Romain Rolland (1866-1944) |
"Dopo quella prova, Cristoforo, ritornato a casa, pensò di rileggere le opere dei musicisti "consacrati". Rimase costernato, accorgendosi che alcuni fra i maestri che amava di più avevano mentito. Si sforzò di dubitarne, dapprima, di credere che s'ingannava. - Ma no, non c'era verso... Era colpito dall'insieme di mediocrità e di menzogna, che costituisce il tesoro artistico di un gran popolo. Ben poche pagine resistevano all'esame!
D'allora in poi, solo più con un battito di cuore egli affrontò la lettura di altre opere, che gli erano care... Ahimè! Era come stregato; dovunque, la medesima disillusione. Per certi maestri, ebbe uno schianto al cuore; era come se perdesse un amico diletto, come se s'accorgesse d'un tratto che quell'amico, nel quale aveva riversato tutta la sua fiducia, lo ingannava da anni. Ne piangeva. La notte non dormiva più; continuava a tormentarsi. Incolpava se stesso: che non sapesse più giudicare? Che fosse diventato del tutto idiota?... No, no, più che mai vedeva la fulgida bellezza del giorno, con più freschezza ed amore che mai sentiva la pienezza generosa della vita: il suo cuore non lo ingannava...
Per un pezzo ancora, non osò toccare quelli che erano per lui i rmigliori, i piu puri, il Santo dei Santi. Tremava all’idea di intaccare la fede che aveva in essi. Ma come resistere allo spietato istinto di un'anima ardita e veritiera, che vuole giungere fino in fondo e veder le cose come sono, checché ne debba soffrire? - Aprì dunque le opere sacre, fece avanzare l'ultima riserva, la guardia imperiale... Fin dalle prime occhiate, vide che non erano più immacolate delle altre. Non ebbe il coraggio di proseguire. ln certi momenti, si fermava, chiudeva il libro: come il figlio di Noè, gettava un mantello sulla nudità di sua padre...
Per un pezzo ancora, non osò toccare quelli che erano per lui i rmigliori, i piu puri, il Santo dei Santi. Tremava all’idea di intaccare la fede che aveva in essi. Ma come resistere allo spietato istinto di un'anima ardita e veritiera, che vuole giungere fino in fondo e veder le cose come sono, checché ne debba soffrire? - Aprì dunque le opere sacre, fece avanzare l'ultima riserva, la guardia imperiale... Fin dalle prime occhiate, vide che non erano più immacolate delle altre. Non ebbe il coraggio di proseguire. ln certi momenti, si fermava, chiudeva il libro: come il figlio di Noè, gettava un mantello sulla nudità di sua padre...
Restava, dopo, prostrato, in mezzo a quelle rovine. Avrebbe preferito perdere un braccio, piuttosto che intaccare le sue sante illusioni, Era un lutto del cuore. Ma tale linfa era in lui, tale rinnovarsi di vita, che la sua fede nell'arte non ne restava scossa. Con la presunzione ingenua dei giovani, egli ricominciava la vita, come se nessuno l’avesse vissuta prima di lui. Nell'ebbrezza della sua forza nuova, sentiva - non senza ragione, forse - che fatte poche eccezioni non c'è quasi alcun rapporto tra le passioni vive e l'espressione che l'arte s'è ingegnata di darne. Ma s'ingannava pensando
di essere lui più fortunato o più vero quando le esprimeva. Siccome era tutto pieno delle sue passioni, gli era facile ritrovarle attraverso a ciò che scriveva; ma nessun altro se non lui le avrebbe riconosciute, sotto il linguaggio imperfetto in cui le esprimeva, Molti artisti che egli conclamava erano nel medesimo caso. Avevano avuto e tradotto sentimenti profondi; ma il segreto della loro lingua era morto con essi.
Cristoforo non era per niente psicologo, e non si dava pensiero di tutte queste ragioni: quello che per lui era morto lo era sempre stato, Riesaminava tutti i suoi giudizi sul passato con l'ingiustizia sicura di sé e la ferocia propria della giovinezza. Metteva a nudo le anime più nobili, senza pietà per le loro ridicolaggini. Era la melanconia ricca, la fantasia elegante, il nulla ben pensante di Mendelsshon. Erano le conterìe e l'orpello di Weber, la sua aridità di cuore, la sua commozione cerebrale. Era Liszt, padre nobile, scudiero da circo equestre, neo-classico e ciarlatano, miscuglio in dosi eguali di nobiltà vera e di nobiltà falsa, d'idealismo sereno e di virtuosità stomachevole. Era Schubert, sommerso sotto la sua sentimentalità come sotto chilometri d'acqua trasparente e insipida, I vecchi delle età eroiche, i semidei, i profeti, i padri della Chiesa, non si salvavano. Perfino il grande Sebastiano, l’uomo due o tre volte secolare. che portava in sé il passato e l'avvenire; - Bach - non era scevro da ogni menzogna, da ogni scempiaggine della moda, da ogni cicaleccio scolastico. Quell'uomo che aveva veduto Dio, quell'uomo che viveva in Dio sembrava talora a Cristoforo di una religione insipida e inzuccherata, stile gesuita, rococò. Si trovavano nelle sue cantate arie di languore amoroso e bigotto - (dialoghi dell'Anima che civetta con Gesù). - Cristoforo ne era nauseato: gli pareva di vedere dei cherubini paffuti, con rotondità di gambe e drappeggi svolazzanti. Poi, aveva la sensazione, che il geniale Cantor scrivesse sempre tappato nella sua camera; roba che puzzava di rinchiuso; non c'era nella sua musical quell'aria forte del di fuori che spira in altri, musicisti forse meno grandi, ma uomini più grandi - più uomini - come Beethoven o Haendel. Quello che lo feriva pure nei classici, era la loro mancanza di libertà: quasi tutto nelle loro opere era "costruito". Talora un'impressione era amplificata con tutti i luoghi comuni della retorica musicale, talora era un semplice ritmo, un disegno ornamentale, mentale, che si ripeteva, rigirava, combinava in tutti i sensi meccanicamente. Quelle costruzioni simmetriche ed a ripetizione - sonate e sinfonie - esasperavano Cristoforo, poco sensibile, in quel momento, alla bellezza dell'ordine, dei piani vasti e ben concepiti. Gli sembravano opera di muratori piuttosto che di musicisti.
Non bisogna credere che fosse meno severo per i romantici. Cosa strana, e di cui era lui il primo a stupirsi, - non c'erano musicisti che l'irritassero più di quelli che avevano preteso di essere (che erano stati realmente) i più liberi, i più spontanei, i meno costruttori - quelli che, come Schumann, avevano versato, a goccia a goccia, e minuto per minuto, nelle loro innumerevoli operette, la loro vita intera. Egli s'accaniva contro di essi con tanta più ira, quanto più riconosceva in essi la sua anima adolescente e tutte le scempiaggini, che si era giurato di svellerne. Certo il candido Schumann non poteva essere tacciato di falsità: non diceva pressoché mai nulla che non avesse veramente sentito. Ma, per l'appunto, il suo esempio conduceva Cristoforo a capire che la peggiore falsità dell'arte tedesca non era quando i suoi artisti volevano esprimere sentimenti che non sentivano, ma molto più quando volevano esprimere sentimenti che sentivano - e che erano falsi. La musica è uno specchio implacabile dell'anima. Quanto più un musicista tedesco è ingenuo ed in buona fede, tanto più mostra le debolezze dell'anima tedesca, il suo fondo malcerto, la sua sentimentalità molle, la sua mancanza di franchezza, il suo idealismo un po' sornione, la sua incapacità a veder se stesso, a osare di guardarsi in faccia. Questo falso idealismo era la piaga, perfino dei maggiori, - di Wagner. Rileggendo le opere di Wagner, Cristoforo digrignava i denti. Il Lohengrin gli sembrava d'una falsità da far gridare. Egli odiava quella cavalleria di paccottiglia, quel pietismo ipocrita, quell'eroe senza paura e senza cuore, incarnazione d'una virtù egoista e fredda che s'ammira e s'ama con predilezione. Egli lo conosceva anche troppo, l'aveva visto nella realtà, questo tipo di fariseo tedesco, che fa il vanesio, impeccabile e duro, in adorazione davanti alla sua propria immagine, al cui nume non ha certo difficoltà di sacrificare gli altri. L'Olandese Volante lo opprimeva con la sua sentimentalità massiccia e la sua cupa noia. I barbari decadenti della Tetralogia erano, in amore, d'una scipitezza nauseante. Siegmondo, nel rapire sua sorella, tenorizzava una romanza da sala. Sigfrido e Brunilde, da buoni coniugi tedeschi, nella Goetterdaemmerung, ostentavano agli occhi l'uno dell`altra, e specialmente del pubblico, la loro passione coniugale, pomposa e loquace. Tutti i generi di menzogna s'eran dati convegno in quelle opere: falso idealismo, falso cristianesimo, falso gotismo, falso leggendario, falso divino, falso umano. Mai convenzionalismo più enorme s'era messo in mostra come in quel teatro, che pretendeva di rovesciare tutte le convenzioni. Né gli occhi, né lo spirito, né il cuore potevano restarne ingannati, anche un momento solo; perché lo fossero, bisognava che volessero esserlo. - E lo volevano. La Germania si divertiva di quel1'arte vecchiotta ed infantile, arte di bruti scatenati e di ragazze mistiche e smorfiose.
E Cristoforo aveva un bel fare: appena udiva quella musica, era ripreso, come gli altri, più degli altri, dal torrente e dalla volontà diabolica dell`uomo che l'aveva scatenate, Egli rideva, e tremava, ed aveva le gote accese, sentiva passare in lui cavalcate d'eserciti; e pensava che tutto era permesso a chi portava in sé quegli uragani. Che gridi di gioia alzava, quando, nelle opere sacre che sfogliava solo più tremando, ritrovava la sua commozione di un tempo, sempre altrettanto ardente, Senza che nulla venisse ad appannare la purezza di ciò che egli amava. Erano gloriosi resti che salvava dal naufragio. Che felicità! Gli sembrava di salvare una parte di se stesso. E non era proprio se stesso? Quei grandi tedeschi, contro i quali s'accaniva, non erano forse il sue sangue, la sua carne, il suo essere più prezioso? Era così severe con loro soltanto perché lo era con sé.
Chi li amava meglio di lui? Chi sentiva più di lui la bontà di Schubert, l'innocenza di Haydn, la tenerezza di Mozart, il gran cuore eroico di Beethoven? Chi s'era rifugiato più religiosamente di lui nel fremito delle foreste di Weber, e nelle grandi ombre delle cattedrali di Gian Sebastiano, che alzano nel cielo grigio del Nord, sopra la pianura tedesca, la loro montagna di pietra e le loro torri gigantesche con le guglie traforate? - Ma egli soffriva delle loro menzogne, e non poteva scordarle. Attribuiva queste alla razza, e la loro grandezza ad essi. Aveva torto. Grandezza e debolezza appartengono ugualmente alla razza il cui pensiero possente e torbido scorre come il più largo fiume di musica e di poesia, cui l`Europa venga a bere... E presso quale altro popolo avrebbe egli trovato la purezza ingenua, che gli permetteva in quel momento di conclamarlo così duramente? Egli non se ne accorgeva. Con l'ingratitudine d'un bimbo viziato, rivolgeva contro sua madre le armi che ne aveva ricevute. Più tardi, più tardi doveva sentire tutto quello che le doveva, e quanto gli era cara...
di essere lui più fortunato o più vero quando le esprimeva. Siccome era tutto pieno delle sue passioni, gli era facile ritrovarle attraverso a ciò che scriveva; ma nessun altro se non lui le avrebbe riconosciute, sotto il linguaggio imperfetto in cui le esprimeva, Molti artisti che egli conclamava erano nel medesimo caso. Avevano avuto e tradotto sentimenti profondi; ma il segreto della loro lingua era morto con essi.
Cristoforo non era per niente psicologo, e non si dava pensiero di tutte queste ragioni: quello che per lui era morto lo era sempre stato, Riesaminava tutti i suoi giudizi sul passato con l'ingiustizia sicura di sé e la ferocia propria della giovinezza. Metteva a nudo le anime più nobili, senza pietà per le loro ridicolaggini. Era la melanconia ricca, la fantasia elegante, il nulla ben pensante di Mendelsshon. Erano le conterìe e l'orpello di Weber, la sua aridità di cuore, la sua commozione cerebrale. Era Liszt, padre nobile, scudiero da circo equestre, neo-classico e ciarlatano, miscuglio in dosi eguali di nobiltà vera e di nobiltà falsa, d'idealismo sereno e di virtuosità stomachevole. Era Schubert, sommerso sotto la sua sentimentalità come sotto chilometri d'acqua trasparente e insipida, I vecchi delle età eroiche, i semidei, i profeti, i padri della Chiesa, non si salvavano. Perfino il grande Sebastiano, l’uomo due o tre volte secolare. che portava in sé il passato e l'avvenire; - Bach - non era scevro da ogni menzogna, da ogni scempiaggine della moda, da ogni cicaleccio scolastico. Quell'uomo che aveva veduto Dio, quell'uomo che viveva in Dio sembrava talora a Cristoforo di una religione insipida e inzuccherata, stile gesuita, rococò. Si trovavano nelle sue cantate arie di languore amoroso e bigotto - (dialoghi dell'Anima che civetta con Gesù). - Cristoforo ne era nauseato: gli pareva di vedere dei cherubini paffuti, con rotondità di gambe e drappeggi svolazzanti. Poi, aveva la sensazione, che il geniale Cantor scrivesse sempre tappato nella sua camera; roba che puzzava di rinchiuso; non c'era nella sua musical quell'aria forte del di fuori che spira in altri, musicisti forse meno grandi, ma uomini più grandi - più uomini - come Beethoven o Haendel. Quello che lo feriva pure nei classici, era la loro mancanza di libertà: quasi tutto nelle loro opere era "costruito". Talora un'impressione era amplificata con tutti i luoghi comuni della retorica musicale, talora era un semplice ritmo, un disegno ornamentale, mentale, che si ripeteva, rigirava, combinava in tutti i sensi meccanicamente. Quelle costruzioni simmetriche ed a ripetizione - sonate e sinfonie - esasperavano Cristoforo, poco sensibile, in quel momento, alla bellezza dell'ordine, dei piani vasti e ben concepiti. Gli sembravano opera di muratori piuttosto che di musicisti.
Non bisogna credere che fosse meno severo per i romantici. Cosa strana, e di cui era lui il primo a stupirsi, - non c'erano musicisti che l'irritassero più di quelli che avevano preteso di essere (che erano stati realmente) i più liberi, i più spontanei, i meno costruttori - quelli che, come Schumann, avevano versato, a goccia a goccia, e minuto per minuto, nelle loro innumerevoli operette, la loro vita intera. Egli s'accaniva contro di essi con tanta più ira, quanto più riconosceva in essi la sua anima adolescente e tutte le scempiaggini, che si era giurato di svellerne. Certo il candido Schumann non poteva essere tacciato di falsità: non diceva pressoché mai nulla che non avesse veramente sentito. Ma, per l'appunto, il suo esempio conduceva Cristoforo a capire che la peggiore falsità dell'arte tedesca non era quando i suoi artisti volevano esprimere sentimenti che non sentivano, ma molto più quando volevano esprimere sentimenti che sentivano - e che erano falsi. La musica è uno specchio implacabile dell'anima. Quanto più un musicista tedesco è ingenuo ed in buona fede, tanto più mostra le debolezze dell'anima tedesca, il suo fondo malcerto, la sua sentimentalità molle, la sua mancanza di franchezza, il suo idealismo un po' sornione, la sua incapacità a veder se stesso, a osare di guardarsi in faccia. Questo falso idealismo era la piaga, perfino dei maggiori, - di Wagner. Rileggendo le opere di Wagner, Cristoforo digrignava i denti. Il Lohengrin gli sembrava d'una falsità da far gridare. Egli odiava quella cavalleria di paccottiglia, quel pietismo ipocrita, quell'eroe senza paura e senza cuore, incarnazione d'una virtù egoista e fredda che s'ammira e s'ama con predilezione. Egli lo conosceva anche troppo, l'aveva visto nella realtà, questo tipo di fariseo tedesco, che fa il vanesio, impeccabile e duro, in adorazione davanti alla sua propria immagine, al cui nume non ha certo difficoltà di sacrificare gli altri. L'Olandese Volante lo opprimeva con la sua sentimentalità massiccia e la sua cupa noia. I barbari decadenti della Tetralogia erano, in amore, d'una scipitezza nauseante. Siegmondo, nel rapire sua sorella, tenorizzava una romanza da sala. Sigfrido e Brunilde, da buoni coniugi tedeschi, nella Goetterdaemmerung, ostentavano agli occhi l'uno dell`altra, e specialmente del pubblico, la loro passione coniugale, pomposa e loquace. Tutti i generi di menzogna s'eran dati convegno in quelle opere: falso idealismo, falso cristianesimo, falso gotismo, falso leggendario, falso divino, falso umano. Mai convenzionalismo più enorme s'era messo in mostra come in quel teatro, che pretendeva di rovesciare tutte le convenzioni. Né gli occhi, né lo spirito, né il cuore potevano restarne ingannati, anche un momento solo; perché lo fossero, bisognava che volessero esserlo. - E lo volevano. La Germania si divertiva di quel1'arte vecchiotta ed infantile, arte di bruti scatenati e di ragazze mistiche e smorfiose.
E Cristoforo aveva un bel fare: appena udiva quella musica, era ripreso, come gli altri, più degli altri, dal torrente e dalla volontà diabolica dell`uomo che l'aveva scatenate, Egli rideva, e tremava, ed aveva le gote accese, sentiva passare in lui cavalcate d'eserciti; e pensava che tutto era permesso a chi portava in sé quegli uragani. Che gridi di gioia alzava, quando, nelle opere sacre che sfogliava solo più tremando, ritrovava la sua commozione di un tempo, sempre altrettanto ardente, Senza che nulla venisse ad appannare la purezza di ciò che egli amava. Erano gloriosi resti che salvava dal naufragio. Che felicità! Gli sembrava di salvare una parte di se stesso. E non era proprio se stesso? Quei grandi tedeschi, contro i quali s'accaniva, non erano forse il sue sangue, la sua carne, il suo essere più prezioso? Era così severe con loro soltanto perché lo era con sé.
Chi li amava meglio di lui? Chi sentiva più di lui la bontà di Schubert, l'innocenza di Haydn, la tenerezza di Mozart, il gran cuore eroico di Beethoven? Chi s'era rifugiato più religiosamente di lui nel fremito delle foreste di Weber, e nelle grandi ombre delle cattedrali di Gian Sebastiano, che alzano nel cielo grigio del Nord, sopra la pianura tedesca, la loro montagna di pietra e le loro torri gigantesche con le guglie traforate? - Ma egli soffriva delle loro menzogne, e non poteva scordarle. Attribuiva queste alla razza, e la loro grandezza ad essi. Aveva torto. Grandezza e debolezza appartengono ugualmente alla razza il cui pensiero possente e torbido scorre come il più largo fiume di musica e di poesia, cui l`Europa venga a bere... E presso quale altro popolo avrebbe egli trovato la purezza ingenua, che gli permetteva in quel momento di conclamarlo così duramente? Egli non se ne accorgeva. Con l'ingratitudine d'un bimbo viziato, rivolgeva contro sua madre le armi che ne aveva ricevute. Più tardi, più tardi doveva sentire tutto quello che le doveva, e quanto gli era cara...
Ma attraversava un periodo di cieca reazione contro gli idoli della sua infanzia. Ce l'aveva con sé e ce l'aveva con quelli per aver creduto in loro con abbandono appassionato. - Ed era bene che fosse così. C'è un'età della vita in cui bisogna osare di essere ingiusti, in cui bisogna osare di far piazza pulita di tutte le ammirazioni e di tutti i rispetti imparati, e negar tutto - menzogne e verità - tutto quello che non si è riconosciuto vero da noi stessi. Per effetto di tutta la sua educazione e di tutto ciò che vede e sente attorno a sé, il fanciullo assorbe una tal quantità di menzogne e di sciocchezze mescolate alle verità essenziali della vita, che primo dovere d’un adolescente, il quale voglia essere un uomo sano, è di rivomitar tutto."
tratto da "Gian-Cristoforo" (Jean-Christophe), IV. La Rivolta, di Romain Rolland, ed. Sonzogno
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