Rosso Fiorentino (Venus e Cupido) |
Il Quinto Libro de’Madrigali insieme con l’ultima pubblicazione di Carlo Gesualdo “Prencipe di Venosa”, il Madrigali a Cinque voci, Libro Sesto, furono pubblicati entrambi nel 1611 a Gesualdo, un villaggio (posto nel centro del sud Italia tra Napoli e Bari) che prende il nome proprio dall’antica e nobile famiglia del nostro compositore. Al centro del paese, su una roccia, si erge il castello privato di famiglia: per poter stampare questi libri Gesualdo affidò a Jacopo Carlino il compito di allestire una tipografia in un locale del castello. Queste due pubblicazioni furono poi ristampate postume: nel 1613, nella tipografia genovese di Giuseppe Pavoni, in una inconsueta e pregiata versione che il liutista Simone Molinaro ci propone “in partitura” (cioè con le linee melodiche delle voci stampate insieme, in modo da poterle leggere e studiare simultaneamente, come avviene oggi in una edizione moderna); e nel 1614 (Quinto Libro) e 1616 (Sesto Libro), nella consueta veste in cinque libri separati (un libro per ciascun cantante) nella tipografia veneziana di Bartolomeo Magni a Venezia (erede del celebre tipografo Angelo Gardano).
I due libri, che potremmo definire “gemelli”, furono entrambi curati da Pietro Cappuccio (che eviterà al principe il triviale lavoro di redazione che non si addice al suo stato d’aristocratico): questi firmerà le dediche a distanza d’un solo mese l’una dall’altra. Nelle nostre precedenti pubblicazioni della Naxos (dedicate alla registrazione completa di tutte le opere profane di Gesualdo) già osservammo quanto fosse inopportuno che un nobile si occupasse della stampa di musica e dei motivi per ricorrere ad un curatore manuale dei propri lavori. Sappiamo anche quanto fosse usuale per il nostro principe gemellare la pubblicazione delle proprie opere: era già accaduto nel 1594 quando furono pubblicati contemporaneamente, da Vittorio Baldini a Ferrara, il Primo e il Secondo Libro. Se quest’ultimo era stato il naturale seguito del Primo (o viceversa come suppongono alcuni recenti studi), così il Sesto prosegue il Quinto e conclude la poetica di un genio musicale che non conosceva limiti nella ricerca e nella creatività: egli aveva l’opportunità di sperimentare e superare i limiti convenzionali dell’inventiva musicale, in piena autonomia e libertà, svincolato da ogni tipo di assoggettamento. Solo in questa ottica potremmo giustificare le geniali anomalie presenti nella sua musica polifonica che ancor oggi stupisce e affascina sia l’avveduto musicista come l’ascoltatore amatore.
La grande distanza tra il Quarto Libro del 1596 e queste due pubblicazioni del 1611, ci costringe ad indagare gli avvenimenti che affiancano l’intenso lavoro artistico di Gesualdo: cosa avvenne in quei lunghi quindici anni di silenzio editoriale? Tale periodo coincide con lo spostamento dell’aerea d’interesse del compositore da Ferrara verso Gesualdo. Nel 1594, poco dopo le seconde nozze, Gesualdo (probabilmente infastidito dal mondo bisbetico della vita a corte, che non gli avrebbe mai condonato quella sua storia drammatica o la sua originalità di vita) lascia Ferrara con lo scopo di approfondire le curiosità nel campo culturale nel nord Italia: abbandonando la sposa nella sua città natale, parte per Venezia dedicandosi a perdersi nel labirinto delle calli di quella meravigliosa città lagunare. Visita le famose stamperie cittadine (quelle che pubblicano la maggior parte delle composizioni musicali sacre e profane del tempo), attratto particolarmente dalla sapiente arte tipografica di Angelo Gardano. Il meticoloso cronista Fontanelli è sempre a suo fianco con il compito di riferire la sua vita quotidiana alla corte degli Este (era la sua incombenza da quando il duca Alfonso II lo inviò per avere maggiori notizie del suo futuro e originale parente prima del suo arrivo a Ferrara; questi documenta la calorosa accoglienza da parte del doge e del patriarca di Venezia, di cui fu ospite. Accanto al sontuoso trattamento, registriamo una certa curiosità da parte della nobiltà veneziana a conoscere da vicino un personaggio così discusso. Pur tentando d’evitare, per quanto possibile, i vari inviti mondani a favore del tempo dedicato alla composizione musicale, avvenne che durante una cena offerta dal patriarca, Gesualdo fu invitato ad ascoltare un concerto in suo onore: al termine dell’esecuzione musicale si alza sulla sedia e di fronte a tutti rimprovera il cantante e il clavicembalista per la pessima esecuzione, tanto che Fontanelli confessa: “provai pena per loro”. Purtroppo il cronista non si dilungò a descrivere quali fossero le mancanze esecutive che adirarono il principe: l’occasione poteva essere fondamentale per conoscere le scelte esecutive desiderate dal compositore. Nella grande quantità di documenti che ci rimangono, nemmeno una frase viene spesa riguardo l’identità della cappella musicale del principe; non conosciamo nemmeno l’identità degli artisti e delle voci che cantarono realmente i suoi madrigali. Rimarrà il dubbio se questi fossero realizzati anche da strumenti o solo nella loro originale concezione “a cappella”. Chissà se le sue osservazioni potessero essere simili a quelle di Vincenzo Giustinani (1564–1637) nel suo Discorso sopra la musica de’ suoi tempi, 1628: “moderare e crescere la voce forte o piano, assottigliandola o ingrossandola, che secondo che veniva a’ tagli, ora con strascinarla, ora smezzarla, con l’accompagnamento d’un soave interrotto sospiro, ora tirando passaggi lunghi, seguiti bene, spiccati, ora gruppi, ora a salti, ora con trilli lunghi, ora con brevi, et or con passaggi soavi e cantati piano, dalli quali talvolta all’improvviso si sentiva echi rispondere, e principalmente con azione del viso, e dei sguardi e de’ gesti che accompagnavano appropriatamente la musica e li concetti, e sopra tutto senza moto della persona e della bocca e delle mani sconcioso, che non fusse indirizzato al fine per il qual si cantava, e con far spiccar bene le parole in guisa tale che si sentisse anche l’ultima sillaba di ciascuna parola, la quale dalli passaggi et altri ornamenti non fusse interrotta o soppressa, e con molti altri particolari artificj et osservazioni che saranno a notizia di persone più esperimentate di me. E con queste sì nobili congiunture i suddetti musici eccellenti facevano ogni sforzo d’acquistar fama et la grazia de’ Prencipi loro padroni, dalla quale derivava anche il loro utile”.
Gesualdo fu un personaggio discusso e amato già nella sua epoca, ricercato e temuto allo stesso tempo: se il suo punto di vista non fu mai quello della persona comune, ma quello d’un personaggio che ci offre un diverso modo di vedere le realtà che ci circondano, così la sua musica percorre strade non convenzionali, visioni espressive inedite, dissonanze che il musico di corte non poteva assemblare (o non poteva osare). La sua posizione sociale, il suo vissuto, la sua sensibilità e la sua arguta genialità artistica lo rendevano un’affascinante e ambìto personaggio di cultura. Se all’epoca il “fascino dell’assassino” (parafrasando un termine cinematografico) ne accentuò l’interesse da parte della vita salottiera ed effimera a cavallo del Seicento, oggi il Gesualdo musicista attrae maggiormente rispetto all’episodio che lo segnò nella vita. All’epoca colpisce la figura di Gesualdo, principe, nobile dell’alta società (educato agli alti valori aristocratici di una famiglia di secolare storia) che ristabilisce l’onore della sua casata uccidendo il bene più prezioso che possiede: l’amore verso Maria d’Avalos. Egli non fu mai un uomo del popolo, vittima e preda d’un proprio istinto violento (e quindi condannabile): egli fu obbligato a compiere un “delitto d’onore” richiesto dalle leggi dell’epoca per non essere deriso da tutti. Quel gesto, che lo riscattata nell’onore, lo condannerà nella società cortigiana.
A questo ritratto convenzionale addossatogli dalla società, Gesualdo risponde rifiutando la vita di corte e isolando se stesso e la sua musica. Se nelle antecedenti opere era costretto ad indossare il ruolo di violento uxoricida vendicativo, portandolo ad indagare una realtà musicale rabbiosa, irascibile, furiosa e turbinosa, ora desidera mostrare la sua sorte d’essere umano sofferente, tormentato, angosciato e afflitto da un destino che lo torturerà e strazierà fino alla morte: quest’uomo, che non aveva altro amaro riscatto dalla sua vicenda che ritirarsi nella musica, desidera farci partecipi degli incubi e delle ossessioni di uno stato d’animo provato, in cui la morte diventa protagonist morbosa dei suoi interessi e della sua poetica. Su ventitrè madrigali che compongono il Sesto Libro (un numero abbondante rispetto alle altre pubblicazioni) ben tredici contengono la parola “morte”: anche se, forzatamente, vogliamo dimenticare Gesualdo come violento assassino non possiamo dimenticare che, la morte segnerà ferocemente la vita quotidiana. Come una maledizione divina subentra sempre nella sua vita senza possibilità di scampo.
Nella composizione di madrigali (che, mai come in lui, sono frutti assai maturi e ponderati ma contemporaneamente asprigni nel loro sapore) potrà continuare a parlare di amore e del rifiuto dell’amore, di morte e di sofferenza, di gioia e di dolore: lo farà con forme asimmetriche, volutamente non regolari nella scrittura, segnate da un dolore che non ammette equilibrio. Il testo, oltre ad essere fonte d’ispirazione, diviene pretesto d’espiazione: la cultura diviene riscatto dalla società. I madrigali descrivono sentimenti intimi ma non situazioni reali. Se queste sono state vissute in maniera reale, la sua arte le traspone in un mondo irreale, composto solo da emozioni, non da cronache di vita. I fatti appartengono alla vita reale, i sentimenti come gioia, dolore, sofferenza e i loro contrasti che macerano il nostro cuore, appartengono all’arte. Non esiste autobiografia nella sua opera in quanto la realtà non esiste: esiste solo il sentimento e l’espressività. Tramite l’arte si difese per rivalutare la propria immagine: nei madrigali e nella loro realizzazione estrema, fisserà un mondo che non è realtà ma solo essenza della vita.
Attraverso le parole, la musica diviene emozione, sentimento. La sfera affettiva viene mossa in chi ascolta. Se il Cinquecento musicale aveva ricercato bellezza attraverso un equilibrio, nelle ultime opere di Gesualdo assistiamo al dissesto di tale equilibrio, verso un’instabilità armonica e ritmica che offre all’ascoltatore solo divenire e mai staticità. L’eccezione diviene la regola. Mai una cadenza diviene realmente conclusiva ma sempre un esito inaspettato ci coinvolge: nella concatenazione armonica, quando modula in toni lontani da quello che l’orecchio desidera; nel fluire ritmico, quando nemmeno l’accordo finale suggerisce stabilità in quanto emerge sempre una voce in ritardo o in sincope rispetto le altre. Come scrive Claudio Gallico “l’assunzione di responsabilità espressiva lo conduce ad un’osservazione crudamente obiettiva di stati dell’animo. L’espressione, benchè altamente personalizzata, soggettivamente determinata, vive nell’immaginario, stilizzata in una selva di finzioni, di maschere. A quel punto la cultura rinascimentale è disintegrata”.
Nel Quinto e Sesto Libro il rapporto con il testo varierà rispetto la sua poetica precedente. Non sarà più il concetto poetico ad ispirare la musica ma la suggestione offerta dalla singola parola: da essa, e solo da essa, sgorga musica non più come effimero “madrigalismo” pittorico ma quale profondo significato offerto dalla sua suggestione. L’affresco musicale suggerito dall’immagine poetica si frammenta sempre di più. Il risultato ci conduce ad un’evidente discontinuità del discorso musicale: le ultime opere vivranno d’immagini brevi, interrotte, alternate da pause (mai così copiose nella letteratura madrigalistica), in cui il silenzio diviene preparazione, meditazione o sofferenza interna. Proprio il silenzio diviene pensiero musicale, vera essenza della musica o forse anche negazione d’essa stessa: voluta, desiderata, ricercata.
Tali sofferte e raffinate ricerche musicali erano destinati a pochi: chi desiderava conoscere il principe di Venosa lo preferiva nella veste d’assassino della moglie e del suo amante. Riconoscere in lui il segno della follia omicida (da qualche particolare celato che nessun altro aveva colto), vederlo camminare incontrastato e assolto dalla società (pur essendo un assassino), era sicuramente nell’interesse della corte di Ferrara come in quello della nobiltà della Serenissima Repubblica di Venezia che vivevano entrambi di pettegolezzi e vociferazioni. A Ferrara come a Venezia, egli poteva contare su ferventi sostenitori (ammiratori del suo originale genio musicale) ma contemporaneamente si doveva difendere da accaniti moralisti che vedevano in lui solo il lato violento e vendicativo. Nascono così molte maldicenze di cui non possiamo verificare l’autenticità: si mormorava, ad esempio, ch’egli picchiasse la sua seconda moglie e che avesse un lungo stuolo di amanti a causa del suo fascino d’artista meridionale ombroso. Forse deluso dal fatto di potersi rifare una vita nella città che era definita il fulcro culturale del mondo, in quella Ferrara che era la patria del madrigale, della musica di Giaches de Wert, di Luzzasco Luzzaschi, dell’eccezione esecutiva che vedeva (al contrario di tutto il mondo che preferiva voci maschili) alcune donne proporsi quale gruppo musicale chiamato le Dame di Ferrara, egli ritornerà nel suo castello a Gesualdo detestando tutta questa vita. Lontano da quella corte che definirà “covo di vipere”, in quella località che Fontanelli descrive come un “paese ameno et vago alla vista quanto si possa desiderare, con un’aria veramente soave et salubre”, potrà affidarsi ai suoi sudditi fedeli e riservati, dedicarsi finalmente alla caccia, alla composizione musicale, ai suoi affari pubblici e privati del grande territorio che aveva il piacere e l’onere di amministrare.
Ritornerà a Ferrara, ma solo per curare la pubblicazione del suo Terzo e Quarto Libro de’ Madrigali e per la nascita del figlio Alfonsino (Gesualdo aveva giá avuto un figlio da Maria d’Avalos, Emanuele). Quando la città di Ferrara passa inesorabilmente sotto il potere della chiesa di Roma perdendo la sua libertà, mentre la famiglia d’Este si trasferisce a Modena, la moglie Eleonora e il figlio Alfonsino, accompagnati dai suoi servitori e dall’onnipresente Fontanelli, si trasferiscono al castello di Venosa e poi insieme a Gesualdo. Purtroppo nel 1598, Alfonsino muore e secondo alcuni studiosi (che sostengono che le opere pubblicate nel 1611 sarebbero concepite nel periodo ferrarese), da questo momento Gesualdo non comporrà alcun madrigale ma solo opere sacre: le Sacrae Cantiones (1603) e i Responsoria (1611). Nel 1602 muore il cardinale Alfonso Gesualdo lasciando tutte le sue ricchezze a Carlo che divenne sempre più potente e ricco, ma contemporaneamente molto solo. Nel 1607 il primo figlio Emanuele si sposa con la contessa boema Maria di Füstenberg. La gioia di quest’avvenimento e del nuovo nipotino, non concessero felicità e serenità al nostro compositore aristocratico: Emanuele per anni non perdona al padre l’assassinio della madre, e Gesualdo non parteciperà alle nozze del figlio. Un segno di riconciliazione sembra essere la visita degli sposi nel 1609, con il perdono da Emanuele, ma un nuovo colpo del destino trafigge Gesualdo: il nipotino muore. Le sventure non terminano qui, minando definitivamente il desiderio di vivere del principe: nel 1611, con la moglie incinta, Emanuele cade da cavallo durante una caccia e muore anch’egli. Maria di Füstenberg partorirà una femmina, cagionando la conclusione della dinastia dei Gesualdo: appresa la triste notizia, il principe chiuderà lentamente il suo clavicembalo, farà testamento e si rinchiuderà nella sua stanza senza voler più vedere nessuno. Morirà diciotto giorni dopo, l’8 settembre 1611 mentre la moglie si ritirerà in convento.
L’abate Michele Giustiniani nelle sue Lettere memorabili, 1667, tratteggia un uomo costantemente malato e preso da quel sentimento d’espiazione da noi già tratteggiato: “una strana infermità la quale gli rendeva soave le percosse che si faceva nelle tempie e nelle altri parti del corpo, con frapporvi un involto di stracci. Stravagante ricompensa ch’avendo il principe con la melodia e soavità del suo canto e del suono recato agli astanti ammiratione e contento, ricevess’egli all’incontro nell’interne sue angoscie ristoro e quiete da fierissime battiture”. Alcuni studiosi affermano che il suo desiderio perverso di autopunizione non fosse solo dovuto alla colpa per l’uxoricidio, ma anche al senso di peccato per una celata vita amorosa: sappiamo con sicurezza che Gesualdo ebbe almeno un figlio concepito al di fuori del matrimonio, Antonio Gesualdo, perchè lui stesso lo cita alla fine del suo testamento, ma c’è anche chi cita un gravoso senso di colpa per una relazione con un bel ragazzo “atletico”, Castelvietro da Modena. Se non mancano documentazioni, a fatica comprendiamo quali testimonianze fossero vere e quali dicerie e pettegolezzi che (oggi come allora) affiancano le figure più eminenti e discusse del tempo. Sicuramente un principe di quel livello e di quella ricchezza aveva l’opportunità e la possibilità d’avere tutto ciò che desiderasse, fossero anche relazioni extraconiugali con ragazze o ragazzi: come prescelti, questi avrebbero goduto della protezione, del benessere o (come vediamo per il figlio naturale Antonio) d’un vitalizio da parte del ricco padre. Tutto questo, anche se contrasta con la delineazione di una persona afflitta e sempre malata dell’abate Giustiniani, potrebbe anche essere vero: il principe, nelle serate fredde invernali, avrebbe realmente gradito farsi riscaldare il letto e lenire la schiena con il corpo caldo di graziose adolescenti o anche d’avvenenti ragazzi? Personalmente queste ipotesi mi ricordano più quelle scene tardo-romantiche della vita di Ludwig di Baviera immortalate nel capolavoro cinematografico di Luchino Visconti piuttosto che la vita di un principe rinascimentale: ma tutto ciò fa parte di quel mondo di fantasie che accompagnano per secoli quest’autore che, oggi come all’ora, fa parlare di se e fa discutere…o, forse, solo ammirare.
Marco Longhini
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