, e quelli che hanno ormai  secchi gli occhi.
Thoman Mann, grande umanista, negò - s'è detto - L'espressionismo nel senso che non diede seguito personale all'azione di protesta deformatrice del linguaggio tipica non solo degli espressionisti storici, ma anche, se intesa come processo di reazione all'alienazione borghese del linguaggio, di tutta l'avanguardia successiva. Trovo in sé, Thomas Mann, le forze adatte a reagire al mondo, facendo appello a un determinato patrimonio. E non sono assenti le conseguenze creative di tale sua mancanza di contatti con l'espressionismo. L'ultimo suo lavoro - il Felix Krull - «risponde», in un certo qual modo, ai problemi del Doctor Faustus additando una possibile nuova civiltà: non da crearsi, ma da cogliersi disponendo se stessi nella condizione più adatta a rigenerare il «racconto», l'«idillio», la «commedia». America e Unione Sovietica: una polivocità sostenuta da un grande e prontissimo entusiasmo sul punto di affrancarsi definitivamente dalla tabe europea: oppure Zdanov, vagheggiato (ma non so fino a che punto) in quell'enorme «centro-sinistra» mondiale che lo stesso scrittore accennò in altra sede.
È questo, forse, il motivo per cui Thomas Mann consumata, potenzialmente, in Leverkühn, tutta la tragedia dell'arte moderna, anche la figura - singolarmente ottimistica - di Schönberg viene ad assumere un rilievo parimenti negativo. La «scuola», anche intesa come scambio di direttive etiche, la sua scuola avrebbe portato all'avanguardia di oggi, cioè alla messa in discussione della totalità europea.
È questo, forse, il motivo per cui Thomas Mann non riconobbe in Schönberg quel "salvatore" che - ripeto: singolarmente - era; questo il motivo per cui la sua figura, costituzionalmente tanto lontana da quella di Adrian, le si appaia nelle logiche continuazioni che ogni individuo responsabile è obbligato a fare.
Gianfranco Zàccaro
("Disclub 11, anno II, ottobre-novembre 1964)

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