Riccardo Muti (1941) |
Nel
colloquio Chicago è come la madeleine proustiana. Fa riandare
l’interlocutore a remoti decenni statunitensi che dal passato
volgono al presente. Ne nasce un gioco continuo di rimandi, sul filo
del ricordo o della riflessione, fra USA e Italia, grande musica e
grandi problemi della musica.
Negli
anni settanta, quando iniziò
la mia avventura americana, diressi numerose orchestre tra cui la
Chicago, la Boston Symphony e la Philadelphia Orchestra. Con la
Philadelphia fu amore forte e improvviso. Si sviluppò
in una serie di concerti estivi. Un’intesa estiva, o meglio un
violento atto d’amore; un legame durato dal 1972 al 1992 e coronato
da una pubblicazione ad hoc e a ricordo («I venti anni di Riccardo
Muti alla Philadelphia Orchestra»).
Dal
1976 Riccardo Muti fu direttore principale ospite – dopo il regno
di Eugene Ormandy durato più
di quaranta anni – e dal 1979 direttore musicale e artistico del
complesso statunitense. Con un mare di dischi per la EMI –
praticamente tutto il grande repertorio sinfonico – riversati su
CD, raccolti in cofanetti, oggi allegati pure a riviste ed esposti
festosamente in edicola.
Nell’86,
quando fui nominato direttore musicale alla Scala, ritenni opportuno
lasciare Filadelfia. Sarebbe stato troppo gravoso seguire seriamente
due istituzioni: una basta e avanza.
Poi,
quando lascia la Scala nel 2005, la libertà...
Mi
sono trovato alla testa dei Wiener Philharmoniker e con oltre
orchestre in tournée
a New York e altrove. In giro, finalmente, senza preoccupazioni, dopo
essere stato a lungo direttore stabile, con tutto il carico di
impegni che questo comporta. Ho potuto insomma gustare la libera
attività;
assaporarla con i vantaggi che offre: tempo di cui puoi disporre come
vuoi, senza appuntamenti fissi, senza attività
amministrative sulle spalle. Insomma. Me ne andavo a dirigere a
Salisburgo come a Vienna in santa pace. Potevo tornare a capo dei
Filarmonici berlinesi con cui avevo avuto un rapporto strettissimo
fino alla morte di Karajan. Non pensavo più
a un «futuro americano» anche se dirigevo regolarmente negli USA
oltre che per l’Europa. Mi accorsi
però,
negli spostamenti europei, che a Parigi e a Londra, ad esempio,
veniva sistematicamente a farmi visita la presidente dell’orchestra
di Chicago, Deborah Rutter. La Rutter mi chiese di dirigere concerti
con la sua orchestra, anche di seguirla in una tournée.
A dire il vero, non ne avevo molta voglia. Tra l’altro, per due
volte mi ero trovato a declinare la proposta di direttore stabile
della New York Philharmonic e la situazione diventava imbarazzante:
no a New York, si a Chicago... mah? Mi pesava, poi, l’idea di
ulteriori viaggi oltre Atlantico. Ancora. Non avevo più
desiderio di incontrare nuove orchestre, visto che lo avevo fatto
sempre: dagli anni di gavetta – quelli che non esistono più
per i direttori d’oggi – ai decenni con i colossi del sinfonismo.
L’insistenza
della Rutter ma anche Chicago, città
sul lago Michigan di bellezza straordinaria, con una grande storia e
nuove splendide architetture cresciute in questi ultimi anni, con
Enrico Fermi, cui è dedicata
parte dell’Università,
che lì compì
il primo esperimento nucleare. Chicago ovvero la svolta.
Infatti.
Dopo trent’anni anni di vincoli, mentre pensavo a concerti «normali
ma senza matrimonio alcuno», la tenacia della Rutter e il fascino di
Chicago hanno avuto la meglio. Misi in programma, per il primo
concerto-esperimento, la Sesta Sinfonia di Ciaikovski: la Patetica.
Tempo poche battute, trovai una rispondenza, un voler lavorare
appassionato, unici. Questo dopo esserci studiati reciprocamente come
fanno gli animali e come peraltro capita con qualsiasi grande
direttore e grande orchestra quando si incontrano e vogliono
verificare se quanto hanno letto e ascoltato o sentito dire
corrisponde o meno a verità
e come. Mi accorsi subito di qualcosa di straordinario. Ogni cosa che
chiedevo, con braccio e parole, aveva una risposta immediata e
intensa, fatta di afflato ed emozione autentici. Da uno, due, tre
concerti nacque una tournée
europea che toccò
anche Roma e Torino, Londra e Parigi. Era sbocciato un amore «da
matrimonio» mentre si faceva infatti sempre più
forte,
nell’orchestra, il desiderio di avermi come direttore musicale.
E
qui viene il «dopo Daniel Barenboim»...
Barenboim
infatti era andato via. Due direttori quali Pierre Boulez e Bernard
Haitink si dividevano gli impegni della Chicago Symphony in una sorta
di interregno prestigiosissimo ma interlocutorio. Ricevetti più
di sessanta lettere individuali piene di affetto e di ammirazione in
cui ogni strumentista esprimeva il desiderio di fare musica
continuativamente con me. Nel
2008 la scintilla si è
così
rinnovata. Come sempre, la richiesta è
venuta dall’orchestra: come a Firenze, a Londra e alla Scala. Ero
titubante ma un movimento così
appassionato e un amore talmente contraccambiato, mi convinsero.
Si
partì con
la Messa da Requiem di Verdi, solisti Barbara Frittoli, Olga
Borodina, Mario Zeffiri e Ildar Abdrazakov. E` il Requiem confluito
su due CD: emissione autoprodotta dall’orchestra, come fanno tanti
grandi complessi internazionali di fronte alla crisi del mercato
discografico, registrando tutti i loro concerti e poi scegliendo cosa
pubblicare. E` l’edizione del Requiem che in breve si è
guadagnata due Grammy Award: il primo
per il miglior album classico in assoluto, il secondo per il miglior
album corale. E che il coro di Chicago sia una favola di emissione
impeccabile, dolcezza e pienezza, flessibilità
e colori è
indiscutibile...
Proponemmo
il Requiem nel settembre 2010 al Millenium Park in un concerto «Per
Chicago» con trentamila persone – il parco venne chiuso per
ragioni di sicurezza – dove i due grattacieli che si fronteggiavano
portavano, rispettivamente, le insegne «CSO» e «MUTI» in un
luminoso, ideale abbraccio. Il sindaco, poi, volle che per un mese la
Michigan Avenue prendesse il nome Riccardo Muti.
Avventura
splendida ma con un incidente di percorso qualche mese dopo:
l’aritmia cardiaca, una brutta caduta dal podio che ha reso
necessario una peraltro eccellente ricostruzione facciale. Cure
sapienti e medici che hanno parlato di cuore sanissimo dopo che un
pacemaker ha corretto tale aritmia e mantiene soltanto funzione di
garanzia, di monitoraggio precauzionale.
In
questo frangente l’orchestra mi è
stata vicinissima anche con lettere assolutamente affettuose. Dopo
essere stato dimesso dall’ospedale, due gruppi della Chicago
Symphony, uno di ottoni e un altro d’archi, hanno tenuto due giorni
di concerti come ringraziamento per le cure prestate, con la
commozione dei pazienti, mia, di amici e della mia famiglia.
Non
solo Grammy e, nel 2010, il titolo , il titolo di Musicista dell’Anno
assegnato da «Musical America» ma anche, di recente, l’Opera News
Award e il Premio Birgit Nilsson, il più
ricco nel mondo della musica colta.
Questo
17 aprile «Opera News» mi ha conferito appunto l’Opera News
Award. A consegnarmelo è
stato Francis Coppola, regista de «Il padrino» e pure mio parente
per parte di madre, tanto che siamo lontani cugini. Si e` poi
aggiunto il Premio Birgit Nilsson, lascito di una fondazione voluta
dal grande, scomparso soprano wagneriano e straussiano, la
formidabile cantante svedese. Conferito la prima volta a Placido
Domingo, il Premio viene assegnato ogni due anni a un artista del
teatro e della musica dai criteri specialissimi: quelli stabiliti da
una giuria internazionale di sette persone che decreta il
riconoscimento all’unanimità. O
tutti d’accordo, o niente. Il riconoscimento consiste in un milione
di dollari e la cerimonia di consegna è
prevista 13 ottobre prossimo al Teatro Reale dell’Opera di
Stoccolma alla presenza della famiglia reale svedese.
L’Opera
News Award ha coinciso con l’ultimo dei concerti con la Chicago
Symphony tenuti nell’aprile alla Carnegie Hall di New York. In
programma, una versione da concerto dell’Otello di Verdi; Berlioz
con la Sinfonia Fantastica e il suo seguito, Lélio,
voce recitante di Gérard
Depardieu come a Salisburgo; un’ouverture di Cherubini, il poema
sinfonico Les Préludes
di Liszt e la Quinta Sinfonia di Shostakovich. Il tutto, fra concerti
pomeridiani e serali, preparato in meno di quarantotto ore.
Sono
stati appuntamenti straordinari, la stampa ha scritto di un passaggio
tempestoso, di «Muti che ha preso Manhattan by storm», di
un’orchestra che ha stabilito un legame ancora più
forte con il suo direttore musicale e, cosa che mi ha davvero
inorgoglito, che il complesso ha ritrovato il livello sommo dei tempi
di Fritz Reiner.
Da
Ravenna a Chicago passando per Salisburgo con l’ultima edizione
mutiana del Festival di Pentecoste, che quest’anno cade nella prima
metà di
giugno. In scena, I due Figaro di Saverio Mercadante su libretto di
Felice Romani, sequel di Barbiere e Nozze, dove Cherubino si spaccia
per Figaro. Lavoro scritto nel 1826 per Madrid che descrive un arco
tra la scuola napoletana ormai
declinante e il nuovo stile rossiniano ornando il tutto con stilemi
iberici. Un unicum, insomma, che si vale della nostra Orchestra
Cherubini con Muti e del coro dei Wiener Philarmoniker e vede la
regia di Emilio Sagi.
Il
manoscritto de I due Figaro proviene dalla Biblioteca del
Conservatorio di Madrid e l’allestimento è
una coproduzione tra il Festival di Salisburgo, Ravenna Festival e il
Teatro Reale di Madrid. Gérard
Mortier, direttore artistico del Teatro madrileno, vorrebbe creare un
gemellaggio fra la città
spagnola, Ravenna e Napoli (Ravenna per meriti sul campo fra
Cimarosa, Paisiello eccetera riproposti negli anni; Napoli come luogo
deputato all’opera napoletana; si pensi anche ai rapporti politici
fra Napoli e la Spagna). Si tratterebbe di riprendere –
l’esperienza di un lustro a Salisburgo mi sembra sufficiente – il
lavoro iniziato sulla Salzach e proseguire per vie nuove. Questa
estate a Salisburgo [dove in luglio
Muti compie gli anni: auguri sin d’ora per i suoi settanta prossimi
venturi portati con agio mozartiano]
dirigerò
Macbeth con la regia di Peter Stein e due produzioni del Requiem di
Verdi assieme ai Wiener Philarmoniker. Finiti impegni e tournée,
ricomincia la stagione stanziale a Chicago dove ogni concerto ha due
o tre repliche. Stagione che va da
settembre a giugno, comprende il Festival estivo di Ravinia, vicino
Chicago, tournée
negli USA, in Estremo Oriente o in Europa e di nuovo concerti in
loco.
L’Italia:
il Ravenna Festival, l’Opera di Roma, il San Carlo di Napoli.
A
Ravenna torno con i miei giovani «cherubini» per Mercadante prima
del consueto «Viaggio dell’amicizia» che quest’anno é
a Nairobi (so che a Nairobi bambini stanno imparando brani che
canteranno con noi). Quanto ad opere di repertorio da proporre nei
grandi teatri, sto pensando a un tris verdiano: Macbeth, Attila ad
apertura della stagione 2012 e in fine
Simon Boccanegra, l’unica grande opera di Verdi che mi manca. Ho
progettato anche un Requiem verdiano al San Carlo.
Opera
di Roma, 16 marzo scorso, Nabucco per i 150 anni dalla costituzione
dello Stato italiano, «Va’ pensiero» non solo bissato a furor di
popolo ma, su invito di Muti, cantato dall’intero teatro con il
direttore che chiosa: «non vorrei che questo Nabucco o altre opere
fossero il canto funebre dell’ignominiosa scure che si e`
abbattuta» sulla musica e sulla cultura italiana. Col seguito, per
così dire, «da bella favola», che sappiamo: il «Veni, vidi,
capii» (il latino é un’opinione) di Giulio Tremonti.
Il
Fus, Fondo unico per lo spettacolo, é stato ripristinato, pare. La
visita di Tremonti dopo tanti appelli di tanti musicisti e artisti
dello spettacolo, visita di un’ora, fatta a chi da più di
quarant’anni si è battuto per la cultura, mi ha fatto piacere se
ha contributo a ridare alle istituzioni i ventisette milioni di euro
congelati. Diciamo che sono stato l’iceberg di una montagna: la
parte che si è scontrata col Titanic ma in un incontro costruttivo.
Sono poi felice che quanto accaduto a Roma in marzo sia rimbalzato
ovunque e abbia dato un peso importante nel mondo al nostro paese. Un
teatro intero che canta col coro é un segnale positivo. Restituisce
un grande orgoglio a quell’Italia che di questi tempi ai giornali
stranieri interessa per altri motivi decisamente meno nobili. E` un
momento di ammirazione ossigenante. Ci sono però molte
considerazioni da fare sulla situazione del Bel Paese con relativi
provvedimenti. Bisogna permettere ai teatri italiani di respirare.
Bisogna anche fare pensieri seri su come tali teatri devono marciare.
Non col passo lento e obsoleto di programmi messi su da persone che
non hanno competenza o conoscenza in materia di musica secondo nomine
che, a loro volta, nulla hanno a vedere con la conoscenza e
l’esperienza musicale. In America vedono il direttore musicale al
vertice delle istituzioni. Il motivo per cui nei programmi il suo
nome compare prima di tutti gli altri, senza la piramide italiana di
sovrintendenti, direttori artistici eccetera. Mentre in Italia il
direttore musicale non ha potere di firma se non la propria
autorevolezza, che é comunque musicale ma non legale. Non può
prescindere purtroppo dal controllo esterno, esercitato troppo spesso
da burocrati. E` tempo di finirla poi con «discorsi di eccellenza»
ovvero con gare, fra un teatro e l’altro, a chi è o sarebbe il più
bravo. Va svecchiato tutto un mondo teatrale legato a formule
parassitarie. Ogni teatro, poi, deve essere messo in condizione di
dimostrare quanto sa fare e quanto vale. Ci vuole anche una maggiore
collaborazione fra le diverse Fondazioni liriche, senza ambizioni
infantili da primi della classe. Non è un caso che i grandi festival
mondiali, oggi, guardino con meno interesse all’Italia. Questo
perchè il nostro paese si è impantanato. E poi quella italiana é
una realtà molto particolare, fatta anche di tanti piccoli,
splendidi teatri. Ha caratteristiche sue proprie e imprescindibili.
Insomma. C’è molto cammino da fare. Bisogna però che i luoghi
siano operativi in maniera moderna e non risultino invece istituzioni
assistenziali.
L’Italia
e il mondo...
Chicago,
Salisburgo, Roma, Napoli che vuole recuperare la sua grande storia
sono tutti elementi cui un musicista italiano può
guardare. Penso all’Orchestra Cherubini che ho creato e cresciuto,
che si
è
guadagnata onori a Mosca e Parigi, è
stata per cinque anni protagonista del Festival di Pentecoste a
Salisburgo ed è
il complesso in residence del Ravenna Festival. Orchestra che è
stata diretta da bacchette somme come Kurt Masur e Yuri Temirkanov;
che quest’anno offre un programma interamente lisztiano con Michele
Campanella. Tutto questo è
la dimostrazione che in Italia esiste una realtà
giovanile importante. A patto, s’intende, che chi fa musica sia
messo in condizione di dare il suo contributo. E qui sta il problema.
Uno dei tanti.
intervista di Alberto Cantù ("MUSICA", n.227, giugno 2011)
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